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altraparola

Voti di sfiducia. Sul malessere contemporaneo della scuola

di Andrea Cengia, Mino Conte, Massimiliano Tomba

Screenshot 2025 12 05 alle 16.32.54 1140x641.pngOgni tanto scuola e università lanciano alcuni segnali di malessere. Il più recente riguarda alcuni studenti che si sono rifiutati di sostenere l’orale della maturità. Ripensando con la giusta distanza temporale quell’accadimento è possibile ricollocarlo in un discorso più ampio di questioni che riguardano il mondo della scuola, la sua storia, la sua funzione e i sempreverdi propositi di riformare la riforma precedente. Le fonti giornalistiche hanno riportato le motivazioni addotte da alcuni di questi studenti in merito al loro rifiuto di sostenere l’intero arco della prova di maturità, in particolare il colloquio orale pluridisciplinare. Alcuni di loro hanno affermato di non essersi trovati a proprio agio «a seguire le regole e ad affrontare la scuola come gli altri». Altri hanno sostenuto che «un’intera carriera scolastica rischia di essere oscurata da tre prove svolte in pochi giorni», per poi aggiungere «i voti non definiscono il valore di una persona». Poche settimane dopo è seguita una pronta contromossa del Ministero volta a scongiurare nuovi casi del genere. Questione chiusa dunque?

Il nostro discorso vorrebbe spostare l’attenzione su altri aspetti, scivolati in secondo piano rispetto all’impatto mediatico generato dal gesto di queste studentesse e studenti. Troppa attenzione è stata posta sui voti. Si è detto: certo i voti non sono cosa piacevole, né per gli studenti né per i docenti che li devono dare; sarebbe meglio fare senza voti. E ancora: i voti, ad un certo punto, devono essere dati, ci siamo passati tutti, basta lamentarsi. Ai tempi del Sessantotto, ricorderete, le pressioni studentesche per il “voto politico” o meglio per il “18 politico”, finirono con l’introdurre una distorsione del diritto allo studio, sacrosanto, mutandolo in diritto tout court alla laurea. La contestazione del voto “di profitto” ha una sua storia, che tocca parimenti il sistema scolastico, e che passa anche dal j’accuse donmilaniano. L’Eldorado di un mondo dell’istruzione senza voti e mai giudicante è ben presente ancora oggi nell’immaginario pseudo emancipativo di chi vede in queste consuetudini la condensazione di ogni male, il sadismo divenuto istituzione, l’arbitrio del potere.

Restituendo, per questa via, un’immagine deformata della realtà scolastica dove da una parte ci sarebbe il corpo docente armato sino ai denti di voti e di giudizi e dall’altra parte il corpo studentesco atterrito, vittima predestinata. Basta entrare in un’aula scolastica per vedere che non è così, al netto di singoli casi dove magari impera il vendicatore solitario. Vogliamo ribadirlo chiaramente: il discorso sulla funzione didattica del voto e sul ruolo del docente non vuole civettare con alcuna tradizione conservatrice o reazionaria. Al contrario, in questo momento storico, in cui tutto sembra orizzontale, ‘post’ (industriale, moderno, ecc…), la marginalizzazione di forme di valutazione appare ai nostri occhi come una forma di conservazione. Ed è conservatrice rispetto ai processi verticali di potere perché nasconde sotto la retorica dell’uguaglianza nuove e vecchie forme di selezione sociale. In breve chiediamoci: qualora la laurea e il diploma fossero squalificati (in varie forme) in che modo verrebbe a riprodursi l’attuale gerarchia sociale? Magari permettendo di accedere a prestigiosi corsi di studi post-diploma solo a coloro che abbiano la possibilità economica o sociale di investire in quei percorsi. Certo, l’antiautoritarismo agito nella prassi dei movimenti studenteschi era una forza di cambiamento e soggettivazione, ma quando l’energia dei movimenti studenteschi è venuta meno, l’antiautoritarismo è stato fagocitato e istituzionalizzato e infine aufgehoben in qualcosa d’altro: il potere del mercato. Similmente, il rifiuto del voto, quando agito collettivamente, è una forza di cambiamento, ma se istituzionalizzato e assorbito senza reale cambiamento di rotta nelle istituzioni educative, diventa un lubrificante della fabbrica educativa e della vendita di diplomi. Ecco perché questo contributo vuole attirare l’attenzione su queste contraddizioni e tensioni, per evitare sia la nostalgia conservatrice sia la nostalgia di sinistra per vecchie formule ripetute senza alcun aggancio a movimenti concreti e pratiche collettive.

