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Ucraina, l’agonia del regime
di Fabrizio Casari
Marzo 2021. In un controllo casuale spuntano duecento chili di banconote. Due quintali di bigliettoni fascettati, mica due buste della spesa. C’erano dentro 28,8 milioni di dollari e 1,3 milioni di euro. Destinazione Ungheria, viaggio di sola andata. Era solo l’antipasto, la portata principale doveva ancora arrivare. Erano passate solo 4 settimane dall’inizio dell’operazione Militare Speciale russa in Ucraina e già la tribù di Zelensky cominciava a mettere al sicuro parte dei finanziamenti europei e statunitensi stanziati per far sì che gli ucraini, carne da cannone per l’ennesima tappa di ampliamento verso Est della NATO, obbligassero la Russia ad una guerra lunga, costosa, difficile da vincere.
L’inchiesta di oggi, quasi 4 anni dopo, è ancor più devastante. C’è un suo uomo chiave: Timur Mindich, ideatore dello schema di tangenti, del valore di 86 milioni di euro, con il pagamento del 10-15% su ogni contratto energetico. Nella sua casa sono stati scoperti water e bidet d’oro massiccio, credenze di cucina straripanti di sacchetti di banconote da 200 euro.
Mindich è intimo amico di Vladimir Zelensky. Amico di assoluta fiducia, tanto che è comproprietario tuttora della casa di produzione Kvartal 95, che fino al 2019, quando l’allora comico Zelensky vinse le elezioni, ne produceva gli show. Soprattutto, è stato Mindich a presentare a Zelensky il miliardario Kolomoyskyi, principale finanziatore della sua campagna elettorale nel 2019.
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I miliardari non dovrebbero esistere? Giusto. Ma tassarli non basta
di Alessio Mannino
Tassare di più gli ultraricchi (non genericamente i ricchi, né tanto meno i benestanti) è perfettamente giusto. Ma politicamente molto difficile. E inutile, se non si accompagni a un blocco della circolazione dei capitali all’estero. Proposte per un prelievo mirato sui milionari affermano quindi un sacrosanto valore di principio, almeno in un’ottica anti-liberista di redistribuzione delle ricchezze. E possono di conseguenza rappresentare armi di contrasto all’immagine di mondo oggi, purtroppo, comune e vincente: quella per cui le immani concentrazioni di potere economico in alto, sono accettate e anzi ammirate da chi sta in basso. In quanto i loro titolari, secondo quell’inganno di pura marca ideologica che va sotto il nome di “meritocrazia”, se le sarebbero meritate. Tuttavia, la sola forza di una petizione simbolica non basta, per porre i termini della questione su basi di realtà. Se si voglia, cioè, fare un discorso compiutamente politico. Ossia credibile.
Lasciamo perdere le pur condivisibili intemerate del neo-sindaco newyorkese Zohran Mamdani (“i miliardari non dovrebbero esistere”) e restiamo in Italia, dove la Cgil ha rilanciato un’idea che ogni tanto riciccia fuori a sinistra: la patrimoniale. Maurizio Landini propone un’aliquota dell’1,3% sui patrimoni superiori a 2 milioni di euro. Secondo un’analisi di quest’anno di uno dei primi studi di consulenza al mondo, il Boston Consulting Group (“Global Wealth Report 2025: Rethinking the Rules for Growth”), nel nostro Paese la platea di chi possiede almeno un milione di dollari in ricchezza finanziaria è costituita da 517 mila persone. Poco più dell’1% dei quasi 43 milioni di italiani contribuenti.
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Gaza. La Russia batte un colpo. All’ONU un piano alternativo a quello di Trump
di Redazione
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite lunedì doveva votare su una bozza di risoluzione presentata dagli Stati Uniti per approvare il piano di Trump per Gaza. Il testo prevede in particolare un mandato fino alla fine di dicembre 2027 per un “comitato per la pace” che dovrebbe essere presieduto dal presidente degli Stati Uniti e da Toni Blair e autorizza l’invio di una “forza internazionale di stabilizzazione”.
