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il rasoio di occam

Il disagio della democrazia

di Stefano Petrucciani

È da qualche giorno presente sugli scaffali delle librerie il nuovo libro di Stefano Petrucciani, Democrazia (Einaudi). Quella che qui vi forniamo è un’anticipazione del testo, che l’autore ci ha gentilmente concesso di pubblicare, con numerosi riferimenti al contenuto della discussione fra Urbinati e McCormick che stiamo ospitando in questo periodo sul “Rasoio di Occam”

Articolo 1318149869Un ragionamento sullo stato di salute della democrazia oggi[1] non può che partire da un incontestato dato di fatto: il tasso di credibilità ovvero la fiducia che i cittadini nutrono nelle istituzioni tradizionali della democrazia rappresentativa scende di anno in anno sempre più basso[2]. Alla questione sono stati dedicati, nell’ultimo quindicennio, molti studi politologi anche empirici[3], e oggi si può dire che essa sia esplosa in tutta la sua forza e la sua drammaticità. La sfiducia, lo scontento, il disagio, sono messi in evidenza dai più attenti politologi (mi riferisco rispettivamente a Rosanvallon, Mastropaolo, Galli[4]); ma non ce ne sarebbe bisogno, perché il fenomeno risulta ormai del tutto evidente e manifesto. E non si tratta, giova precisarlo, solo di una questione italiana: anche se da noi la crisi è certamente più acuta, essa è da molto tempo oggetto di studi ad ampio spettro che indagano panorami internazionali.

Più che constatare questa crisi si dovrebbe dunque cercare di comprenderne le motivazioni: se la gente ha sempre meno interesse verso i partiti e le elezioni, se ha sempre meno fiducia nei suoi rappresentanti, delle ragioni ci devono pur essere; e dunque è necessario cercare di indagarle[5]. La mia convinzione è che la crisi di fiducia sia ben motivata: che risponda cioè a una effettiva situazione critica della democrazia contemporanea, almeno in Italia e in Europa; dal mio punto di vista si tratta dunque di capire quali mutazioni o quali processi involutivi siano all’origine della insofferenza o del rifiuto che i cittadini manifestano nei confronti delle istituzioni o delle pratiche della democrazia rappresentativa come si è venuta articolando da qualche lustro a questa parte.

 

La regressione oligarchica

A mio modo di vedere, se si vogliono decifrare e ordinare le molte dimensioni caotiche dei mutamenti politici contemporanei lungo un qualche asse di comprensibilità, il primo aspetto che deve essere messo in rilievo (e che costituisce certamente una delle dimensioni più profonde della disaffezione e dello scontento) è quello che potremmo definire come il processo di regressione oligarchica della democrazia: intendo con ciò (perché è necessario su questo punto cercare di essere chiari e non generici) il processo per cui vi è uno spostamento verso l’alto dei rilevanti centri decisionali, in forza del quale le decisioni politiche scivolano via dalle sedi più ampie e partecipate e si ritirano verso luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi oligarchici[6]. Questo processo di vera e propria de-democratizzazione[7] delle nostre società costituisce a mio avviso una chiave di lettura delle trasformazioni contemporanee assai comprensiva, perché le dinamiche a cui esso allude si riscontrano in numerosi ambiti e snodi della vita politico-sociale.

Se guardiamo ai mutamenti del sistema politico, tenendo presente soprattutto l’Italia, salta subito agli occhi quanto siano pervasive le tendenze che vanno in questa direzione. Per dirla schematicamente possiamo ricordare i seguenti aspetti:

a) Svuotamento del ruolo dei Parlamenti a favore degli esecutivi (tendenza in atto da molto tempo, e oggi solo radicalizzatasi) accoppiata alla centralizzazione leaderistica e personalistica dei poteri di governo (accompagnata dalla diffusione di ideologie presidenzialistiche).

b) sganciamento e deresponsabilizzazione degli eletti rispetto agli elettori, che in Italia arriva fino alla imposizione di candidati precostituititi e che produce la costituzione dei rappresentanti politici in “casta” separata, dove, come insegna ogni visione realistica della politica, gli interessi comuni di casta e quelli individuali di potere tenderanno sempre a prevalere sull’impegno a rappresentare la volontà degli elettori.

