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lafionda

“Tutti a casa”? Sì, ma prima un bel TSO (Test di Sana Opposizione)

di Alessio Mannino

Immagine WhatsApp 2025 03 26 ore 14.41.31 0a2b527c 2.jpgSolo una sana e consapevole autocritica salva il rivoluzionario dallo stress e dalla coazione catodica. Fra i lettori appassionati di storia del Pci, qualcuno si ricorderà che l’educazione nelle scuole del partito, Frattocchie su tutte, prevedeva il rito sadico dell’autocritica davanti ai “compagni”. In pratica, scontando il gusto cattolico per la confessione, l’allievo era tenuto a dichiarare quanto e perché non si era dimostrato all’altezza dei criteri, allora molto esigenti, in fatto di coerenza e serietà, anche sul piano privato. Non si valutava, infatti, solo il profitto nello studio, ma anche la diligenza, la disciplina, la reputazione. Era un’eredità staliniana che oggi considereremmo ai limiti della violenza psicologica, oltre che di un bacchettonismo un po’ ridicolo. Tuttavia, un indubbio valore formativo lo aveva: abituava il futuro funzionario votato a rappresentare la Causa ad anteporla a sé, ammettendo i propri limiti e difetti e dando agli altri spunti di riflessione a sua volta autocritica. Era un esercizio di autocoscienza di gruppo.

Ai nostri giorni, imparagonabili a quei tempi di partiti-chiese e impegno politico missionario, si è sbracato finendo nell’eccesso diametralmente opposto. Oggi vale tutto e il suo contrario. La sfera politica, intesa latu sensu come spazio pubblico in cui chiunque può intervenire con un semplice post sui social, è diventata una cosa grottesca e tribale, stilisticamente incrociabile tra i raccontini Harmony, l’aruspicina delle proprie viscere e il filmetto splatter dove il sangue scorre rigorosamente virtuale. In un’abissale distanza rispetto a quel remoto addestramento monacale, l’attuale politica, vista sul piano organizzato di leader, associazioni e propaganda, aderisce completamente alle modalità del Marketing, vero e unico Intellettuale Collettivo che di tale degrado rappresenta il motore d’alimentazione. Non si preoccupa minimamente di formare gli elementi attivi, attivisti, quadri, staff, e men che meno gli stessi capi. E per forza: che importanza può avere la preparazione al campo di lotta, se la lotta è filtrata da una cornice che impone i canoni semplicistici di un infantilismo indotto?

Per capirci: se il frame è tarato su schemini binari e primitivi come amico/nemico, bene/male, simpatico/antipatico, eccitante/noioso, con tutta la vitalità fisiologica ma anche l’ingenuità patologica di un adulto-bambino, come ovvia conseguenza ne discendono un’estrema povertà di messaggio e, soprattutto, un surreale sviamento dalla realtà.

Se infatti si pensa di premere sul reale scambiandolo per la sua rappresentazione corrente, inconsciamente, stupidamente non si fa che ragionare all’interno del quadro narrativo che si vorrebbe cambiare, in cui il confronto/scontro avviene fra personalità seguite come gli influencer sono seguiti dai follower: acriticamente, da greggi belanti dietro l’animale-capo. Si perde così di vista buona parte del reale concreto: logica di potenza, interessi costituiti, strutture portanti, contraddizioni retrostanti, strategie e tattiche di consenso, spesso visibili a occhio nudo, e tuttavia invisibili per gli spessi occhiali di bottiglia della fanbase di turno. Domanda del clickattivista: il suddetto politico X, ma anche il giornalista, artista, creator e qualunque bischero selezionato dall’algoritmo, valida le mie opinioni o impressioni pregresse? Allora mi piace, metto like. Le invalida? Allora non mi piace, e gli defeco sulla bacheca il mio scarto di disapprovazione, risentimento e frustrazione. Oppure, se va bene, lo ignoro e passo oltre, chiudendomi ancor più nella mia camera dell’eco.

Tutto ciò detto, la domanda che poniamo noi è la seguente: chi vuole sottrarsi all’industria di sigle e idee mercificate con l’intenzione autentica di opporsi al più inautentico sistema mai apparso finora, che diavolo deve fare? In primissima istanza, dotarsi di un criterio di distinzione adatto a questa pantomima, avrebbe detto Giorgio Gaber, per polli d’allevamento. Chi scrive ne propone qui uno: il TSO, Test di Sana Opposizione.