La figura dell’insegnante è mutata negli ultimi decenni secondo ben precise linee d’indirizzo. L’insegnante oggi è inteso dagli innovatori “progressisti” come un “facilitatore di processi di apprendimento”, come un “progettista di ambienti di apprendimento”, come un produttore e certificatore di “competenze”. Sembra che tutte le cosiddette innovazioni didattiche degli ultimi decenni abbiamo avuto come scopo quello di detronizzare definitivamente l’insegnante, marginalizzarne il ruolo, rendendolo una figura laterale, una sorta di intrattenitore multimediale senza qualità, un tecnico d’aula esperto di metodi didattici più che uno studioso della disciplina che dovrebbe insegnare. Al centro sta lo studente-cliente al quale si rivolge l’“offerta formativa”, e la sua costruzione attiva e autonoma di significati. L’insegnante che incautamente volesse insegnare qualcosa, anziché adoperarsi perché i suoi studenti “imparino a imparare”, secondo il credo neoliberale inevitabilmente inchioderebbe gli studenti al proprio banco rendendoli passivi, vasi inerti da riempire. La lezione frontale è trattata alla stregua di un crimine contro lo sviluppo autonomo della personalità. L’insegnante tutto metodi, strumenti, tecnologie e ambienti per l’apprendimento è al contrario inteso come l’insegnante di qualità, l’emblema della scuola progressista e innovativa. Si tratta piuttosto, con l’aiuto in copertura retorica di alcuni residui sessantotteschi naif, della maschera dell’innovazione e dell’inclusione, di un progetto neo-conservatore di sincronizzazione del mondo della formazione con le esigenze del mercato e della produzione. Questo preambolo prova a inquadrare la questione al centro di queste considerazioni inserendola su uno sfondo discorsivo che è sempre bene richiamare.

Che tipo di reazioni genera il gesto degli studenti? Da “sinistra” la conferma della bontà, già teorizzata, di abolire la valutazione numerica in favore di altre forme di valutazione. Da “destra” la volontà punitiva di confermare e magari di inasprire il sistema vigente, restaurando anche il voto in condotta. In entrambi i casi si evita di entrare nel merito del punto sollevato, fermandosi alla superficie. Eliminato oppure al contrario inasprito il sistema dei voti ed ecco la scuola ideale. Ecco quindi che, forse, gli studenti hanno dimostrato di essere un passo avanti rispetto a questi giudizi o, quantomeno, hanno posto una questione che può permetterci di fare un passo avanti. Perché? Non è tanto il fatto che gli studenti siano in grado di usare il sistema esistente di distribuzione dei punteggi che compongono il voto finale, facendo i loro calcoli, e decidendo che non hanno bisogno di punti supplementari per uscire dal reparto della formazione. Alcuni si fermeranno, e cercheranno di entrare nel mondo del lavoro. Altri, proseguiranno nel ciclo della formazione.

