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Materialismo dialettico e meccanica quantistica relazionale
In difesa di Lenin
di Andrea Evangelista
L'empiriomonismo
Nell'ultimo libro1 del fisico Carlo Rovelli c'è un capitolo, il V, dal titolo: La descrizione non ambigua di un fenomeno include gli oggetti a cui il fenomeno si manifesta - Dove ci si chiede cosa implichi tutto ciò, per le nostre idee sulla realtà, e si trova che la novità della teoria dei quanti non è poi così nuova. I primi due paragrafi del capitolo sono dedicati alla disputa tra Alexander Bogdanov e Vladimir Lenin. Vi si racconta come, dopo che Bogdanov ebbe pubblicato la sua opera in tre volumi2 , Lenin pubblicò la sua nota opera filosofica Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria3, con l'obiettivo di criticare (ferocemente per Rovelli) l'empiriocriticismo, usando per la filosofia di Bogdanov il termine usato da Ernst Mach, il fisico e filosofo austriaco del XIX secolo (ispiratore di entrambe le grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo, padrino di Wolfgang Pauli e filosofo preferito di Schrödinger riporta Rovelli).
Rovelli illustra il pensiero di Mach:
Mach insiste che la scienza si deve liberare da ogni assunzione «metafisica». Basare la conoscenza solo su ciò che è «osservabile». [...] La conoscenza non è quindi vista da Mach come dedurre o indovinare un'ipotetica realtà al di là delle sensazioni, ma come la ricerca di un'organizzazione efficiente del nostro modo di organizzare le sensazioni. [...] Per Mach non vi è distinzione tra mondo fisico e mondo mentale: la «sensazione» è ugualmente fisica e mentale.
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Per una critica del concetto di lavoro riproduttivo in Silvia Federici
di Bollettino Culturale
Nel 2004 Silvia Federici pubblica Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria, in cui si propone di analizzare gli sviluppi del capitalismo da una prospettiva femminista. Considera il concetto di accumulazione primitiva criticando l'analisi di Marx, che è partito dal punto di vista del proletariato salariato maschile e dello sviluppo della produzione di merci.
L'autrice attinge dalle teorie marxiste (in special modo operaiste), dalle teorie femministe e dalla teoria foucaultiana per ridefinire le categorie storiche di strutture che, secondo Federici, sono nascoste nelle discussioni sul dominio e lo sfruttamento.
Il titolo è ispirato a “La tempesta” di Shakespeare e riflette il desiderio di ripensare lo sviluppo del capitalismo, recuperando le radici dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Inoltre, l'autrice Silvia Federici analizza la caccia alle streghe del XVI e XVII secolo, rivisitando il modo in cui la storia delle donne si intreccia con la storia dello sviluppo capitalista. È degno di nota, quindi, che non è possibile comprendere una tale storia occupandosi solo dei terreni classici della lotta di classe, ma piuttosto dando visibilità allo sviluppo di una nuova divisione sessuale del lavoro, una divisione che ha potenziato la svalutazione delle donne.
La pensatrice italiana sottolinea, sin dall'inizio della sua analisi, quanto raramente sia apparsa nella storia del proletariato la caccia alle streghe, e tale assenza rende invisibile la forza e la resistenza delle donne nel processo di consolidamento del capitalismo in Europa, e come tale caccia abbia livellato il terreno per la costruzione di un nuovo ordine patriarcale basato sull'esclusione delle donne dal lavoro salariato e sulla loro subordinazione agli uomini.