Il candidato al compito di Oppositore genuino e senza doppi fini rifletta attentamente sui seguenti aspetti:

    1. Il soggetto che sbandiera con ripetitività ossessiva la propria immacolata verginità morale, politica e intellettuale, di norma nasconde l’esatto contrario. “Siamo gli unici di cui potete fidarvi” può significare, ad esempio: “Siamo prontissimi, una volta entrati nella stanza dei bottoni, a diventare autoreferenziali e avidi come gli altri”. Un discorso veramente onesto sarebbe invece il seguente: “Intendiamo garantire, per quanto materialmente possibile, la tutela dei nostri alti fini dall’umana corruttibilità (brama di potere, vanità, invidia, ossessione del controllo ecc) stabilendo regole e pratiche strutturate per ridurne al minimo l’impatto. Tali regole e pratiche non solo sono pubblicamente leggibili, ma vengono poste alla base del giudizio selettivo d’ingresso per chi voglia passare da semplice simpatizzante o sostenitore ad attivista e dirigente”. Un movimento democratico è aperto a tutti. Ma questo non significa che debba ammettere chiunque fra le sue file.
    2. Il soggetto che si presenta come propugnatore di ambizioni elevate (stravolgere l’assetto istituzionale, per esempio) ma nuota come un pesce nell’acqua nella categoria assegnatagli dall’ecosistema mediatico, nove volte su dieci è un ipocrita. Giocare all’“antisistema” non è poi così arduo: a condizione di avere un reddito sicuro, è possibile costruirsi con relativo agio una micro-nicchia di pubblico fidelizzato a cui ammannire ogni santo giorno il proprio Verbo, campandoci economicamente, culturalmente e politicamente. Come distinguere il vero dal falso? Tramite due infallibili tecniche: osservando con quale e quanto automatismo il nostro commediante cavalca gli stessi cavalli di battaglia usando sempre le stesse, scontate formule; e dando in pasto lo spettacolo che, nel format d’occasione, gli spettatori si attendono di vedere, così da suscitare l’indignazione o la sghignazzata facile. In ogni caso,  il paraguru fornisce sistematicamente al pubblico ciò che il pubblico si aspetta, vellicandolo e lisciandogli il pelo. Si badi: questa specie sub-umana, l’homo paraculis, non lo si ritrova mica solo nel cosiddetto mainstream: egli prospera come un fungo velenoso, anche se non di più, nell’underground. Ai piani alti, i passaggi da superare per giungere in prima serata tv sono parecchi, e il recinto (gatekeeping) prevede paletti di una certa stringenza per cui bisogna, anzitutto, “bucare il video”, mercé una qualche caratteristica che risulti pittoresca, empatica o comunque sia funzionale. Tradotto: o vai a fare il giullare, o in alternativa l’utile disturbatore. In entrambi i casi, il messaggio veicolato verrà innocuizzato. Per riassumere: guardarsi come dalla peste da chi – come quel Vannacci in do minore di Marco Rizzo, per fare un nome – va alla Zanzara da Giuseppe Cruciani per inscenare il plot pecoreccio di polemica telefonata con David Parenzo. I due compari, per chi fingesse di non averlo capito, sono pappa e ciccia. Più sfumabile, invece, il giudizio su chi riesca a filtrare la barriera dei talk portando quanto meno argomenti veri. In questo caso, un suo senso l’entrismo può averlo. Tenendo presente che fa comunque il gioco del padrone.
    3. Il soggetto che espone tesi radicali (esempio: cambiare modello di società o di economia) ma li inframmezza volentieri con uscite corroboranti e perfettamente assonanti a una delle varianti del discorso egemonico, utilizza il trucchetto di farsi “perdonare” le prime mediante le seconde. Sono la razza più insidiosa, gli antagonisti a metà. Prima di tutto, chiariamo che esiste sì un pensiero unico, ma le sue ramificazioni possono essere più d’una. Il pensiero definito “unico” è tale perché dominante: influenza, cioè, la percezione e il dibattito che saturano l’orizzonte comune di senso. In questo periodo storico, come sappiamo, si identifica nel neo-liberalismo. L’asse attorno a cui la pedagogia liberale fa ruotare ogni valore è, detta alla grossa, la capacità di fatturazione. Ognuno vale in proporzione al reddito prodotto e al consumo generato. Le declinazioni di questo assioma si differenziano in una scala che va dall’estrema destra (devi lavorare per la Patria, anche se la Patria è un cartonato che copre servitù atlantica e americanismo culturale), alla destra più o meno liberale (devi lavorare per diventare benestante, anche se la “meritocrazia” è un’illusione di casta e, se non ce la fai, la colpa è tua perché sei inferiore, in un razzismo sociale allo stato brado), passando per il centro (questa palude popolata da esseri anfibi buoni per tutte le stagioni), per transitare alla sinistra liberal (politicamente corretto a josa, antifascismo da parata, genere sessuale al posto della classe sociale e vituperi all’oligarca solo se di nome fa Musk, sia mai che i pescecani editori di giornali amici si risentano), fino alla sinistra “estrema” (evaporata e non senza ragione, a parte qualche romantico circolo catacombale, lasciando stare il M5S il cui sinonimo sul vocabolario è: banderuola). Da Vannacci alla Schlein, è un cosmo unito dalla piena adesione all’individualismo ontologico e piagnone, allo sviluppismo vuoto e d’ordinaria amministrazione. Ora, capita che talvolta salti o risalti fuori qualcuno che ne è estraneo ma non troppo: magari contesta alla radice, d’accordo, qualche fondamentale, qualche totem, ma stoppandosi giusto in tempo per non colpire qualche tabù. Exemplum: un Fausto Bertinotti, riverito come uno di famiglia dalla compagnia di giro di Massimo Gramellini su La 7, tira un colpo al cerchio sparando ad alzo zero contro John Elkann (applausi), e uno alla botte polemizzando con la Meloni in difesa del Manifesto di Ventotene, testo sacro e intoccabile (ma per cortesia). Che dire? Speriamo che almeno il compagno Bertinotti non sia stato in buona fede.
    4. La parola d’ordine che andrebbe interiorizzata come un mantra è: credibilità. La credibilità è tutto, come lo stile. O per lo meno è indispensabile, conditio sine qua non per prendere in considerazione qualsiasi proposta. Così dovrebbe essere nella vita di tutti i giorni, così anche in politica. Il machiavellismo insegna a vedere la realtà del Politico per lo scontro di potenze che è, ma non va confuso con l’amoralità o, ai livelli più infimi, con il menefreghismo per ogni lealtà di principio. Un conto è sapersi muovere, come si diceva all’inizio, sul terreno di guerra, soppesando le opportunità e giocandosela con spregiudicatezza secondo quel che offre la situazione data. Altro è prendere in giro gli astanti partecipando al circo solo per ritagliarsi uno spazietto in pista, fottendosene allegramente della fedeltà ai propri scopi finali, i famosi “ideali”.