Allora quale è la posta in gioco, quando gli studenti ci dicono che «I voti non definiscono il valore di una persona»? La contrapposizione tra voti e persona è seria. Non si tratta di ricordare, come è stato fatto, il carattere cristiano del termine “persona”, perché la questione non è incentrata sul richiamo alla persona, ma, come appena detto, su una opposizione. Il sistema formativo è diventato una enorme macchina burocratica, nella quale tutto è proceduralizzato, e la conoscenza è ridotta a pacchetti di informazioni somministrati da insegnanti-funzionari. I contributi della più recente ricerca didattica sono rivolti alla normalizzazione di questa struttura amministrativa impersonale. Questo sistema, ai passi con l’ideologia sorta nel cosiddetto post-fordismo, ha dichiarato che la scuola non è più una macchina di produzione seriale di studenti, perché i percorsi devono essere personalizzati. Nella dimensione fordista della scuola del secondo Novecento, la serializzazione della formazione si accompagnava a una certa trasmissione di saperi (anche se fortemente differenziati secondo uno schema di classe) che apriva uno spazio di possibilità per la formazione di una coscienza democratica mediata anche dalla conoscenza del passato. Ma il mercato e il metodo fordista non hanno bisogno di storia. O meglio, hanno bisogno di un diverso rapporto con la storia. Henry Ford lo aveva detto agli inizi del Novecento: “History is more or less bunk. It’s tradition. We don’t want tradition. We want to live in the present and the only history that is worth a tinker’s dam is the history we make today”. Non è l’eliminazione della storia tout court. Piuttosto ciò che avviene si muove in due direzioni intrecciate: l’abbandono di una sua conoscenza precisa e approfondita assieme alla sua riduzione a campo di battaglia ideologico. La conoscenza dei saperi in chiave storica (della filosofia, della letteratura, della scienza) è condizione di possibilità che permette allo studente di operare dei confronti con il proprio presente. Per questo chi controlla il passato, controlla anche il presente.

E oggi? Nel nome di una individualizzazione e personalizzazione ‘post-fordista’ della formazione, viene operata la sua riduzione a protocolli pre-definiti, spingendo così il sistema formativo un ulteriore passo in avanti nel cammino della amministrazione totale. Vale a dire che le forme di personalizzazione proposte dai sistemi scolastici operano per produrre una armonizzazione delle esigenze di studenti in condizioni particolari (studenti-atleti, studenti in situazioni familiari particolari, studenti con difficoltà specifiche, studenti con traumi) a quelle del sistema scolastico (ad esempio operando per ‘obiettivi minimi’). Questa armonizzazione, nella sua tensione a essere generalizzata, produce un appiattimento, un compromesso al ribasso, dell’attività e della prassi didattica. E produce la soggettività di studenti-lavoratori che, fin dagli anni della formazione, vengono abituati ad alternare studio e lavori sottopagati.

A questo punto, la debole, incredibilmente minoritaria protesta degli studenti inizia a prendere senso: il loro richiamo all’opposizione tra voti e persona esprime la volontà di non “seguire le regole”, non nonostante, ma specialmente quando le regole vengono create ad personam. In altre parole, qualsiasi cosa il termine “persona” significhi, della persona non resta nulla, se non un insieme di procedure e protocolli in un sistema altamente impersonale. Gli studenti offrono l’occasione di segnalare che le cosiddette “soft skills”, in questi anni termine chiave della didattica innovativa, difficilmente possono permettere di costruire lo spessore culturale, critico e democratico di uno studente che la scuola dovrebbe favorire. Chi se non lei? I processi di competizione individualistica favoriti dal contesto del mercato?

Bisogna anche tenere presente che questo processo verso l’amministrazione della formazione è potuto avanzare con relativa facilità perché ben lubrificato da molta ideologia di sinistra. E non ci riferiamo ad alcuni fallimentari tentativi di abolire i voti, ma a ciò di cui questa rivendicazione è parte: la protesta contro ogni forma di autorità. Così, l’autorità del docente è stata progressivamente erosa da nuove e vecchie procedure che vanno a comporre il voto nel modo più meccanico possibile. Ma quando l’autorità del docente svapora, se ne va con essa anche l’autorevolezza collegata alla sua formazione, al fatto di essere un punto di riferimento nel suo settore disciplinare. E, poiché l’autorità è anche riferimento al passato, se ne va la storia, trasformata in un campo di battaglia puramente ideologico: da un lato la sua riduzione a una tradizione nazionalista, dall’altro un museo delle oppressioni e dei torti. Questo scontro è combattuto al di fuori dei luoghi preposti alla formazione, dimostrando, ancora una volta, che la scuola è il bottino da conquistare e la sua autonomia è lo scandalo da distruggere.