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In principio è la relazione: la meccanica quantistica di Carlo Rovelli
di Emilia Margoni
Parte ampia della fisica del Novecento è legata alle sorti di un gatto: confinato in una scatola, in pericolosa prossimità con un congegno mortale, attende il compiersi del proprio destino. Il suo futuro è legato a un fenomeno dal carattere ambiguo[1], che può tanto verificarsi quanto non verificarsi: il decadimento di una sostanza radioattiva, che potrebbe innescare la macchina mortale. Fuori dalla scatola, un pubblico di osservatori incerti e in attesa: ignari dell’evoluzione dei fatti, si chiedono se il fenomeno si sia verificato oppure no. Il gatto è morto o è vivo? O, nell’avviso di molti fisici, non può dirsi né vivo né morto? Sul criterio con cui orientarsi per rispondere a queste domande, il dibattito a quasi un secolo di distanza – ovvero quando nel 1935 Erwin Schrödinger lanciò l’ipotesi animalicida per indicare l’impasse della meccanica quantistica allorché applicata a sistemi fisici macroscopici – è ancora in corso. Sinora nessuno è riuscito a offrire una ricostruzione convincente delle circostanze, tale cioè da mettere tutti d’accordo sulle sorti dello sventurato felino. A chi volesse chiarirsi le idee sul perché questo esperimento mentale rappresenti il fulcro di una delle teorie più sofisticate della fisica teorica contemporanea gioverà addentrarsi nella lettura di un felice libretto di Carlo Rovelli.
A distanza di soli tre anni dalla pubblicazione de L’ordine del tempo (Adelphi, 2017), il noto fisico italiano torna alle stampe con Helgoland (Adelphi, 2020), accattivante lettura su un tema – la meccanica quantistica – tutt’ora al centro di un vivace dibattito. Anzitutto, una premessa. Sarebbe ingenuo intendere il testo come una ricostruzione storica accurata o un manuale divulgativo per non addetti ai lavori.
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Rileggendo «La libertà comunista»
di Mario Tronti
In questo saggio (pubblicato nel volume curato da G. Liguori, Galvano Della Volpe. Un altro marxismo, Edizioni Fahrenheit 451, Roma 2000), Mario Tronti riattraversa un libro straordinario, fin dal folgorante titolo che già pone con forza l’irrisolto nodo centrale: La libertà comunista. L’autore è appunto Galvano Della Volpe, figura di grande importanza nel percorso di formazione teorico-politica dello stesso Tronti e di altri giovani che poi avrebbero preso parte all’esperienza dell’operaismo politico italiano. Un filosofo politico, ci dice Tronti, dotato della «capacità e volontà di forzare il pensiero, di radicalizzare ed estremizzare le posizioni altrui e quella propria», con «un pensiero irto di spigoli, non conciliante, mirato a sorprendere, poco interessato a convincere, non ortodosso senza essere eretico». «Grande polemista, aristocraticamente isolato rispetto al senso comune intellettuale della sinistra del tempo», è stata una fonte a cui si è abbeverata una generazione di «giovani marxisti in formazione e militanti comunisti inquieti». La genealogia della radicale rilettura di Marx contro il marxismo, ovvero dell’operaismo, è passata anche di qui. E qui il pensiero radicale deve tornare a passare. [G. R.]
* * * *
Come si evince dal titolo del mio saggio, vorrei circoscrivere un argomento: prendere da un angolo acuto il discorso su Della Volpe politico, ovvero teorico, o filosofo, della politica. Il primo pregio del libro di cui mi occuperò è il suo splendido titolo. La libertà comunista: un problema del secolo, un grande tragico tema del Novecento.
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Per non dimenticare Costanzo Preve
di Salvatore Bravo
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo. Non indossate l’abito del «Politically correct». Serve a necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera
Politicamente corretto
Ogni organizzazione sociale ha le sue interdizioni: senza di esse non vi è comunità che regga. Il capitalismo assoluto cela le sue interdizioni pur rappresentandosi come la società più libera che la storia umana abbia conosciuto.
Il politicamente corretto è il dispositivo interdittivo del capitalismo assoluto.
