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Un flusso continuo di droni cinesi per Zelensky&Co. attraverso il triangolo Cina-Cechia-Ucraina
di Il Pungolo Rosso
Anche se la pensiamo in modo quanto mai diverso sulla guerra tra NATO e Russia in Ucraina, Paolo Selmi ci sta simpatico. Anzitutto per il prezioso, instancabile, rigoroso lavoro di decostruzione delle balle spacciate in Italia e in Europa dalla propaganda di guerra anti-russa, che impazza qui da quasi quattro anni (lo si trova sulla home page di “Sinistra in rete”). Ma anche per il suo stile franco e pungente, che talvolta non si ritrae neppure davanti alle verità a lui più sgradite.
E’ il caso di questo suo post di ieri che prende atto di un dato di realtà che non aveva mai considerato, e che forse è ignoto alla maggior parte dei militanti: esiste, è esistito almeno fino all’inizio di giugno 2025, un flusso continuo e regolare di droni cinesi per l’esercito di Kiev che, attraverso la Cechia, arrivava in Ucraina, con l’annesso giro di mazzette milionarie, come si conviene al mercato nero proprio di ogni guerra che si rispetti. La ditta cinese implicata è la stessa che rifornisce di droni dual use l’esercito sionista, che li usa sistematicamente per assassinare palestinesi: la DJI (Da-Jiang Innovations) di Shenzhen.
La cosa, francamente, ci era nota da tempo, ed ha come base il dato di fatto che nella produzione di droni e componenti di droni la Cina ha una posizione dominante sul mercato mondiale. La ha anche in Ucraina. Scrive Quinn Urich (su “Russia Matters!” del 10 settembre scorso) che “con solo il 5% delle aziende di difesa ucraine che dichiarano di non utilizzare componenti cinesi nei propri sistemi, la stragrande maggioranza dei droni che solcano i cieli è probabilmente prodotta in Cina o contiene diversi componenti chiave realizzati in Cina.
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Il piano Trump sulla guerra in Ucraina e le scomposte reazioni europee
di Francesco Dall’Aglio
Da 48 ore la bolla social occidentale è letteralmente impazzita. Il piano è inaccettabile, il piano è stato scritto da Putin, il piano è stato scritto in russo e ve lo dimostriamo[1], Trump è al soldo di Putin, Trump e Putin sono due dittatori e i dittatori alla fine trovano sempre un accordo (il tutto è perfettamente esemplificato da una vignetta comparsa su Politico) e, soprattutto, questo piano è il tradimento della resistenza ucraina e porta alla capitolazione del paese.
Ora, "capitolazione" ha un significato ben preciso: significa che ti arrendi al nemico senza condizioni sperando al massimo di avere salva la vita, nemmeno le proprietà, e rimettendoti interamente alle sue decisioni per quanto riguarda la futura organizzazione di quello che era il tuo stato. È inutile dire che nel piano di pace non c'è nulla di tutto questo. Al contrario, ci sono alcuni punti che non sono affatto vantaggiosi per la Russia e altri che sono vantaggiosissimi per l'Ucraina, vista la situazione attuale e la poca probabilità che possa cambiare. Non solo non è una capitolazione, ma è l'ultimo tentativo di salvare quello che resta dello stato e della dirigenza del paese.
Dal punto di vista territoriale l'Ucraina ovviamente mantiene la sua indipendenza e il suo sbocco sul mare. La sua sicurezza verrà garantita da una serie di accordi, tra cui un accordo di non aggressione da parte della Russia (che si immagina reciproco). Tra questi accordi c'è anche quello da parte della NATO di cessare la sua espansione (ormai di posti nei quali potrebbe espandersi ce ne sono ben pochi...) e di non schierare truppe in Ucraina, e la rinuncia, inserita nella Costituzione ucraina, a entrarvi - e questo, naturalmente, era uno dei punti fondamentali delle richieste russe, e uno dei motivi dell'inizio del conflitto.
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I rapporti di forza in Medio Oriente e le motivazioni strategiche dietro la tregua di Gaza
di Maurizio Brignoli
Nonostante le affermazioni del presidente statunitense Donald Trump (2017-2021; 2025-) – che a un intervistatore, che gli chiedeva cosa pensasse di quanto detto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (1996-1999; 2009-2021; 2022-) sul fatto che la campagna militare sarebbe proseguita nonostante gli accordi del 19 gennaio, rispondeva con queste parole: «La guerra è finita. È finita. Okay? Lo capite?»1, che evidenziano un comprensibile nervosismo visto che Netanyahu ha fatto già saltare ripetuti tentativi di interrompere la strage – siamo riluttanti a usare la parola “pace”, prima di tutto perché quella in atto non è una guerra, ma un’operazione coloniale di sterminio con intenti genocidi condotta contro un popolo colonizzato in seguito alla rivolta iniziata il 7 ottobre 2023 (la storia degli imperialismi occidentali abbonda di operazioni di questo tipo)2, in secondo luogo c’è il rischio che questo “cessate il fuoco”, per altro violato ripetutamente da Tel Aviv, in meno di un mese, più di 280 volte con l’uccisione di 242 palestinesi e centellinando le consegne di aiuti umanitari a Gaza3, sia solo una pausa imposta da Trump, dato che gli Usa iniziavano a subire ripercussioni negative dal genocidio sia sul piano interno che esterno.
Quali sono dunque gli elementi che dopo due anni hanno portato alla sospensione dello sterminio dei palestinesi?