Il docente senza autorità diventa un insignificante impiegato pubblico, e viene pagato conformemente alla sua insignificanza. Ma l’autorità nascosta sotto il tappeto delle procedure burocratiche, riemerge come potere. Non più del docente. Potere amministrativo che governa la scuola e assoggetta docenti e studenti a un numero crescente di norme e alla discrezionalità del dirigente: una palestra per abituare gli individui a vivere in uno stato autoritario. Potere del mercato e degli studenti-utenti-consumatori. Da un lato il sistema formativo deve preparare al mondo del lavoro. Come? Insegnando la subordinazione a regole e procedure e con l’abbandono progressivo dei saperi (basta saper-fare). Dall’altro, specialmente nei paesi dove la scuola pubblica è già stata ridotta a intrattenimento, gli studenti-clienti decidono cosa vogliono sia loro insegnato. L’esperienza del docente, la sua vecchia formazione e autorità, non conta nulla di fronte al potere del mercato e dei consumatori. E il mercato non ha bisogno di storia. Tutt’al più di previsioni a brevissimo termine.

Come si è arrivati a questo? Diciamolo in modo drastico: i sistemi formativi si sono democratizzati oltre il limite di tolleranza relativo al fine per il quale furono creati. Le strutture scolastiche prodotte in Europa tra Ottocento e Novecento, al netto delle loro specificità storiche e geografiche, erano pensate per formare classi dirigenti e riprodurre il sistema educativo. Per questo erano doppiamente selettive: in termini di classe e in termini di merito. Quel sistema formativo era finalizzato all’educazione dei pargoli del ceto medio-alto per la riproduzione delle classi dirigenti o del corpo insegnante. Ma sacrosante lotte sociali hanno prodotto un allargamento della base. L’intero sistema formativo ha iniziato a democratizzarsi. Inizialmente in modo ibrido: chiunque, con un titolo di diploma superiore, poteva accedere all’università. Precedentemente i canali della formazione erano per lo più definiti in termini di classe. Erano ben pochi i figli di operai che sceglievano di fare un liceo. Meglio avere un titolo di studio in tasca, questo insegnava la saggezza popolare di chi doveva arrivare a fine mese. Meglio quindi un istituto tecnico nel caso di diligenti figli di operai, o un istituto professionale per altri. Quando la base della piramide scolastica si è allargata, il sistema ha continuato a operare per un certo periodo sulla base del vecchio castello meritocratico. Nelle università italiane era solo la metà degli iscritti che arrivava a conseguire una laurea. Questo intermezzo ibrido è durato fino a che la sinistra decise che tale dispersione scolastica era insostenibile. Forse perché si è confusa l’emancipazione con il conseguimento di un ‘pezzo di carta’ anche se lo si andava svuotando del suo significato? A quel punto, nel nome delle esigenze personali dello studente e delle esigenze impersonali del mercato del lavoro, il sistema è entrato in una fase di riforma permanente. Ogni governo ha visto nella scuola un campo di battaglia. Ma nonostante alcune differenze, il sistema è inesorabilmente avanzato verso la completa burocratizzazione. I docenti sono diventati funzionari che somministrano crediti e debiti. La scuola senza un’idea di formazione schiacciata sulle esigenze e sul lessico della produzione, priva di un suo spazio-tempo irriducibile e carico di significati culturali in grado di parlare ai giovani in profondità, è il risultato finale. Che sia la mancanza di senso complessivo quella avvertita dagli studenti?