Per necrotizzare il concetto e sostituirlo con la chiacchiera si opera secondo modalità plurali. La chiacchiera è il distrattore di massa del capitale: l’etere è occupato dal continuo flusso di informazioni, e di gossip, che funzionano per distrarre i popoli, che si vogliono plebi, dalla durezza del reale e trasportarlo in un mondo onirico di desideri e sogni derealizzanti. La chiacchiera è la nuova religione del capitalismo assoluto, religione nichilista in cui mediocri personaggi di nessun talento raccontano il loro privato. Il dispositivo opera per sostituire il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede). I santi, i letterati e gli scienziati che nella fase precedente del capitalismo erano i modelli dialettici e critici del capitalismo, sono sostituiti dalla mediocrità dei narcisi dello spettacolo, dai loro racconti “tutti simili” come le loro fisicità e che convergono sulla cultura del privato e dell’indifferenza verso il pubblico. Sono vere armi per veicolare il capitalismo assoluto nella forma infantile ed innocente del narcisismo incentrato sul corpo da esporre e della parola da annichilire. La differenza, e l’identità dialettica sono respinte, poiché qualsiasi intelligenza media può ben rendersi conto che le storie e le aspirazioni raccontate sono tutte “drammaticamente” eguali. L’attenzione è volta unicamente al proprio privato che riproduce mediante gli automatismi della chiacchiera i modelli socialmente imposti.
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Una critica agli accelerazionisti
di Bollettino Culturale
Introduzione
Dalla sua comparsa nel 2013, il Manifesto accelerazionista ha provocato un'agitata discussione nei circoli politici di sinistra proponendo un quadro di riferimento alternativo al modello tradizionale di classe e di partito, motivato dalle sfide che le correnti poststrutturaliste e post-marxiste hanno posto al marxismo. In opposizione a quella che gli autori accelerazionisti considerano "folk politics", di orientamento particolare, reattiva al cambiamento, la proposta accelerazionista esige il recupero di un orizzonte strategico, di orientamento universale. Si tratterebbe di unire il pensiero di sinistra con una posizione favorevole al progresso tecnico, nella concezione del cambiamento tecnologico come una sorta di trampolino di lancio per una pratica politica globale finalizzata alla costruzione di un orizzonte sociale post-capitalista. In questa prospettiva, gli accelerazionisti pensano che la sostituzione del lavoro umano con l'automazione della produzione è un processo inevitabile e desiderabile e propongono un'utopia del post-lavoro come nuovo asse di articolazione della politica.
Questo articolo discute le possibili implicazioni di questo modello post-lavorista nelle politiche di emancipazione. Sulla base di una revisione della letteratura economica sulla disoccupazione tecnologica, viene proposta un'ipotesi alternativa: che la narrativa della “fine del lavoro” costituisca una rappresentazione errata delle tendenze attuali del capitalismo. L'eccessiva attenzione che gli autori accelerazionisti prestano all'offerta di fattori contrasta con i grandi problemi contemporanei che l'economia eterodossa si propone di discutere: crescente disparità di reddito, domanda insufficiente e deregolamentazione commerciale e finanziaria. In questo modo, l'accettazione acritica della premessa della "fine del lavoro" potrebbe portare l'accelerazionismo a diventare una forma di legittimazione dell'attuale ordine neoliberista.
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Ascesa e crisi della tecnoscienza del capitale
di Franco Piperno
Con questo contributo proseguiamo la riflessione sul percorso «Iperindustria» della rubrica Transuenze. Il testo che segue è la trascrizione, rivista dai curatori, di un intervento di Franco Piperno, fisico accademico e intellettuale militante che su queste pagine non dovrebbe richiedere ulteriori presentazioni, alla summer school organizzata da Machina alla fine della scorsa estate. Piperno, in modo inevitabilmente sintetico, entra nel merito di alcuni nodi profondi del tardo capitalismo, che trae potenza dalla sottomissione e funzionalizzazione della scienza alla tecnica, nell’impoverimento delle capacità cognitive sociali e dello stesso sapere scientifico. Il trionfo della tecnoscienza coincide tuttavia con una crisi profonda e conclamate dei suoi medesimi presupposti epistemologici. Le implicazioni di questa riflessione sulla natura del capitalismo iperindustriale, o tecnologico come lo chiama l’autore contrapponendolo a «cognitivo», e su molti dei temi che vorremmo approfondire (innovazione, qualità del lavoro, vecchia e nuova divisione sociale del lavoro, necessità di una critica radicale e non oscurantista del progresso tecnologico), ci sembrano evidenti, e anche imprescindibili.