L’intervento dell’imperialismo dominante
Metteremmo al primo posto l’intervento dell’unica entità che ha la forza per costringere Israele a interrompere il genocidio e cioè gli Usa. È necessaria una puntualizzazione preliminare: non sono gli Usa al servizio di Israele, ma il rapporto di forze è inverso, gli Usa costituiscono una potenza imperialistica con proiezione a livello mondiale (ben esemplificato dal progetto di “unipolarismo” delineato dopo la fine dell’Urss), Israele è, dalla Guerra dei 6 giorni del 1967, un prezioso alleato in una regione cruciale che persegue un progetto di imperialismo regionale ben coordinato con i disegni liberal-neocon di ridisegnare le mappe mediorientali utilizzando come testa d’ariete proprio lo stato sionista.
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Il Non Paper del ministro della guerra vede pericoli e minacce ovunque
di Francesco Cappello
Crosetto ci invita ad affacciarci alla finestra di Overton [1] delle sue interessate paranoie sulla guerra ibrida
Abbandoniamo tutte le nostre strampalate teorie sul perché le bollette energetiche siano lievitate, la sanità pubblica non funziona, le piccole imprese falliscono ed evitiamo di dare credito a tutte quelle teorie che siamo soliti adottare per spiegarci come mai i cittadini italiani si mostrino sempre più restii a votare. Crosetto nel suo Non-paper [2] del 18 novembre 2025 e presentato al Consiglio Supremo di Difesa il giorno successivo, intitolato “Il contrasto alla guerra ibrida: una strategia attiva“, “costruito integrando informazioni non classificate del comparto intelligence con analisi estrapolate da fonti aperte attendibili” ci dice l’indiscutibile verità. È colpa dei russi che insieme a cinesi iraniani e altri attori ostili ci danneggiano quotidianamente. Siamo in una guerra permanente e invisibile, la “Guerra Ibrida”. Questa minaccia è così “subdola” e “incessante” che “ogni giorno erode in modo silente la sicurezza delle nostre società“.
Si definisce minaccia ibrida “quella portata da attori statuali (anche attraverso attori non-statuali che operano come agenti o proxy) mediante una combinazione di azioni sinergiche in vari domini (diplomatico, informativo, militare, economico-finanziario dell’intelligence). È oggi una delle principali sfide per le democrazie occidentali. L’obiettivo è erodere la resilienza democratica, minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, dividere le società, influenzare le opinioni pubbliche con false informazioni.
L’effetto immediato di questo allarme, ovviamente, è la necessità improcrastinabile di nuove strutture, poteri e, soprattutto, finanziamenti.
A leggere il Non Paper di Crosetto viene in mente il testo dei Negrita ‘Nel Blu – Lettera ai padroni della terra [*]
‘Nel Blu – Lettera ai padroni della terra
I pericoli: il terrore quotidiano e l’espansione del potere digitale
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L’impossibile rinascita dell’industria americana (parte 2)
di Ferdinando Bilotti
Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto che il ripristino di una struttura industriale adeguata alle dimensioni e alla popolazione degli USA richiederebbe il ritorno in patria di quelle produzioni di massa che oggi i consumatori americani acquistano dalla Cina. Abbiamo visto anche, però, che diversi fattori impediscono all’amministrazione Trump di sanzionare pesantemente le merci cinesi e quindi di fare leva sui dazi per promuovere tale ritorno. Alla politica trumpiana, pertanto, arriderà un successo soltanto parziale, in quanto ad accettare le condizioni da essa imposte saranno, fra i tradizionali esportatori manifatturieri in terra americana, unicamente l’UE e alcuni paesi asiatici meno importanti della Cina. Abbiamo spiegato, inoltre, come l’imposizione dei dazi potrebbe spingere le imprese di tali aree a trasferirsi non negli USA, bensì in altri paesi, per beneficiare di costi di produzione più bassi; e come per il governo statunitense potrebbe risultare impossibile ottenere il pieno rispetto degli impegni riguardanti l’effettuazione di investimenti.
L’industria americana, in compenso, nel prossimo futuro potrebbe giovarsi dell’orientamento bellicista assunto dall’Unione Europea. Questo difatti le imporrà un riarmo che in tempi brevi non sarà conseguibile senza fare largamente ricorso alle produzioni di armamenti americane, in ragione di problemi di natura sia materiale (al momento l’apparato industriale militare europeo non è abbastanza sviluppato da poter supportare le ambizioni dei leader comunitari, e la riconversione di quello civile a fini bellici non può essere immediata) che finanziaria (gli attuali prezzi energetici si ripercuoteranno anche sui costi di produzione dei sistemi d’arma realizzati in Europa). Tuttavia, non è scontato che i popoli europei accettino senza reagire – nelle urne e nelle strade – i tagli alla spesa sociale necessari a finanziare l’espansione di quella militare. Inoltre, va rammentato che l’industria militare statunitense, pur avendo mantenuto un certo radicamento in patria, dipende comunque da forniture di componenti estere, ragion per cui, così come la fuga delle industrie dall’Europa si tradurrebbe solo in parte nella comparsa negli USA di nuovi stabilimenti, così la domanda europea di armi americane si tradurrebbe solo in parte in una maggiore attività di impianti produttivi ubicati negli Stati Uniti.
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di Alastair Crooke – Strategic Culture Foundation
Il cosiddetto “piano di pace” in 28 punti, redatto come un presunto trattato legale, apparirà a qualsiasi lettore esperto come un prodotto dilettantesco
Come al solito l’ottimo Simplicius (vecchia ‘volpe di canneto’) aveva analizzato perfettamente la situazione, come ce l’aveva presentata nel suo “La proposta di pace” trapelata nasconde intrighi” che vi abbiamo presentato due giorni fa. È adesso il turno di Alastair Crooke di darcene conferma. Buona lettura.
* * * *
Ora disponiamo dei dettagli del cosiddetto “piano di pace” in 28 punti fornito dal parlamentare ucraino Goncharenko, che sostiene essere una traduzione dell’originale.
Il testo, redatto come un presunto trattato legale, apparirà a qualsiasi lettore esperto come un lavoro amatoriale, basato in diverse parti su “discussioni successive” e “aspettative”.