Ecco quindi che il rifiuto di sostenere un esame orale, la contestazione del voto, nulla di nuovo come sappiamo, sembra essere il frutto di questa scuola al servizio del cliente, che blandisce, semplifica, appiana le fatiche, elimina ogni asperità dalla vita quotidiana dello studente, mai come oggi assistito, accompagnato da ogni sorta di “tutor” e di facilitatore. Tale atteggiamento incapacitante elimina alla radice l’esperienza dell’altro, dell’altro da sé, dell’altro rispetto al proprio orizzonte abitudinario. Per cui, se di esperienza si può parlare, si tratta dell’’esperienza dell’identico che non comporta l’uscita da sé. La conferma di sé, di come si è già, si unisce a una spinta adattiva alla realtà già data, al mondo delle cose così come esse sono. Passare anni in un ambiente protetto vuol dire subire una cattiva pedagogia. Nessuno pensa di assolvere l’esame di maturità così com’è. Andrebbe profondamente ripensato. Tuttavia resta un rituale di passaggio, con tutti i suoi limiti e le sue approssimazioni. Rifiutare l’esame orale vuol dire temere l’esposizione a una verifica senza intermediazioni tecnologiche o d’altro tipo. L’uno di fronte all’altro senza nulla in mezzo. Significa evitare di compiere un primo passaggio preparatorio di avvicinamento alla vita reale, priva di cuscinetti protettivi e di servizievoli figure facilitanti. Ma tale atteggiamento non è l’espressione spontanea di un vezzo giovanile. È, al contrario, il frutto della scuola com’è diventata, è frutto di un apprendimento silente, il frutto inatteso della scuola fondata sulla cosiddetta personalizzazione e intesa come servizio al cliente. La scuola che a furia di orientare disorienta oggi insegna ai giovani a essere così. Non è un caso forse che l’esame di maturità, riformato innumerevoli volte, rimane un passaggio problematico in quanto, pur avendo perso molto nel corso del tempo, è vissuto da molti studenti con agitazione o vera e propria ansia. Impoverito, criticato e criticabile l’esame pone gli studenti di fronte alla necessità di uscire dalla quella che oggi si è abituati a chiamare “comfort zone”.

La nauseante riforma permanente non è destinata a fermarsi, perché è mossa dalla contraddizione tra una scuola che fu disegnata in modo elitario e il presente della formazione di massa. È la parabola decadente di una istituzione sorta un paio di secoli fa ed ora inadeguata non rispetto alle sfide del mondo digitale ma rispetto ai compiti posti da una formazione realmente democratica. Non basta comprare qualche computer e insegnare ai ragazzi ciò che già sanno (navigare sul web? Usare ChatGPT? Postare un contenuto? Fare un acquisto online?). Il sistema formativo va ridiscusso nelle sue fondamenta. È qui che la tensione evidenziata dagli studenti può smascherare la contraddizione in cui è intrappolata la scuola e può illuminare una diversa strada. La totale spersonalizzazione del sistema formativo è avvertita da studenti e docenti. Ma sono stati gli studenti a segnalare il problema. Il loro rifiuto di partecipare a una porzione di esame non è né il problema né la soluzione. Il caso italiano non è l’unico. L’esito appena descritto riguarda i paesi occidentali. Non è un caso che la crisi del modello capitalistico-democratico occidentale emerga attraverso la scuola. Il potere politico-burocratico che governa la scuola, nella sua abituale e strutturale insipienza, deciderà probabilmente di punire con la bocciatura chi si rifiuterà di adempiere alle procedure sancite dal protocollo del voto. Alcuni intellettuali giudicheranno sulla base della loro esperienza personale. Ma gli studenti, con il loro rifiuto, hanno suonato la campana di allarme. C’è un limite oltre il quale la riduzione della conoscenza e del sapere a informazioni e procedure diventa una struttura insopportabilmente spersonalizzante, alienante, e quasi inutile in un mondo in cui gli istituti formativi non sono più nemmeno al centro dell’apprendimento, che avviene orma in numerosissimi luoghi sociali o mediatici. Non sono i ragazzi a essere in concorrenza per il voto o un lavoro, è la scuola a essere in competizione con una molteplicità di istituzioni formative e possibilità alternative di accesso alle informazioni.

La posta in gioco che così si delinea è a nostro avviso fondamentale perché, letteralmente, contribuisce a mettere in discussione le fondamenta dell’assetto democratico delle società occidentali, già fortemente destabilizzate dai processi economici. Una scuola delle competenze è la scuola delle informazioni funzionali alla collocazione degli studenti-lavoratori nella società-mercato. La scuola delle competenze è schiacciata su skills procedurali e poco più. È la scuola votata a rincorrere passivamente il mondo ad alta tecnologia di oggi. È la scuola dell’appiattimento burocratico-funzionale dell’attività didattica. Così facendo la scuola decide di espellere cultura, confronto democratico, capacità critica assunta attraverso la conoscenza (filosofica, storica, letteraria, scientifica). Una scuola che si mette sul mercato della vendita (o somministrazione delle informazioni) è una scuola che ammicca a luoghi di socialità, spesso virtuali, di cui rischia di essere una brutta imitazione e come tale poco credibile. Quindi, la questione è, in senso ampio, politica.

