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Non, je ne regrette rien

di Augusto Illuminati

Cos’è una vittoria? Stiamo a una definizione stringata, quella con cui una studentessa di Palermo chiude il video blob Mal di scuola: andrà come andrà, ma io c’ho provato, io c’ero, io non ho rimpianti. La controriforma Gelmini ancora non sappiano se passerà alla Camera il 30, se si incaglierà al Senato a dicembre, se sopravvivrà a una crisi di governo ma ormai che importa? Tutta l’agenda è saltata. Lo tsunami si è messo in moto e la realtà ha fatto irruzione nel teatro delle ombre politiche, di tradimenti e complotti, delle mozioni di fiducia e sfiducia, dei festini di Arcore e della maniche rimboccate, di futuristi e ulivi ristretti o allargati, porcelli, provincelli e mattarelli. Le dimostrazioni di strada, i flash mob e le occupazioni hanno centrato lo snodo essenziale fra la grottesca politica governativa e il “rispettabile” disegno europeo che sta alle spalle e la condiziona: la riduzione selvaggia della spesa e lo smantellamento dello Stato sociale e del compromesso contrattuale sul mercato del lavoro. Aggiungiamo anche la crisi manifesta della società della conoscenza, cioè dell’utopia di un capitalismo immateriale, espansivo e compassionevole. Per questo la dimensione delle lotte è stata europea e biopolitica, aggredendo non solo il degrado dell’istruzione, ma l’intera pratica della precarizzazione della forza-lavoro in tutte le componenti: Atene, Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Lisbona.

Il micidiale combinato fra salvataggio delle banche e imposizione dell’austerità fa acqua da tutte le parti. Al tratto specificamente belusconian-tremontiano dell’odio anticulturale è stata data una risposta bruciante: le occupazioni hanno tracciato una storia dell’architettura in terra d’Italia –dal Colosseo alla Torre di Pisa, dalla cupola brunelleschiana alla Mole Antonelliana, passando per le grandi basiliche di Padova e Venezia– strappandole al degrado turistico e alla “valorizzazione” alla McDonald’s di Bondi e Resca per restituirne l’originario valore di simboli civici e religiosi, di luoghi di popolo, di vita vissuta.

La vittoria è un movimento e una generazione che si è messa in gioco, scuotendo via ricatti, ansie e lagne del precariato, perfettamente cosciente di stare all’inizio di un percorso non breve né facile ma irreversibile. Conta il presente, la presenza irrappresentabile, il provarci. L’assenza di rimpianti è un corollario della scesa in campo, bruciarsi le navi alle spalle un pronostico di battaglia vittoriosa.

Sebbene la logica del movimento lo sottragga alla putrida palude politichese, quest’ultima non può sottrarsi al confronto con il movimento e alla tentazione di strumentalizzarlo. A parte le farneticazioni di una Gelmini, espulsa dal clan correntizio di Liberamente e isolata nel ruolo di guardiana del Papi, il «partito del merito» di Giavazzi e Pigi Battista, versione quaresimale del carnascialesco «partito dell’amore», si preoccupa che le esigenze della guerriglia antiberlusconiana non prevarichino un sano riformismo e subito Fini ha raccolto l’invito, temperando la richiesta di dimissioni del Premier con un elogio del ddl Gelmini, anzi dell’«ottimo» progetto: rancio ottimo, ma non abbondante –ha dovuto ammettere a denti stretti, stante il notorio definanziamento. Salvo a spedire sui tetti quattro futuristi, a far concorrenza a Bersani e Di Pietro. Ma, intendiamoci, ormai la batracomiomachia sull‘Università è diventata secondaria e strumentale rispetto allo scontro sulle dimissioni e le grandi manovre su governo di responsabilità nazionale, legge elettorale ed elezioni anticipate e l’insieme risulta spiazzato rispetto allo scatenarsi di una protesta che per ora ha attraversato impetuosamente il mondo dell’educazione e della cultura ma sta maturando anche più radicalmente in tutta l’area del lavoro precario e “garantito” (nel senso che sono garantiti i bassi salari più che i posti di lavoro). Perfino Susanna Camusso, dopo aver fatto la faccia feroce con la Fiom, è costretta alla più classica delle manovre: recuperarne le forme di mobilitazione e agitare la bandiera dello sciopero generale (senza date precise), messa alle strette dalla riluttanza del Premier a dimettersi e dell’evasività di Marchionne sul piano Italia Fiat. Fino al chiarirsi del dopo-Berlusconi bisogna tener alta la guardia.