In altre parole, molto è lasciato ambiguo, vago e non definito con precisione; un piano del genere sarebbe ovviamente inaccettabile per Mosca (anche se potrebbe non rinnegarlo apertamente). Ciononostante, il piano ha suscitato rabbia e reazioni negative in Europa.
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La "Pipeline" degli aiuti a Kiev e il precedente dell'Afghanistan
di Loretta Napoleoni
Durante il conflitto afghano degli anni '80, l’anti-soviet jihad, la cosiddetta Pipeline degli aiuti americani e sauditi era un intricato e opaco sistema di finanziamento dei mujaheddin. Per celare il flusso di miliardi di dollari e armi destinati ai mussulmani che venivano arruolati per combattere i soldati sovietici la CIA usò come canale di distribuzione l'Inter-Services Intelligence (ISI), i servizi segreti pakistani. In questo modo venne consegnato di fatto all'ISI il controllo totale sulla distribuzione delle risorse, permettendo ai servizi pachistani di indirizzare preferenzialmente gli aiuti verso i gruppi islamisti più vicini ai propri interessi strategici nella regione, marginalizzando le fazioni laiche o nazionaliste. Sappiamo tutti come è andata a finire questa storia, ma ciò’ che molti non sanno sono gli effetti negativi della Pipeline sulle istituzioni pakistane e sul futuro della regione.
Allora si sapeva poco o nulla di quanto stava realmente accadendo in Pakistan e in Afghanistan, erano i tempi della guerra fredda e l’Occidente considerava il blocco sovietico il nemico. Tuttavia, mentre noi vivevamo nell’oblio, questo fiume di denaro, gestito in gran parte in contanti e con una supervisione americana volutamente distante per "plausibile negabilità", innescò una corruzione sistemica all'interno dell'apparato militare e dell'ISI pakistano. Una parte significativa dei miliardi di dollari inviati da Washington non raggiunse mai i mujaheddin sul campo, ma venne intascata da generali, agenti dei servizi e funzionari corrotti come tangente per il "servizio" di transito.
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L’Ucraina, senza più “amici” credibili, deve scegliere
di Dante Barontini
Ma quale “piano” c’è per arrivare a una pace in Ucraina? Col passare delle ore e dei giorni si affastellano notizie probabili e completamente false, ipotesi e testi del tutto differenti. E non si tratta di semplici dettagli: possibilità di entrare nella Nato oppure no, limiti alla dimensione dell’esercito e al tipo di armi oppure niente limitazioni, riconoscimento di aver definitivamente perso territori oppure status da lasciare in sospeso (garantendo così la ripresa della guerra al primo “fraintendimento”).
Abbiamo già chiarito ieri che quella in corso tra Ginevra (domenica) e Abu Dhabi (oggi) è solo una pre-trattativa interna all’ex “Occidente collettivo”, con gli Stati Uniti che hanno presentato prima a Zelenskij e poi anche ai “volenterosi” (Francia, Gran Bretagna e Germania, bypassando completamente l’Unione Europea) una bozza in 28 punti.
Su quella è partita un fuoco di sbarramento “europeo” (niente affatto compatto, bisogna dire) riassumibile nella parola d’ordine “non può essere una capitolazione”.
Si è saputo poi che il testo era stato dato solo a Zelenskij per discuterne preventivamente in via riservata. E quindi la responsabilità della “fuga di notizie” era attribuita dagli inviati Usa – Witkoff e Kushner, come per Gaza – proprio a lui, nel classico gioco poco “diplomatico” teso a far saltare la proposta chiamando a raccolta tutti gli “oppositori europei”.
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Bentornata Realpolitik: dopo la Russia, Trump ammette anche la vittoria cinese?
di OttoParlante
Il Marru
“L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, si è improvvisamente accorto che il mondo non gli obbediva più. E dopo un’indagine approfondita, ha concluso che la causa principale era la Cina”. Non perdetevi il long form del buon Jin Canrong di stamattina su Guancha: “La logica è semplice: il mondo sta attraversando enormi cambiamenti, la Cina è la variabile e gli Stati Uniti sono la forza dominante nell’ordine esistente. Gli Stati Uniti sono insoddisfatti dei cambiamenti apportati dall’ascesa della Cina e quindi vogliono prenderci di mira. Biden e Trump possono discutere su altre politiche, ma concordano su una: vedono la Cina come il loro unico avversario, il che è peggio del fatto che l’altra parte veda te come il suo avversario numero uno. Perché numero uno implica almeno che ci siano un secondo, un terzo, un quarto, un quinto e un sesto avversario, mentre solo significa solo te”; per chi segue questo canale non suona certo come chissà che novità, ma una cosa è essersi imbattuti in un concetto qualche volta di passaggio, un’altra è abituarsi a utilizzarlo come lente per inquadrare tutto quello di un certo rilievo che riguarda gli USA – piano di pace o non piano di pace, guerra ibrida contro il Venezuela, Accordi di Abramo e corteggiamento dei sauditi. bolla dell’intelligenza artificiale e stablecoin, liti amorose con gli alleati/vassalli. Tutto, e sottolineo tutto, deve essere interpretato in prima istanza come un pezzo del puzzle della grande guerra sistemica degli USA contro l’unico avversario cinese, anche quando sembra controintuitivo: ieri, ad esempio, Trump ha parlato al telefono prima con Xi e poi con Takaichi Sanae e ha messo un freno all’avventurismo dell’estrema destra giapponese.