c) svuotamento della discussione interna ai partiti, e loro caratterizzazione sempre più leaderistica (supportata anche dalla mediatizzazione della politica sulla quale poi torneremo);

In sostanza la tendenza sembra essere quella di uno spossessamento dei cittadini rispetto agli eletti, della base di partito rispetto ai leader, dei parlamentari rispetto all’esecutivo, dell’esecutivo stesso rispetto al premier. I luoghi di decisione più partecipati vengono progressivamente svuotati a favore di una verticalizzazione sempre più spinta. E, proseguendo sulla stessa linea, ma questo è forse in ultima istanza il processo più rilevante, sottrazione agli stessi esecutivi di larghi ambiti di decisione, che vengono avocati da vari tipi di organismi sovranazionali caratterizzati da una più o meno marcata natura “tecnica” o sedicente tale. Non vogliamo qui approfondire ulteriormente questo specifico aspetto, sul quale comunque torneremo. Basti rimarcare che, in linea generale, questo scivolamento verso l’altro dei poteri decisionali rende sempre più labili le catene della responsabilità dei decisori verso i cittadini e le loro possibilità di esercitare un qualche condizionamento effettivo sulle scelte politiche: se un parlamentare non è scelto da me, e comunque non dispone di alcun margine di intervento per cambiare le decisioni governative, con chi me la posso prendere? Sembra dunque che con le trasformazioni in corso si sia giunti al punto d’approdo di un lungo processo di riduzione della rappresentatività democratica, il cui inizio si può far risalire al rapporto sulla Crisi della democrazia redatto nel 1975 da Crozier, Huntington e Watanuki per la commissione Trilateral[8]. Al sovraccarico di domanda che secondo questi autori appesantiva la vita delle democrazie si è risposto, attraverso un processo durato decenni, esattamente nel senso da essi auspicato: verticalizzazione delle decisioni, rafforzamento degli esecutivi, instaurazione di quello che gli estensori definivano “un più equo rapporto tra autorità statale e controllo popolare”, concentrazione dei poteri decisionali nelle mani di più ristrette élites. […].

Vi è però un altro fattore fondamentale sul quale a mio avviso è necessario soffermarsi se si vuole comprendere la crisi di fiducia che investe molte democrazie contemporanee: il problema è che è sostanzialmente saltata la rispondenza tra le forze politiche democraticamente confliggenti secondo la discriminante destra/sinistra e le aggregazioni delle classi e dei gruppi sociali; questa omologia era uno degli snodi fondamentali attraverso cui passava la rappresentanza degli interessi, soprattutto dei gruppi svantaggiati di cui la sinistra costituiva l’interlocutore “naturale”. E il fatto che essa sia ormai sostanzialmente venuta meno lascia alcuni settori sociali nei quali la sinistra aveva precedentemente attinto i propri consensi (dai lavoratori dell’industria agli abitanti delle periferie urbane) sostanzialmente privi di rappresentanza politica.

La stessa questione può essere osservata anche da un’altra prospettiva. A mio modo di vedere, crisi della democrazia e crisi della sinistra politica non si possono separare. E la ragione di ciò è molto semplice: la sinistra non è solo una parte politica del gioco democratico alla quale se ne contrappone simmetricamente un’altra, e cioè la destra. Piuttosto, la sinistra è la parte politica che crede nel ruolo decisivo e positivo della politica; mentre la destra liberale o conservatrice è, in generale, la parte politica che svalorizza la politica, perché sostanzialmente la vede come un male necessario che va ridotto al minimo possibile. La cosa migliore, per la destra, sarebbe se la società potesse fare a meno della politica; se deve esserci, almeno la si riduca ai minimi termini. Crisi della politica democratica e crisi della sinistra vanno dunque insieme; e quest’ultima consiste essenzialmente nel fatto che la sinistra non è più riuscita a svolgere quello che è stato da sempre il suo compito storico, cioè rappresentare la protesta e l’insoddisfazione di strati subalterni della società, saldandola con i settori più aperti o in ascesa delle élites, intellettuali e non solo.