Ma il sito statunitense Axios fa sapere che la Russia ha di fatto già respinto la bozza di risoluzione degli Stati Uniti su Gaza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Non solo. Mosca ha infatti presentato una sua contro-bozza di risoluzione.
Nella bozza russa pubblicata sempre da Axios, si chiede che sia il segretario generale delle Nazioni Unite “a individuare opzioni per l’attuazione” del Piano firmato a Sharm el Sheik. E gli chiede di presentare rapidamente al Consiglio di Sicurezza un rapporto generale che contenga anche “opzioni sul dispiegamento di una Forza internazionale di stabilizzazione a Gaza”, una accezione diversa rispetto al testo statunitense che conteneva tra l’altro i dettagli della forza militare internazionale da dispiegare nella Striscia di Gaza.
Nei giorni scorsi, gli statunitensi avevano fatto circolare informalmente una bozza, sostenendo di avere il supporto dei Paesi della regione per l’autorizzazione a una forza di stabilizzazione e a un consiglio transitorio per la governance di Gaza per due anni.
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Ci sono gli Emirati dietro gli eccidi e la pulizia etnica in Sudan
di Marco Santopadre
Mentre proseguono i combattimenti tra l’esercito e le cosiddette “Forze di Supporto rapido” (RSF) e altre milizie in diverse zone del paese, le notizie che provengono dal Sudan sono sempre più terribili.
Un’organizzazione medica locale ha accusato le milizie di aver portato avanti un “tentativo disperato” di nascondere le prove delle uccisioni di massa nel Darfur bruciando i corpi delle vittime o seppellendoli in fosse comuni.
La “Sudan Doctors Network” ha dichiarato che i paramilitari stanno raccogliendo “centinaia di corpi” dalle strade di el-Fasher, la città della regione occidentale del Darfur conquistata dalle RSF il 26 ottobre. «Ciò che è accaduto a el-Fasher non è un episodio isolato, ma un altro capitolo di un vero e proprio genocidio perpetrato dalle Forze di Supporto Rapido» scrive l’associazione.
Si ritiene che molti residenti siano ancora intrappolati in alcune zone della città. Altre persone in fuga da el-Fasher verso il nord sarebbero morte, secondo Al Jazeera, «perché non avevano cibo né acqua, o perché avevano riportato ferite a causa degli spari».
Molti civili fuggiti da el-Fasher hanno raccontato agli operatori di “Medici senza frontiere” di essere stati «presi di mira a causa del colore della loro pelle» dai miliziani appartenenti per lo più alle componenti arabe o arabizzate della società sudanese.
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Il "Grande Gioco" del Medio Oriente
di Enrico Tomaselli
L’operazione Al Aqsa Flood del 7 ottobre 2023 è indiscutibilmente un evento che ha cambiato completamente il quadro geopolitico mediorientale, ed i suoi effetti sono destinati a protrarsi ancora a lungo. Ovviamente, il primo e più evidente è stato lo stop al processo di stabilizzazione-integrazione, avviato da Trump durante il suo primo mandato, e che va sotto il nome di Accordi di Abramo. Riaccendendo violentemente i riflettori sulla questione palestinese, ha messo in luce come sia semplicemente impossibile immaginare un disegno strategico per la regione senza affrontare questo nodo.
In ogni caso, sia durante la fase finale della presidenza Biden, che durante il primo anno del secondo mandato di Trump, la strategia statunitense è stata sostanzialmente basata sulla delega completa a Israele, affinché risolvesse militarmente la questione; Netanyahu, oltretutto, assicurava di poterlo fare in modo pressoché definitivo. Ma due anni di guerre su sette fronti diversi hanno dimostrato non solo che la sicumera del leader israeliano era del tutto infondata, ma che al contrario lo sforzo bellico di Tel Aviv è valso sostanzialmente a far crescere a dismisura la dipendenza dello stato ebraico da Washington. Esattamente come è stato per l’Ucraina di Zelensky, a un certo punto è apparso chiaro che il proconsole statunitense nella regione non era più in grado di svolgere il ruolo di proxy militare, e che persino sotto il profilo politico stava determinando più danni di quanto fosse possibile immaginare. E non solo sul piano internazionale, ma anche nel cuore elettorale dell’impero.