* * * *
Fino al Rinascimento si può dire, schematizzando, che scienza e tecnica procedano separatamente. La scienza è solo uno dei saperi del mondo antico, quello teorico che, appunto, ha il fine in se stesso e lascia intatto il suo oggetto; la scienza deve rispettare delle procedure di produzione: risolversi nello svelamento delle «essenze»; dispiegarsi a partire da pochi principi fondamentali rispettando l’ordine logico; essere ad un tempo mezzo e fine – la scienza è disinteressata, non invasiva, nel senso non si propone di cambiare il mondo ma solo di conoscerlo contemplandolo.
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Il Tempo è Denaro
di Leo Essen
Le persone che nell’Occidente medievale, tra il XII e il XV secolo, possedevano un cultura rimproveravano al mercante che il suo guadagno presupponeva un’ipoteca sul tempo che appartiene solo a Dio.
Guglielmo d'Auxerre, nella sua Summa aurea, composta tra il 1215 e il 1220, dice che l’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché vende il tempo che è comune a tutte le creature. Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sé. Il sole è obbligato a far dono di sé per illuminare. La terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre, e lo stesso l’acqua. Ma niente più del tempo fa dono di sé in maniera più conforme alla natura. Volente o nolente, dice Guglielmo d'Auxerre, le cose hanno il tempo. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale, anche le pietre, da dove risulta che, anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai, le pietre griderebbero se potessero. Ed è una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. È contro di loro che Dio dice: «Quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo tale che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia».
Stefano di Borbone, uno dei primi inquisitori, tra il 1223 e il 1250 scrisse una Tabula Exemplorum, ripresa da Bernardo Gui nel suo Manuale dell’inquisitore, dove dell’usuraio si dice che non vende che la speranza del denaro, cioè il tempo, vende il giorno e la notte. Ma il giorno, dice, è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo. Vende dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godesse della luce e del riposo eterni.
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Per un nuovo socialismo
Leo Essen intervista Gennaro Scala
Dopo tre decenni di maledizione per ogni discussione sui fondamenti del modo di produzione capitalistico, e dunque anche sul suo necessario superamento, sembra indispensabile alzare lo sguardo oltre l’immediato e confrontarsi ex novo con i “massimi sistemi”.
La crisi sistemica più che decennale – anche a voler fare data dal 2007-2008, pur se in realtà risale ormai agli anni ‘70 – ha avuto un’accelerazione formidabile con la pandemia. Si è passati in pochi mesi da una prospettiva di “stagnazione secolare” (un mascheramento molto pudico dell’”esaurimento della spinta propulsiva” del capitalismo) a una caduta verticale da cui nessuno sa dire quando e se si uscirà mai.
Chi ci prova fa wishful thinking, non analisi scientifica.
Per di più, la gestione della pandemia ha fatto vedere in azione modelli operativi molto diversi.
Quello classicamente neoliberista è stato egemone in tutto l’Occidente, in cui la priorità è stata ed è ancora “non fermare la produzione”, con una pallida distinzione tra il “convivere con il virus” (la maggior parte dei paesi europei) e “negare la pericolosità del virus” (Usa, Gran Bretagna, Brasile, ecc). Un approccio che dopo qualche mese si è rivelato sostanzialmente simile, e che ha portato all’”invidiabile risultato” di moltiplicare la dimensione di contagi e morti affossando al contempo l’economia.