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La filosofia imperfetta di Costanzo Preve
di Carlo Formenti
Per i tipi delle Edizioni INSCHIBBOLLETH, è appena uscito il volume IV delle Opere di Costanzo Preve (curate da Alessandro Monchietto). Il volume contiene il saggio "La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo" la cui prima edizione è uscita nel 1984 per i tipi di Franco Angeli, un lavoro che, come ho più volte ribadito in alcuni libri recenti, considero di gran lunga il suo apporto più importante alla cultura marxista italiana degli ultimi decenni. Non avendo in questo momento il tempo di celebrare l'evento, come meriterebbe, con un articolo inedito (in quanto impegnato a completare l'impegnativa stesura di un libro a due mani con Alessandro Visalli), mi limito a riproporre qui di seguito il primo capitolo - dedicato appunto alla "Filosofia imperfetta" - del mio "Ombre rosse: Saggi sull'ultimo Lukács e altre eresie" (Meltemi 2022). Del resto, mentre lo rileggevo per decidere se valeva la pena di adottare tale soluzione, ho verificato di poterne tuttora condividere il contenuto parola per parola.
PS Nel teso originale le citazioni erano seguite dal numero di pagina fra parentesi, ma dato che si riferivano all'edizione del 1984 e non ho avuto tempo di riscontrare a quali pagine della nuova edizione corrispondano ho qui preferito eliminare i riferimenti in questione. Ho anche eliminato le note che rinviano ad altre parti di "Ombre rosse" che non si riferiscono al libro di Preve.
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Un crimine storico: l’ONU consegna Gaza ai suoi carnefici
di Karim
Dice l’autore della Newsletter BettBeat qui sotto riportata, che “la salvezza non verrà dall'alto”: giustissimo ed assodato! Dice che quello consumato in sede ONU il 17 novembre è “un tradimento”. Non concordiamo con tale giudizio poiché per noi è assodato che l’ONU è un consesso del potere capitalistico mondiale dove si cerca di far quadrare i conti fra i diversi e contrapposti interessi di Stati e “blocchi” capitalistici, comunque e sempre orientati dal loro comune obiettivo di contenere e stroncare ogni potenziale di forza rivoluzionaria che si manifesti ai quattro angoli del mondo.
L’atto di “tradimento istituzionale” siglato dal Consiglio di sicurezza il 17 novembre con un voto schiacciante di 13 a 0 e l’astensione dei due pezzi grossi russo e cinese, non è che l’ultimo atto di una lunga storia di infame e criminale real-politik delle diplomazie e cancellerie borghesi. Vogliamo ricordare fra gli altri e in quanto particolarmente infame e criminale, la liquidazione del grande patriota rivoluzionario africano Patrice Lumumba avvenuta sotto la copertura ONU. Anno 1961!
Sono passati 64 anni da quella operazione criminale e la situazione è ben diversa: la forza rivoluzionaria in Palestina e in tutta l’Asia occidentale è ben lontana dall’essere liquidata. Nonostante tutti i pesanti colpi subiti, l’Asse della Resistenza è in piedi. Non è stato (ancora) disarmato. Non è in ginocchio. Gli accordi criminali siglati in sede ONU senza alcun voto contrario e con l’astensione di Russia e Cina, devono “essere ratificati” sul campo di battaglia a Gaza, in Libano, nello Yemen, in Iran.
Detto questo, lettura altamente consigliata! [Lo Sparviero]
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Ventesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE X
m. Sindacato e partito
Penso che tutte le nostre osservazioni resteranno parola morta in una risoluzione, l’ennesima bella risoluzione, di quelle che a noi certo non mancano, se tutti gli organi del partito non si faranno finalmente una ragione del fatto che che la questione del lavoro dei sindacati, della vita dei sindacati e dei suoi successi, sia una questione di partito, ovvero se non capiranno che i sindacati non sono un’organizzazione concorrente rispetto all’organizzazione partito. In particolare, ho letto recentemente sui giornali interventi di alcuni famosi compagni, i quali scrivono che, se l’iniziativa operaia avviene nel partito, allora è una buona iniziativa; se invece essa avviene fuori dal partito, e per fuori dal partito si intende principalmente il sindacato, allora non è una buona iniziativa. Da qui, a concludere che le fila del partito si siano ingrossate eccessivamente, il passo è breve.1
È, questo del rapporto fra sindacato e partito, un argomento che Tomskij ha già toccato in precedenza, ma qui si arricchisce di dettagli nuovi, concreti, non di massimi sistemi. In certi punti, sembra di essere alle riunioni di qualche coordinamento fra associazioni o commissione comunale: c’è chi vuole mettere a tutti i costi il cappello su qualcosa, c’è chi minaccia di andarsene, c’è chi la butta sul personale, c’è chi rivanga – per l’ennesima volta – antichi e mai sopiti rancori, eccetera.
A rileggere queste righe ci si accorge di come, ahinoi, viviamo in un momento storico di regressione, dove invece di andare avanti si va indietro, grazie soprattutto a pezzi di plastica luminosi con cui ci interfacciamo tutti i giorni per “comunicare” con altri come noi, e che confondono volutamente i codici linguistici, convenzionali e non, della comunicazione e dell’invettiva, dello “sfogatoio”, della battuta al fulmicotone prodromo dello sputtanamento dell’interlocutore, declassato al ruolo di bersaglio. Pertanto, anche nei rari, pochi momenti di confronto individuale o collettivo de visu, siamo spesso incapaci di elaborare concetti in modo costruttivo, sia nell’immediato che nel lungo termine. In altre parole, rispetto ad allora oggi ci troviamo molto, ma molto peggio.
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Quale potrebbe essere la sorte del piano di pace
di Enrico Tomaselli
Sulla questione del piano di pace in 28 punti – a quanto pare già ridottisi, forse a 19 – si manifesta in modo eclatante tutto l’occidentocentrismo che ci affligge – tutti, eh, europei e statunitensi…
Già l’idea del piano, e la fretta con cui lo si vorrebbe concretizzare, nascono da un’esigenza pressoché esclusiva dell’occidente, ovvero impedire il tracollo dell’esercito ucraino sotto la spinta delle forze armate russe; insomma, trasformare l’imminente collasso dell’Ucraina, con conseguente capitolazione e conclamata sconfitta politico-militare di Kiev, UE, NATO e Stati Uniti, in una negoziazione che sfumi quanto più possibile l’immagine della vittoria russa.