Preme, d’altro canto, sul governo un fattore esogeno che ne scompiglia i giochi e lo ha indotto a deliranti denunce di complotto internazionale contro l’Italia –in scomposta alternanza di allarmismo e smentite, paura blu e vittimismo pre-elettorale. Questo fattore, in superficie, si chiama WikiLeaks, da cui cominciano a filtrare rivelazioni sui loschi traffici di un “incapace” e “vanitoso” Berlusconi con Putin (di cui è definito “portavoce”) e Gheddafi, con saporose integrazioni sugli sfibranti “festini selvaggi” del Capo, a seguire chissà che cosa, probabilmente anche con dettagli sulle operazioni di Finmeccanica (l’esplodere oggi dello scandalo non è certo accidentale). Fra l’altro, che WikiLeaks sia un’associazione samaritana e hacker per la controinformazione non ci crede nessuno, tanto meno i cofondatori che se ne sono allontanati di recente, diffidando del ruolo di Julian Assange. Assurdo ipotizzare che la diffusione di certe notizie faccia parte, come abbiano spesso ricordato, di una campagna Usa per destabilizzare il troppo ondivago Berlusconi e dividere la Ue?

Tuttavia il vero timore del governo (delle teste pensanti, Letta e Tremonti) è che alla divulgazione di notizie imbarazzanti e alla constatazione dell’isolamento atlantico di Berlusconi faccia seguito un attacco all’euro e un’ondata di speculazione finanziaria che, dopo l’Irlanda e il Portogallo, investa Spagna e Italia. Repubblica parla apertamente di un’alternativa fra obbedienza ai diktat tedeschi e feroce deflazione con caduta del Pil da una parte, rilancio della produzione e dell’occupazione con inflazione in salita. Lucia Annunziata, a In mezz’ora, dà voce alle ipotesi dell’economista Savona su un piano B per uscire dall’euro (o alla prospettiva equivalente di un’uscita dall’euro della sola Germania). Tutte queste scelte prevedono un governo “tecnico” diverso da quello in carica –eufemismo per parlare di una maggioranza di centro-destra diversamente connessa con i poteri forti. Non a caso Berlusconi teme che l’esito della crisi sia la sua sostituzione con Draghi (soggezione all’Europa), ma forse anche con Tremonti (ritorno al protezionismo); detto altrimenti una soluzione “obamiana” (la prima), coordinabile con il neo-isolazionismo della maggioranza congressuale repubblicana Usa, la seconda). Nella stessa logica D’Alema propone un governo intermedio o (se non passa la riforma elettorale) un listone civico di emergenza che vada dal Pd ai finiani, per eliminare il bubbone berlusconiano e poi litigare su come salvare il bilancio italiano massacrando gli italiani.

Situazione ingarbugliata e indefinita, che certamente non si risolverà nella magica giornata del 14 dicembre. Oltre a impegnarsi senza nessun referente esterno (che non sia la Cgil o parte di essa) in una battaglia sull’Università inesorabilmente proiettata verso le scadenze di dicembre sulle mozioni di sfiducia –con il grande vantaggio di non aver un condizionamento esterno e ostile, come nel 1968 e nel 1977, ma con lo svantaggio della supplenza in condizioni, speriamo solo temporanee, di isolamento e impreparazione– il movimento si trova simultaneamente a doversi battere per la caduta di questo governo e ad anticipare la resistenza a uno schieramento più operativo e determinato nella repressione antipopolare. Sperando che nel collasso della sinistra parlamentare e del sindacato emergano forze significative con cui costituire un rapporto produttivo, all’altezza della sfida radicale posta dalla crisi finanziaria e dallo sfaldamento dell’Unione europea e forse dell’euro. Per ora teniamoci ben stretta questa meravigliosa forza e maturità del movimento, poi però ricordiamoci che neppure Obama ce la sta facendo: sono tempi duri per i riformisti, figuriamoci per i rivoluzionari. Favoloso correre e saltare nei cortei, poi però occorre il passo misurato del montanaro.

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