All’opposto, è esplosa in modo solare l’efficacia complessiva dell’approccio fondato su pianificazione e programmazione, normalmente associato con il pensiero socialista. Chi ha agito in questo modo, mettendo esplicitamente come priorità la lotta al virus, e dunque la salute della popolazione, è riuscito non solo a ridurre a quasi nulla l’impatto dell’epidemia, ma sta ora raccogliendo i frutti anche in termini di crescita economica, occupazionale, di prospettiva.
Questo è ormai un dato empirico, verificato e indiscutibile.
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La libertà di non essere sfruttati
di David Harvey
La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un'anticipazione dal nuovo libro di David Harvey
Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.
Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho sostenuto, uno scopo centrale di tali progetti di emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.
Marx e la libertà
Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.
Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.
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Social e capitalismo crepuscolare (living in a box)
di Roberto Fineschi
Funzionamento e funzione dei social nelle dinamiche del capitalismo crepuscolare
Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.
1) Costruire la “scatola”
I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.
1.1) Lo scienziato sociale
I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.
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André Gorz, “Addio al lavoro”
di Alessandro Visalli
Nel 2000 il filosofo francese André Gorz risponde all’intervista di Margund Zetzamann, spiegando[1] le ragioni per le quali nel suo “Miseria del presente, ricchezza del possibile”[2] invitava a liberarsi dell’obbligo del lavoro. Gorz, che si toglierà la vita di lì a sette anni, sul lavoro aveva a lungo riflettuto cercando costantemente la via per l’autorealizzazione del singolo dentro gli angusti spazi della gabbia d’acciaio della moderna società industriale e capitalista (ma anche socialista reale). Già nel 1967, scriveva che in entrambe le società “l’individuo, in quanto produttore e in quanto cittadino, è spodestato di ogni potere reale (che non può essere altro che potere collettivo) sulle decisioni e sulle condizioni produttive che modellano la sua vita di lavoro e la sua vita fuori del lavoro. Subendo la società più che crearla consapevolmente, essendo incapace di identificarsi con la sua realtà sociale, l’individuo tende a ripiegare nella sfera privata come la sola sfera in cui egli è sovrano” [3]. Ma questo “spodestamento”, continuava, avviene in quanto lavoratore. Egli, “privato di iniziativa, di responsabilità e di valorizzazione sociale nel suo lavoro, tende a cercare una compensazione nel non-lavoro”. Tema, questo, sul quale è larghissima la riflessione e lo resterà a lungo.
Da queste formulazioni durante gli anni ottanta passerà alla proposta di riconoscere i limiti propri alla razionalizzazione e fermare la mercatizzazione sulla soglia di quel che è socialmente sostenibile. In altre parole, di fermare l’integrazione funzionale sulla soglia dell’integrazione sociale e puntare sulla “riduzione metodica, programmata, massiccia della durata del lavoro (senza ridurre il reddito)”[4]. A questo stadio la proposta pratica, su cui a lungo insisterà, è di stabilire l’erogazione di un reddito di secondo livello che integri un tempo di lavoro effettivo calante e socialmente prestato.
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Homo pandemicus
Ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.
di Fabio Vighi*
L’attuale emergenza sanitaria dovrebbe suggerirci una riflessione sul potere dell’ideologia in un’epoca troppo frettolosamente definita post-ideologica. La caduta del muro di Berlino, ça va sans dire, non ci ha liberati dalle ideologie. Piuttosto, il sentirci affrancati da pressioni ideologiche ci rende vulnerabili a un non-pensiero unico tarato sull’anonima brutalità del calcolo economico. Con la globalizzazione e l’emancipazione dalle Grandi Narrazioni ci siamo consegnati a forme sempre più subdole di manipolazione che intercettano la dimensione viscerale del nostro essere. La dissoluzione dei vecchi legami simbolici ci ha proiettato nella dittatura piatta e invisibile dell’economia, contrabbandata come libertà. Questa pretestuosa libertà si risolve, essenzialmente, nell’obbligo di produrre e consumare valore (merce).