Ciò ha reso necessario che fosse Washington a riassumere le redini del gioco. Ovviamente per gli Stati Uniti non è possibile sganciarsi dal conflitto mediorientale così come stanno facendo con quello ucraino. Intanto, perché la potente lobby sionista negli states non lo permetterebbe. E poi perché non c’è un equivalente dei paesi europei per ricoprire un ruolo di supplenza. Da tempo, sicuramente da quando Netanyahu ha iniziato la sua ormai ventennale carriera politica, il rapporto tra Tel Aviv e Washington è progressivamente mutato, sino al punto che oggi Israele è diventato un vero e proprio simbionte.
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Il decennio della controrivoluzione
di Paolo Virno
Per ricordare Paolo Virno pubblichiamo un testo tratto da Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, edito da MachinaLibro nel 2024.
Il contributo riprende e rielabora la discussione tenutasi il 10 giugno 2023 al Festival 6 di DeriveApprodi, in occasione dell’uscita della nuova edizione de Sentimenti dell’aldiqua — libro cardine per comprendere e analizzare gli anni Ottanta.
In quell’occasione Paolo Virno, insieme a Marco Mazzeo e Adriano Bertollini, ha riflettuto sul significato e sull’attualità di quell’analisi.
La fotografia che accompagna l’articolo è stata scattata proprio in quel giorno.
* * * *
Il libro fu ed è ancora una meditazione sul mutamento delle forme di vita dopo la sconfitta politica, e più ancora sociale, dei movimenti rivoluzionari. Quali sono le tonalità, i ritmi delle nostre giornate allorché si è eclissata anche solo la possibilità di un mutamento radicale del modo di produzione capitalistico? Perché analizzare i giorni della controrivoluzione partendo dalle emozioni e dai sentimenti? Perché in queste tonalità emotive si manifestava una relazione con il mondo e con i propri simili in maniera più vivida che in qualche balbettio politico. Vi era un grano di verità in quei sentimenti, come se fosse un trattato sull’epoca, riguardo alla nostra relazione con la vita e la sua finitezza, i potenti e gli impotenti, il trionfo del nuovo capitalismo – del capitalismo linguistico. Non si trattava di una via umile e rassegnata di affrontare il proprio tempo, al contrario, vi era una smodata ambizione: vediamo qual è la relazione qui e oggi con il proprio stare al mondo e vediamolo attraverso la situazione emotiva prevalente, che non è un orpello di cose più solide e serie, come procacciarsi il reddito, ma qualcosa che sta alla base e che si dipana all’interno dei modi di procurarsi il reddito.
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Turn up the… History. Riorientare il desiderio e l’azione
di Silvano Poli
G. W. F. Hegel affermava che la lettura del giornale è la pregheria dell’uomo moderno. Inevitabile come il segno della croce per ogni buon cristiano, molti di noi l’altro ieri hanno aperto gli occhi e scrollato le notizie sul loro calamitico smartphone. A colonizzare il “feed” (quella che una volta era la home) c’era la vittoria di R. Mamdani a nuovo sindaco della Grande Mela. L’entusiasmo, o l’astio sono palpabili, gli appellativi arcinoti e ripetuti fino allo sfinimento: Mamdani è di colore, musulmano e pure socialista.