La formulazione del piano originale, quello dei 28 punti, ancorché presentato addirittura come se fosse “scritto da Putin”, è in realtà sì un parziale passo verso le posizioni russe, ma comunque infarcito di elementi difficilmente accettabili per Mosca, ed in ogni caso dettato appunto dall’esigenza di renderlo quantomeno accettabile come base dii partenza, stante la fermezza russa su una serie di principi. Ma, ovviamente, osservandolo dalla prospettiva distorta dell’occidente ombelico del mondo, appare sin troppo favorevole alla Russia.
Il piano, comunque, viene in queste ore sottoposto ad una revisione insieme agli ucraini, che – per quanto sottoposti a ricatto – restano una parte ineludibile di qualsiasi accordo. E benché – almeno sinora – gli europei siano apparentemente esclusi dal tale processo, è chiaro che stanno esercitando le proprie pressioni attraverso gli ucraini stessi.
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Ucraina: il piano di pace, sabotatori all'opera
di Davide Malacaria
Le delegazioni di Kiev e Washington sono convenute a Ginevra per confrontarsi sul piano di pace Usa per l’Ucraina. Il Capo del Dipartimento di Stato Marco Rubio ha parlato di un incontro “molto significativo… probabilmente il migliore che abbiamo avuto finora“. Parole che sembrano confermate dal generale Keith Kellog, l’inviato Usa per l’Ucraina dimissionario, secondo il quale “siamo molto vicini a porre fine a questa guerra“. Insomma, sembra che si siano aperti spiragli, ma…
Ma – appunto – tanto ottimismo stride con il commento prudente di Trump, che suona insolito anche per la propensione del personaggio a brandire successi immaginari. Così, infatti, Trump su Truth social: “È davvero possibile che si stiano facendo grandi progressi nei colloqui di pace tra Russia e Ucraina??? Non crederci finché non lo vedi, ma potrebbe succedere qualcosa di buono”.
Prudenza alla quale ci atteniamo perché consapevoli della complessità del processo in corso. Difficoltà prevedibili sono nate in seno alla Ue, che finora ha parlato solo di guerra e, quando si è materializzato il piano Trump, si è affettata a predisporre un suo piano di pace, che intende confrontare con quello Usa per approntarvi delle modifiche.
Gli ingredienti del piano Ue sono sempre gli stessi: “Nessuna limitazione all’esercito ucraino, porte della NATO spalancate, invio di truppe straniere, sanzioni che si accendono e spengono come luci di Natale – e nemmeno un centimetro di territorio ceduto” alla Russia, come sintetizza Gerry Nolan sul Ron Paul Institute.
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Non c’è pace per la Ue
di Giuseppe Gagliano
Sembra una barzelletta, ma purtroppo è il riassunto dello stato dell’Unione Europea.
Ogni volta che americani e russi si mettono anche solo lontanamente a parlare di pace, da Bruxelles a Strasburgo fino all’ultimo editorialista embedded scatta lo stesso riflesso pavloviano: scandalo, tradimento, “umiliazione dell’Europa” e, ovviamente, “dell’Ucraina”.
Guai a trattare, guai a fermare la carneficina, guai a mettere in discussione il verbo atlantico: l’unica opzione ammessa è “la vittoria”, possibilmente totale, definitiva, cosmica.
Di chi e a quale prezzo non è dato sapere, ma non disturbiamo i manovratori con domande così volgari.
L’Unione Europea intanto, quella vera, non quella dei discorsi gonfiati di retorica, è ridotta a ciò che i suoi stessi leader fingono di non vedere: un cadavere politico che pretende di fare la morale a chiunque, ma che nessuno prende più sul serio.
Ventisette più uno, con l’Ucraina a mezzo servizio, che brontolano contro Washington e Mosca accusandole di “umiliarli”.
Per essere umiliati bisognerebbe prima esistere, politicamente; qui invece siamo al punto che se togli i comunicati stampa e le conferenze sulla “resilienza”, resta solo il vuoto.
Gli stessi campioni dei “valori europei” che per due anni hanno ripetuto come un disco rotto la formula magica della “sconfitta della Russia”.
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La resa dell'Ucraina, la disfatta dell'Europa
Una storia che viene da lontano
di Umberto Franchi
Come è noto con la proposta di Trump/Putin, basata su 28 punti in merito alla guerra tra Russia e Ucraina, costringe Zelensky a dare una risposta in tempi brevi, anche se continua ad appellarsi alla NATO/UE, con i Paesi UE che considerano la proposta solo una base di partenza, provando a chiedere alcune modifiche. Ma Zelensky sarà costretto comunque ad accettare la proposta che a mio parere vedrà poche modifiche, perché a Trump oggi interessa sciogliere i nodi della contesa imperialista, cercando una alleanza con Putin per tentare di emarginare la Cina.
Il Presidente USA che è notoriamente incoerente e inaffidabile, sembra però puntare a un nuovo equilibrio sul Piano geopolitico mondiale che tenga anche conto del fatto che la realtà sul campo di battaglia non da molto scampo all’Ucraina. L’Europa richiamata in causa con i “volonterosi”, ha però di fatto giocato tutte le sue carte fondate sulla deterrenza a sanzioni perdendole, e non può cambiare nella sostanza la bozza di accordo USA/RUSSIA ne tanto meno le sorti della guerra.
Ma perché siamo arrivati a questa situazione con centinaia di miglia di soldati e civili morti da ambo le parti, e alla fine vi sarà un accordo che poteva essere fatto in modo migliore per l’Ucraina all’inizio della guerra?