 

Inadeguatezza della politica domestica

Questo processo però non può essere compreso indipendentemente dall’altra grande tendenza che ha segnato gli ultimi decenni, e cioè dalla crescente inadeguatezza delle arene democratiche nazionali ad affrontare i problemi che trascendono in molti sensi la capacità di incidenza dei singoli Stati. Su questo punto basterà qualche rapido cenno perché è stato al centro, nell’ultimo ventennio, di una infinità di dibattiti che hanno riguardato le conseguenze politiche della globalizzazione economica. In sintesi si può dire, riprendendo le lucide riflessioni di uno degli autori che per primi e con maggiore attenzione hanno toccato questi temi, David Held, che le comunità politiche non costituiscono più (se mai lo sono state) dei “mondi discreti”[9], ma sono al contrario attraversate da una gran quantità di dinamiche che ne trascendono i confini e che, di conseguenza, tendono a marginalizzare o comunque a depotenziare le capacità di controllo dei poteri democratici “domestici”.

Il governo delle dinamiche globali è stato di fatto assunto, prima della crisi e a maggior ragione in seguito ad essa, da istanze e agenzie sovranazionali, che dettano agli Stati le regole di comportamento “virtuose” dalla cui osservanza dipende il finanziamento del loro debito pubblico da parte di chi controlla i flussi finanziari globali. Su molti temi decisivi la dialettica democratica appare dunque “sospesa”, perché i diversi schieramenti di destra e di sinistra possono solo applicare con piccole distinzioni delle ricette che sostanzialmente vengono loro imposte[10]. E questa è evidentemente un’altra delle grandi ragioni della sfiducia o del disinteresse che i cittadini finiscono per nutrire per la politica. Ma, anche dove non sono esplicitamente esautorate, le democrazie nazionali sono comunque confrontate con problemi che sfuggono alle loro capacità di controllo e di gestione: dai movimenti migratori ai flussi della comunicazione globale, dai problemi di approvvigionamento energetico agli spostamenti dei capitali in tempo reale, per fare solo alcuni esempi. E inoltre, ciò che forse è ancora più grave, non possono più essere affrontati attraverso una chiave “domestica” quei grandi processi che potrebbero minacciare persino la stessa sopravvivenza della specie[11]: dall’impatto delle attività umane sull’ambiente e sul clima[12] alle conseguenze non previste e potenzialmente disastrose che potrebbero essere innescate dagli sviluppi scientifico-tecnologici, per loro natura globali e non iscrivibili dentro quadri di regolazione nazionali.

Certamente queste trasformazioni, strettamente connesse con i processi di oligarchizzazione di cui prima si diceva, non possono essere ricondotte a una chiave esplicativa univoca: per un verso esse costituiscono il risultato di un accrescimento inintenzionale della connettività e della mobilità che tende a fare della Terra un ambiente sempre più pieno e saturo, fitto di connessioni che travalicano i confini degli Stati nazione e che si sottraggono al loro dominio; per altri versi esse sono anche il risultato dell’azione cosciente di attori politici e sociali che, attraverso questi processi, ridisegnano il loro potere e lo ridislocano in spazi meno attaccabili da parte delle resistenze popolari. […]

Il combinato disposto di questi processi ha finito per cacciare la politica democratica in un cul de sac. Essa infatti rischia di ritrovarsi schiacciata tra due alternative speculari e complementari. Da un lato la risposta a una sinistra senza popolo, e quindi a un popolo senza rappresentanza, è stata la rinascita del vecchio fantasma del populismo, che va propriamente definito, come già sapeva uno dei suoi maggiori studiosi di qualche tempo fa, Gino Germani[13], come la capacità di elaborare una proposta politica capace di scavalcare la dialettica democratica destra/sinistra. Si tratta di una proposta che può assumere una grande varietà di forme: il partito degli onesti contro i corrotti, dei cittadini comuni contro i politici, di coloro che lavorano e producono contro i parassiti, l’importante è che riesca a individuare una discriminante capace di coagulare lo scontento, la rabbia o il risentimento di ampi strati di cittadini. Fondamentale però è comprendere che stigmatizzare il populismo non basta, anzi, è un’operazione autoassolutoria e, in ultima istanza, dannosa: si dovrebbe piuttosto capire che il rancore cui il populismo dà voce non è altro che il prodotto di una incapacità di rappresentare e di dare risposte al disagio sociale che, lasciato a se stesso dalle forze politiche “razionali”, trova ascolto soltanto nei profeti del risentimento.