Resistere alla potenza di fuoco dell’ideologia capitalista è sempre più arduo. La nostra info-sfera centrifuga dati, annunci e comunicati a velocità supersonica. Questi segni ci soverchiano, demolendo le nostre capacità critiche e condannandoci a uno stato di ipnosi semi-permanente. Se a volte troviamo la forza di resistere a questa sopraffazione, ci ritroviamo però ridotti all’impotenza quando si tratta di immaginare nuove configurazioni sociali in grado di garantirci uno spazio di autonomia rispetto ai rapporti socio-economici che ci definiscono. Da qui la percezione di un tempo storico insieme irreversibile e inesauribile, per cui l’intera esperienza umana ripiega in un flusso destinale dove ogni evento è posto e insieme presupposto dalla metafisica del capitale.
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Superando il realismo capitalista
di Bollettino Culturale
Frédéric Lordon propone una teoria delle attuali condizioni soggettive di (im)possibilità per la mobilitazione produttiva delle persone nel quadro delle strategie di valorizzazione e accumulazione del capitale. A sua volta, Mark Fisher valuta il modus operandi del cosiddetto "realismo capitalista", descrivendone l’impatto depressivo sulle nostre capacità critiche e immaginative e, quindi, sul loro potere di bloccare ogni prospettiva di emancipazione. Propongo di rivedere brevemente gli approcci di entrambi gli autori, evidenziandone i possibili limiti e considerando la loro rilevanza strategica in relazione a un compito urgente. Mi riferisco, concretamente, alla necessità di mappare nuovamente i punti di incoerenza e possibile rottura del processo di sussunzione delle nostre vite al movimento dispotico del capitale.
In “Capitalismo, desiderio e servitù”, Lordon identifica le condizioni per mantenere il dominio capitalista nella sua fase postfordista e neoliberista. Oggigiorno, l'allineamento del desiderio collettivo a favore della redditività del capitale assumerebbe caratteristiche totalitarie. Ciò nella misura in cui mira a trasformare l'attività lavorativa stessa, cioè il processo lavorativo, in una fonte intransitiva di piacere e soddisfazione. L'atto di lavorare, cioè di trasferire valore alla merce o assicurare il trasferimento e la realizzazione di quel valore, è promosso ideologicamente come momento di realizzazione personale. Pertanto, non sarebbe più sufficiente mobilitare le persone attraverso il bisogno / desiderio di un salario, diventa essenziale convertire il processo lavorativo in una fonte di felicità in sé.
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Lo Stato come leva competitiva del capitale nella crisi
di Domenico Moro
Recentemente sul Sole24ore, il quotidiano di Confindustria, è stato pubblicato un articolo dal titolo significativo: “L’Europa superi il pregiudizio contro gli investimenti pubblici”[1].
Nell’articolo si parla di uno studio dell’Università Cattolica di Milano e di SciencePO di Parigi, a cura di Floriana Carniglia e Francesco Saraceno, che denuncia “il pregiudizio contro gli investimenti pubblici che risale almeno agli anni ’80 ma ha caratterizzato specialmente la fase di consolidamento fiscale fra 2010 e 2015.” Lo studio si concentra sulla parte della spesa pubblica rappresentata dagli investimenti, sottolineando che gli Stati hanno scaricato proprio sugli investimenti i costi dell’austerità. Gli investimenti vanno ripresi, dice il rapporto, ma in modo che siano considerati “non solo come fattore a sostegno della domanda aggregata ma anche come fattore funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale.” In questo senso, sono da rilanciare non solo gli investimenti pubblici tradizionali in infrastrutture materiali, come quelle di trasporto, ma anche quelli che allarghino la definizione stessa di investimento, inteso come tutto ciò che è funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, nel capitale sociale, la spesa mirata a sostenere gli investimenti privati, la lotta all’emergenza climatica e la gestione delle pandemie.
In particolare, sulle politiche per l’emergenza climatica si richiedono investimenti in larga scala, non solo pubblici ma anche quelli attinti al mercato dei capitali privati.
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