Come sappiamo la contesa parte da lontano
Il primo aprile del 1991 in una riunione a Praga venne formalmente sciolto il Patto di Varsavia, con l’impegno da parte degli USA/NATO a non far mai entrare i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia nella Nato.
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La pax russo-americana incombe su ucraini ed europei
di Gianandrea Gaiani
Mentre i russi eliminano le ultime sacche di resistenza ucraina “nell’imbuto” di Pokrovsk/Mirnograd, avanzano nelle regioni di Zaporizhia, Karkhiv e Dniepropetrovsk e soprattutto annunciano la completa conquista di Kupyansk (nel silenzio di Kiev e propagandisti euroatlantici che hanno taciuto finora anche la caduta di Pokrovsk), l’Amministrazione Trump ha messo a punto un piano in 28 punti per mettere fine alla guerra in Ucraina e impostare un accordo su vasta scala con la Russia.
Lo ha riportato il 19 novembre il giornale on line statunitense Axios, citando fonti americane e russe, secondo cui i 28 punti riguardano quattro temi: pace in Ucraina, garanzie di sicurezza, sicurezza in Europa e futuri rapporti degli Stati Uniti con Russia e Ucraina.
Questo l’elenco dettagliato dei punti dell’accordo presentato dagli Stati Uniti:
- La sovranità dell’Ucraina sarà confermata.
- Verrà concluso un accordo globale di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa. Tutte le ambiguità rimaste irrisolte negli ultimi 30 anni saranno considerate risolte.
- La Russia si impegna a non invadere i Paesi vicini e la NATO si impegna a non espandersi ulteriormente.
- Verrà varato un dialogo tra Russia e NATO, con la mediazione degli Stati Uniti, per risolvere tutte le questioni relative alla sicurezza e creare le condizioni per una de-escalation.
- L’Ucraina riceverà garanzie di sicurezza affidabili.
- Le forze armate ucraine saranno limitate a 600.000 uomini.
- . L’Ucraina accetta di sancire nella propria Costituzione la sua non adesione alla NATO e la NATO accetta di includere nel proprio statuto una disposizione che specifichi che l’Ucraina non sarà integrata in futuro nell’alleanza.
- La NATO accetta di non schierare truppe in Ucraina.
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Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato
Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana
di Laila Hassan
“La guerra di liberazione non è un’istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]
A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni.
Se c’è un atteggiamento che in questi anni mi ha particolarmente colpita è l’incapacità di alcuni ambienti in solidarietà con la Palestina di comprendere il significato della lotta palestinese. La rabbia palestinese non è un sentimento che il pubblico occidentale, in lacrime, commosso di fronte alle immagini dei corpi dilaniati palestinesi, può accettare. La rabbia del colonizzato è incomprensibile, fuori dalle regole dell’accettabilità, è animalesca per natura. Un sentimento che può generare mostri, e che ci ha attaccato addosso l’etichetta di incivile, barbaro, dannato. Non è la scoperta dell’acqua calda, né la pretesa di teorizzare qualcosa che è già stato scritto da militanti e intellettuali impegnati nelle più disparate tradizioni anticoloniali, ma l’atteggiamento paternalista, colonizzatore e razzista messo in campo da chi “ti vuole difendere” è ciò da cui dobbiamo stare alla larga.
Utilizzo quindi queste righe per diversi motivi: primo, su tutto, dare sfogo alla mia frustrazione, da palestinese, italiana, militante di un’organizzazione palestinese in Italia. In secondo luogo, per condividere con chi leggerà alcuni dei pensieri che hanno abitato i nostri corpi, spesso in tensione e arrabbiati, spesso incapaci di trovare nello sguardo del solidale un alleato di cui fidarsi.
Le lotte anticoloniali che hanno caratterizzato la metà del ‘900 – stesso periodo in cui si ufficializzava l’istituzione coloniale in Palestina, hanno attraversato diverse fasi, tradizioni, pratiche, riflessioni politiche, momenti in cui le scelte dei colonizzati hanno assunto forme e modalità adatte alle contingenze. Allo stesso modo, pensare che i palestinesi abbiano prediletto una forma di resistenza all’altra vuol dire non essere in grado di leggere la situazione coloniale, né di entrare in connessione con la prassi anticoloniale.
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Né pace né giustizia per la Terrasanta
di Gaetano Colonna
Quanto avvenuto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 17 novembre 2025, con l’approvazione della Risoluzione n. 2803, è un evento rivelatore dell’acquiescenza della comunità internazionale al predominio della forza delle armi in Terrasanta. Risulta oramai evidente che non vi è più spazio per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, e che la violazione del diritto internazionale non trova sanzione nemmeno presso l’ONU: non una riga viene infatti dedicata in questa risoluzione alle molteplici, reiterate, permanenti violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato di Israele nella Striscia di Gaza (e non solo).
Oltre a Stati Uniti, Regno Unito, Francia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Algeria, Danimarca, Grecia, Guyana, Sud Corea, Pakistan, Panama, Sierra Leone, Slovenia, Somalia, membri non permanenti, hanno votato a favore della risoluzione.
Si sono astenuti gli altri due membri permanenti, Cina e Russia. Una decisione questa di notevole gravità, che sembra costituire il prezzo per ottenere vantaggi in altri scottanti contesti: la soluzione del conflitto in Ucraina per la Russia; un ammorbidimento delle posizioni statunitensi nel conflitto commerciale con la Cina Popolare.
Opportunismo russo
Da questo punto di vista, le preoccupazioni esternate dall’ambasciatore russo all’ONU, Vassily Nebenzia, tolgono ben poco al fatto che la Russia ha compiuto una scelta dettata da una ristretta Realpolitik, rinunciando di fatte a proprie autonome posizioni in Medio Oriente, evidentemente per concentrarsi sull’Ucraina: ulteriore conferma dopo l’abbandono di Bashir Assad in Siria.