Ai populisti che cercano il consenso a qualunque costo (e che ipotizzano pseudosoluzioni come la cacciata dei migranti, l’uscita dall’euro o il non pagamento del debito) fa da contraltare la soluzione opposta e speculare della tecnocrazia: che scavalca anch’essa la dialettica democratica tra destra e sinistra, ma nel segno dello slogan “non c’è alternativa”, cioè mistificando come scelte tecniche inevitabili quelle che sono linee politiche ben precise (e, nella sostanza, stabilite al di fuori dei confini nazionali).

Così se ne vanno a gambe all’aria sia la legittimità di input che la legittimità di output (per riprendere una fortunata dicotomia) della democrazia: in quanto molte decisioni politiche non sono né legittimate ex ante dal voto popolare, né legittimate ex post dai buoni risultati che producono (in tempi di crisi, questo secondo tipo di legittimazione non è, in effetti, facilmente conseguibile). […]

Se questo quadro, invero non positivo, è abbastanza attendibile, la conseguenza che a mio avviso se ne deve trarre è molto semplice: è inevitabile porsi la domanda su quali strategie, quali riassestamenti potrebbero risultare utili a sanare, o almeno a rendere più gestibili, i problemi che fin qui abbiamo individuato. Proviamo dunque a elencare, sia pure in modo del tutto schematico, una serie di punti attorno ai quali si dovrebbe ragionare nella prospettiva di quella che potremmo chiamare una dinamica di democratizzazione della democrazia o, se si preferisce, un nuovo costituzionalismo democratico.[…]

 

Democrazia ed economia

Uno dei nodi più complicati da districare rimane sicuramente quello che riguarda nel suo insieme l’intreccio tra politica democratica, potere economico e (a questo connesso) potere mediatico. Da un punto di vista normativo e di principio si potrebbe dire, riprendendo una felice idea di Michael Walzer[14], che l’obiettivo da perseguire dovrebbe essere la non convertibilità delle risorse di cui gli attori dispongono nei diversi ambiti sociali. In sostanza, si dovrebbero porre degli argini alla convertibilità del potere economico e di quello mediatico in potere politico[15]. In questa direzione, molte cose si potrebbero fare. Si dovrebbe innanzitutto studiare e implementare, come propone ad esempio Luigi Ferrajoli[16], un articolato e robusto sistema di incompatibilità e di prevenzione dei conflitti di interesse, che eviti situazioni come quelle che si sono determinate in Italia (e in minor misura anche altrove) dove è accaduto che si siano concentrati nella stessa persona i tre ruoli di leader politico, grande imprenditore e proprietario di un importante impero mediatico. Le incompatibilità e i casi di ineleggibilità già previsti da molte legislazioni (e anche da quella italiana per quanto riguarda, ad esempio, i titolari di “concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”) dovrebbero essere dunque sistematicamente aggiornati e ripensati, e soprattutto, come sottolinea Ferrajoli, si dovrebbe prevedere che queste incompatibilità siano vagliate da un potere imparziale di natura giudiziaria e non, come accade in Italia, da organismi interni alle istituzioni rappresentative.

Altro grande nodo è quello che riguarda i finanziamenti alla politica: si dovrebbero contingentare in modo preciso i finanziamenti di privati e di aziende ai partiti e alle campagne elettorali (incentivando quelli di importo contenuto dei privati cittadini e limitando quelli dei grandi potentati). E si dovrebbero altresì prevedere, come accade nel sistema britannico[17], limiti alle somme che ogni forza politica può spendere non solo nell’insieme di una campagna elettorale, ma anche per una circoscrizione o un collegio.

Resta il fatto, però, che i nessi e gli intrecci più o meno occulti tra potere economico e potere politico nei diversi ambiti sono tali e tanti che anche la migliore o la più rigorosa regolazione può certamente arginarli, ma comunque in una misura limitata.

Norme e regole hanno indubbiamente un valore imprescindibile, e devono essere sempre di nuovo rielaborate con intelligenza e con fantasia istituzionale, ma certamente non bastano ad assicurare l’equità delle procedure democratiche quando queste hanno luogo all’interno di un compagine sociale fortemente segnata da asimmetrie di potere e da ineguaglianze di ricchezza e cultura.