Traduciamo in prassi questo bell’assunto teorico. Di fondo, occorre incidersi bene nel lobo frontale che colui che critica ma che ignora l’autocritica, non è credibile. Chi ostenta purezza, e ne distribuisce patenti a destra e manca dimenticandosi l’adagio del vecchio Nenni (“a far la gara a chi è più puro, trovi sempre uno più puro che ti epura”), costui è matematicamente marcio, e dunque non può essere credibile. Chi perde per strada la meta, non la cita neanche più e si accapiglia esclusivamente su questioni di basso profilo, non è credibile. Chi si scorna imperterrito con l’insuccesso elettorale, resta inchiodato a percentuali da funerale ma insiste nel voler inseguire la poltrona, a un certo punto dovrebbe avere il buongusto di farsi da parte o altrimenti, spiacente, non è credibile. Chi si erge a paladino del dissenso senza compromessi, e poi si lagna ogni due per tre perché il “sistema” è cattivo e non parla abbastanza di lui, fa vittimismo spicciolo ovvero si fabbrica un alibi, per altro molto diffuso, per mondarsi da ogni responsabilità, e quindi tutto è, fuorché credibile. Chi di primo o secondo lavoro fa il presenzialista, accetta qualsiasi invito e stringe qualunque mano con la comoda scusa di sfruttare ogni tribuna per far proselitismo, rinuncia al bene inestimabile della differenza strategica rispetto agli omologati (ah, i bei tempi in cui il M5S programmaticamente disertava la tv…): di conseguenza, non è credibile.

Chi si interessa e accalora soltanto quando un tema o una discussione vede coinvolta la propria persona, inquinando il proprio sguardo emotivo e pensante con il debordare del proprio ego, scade nel banale e tragico morbo del narcisismo e perde la facoltà di essere ritenuto anche solo vagamente credibile. Chi dedica una fetta consistente della propria esistenza a lanciare anatemi, stilare liste di proscrizione, additare infiltrati, arrivando ad accusare di delinquere chi semplicemente ha un’idea diversa, intasando i tribunali con querele demenziali e diffamando paranoicamente tutti coloro che possono rappresentare dei rivali, chi insomma si abbandona al più squallido settarismo, è credibile suppergiù come Mario Draghi che parli di giustizia sociale. Ultimo ma non ultimo, chi gode nel fare gli esami del sangue a tutti, condannando in eterno un possibile alleato per il suo passato come se il passato non dovesse passare mai, e così esimendosi dal valutare il caso specifico (chi è senza peccato ecc ecc, affermava il saggio), è la parodia vivente di cosa voglia dire essere credibile. Di contro, chi non si espone, non si sbilancia e perciò non corre il pericolo di sbagliare, non rischiando mai del suo e sul suo (per esempio mandando in tilt qualche lettore o supporter, com’è successo a Giorgio Bianchi reo di essere sincero), certamente non è credibile. E qui sento di dover sbilanciarmi, nel dire che la manifestazione “Tutti a casa!”, di sabato 29 marzo al Nuovo Cinema Aquila di Roma, è promossa da gente che a tutt’oggi, senz’ombra di dubbio, credibile lo è. Superano senz’altro il TSO. Non è poco, oggigiorno. Anzi, è (quasi) tutto.

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