A poco serve quindi che Nebenzia dichiari: «La cosa principale è che questo documento non dovrebbe diventare una foglia di fico per gli esperimenti sfrenati condotti dagli Stati Uniti in Israele, nei territori palestinesi occupati». La Russia sa benissimo che invece proprio di una foglia di fico si tratta.
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Ucraina, finale di partita
di Fabrizio Casari
La guerra in Ucraina potrebbe veder avvicinarsi il suo epilogo, dato che il piano proposto dalla Casa Bianca accoglie le richieste russe avanzate dal 2014. Pur tenendo conto delle giravolte possibili di Trump e delle isterie europee, non pare vi siano all’orizzonte alternative di sostanza. A meno di non voler considerare che la presa del Donbass e la presenza russa per centinaia di chilometri in profondità e duemila in larghezza lungo tutta la frontiera possa essere ulteriormente incrementata. Magari fino a prendere anche Odessa e a chiudere lo sbocco al mare per l’Ucraina. Quel che è certo è che se non verrà accettato, anche emendato in alcune parti ma alla fine accettato, gli USA non metteranno altre risorse e probabilmente ritireranno quelle già in dotazione. Zelensky, al minimo storico del gradimento nel suo Paese (22%) si è esibito in un discorso demagogico da attore consumato, ma si prepara alla resa perché non ha più il più importante alleato, ha perduto molta parte del sostegno politico interno, non ha più denaro da mungere e non ha più soldati con cui combattere.
Il piano parte dalla presa d’atto della situazione militare sul terreno. I russi avanzano ed hanno già superato le linee di difesa con una tattica più da guerriglia che da manovra classica di fanteria; gli ucraini indietreggiano, fuggono o disertano e persino i suoi battaglioni d’élite come il 37° o l’Azov sono completamente circondati.
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“Framing Gaza”: lo studio che smaschera la parzialità dei media occidentali
di Enrica Perrucchetti*
Le principali testate di otto Paesi occidentali hanno sistematicamente privilegiato la narrazione israeliana e marginalizzato le prospettive palestinesi nella copertura del genocidio di Gaza, omettendo le loro rivendicazioni storiche e il contesto dell’occupazione.
È quanto rivela il rapporto di Media Bias Meter, Framing Gaza: A Comparative Analysis of Media Bias in Eight Western Outlets, che ha analizzato 54.449 articoli pubblicati in cento settimane, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025, dallo statunitense The New York Times, dalla britannica BBC, dal canadese The Globe and Mail, dal francese Le Monde, dal tedesco Der Spiegel, dal belga La Libre Belgique, dall’italiano Corriere della Sera e dall’olandese De Telegraaf.
Dalla ricerca emerge uno schema coerente: una distorsione strutturale del racconto a favore del frame israeliano. Il risultato è un’informazione che, pur proclamandosi equilibrata, finisce per legittimare la violenza di Stato come «autodifesa», normalizzare l’occupazione e relegare le vittime palestinesi a un ruolo secondario, deumanizzandole e filtrandole attraverso «la lente del terrorismo».
Il pregiudizio che unisce i media occidentali
Lo studio mostra come, al di là delle linee ideologiche, l’architettura comunicativa risponda allo stesso schema: Israele al centro del discorso, la Palestina confinata a nota a margine o a cornice funzionale.
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UE, USA, Israele, suicidio assistito?
di Fulvio Grimaldi
Fulvio Grimaldi in “Spunti di riflessione” di Paolo Arigotti
Due scoop. Uno grosso, di grande portata. L’altro piccolo piccolo, ma personale.
Pur essendo considerato come un successo della professione a cui tutti dovremmo ambire, lo scoop, che pure ha appassionati cultori, non mi ha mai detto molto. Lo vedo, mi stupisco, lo ammiro, poi finisce a morire lì. Perché penso che più dello scoop, che, come i dadaisti, ha la funzione di epater le bourgeois, stupire il borghese, vale la ricerca e illuminazione dei retroscena.
Fatta questa rivelazione dottrinale, rinnego tutto, come fossi una Meloni qualsiasi, e procedo agli scoop. Il primo, grosso, non è mio, ma del più rispettato e corretto dei quotidiani israeliani, per queste sue qualità spesso bastonato dal regime degli ultrà sionisti (dargli dei nazi sta diventando un eufemismo).
Del resto, agli scoop di Haaretz siamo abituati, anche se sembra esserci un’intesa politico-mediatica internazionale per ridurli al silenzio. Ricordo quello relativo al 7 ottobre di Hamas, seppellito sotto l’omertà della sopra nominata combine politico-mediatica. Si tratta dell’inchiesta del giornale che aveva smascherato le bugie circa le “atrocità” dei terroristi di Hamas con “decapitazioni e infornate di neonati, stupri di gruppo, uccisioni di massa, culminate con 1.200 vittime”.
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Ucraina: lotta alla corruzione o campagna di pressione contro Zelensky?
di Roberto Iannuzzi
L’attuale operazione anticorruzione sembra finalizzata a ridurre Zelensky all’obbedienza, inducendolo ad abbassare l’età di reclutamento sotto i 25 anni. Obiettivo: prolungare la guerra
L’Operazione Mida lanciata dalle agenzie anti-corruzione NABU e SAPO ha sollevato un polverone in Ucraina.
Essa ha fatto emergere un sistema di tangenti e riciclaggio di denaro del valore di 100 milioni di dollari che coinvolge la compagnia di stato Energoatom, vedendo implicati importanti ministri e Timur Myndich, amico di vecchia data ed ex socio d’affari del presidente Volodymyr Zelensky.
E la partita potrebbe essere appena cominciata. Nuove rivelazioni esplosive legate agli appalti della difesa potrebbero seguire nelle prossime settimane, stando alle dichiarazioni rilasciate dal direttore del NABU Semen Krivonos.