[…]

Le istituzioni della democrazia fanno riferimento, come loro principio legittimante, al principio della eguaglianza politica, che nelle costituzioni moderne viene anche formulato come principio della sovranità popolare. Per dirla con Iris Marion Young, “come ideale normative, la democrazia significa eguaglianza politica”[18]. Ma questo inevitabile riferimento ideale comporta delle conseguenze complesse; per un verso esso agisce come potente fattore di legittimazione delle procedure decisionali che vengono adottate nelle democrazie pluraliste: le decisioni sono legittime in quanto sono state prese da tutti i cittadini egualmente titolari della sovranità politica.

Per altro verso esso contiene una forte se non dilacerante tensione: da un lato infatti le decisioni valgono come se fossero state prese da tutti su un piano di parità; ma dall’altro lato è anche evidente che, in tutte le democrazie esistenti, quelle che Dahl chiama le “risorse politiche”, cioè gli strumenti idonei a influenzare il processo democratico (ad es. denaro, informazione, cultura, tempo, intelligenza, relazioni sociali) sono distribuite in modo fortemente ineguale. E dunque l’uguaglianza politica, intesa come eguale possibilità di influenzare le decisioni politiche, risulta un obiettivo estremamente difficile se non impossibile da raggiungere, e scarsamente compatibile con la presenza di assetti economici basati sul capitalismo di mercato. E’ ancora Dahl a sostenere che, “producendo gradi disparità di risorse, il capitalismo di mercato favorisce fatalmente anche le diseguaglianze politiche tra i cittadini di un Paese democratico”, sebbene affermi al tempo stesso che “in un Paese democratico moderno non vi sono alternative reali ad una economia di mercato capitalistica”[19]. Sugli stessi temi ha insistito anche David Held, mettendo in evidenza come le nostre società siano attraversate da “concentrazioni di potere che producono asimmetrie di opportunità di vita le quali, direttamente o indirettamente, erodono le possibilità dell’autonomia democratica. […]”[20].

Si può dire dunque che, in un certo qual modo, la democrazia politica pluralistica moderna vive di un paradosso: per un verso rinvia all’ideale di eguale sovranità dei cittadini, per altro verso si intreccia in mille modi con ordinamenti sociali ed economici che minano fortemente questa eguaglianza.

[…] Ma il ragionamento deve compiere ancora qualche passo avanti: se si assume il dato di fatto che nelle moderne società di mercato l’eguaglianza politica è realizzata sempre e solo in modo parziale, è necessario aggiungere alla riflessione sulla democrazia un ultimo fondamentale tassello: e comprendere che questa deve essere intesa non solo come un insieme di regole circa il modo in cui la comunità politica deve essere governata, ma anche come l’orientamento politico volto a realizzare un determinato scopo, e cioè quello della condivisione paritaria del potere politico tra i cittadini. Alla democrazia appartiene, insomma, anche una dimensione finalistica, perché essa nasce per conseguire determinati obiettivi (dai quali trae la sua legittimità) e dunque deve anche porsi il problema di eliminare quegli ostacoli o quelle limitazioni che rendono questi obiettivi difficilmente raggiungibili (o conseguibili in modo solo parziale). […] La democrazia vive di procedure, contenuti e fini; e perde il suo significato se rinuncia a una di queste sue dimensioni.

 