Vi è un ulteriore aspetto teorico e politico che vogliamo sollevare in cui gli studenti ‘disobbedienti’ appaiono come un sintomo di qualcosa di più profondo. Il rifiuto a sostenere la prova orale di fatto produce una interruzione nel flusso della normalità della scuola totalmente amministrata. L’esito individuale di questa interruzione (ossia i calcoli fatti dagli studenti per ottenere il diploma lasciandosi scivolare sopra il sistema dei crediti scolastici) è meno rilevante del fatto che questo caso introduce una frizione nel sistema. Dalla sua apparente liquidità emergono questioni materialisticamente rilevantissime. Si potrebbe provare a sintetizzarle per punti nella speranza di poter aprire una discussione sul tema. (1) Il ‘caso maturità’ apre uno squarcio sulla superficie levigata dell’ideologia dominante che ha nella scuola uno dei suoi volani più significativi. (2) Se gli studenti sono riusciti a farsi sentire, seppur scompostamente, ciò significa che sono possibili altre forme di interruzione dei processi burocratico-amministrativi che governano la scuola. (3) Le critiche democratiche ai sistemi scolastici dovrebbero essere messe in relazione in modo che escano dalla dimensione, anch’essa ideologica, dell’individualismo sociale e si traducano quindi in possibilità politica di cambiamento ed emancipazione. Detto diversamente: se la scuola ha deciso di sopravvivere erogando informazioni, tanto vale che chiuda i battenti. Gli studenti lo hanno intuito. La risposta dei governi, come al solito, è la più inadeguata a risolvere il problema, ma sufficientemente adeguata a riprodurre la formazione ubbidienti studenti-lavoratori: punizione e disciplina. È come se, in un aereo che sta precipitando, si discutesse su come sanzionare chi non ha la cintura allacciata.

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Comments

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nuno
Friday, 12 December 2025 15:01
io vedrei che tipo di scuola hanno in Cina e Russia e seguirei il loro modello;
diamo esempi concreti di queste due potenze in ascesa da cui il decadente, cattivo e marcio occidente, come ci insegnano numerosi articoli di siistrainrete, deve solo IMPARARE;
parlateci del sistema scolastico cine e e russo, analizzatelo
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Lorenzo
Friday, 12 December 2025 11:14
Gli autori si barcamenano con buona dialettica e virtuosi contorsionismi fra realtà e aneliti progressivi, muovendo da osservazioni corrette per trarne conclusioni improprie.

La realtà è il porcile dell'inQlusione precorso e plasmato da oltre un secolo di polemica sinistrata e poi sessantottina contro il nozionismo, la meritocrazia e ogni gerarchia del sapere e dell'intelletto, a favore d'una sQuola socializzante, inQlusiva (di cani e porci) ed egualitaria fondata sui 18 politici e le lauree di gruppo:

https://archive.ph/TQuD4

Nel loro anelito perfettamente anarcoide le fantasie sessantottine non avrebbero avuto possibilità di realizzazione concreta se non fosse intervenuto il capitalismo apolide a dar loro traduzione concreta perché mosso da un analogo intento livellatore: quello di creare una plebe meticcia di consumatori il cui livello identitario, culturale ed intellettivo sia sufficientemente schiacciato verso il basso da risultare plasmabile e calcolabile a volontà.

Il porcile attuale non è, come danno a intendere gli autori, il contrario o quantomeno tutt'altra cosa rispetto agl'intendimenti umanitari ed egualitari della tradizione evangelico-marxista, bensì un loro adattamento al mondo degli uomini, come per altro verso lo fu il collettivismo sovietico.
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