Ma la vera questione sollevata da quello che è solo l’ultimo scandalo in ordine di tempo non è la corruzione dilagante (problematica ben nota sia nel paese che presso le cancellerie occidentali), quanto piuttosto se l’Ucraina si stia avvicinando a un punto di non ritorno dopo aver condotto per più di tre anni una guerra che è al di sopra delle sue possibilità.
L’Operazione Mida che sta facendo tremare i vertici del potere ucraino si somma alle crescenti difficoltà militari sul fronte, e a una crisi finanziaria resa ancor più seria dalla manifesta incapacità europea di sostenere economicamente l’Ucraina dopo il passo indietro degli Stati Uniti.
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La campana sta suonando per noi, e da un pezzo
di Luciano Curreri
Un sottile rumore di fondo nell’ottantesimo anniversario della pace mondiale (sic): il caso della guerra in Iraq e La scatola del signor Hulford (2015) di Giorgio Taschini
I.
La guerra in Iraq del 2003-2011 non è stata, almeno nella durata e nella deriva, una seconda guerra del Golfo. La prima (1990-1991), del resto, me la ricordo bene, anche perché all’epoca, da giovane e ultima ruota del carro, scrivevo brevi per il radiogiornale di Radio Torino Popolare (1982-2009).1 Ai nostri giorni, per comodità di narrazione, tendiamo ancora a unirle, ma faremo bene a darci un taglio a questo “arrangiamento da manuale”. E non soltanto per l’11 settembre 2001 e la lunga risposta, la vendetta USA, l’invasione americana dell’Afghanistan (2001-2021) e le leggi antiterroristiche che colpiranno soprattutto un’altra etnia: un’etnia che noi abbiamo fatto fatica a pensare e a rispettare come tale, insieme alla sua identità e religione, alla sua storia e geografia, autoattribuendoci un diritto d’istruzione morale e principiando così, a inizio del nuovo secolo e millennio, a dare ancora una volta un bel bacio dell’addio a libertà civili e diritti dell’uomo, grazie pure a quella acquosa e sanguinante “ciliegina sulla torta” che è stata (e forse è) Guantánamo.2
La cito non a caso, Guantánamo, perché a tutte e tutti verranno in mente le foto e i filmini delle torture brutali e volgari, di natura anche sessuale, evocate ormai come «enhanced interrogation techniques» (in italiano tradotte come «tecniche di interrogatorio potenziato» o come «tecniche di interrogatorio rinforzate»)3 e di cui si resero responsabili uomini e donne sorridenti, “in posa”, dell’esercito americano (da Guantánamo ad Abu Ghraib, cioè allo «scandalo di Abu Ghraib»).
In effetti, una delle scoperte più clamorose e inquietanti seguite da Giorgio Taschini (1968) in La scatola del signor Hulford (2015), proprio relativamente alla guerra in Iraq del 2003-2011, è relativa alla piattaforma americana «Fucked up», che regalava porno ai militari americani in cambio di foto o video di immagini di guerra, di morti ammazzati ai check point: uno spasmodico e tristissimo scambio di carne, che è l’orrore estremo e quotidiano immaginato e raccontato, conseguenze comprese, da un romanzo che non fa sconti ma che non usa il sesso come espediente per vendere di più o vendere (e vendersi) tout court, magari seguendo quegli stilizzati canovacci in cui figura il numero giusto di scene di morte e di sesso, specie quello caratterizzato da violenza, da stupri e da scambi simbolici di natura patologica e funerea.
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Usare l’Olocausto per negare il genocidio: l’arretrato cazzeggio italico versus il rigore di Omer Bartov
di Girolamo De Michele*
Quando Omer Bartov ha pubblicato il suo intervento sul New York Times del 27 luglio scorso «I’m a Genocide Scholar. I Know It When I See It» [Sono uno studioso di genocidio: lo riconosco quando lo vedo], nel quale dichiara senza mezzi termini che «Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese», avevo da poco consegnato il manoscritto del mio libro Il profeta insistente. Raphael Lemkin, l’uomo che inventò la parola genocidio.
Più o meno in quei giorni hanno pronunciato la parola «genocidio» anche il narratore israeliano David Grossman e la storica Anna Foa, che peraltro aveva già detto, nel novembre 2024: «La parola “genocidio” è forte. Ed è un bene che [papa Francesco] l’abbia pronunciata, che esca dai tribunali e che sia possibile discuterne».
La presa di parola di uno storico del calibro di Bartov, al termine di un percorso umano e intellettuale soggettivamente drammatico, non poteva essere ridotta a una nota in calce al testo, come si fa con le aggiunte all’ultimo minuto prima che il libro vada in stampa. Ma non può non essere oggetto di riflessione. Riflettere è quel che provo a fare qui, in una sorta di spin off del libro.
Ci sono, oltre alla rilevanza di Bartov nel campo dei Genocide Studies, altre ragioni che mi hanno spinto a scrivere queste righe.
La prima è che non ha avuto la risonanza che avrebbe meritato: e questo perché i Genocide Studies sono un campo di ricerca quasi ignoto in Italia.
La seconda è il tono di alcuni commenti sulle pagine social di Internazionale, che ha tradotto il testo di Bartov e lo ha messo in rete in chiaro, e su Lucy sulla cultura, che ha pubblicato un’intervista allo storico.
La terza è l’ansia con cui si rincorrono figure intellettuali di rilievo per avere la parola «genocidio», ignorando quanto pesino altre espressioni come «crimini contro l’umanità» o «crimini di guerra», sottostimando quanto sia stato importante, ad esempio, avere il sostegno di una storica come Anna Foa alla lotta contro lo sterminio genocida del popolo palestinese anche quando la parola «genocidio» non l’aveva pronunciata – o sottolineando il ritardo con cui viene pronunciata; uno storico amico, in uno scambio di messaggi su questo, ha usato la parola «puntacazzismo».
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