NOTE
[1] In questo capitolo riprendo per alcuni aspetti le considerazioni che ho svolto in Crisi di legittimità, potere e democrazia, in “Parole chiave”, n. 43, 2010, pp. 99-108; in Democratizzare la democrazia. E’ ancora possibile?, in Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale, a cura di G. Cesarale, M. Mustè, S. Petrucciani, Mimesis, Milano 2013, pp. 175-185; e, meno recentemente, in Democrazia nella globalizzazione. Una agenda di problemi, in V. Marzocchi, S. Petrucciani (a cura di), Democrazia e diritti nell’età globale, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 9-35.
[2] Per una eclatante dimostrazione di questo dato si può vedere il Rapporto Italia elaborato dall’Eurispes nel 2013: http://www.eurispes.eu/content/la-fiducia-dei-cittadini-nelle-istituzioni-rapporto-italia-2013.
[3] Tra i molti studi si possono ricordare: Norris P. (a cura di), Critical Citizens: Global Support for Democratic Government, Oxford University Press, Oxford, 1999; Pharr S.J. e Putnam R.D., Disaffected Democracies: What’s Troubling the Trilateral Countries?, Princeton University Press, Princeton, 2000; Pharr S.J., Putnam R.D. e Dalton R.J., A Quarter Century of Declining Confidence, in “Journal of Democracy”, n. 2, 2000.
[4] Cfr. P. Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia, Città aperta, Troina (En) 2009; A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2011; C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011.
[5] Una interessante riflessione su questi problemi è quella sviluppata da Yves Sintomer, in un paragrafo del suo libro Il potere al popolo, trad. it. Dedalo, Bari 2009, che indaga “Sei cause strutturali” di quella che l’Autore considera un “crisi di legittimità”, pp. 24-33.
[6] Una dura critica della regressione oligarchica della democrazia è stata formulata, tra gli altri, da Jacques Rancière: “I mali di cui soffrono le nostre ‘democrazie’ sono innanzitutto i mali legati all’insaziabile appetito degli oligarchi. […] Non viviamo in una democrazia. Non viviamo nemmeno in un campo, come sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge d’eccezione del governo biopolitico. Viviamo in uno stato di diritto oligarchico [...]”. J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007 (ed. or. 2005), p. 89. Molto critico anche il quadro che emerge dal volume In che stato è la democrazia, Nottetempo, Roma 2010 (ed. or. 2009), contenente saggi di Agamben, Badiou, Bensaïd, Brown, Nancy, Ranciére, Ross, Žižek. da leggere anche le diagnosi contenute nel libro a cura di M. Zanardi, La democrazia in Italia, Cronopio, Napoli 2011, con saggi di Borrelli, Genovese, Moroncini, Pezzella, Romitelli, Zanardi.
[7] Sul concetto di de-democratizzazione si può vedere Ch. Tilly, La democrazia, Il Mulino, Bologna 2009 (ed. or. 2007) per il quale si ha de-democratizzazione quando (tra gli altri fenomenti) vi è il rendersi autonomo dalla sfera politica dei maggiori centri di potere.
[8] M. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, prefazione di Gianni Agnelli,Franco Angeli, Milano 1977.
[9] D. Held, The changing contours of political community, in B. Holden (ed.), Global Democracy, Routledge, London 2000, pp. 17-31: 26-27.
[10] Per un lucido esame critico di queste problematiche si vedano i lavori di Luciano Gallino, e in particolare Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013.
[11] Una interessante proposta su questo tema è il libro di Y. Ch. Zarka, L’inappropriabilité de la Terre. Principe d’une refondation philosophique, Armand Colin, Paris 2013.
[12] Per una lettura filosofico-politica del tema del riscaldamento globale si veda F. Cerutti, Sfide globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento globale, Vita e Pensiero, Milano 2010.
[13] “Il populismo in sé tende a rifuggire ogni identificazione o assimilazione alla dicotomia destra/sinistra” scriveva già nel 1978 Gino Germani, citato in E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008 (ed. or. 2005), p. 5.
[14] Cfr. M. Walzer, Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari 2008 (ed. or. 1983).
[15] Come scrive Adam Przeworski, “Barring the access of money to political influnce would be perhaps the most consequential reform in several countries” (A. Przeworski, Democracy and the Limits of Self-Government, Cambridge University Press, Cambridge New-York 2010, p. 170).
[16] Cfr. L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale e la sua crisi odierna, cit., p. 54.
[17] Traggo il riferimento da Ferrara, op. cit., pp. 93-94.
[18] Ivi, p. 23.
[19] R. A. Dahl, Sull’eguaglianza politica, Laterza, Roma-Bari 2007(ed. or. 2006), p. 64.
[20] D. Held, Democrazia e ordine globale, trad. it. Asterios, Trieste 1999, p. 191.
Stefano Petrucciani è Professore ordinario di Filosofia politica presso la Sapienza – Università di Roma. Tra i suoi libri più recenti: A lezione da Marx (Manifestolibri, 2012) e Marx (Carocci, 2009).

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