Il trionfo newyorkese è solo la ciliegina sulla torta di una serata che per i Dem è puro ossigeno. Nella stessa notte, infatti, il partito blu si è portato a casa i Governatori di New Jersey e di Virginia, affiancando anche la maggioranza nel Parlamento federato dello stato “Madre dei Presidenti”. Decisivi sono state anche la vittoria della “Proposition 50” per la ridefinizione dei collegi dei rappresentanti alla Camera – classica storia di Gerrymandering e opposizione al Texas rosso – fortemente voluta dal partito Dem Nazionale e osteggiata ferocemente da Trump; così come la riconferma di tre giudici nella corte federale della Pennsylvania. In breve, dopo mesi di stato comatoso, questo è forse il primo colpo di reni da parte di un partito che sembrava aver assorbito tutta l’inettitudine di Biden e l’ignavia di Harris – che con Mamdani è riuscita a non prendere ancora una volta una posizione strategicamente intelligente. È, di certo, una vittoria degli outsider, di quelle frange ostracizzate dal partito principale: dimostrazione di come il core del partito sia ancora dominato da un’avversione antipopolare che non ha nulla da invidiare ai neocons, ai tecno oligarchi e ai Trump Boyz. E, tuttavia, è indubbio che dopo mesi, se non anni di notizie pessime, una buona notizia non possa non avere l’effetto di galvanizzare l’ambiente e tutti i movimenti.
È certo che Mamdani rappresenti uno dei migliori risultati auspicabili negli USA e che l’egemonia del gigante d’oltreoceano ci porti a fare nostre le sue vicissitudini, a renderci tristi per le sconfitte dei (presunti) “compagni” a stelle e strisce ed entusiasti per le loro vittorie.
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Gaza: l'ingegneria della fame
di Davide Malacaria
Dopo l’entrata in vigore della tregua, 10 ottobre, Israele ha violato il cessate il fuoco almeno “282 volte”, uccidendo 242 persone e ferendone altre 622. Né si arrestano le violenze in Cisgiordania, dove gli squadristi israeliani attaccano impunemente i civili che cercano di raccogliere le olive. Ieri, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno rotto il silenzio sulle violenze dei coloni: il Capo del Dipartimento di Stato Marco Rubio ha dichiarato che potrebbero mettere in discussione il cessate il fuoco.
Una querula, quanto tragicamente tardiva, protesta pigolata, che in Israele è stata accolta con l’ovvia indifferenza del caso, come altrettanta indifferenza gli States dimostrano per le violazioni della tregua a Gaza, sulle quali non hanno finora detto nulla.
A Tel Aviv tutto è permesso purché il cosiddetto cessate il fuoco non sia messo in discussione seriamente, ne va dell’immagine di Trump e dei rapporti tra Stati Uniti e Paesi arabi.
E, a quanto pare, i diuturni bombardamenti su Gaza e le incursioni in Cisgiordania non hanno raggiunto questo livello critico. Ciò solo e soltanto perché Hamas, nonostante tutto, continua a ottemperare agli accordi senza reagire, che è quello che vorrebbe Tel Aviv per riprendere le ostilità in grande stile, come chiedono i messianici al governo e come vorrebbe Netanyahu, che morde il freno.
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La manovra di Trump all'ONU è imperialismo americano mascherato da processo di pace
di Jeffrey Sachs e Sybil Fares - commondreams.org
La Palestina continua a essere l’eterna vittima delle manovre di Stati Uniti e di Israele. Le conseguenze sono devastanti non solo per la Palestina, che ha subito un vero e proprio genocidio, ma anche per il mondo arabo e oltre
Questa settimana, l’amministrazione Trump sta promuovendo una risoluzione elaborata da Israele presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) volta a eliminare la possibilità di uno Stato di Palestina. La risoluzione ha tre obiettivi. Stabilisce il controllo politico degli Stati Uniti su Gaza. Separa Gaza dal resto della Palestina. E consente agli Stati Uniti, e quindi a Israele, di determinare la tempistica del presunto ritiro di Israele da Gaza, il che vuol dire: mai.
Questo è imperialismo mascherato da processo di pace. Di per sé non sorprende. Israele dirige la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ciò che sorprende è che Stati Uniti e Israele potrebbero farla franca con questa farsa, a meno che il mondo non si esprima con urgenza e indignazione.
La bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite istituirebbe un Consiglio di Pace dominato da Stati Uniti e Regno Unito, presieduto nientemeno che dallo stesso Donald Trump e dotato di ampi poteri sulla governance, i confini, la ricostruzione e la sicurezza di Gaza. Questa risoluzione metterebbe da parte lo Stato di Palestina e subordinerebbe qualsiasi trasferimento di autorità ai palestinesi alla benevolenza del Consiglio di Pace.
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Finanziaria 2026: quanto ci costa
di E. Gentili, F. Giusti, S. Macera
È uscita la Relazione Tecnica della Ragioneria dello Stato: un testo che conferma l’orientamento liberista della Legge di Bilancio 2026. Leggendolo risulta evidente la continuità con le Finanziarie degli anni precedenti, segnate da un sostanziale equilibrio tra la riduzione dei costi e l’utilizzo della leva fiscale per evitare leggi patrimoniali e progressività delle imposte.
Ancora una volta, risorse sempre maggiori andranno alle imprese, specie sotto forma di sgravi contributivi e fiscali, mentre il welfare state viene rifinanziato soprattutto nei suoi profili meno strutturali, ossia meno legati alla concreta soluzione dei problemi (i famosi “bonus”). Assai grave è l’assenza di spesa per l’attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, che dovrebbero fungere da argine, sia pur parziale, a quel divario interregionale dei servizi che vede le isole e le aree meridionali in forte sofferenza per istruzione, assistenza agli anziani, asili nido e servizi sociosanitari.
Per non dire della miopia di fondo rispetto ai reali bisogni del welfare d’una popolazione sempre più anziana e per questo bisognosa di sostegno (e quindi di maggiori risorse). Tale dato fa tutt’uno con la proverbiale incapacità italica di attuare politiche rivolte ai giovani e atte a contrastare il calo delle nascite.
- Costi in tema di fisco: Volendo individuare un elemento qualificante della Manovra, si può indicare la revisione dell’aliquota Irpef, che passerà dal 35% al 33% per il reddito compreso tra una cifra superiore ai 28.000 € e fino a 50.000 €.
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Eurosuicidio: come l’Unione Europea si è condannata con le proprie mani
di Gabriele Guzzi
L’economista Gabriele Guzzi spiega perché l’Europa paga il prezzo di scelte che hanno anteposto i mercati a tutto il resto
Nel suo ultimo libro, Eurosuicidio, Gabriele Guzzi analizza le radici strutturali della crisi europea. L’Ue, nata per unire il continente, ha posto i mercati e la moneta al centro del progetto politico, sacrificando sovranità democratica e giustizia sociale. Il risultato, sostiene l’autore nell’introduzione al libro che Krisis pubblica qui di seguito, è un’Europa priva di direzione, schiacciata da vincoli economici che ne minano la stessa esistenza.
Origini della crisi La tesi dell’economista è che le difficoltà dell’Ue non sono fortuite, ma sono l’esito logico e coerente di scelte strutturali compiute fin dalle sue origini. In sintesi, la causa della crisi è l’Ue stessa e la sua struttura istituzionale.
Euro come Eurosuicidio La frontiera più avanzata dell’integrazione è l’euro, definito da Gabriele Guzzi l’atto fondativo dell’Eurosuicidio. Mettere insieme Paesi differenti in un’unione monetaria senza un’unione politica ha creato i presupposti per l’auto-annichilimento.
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Gli USA sono una repubblica delle banane
di Chris Hedges* - Scheerpost
Il Presidente Trump è un esempio perfetto di tutti i despoti latinoamericani da quattro soldi che terrorizzano la popolazione, si circondano di adulatori, scagnozzi e delinquenti e si arricchiscono (Trump e la sua famiglia hanno accumulato più di 1,8 miliardi di dollari in contanti e regali sfruttando la presidenza), erigendo al contempo monumenti di cattivo gusto a se stessi.
"Trujillo in Terra, Dio in Cielo" — Trujillo en la tierra, Dios en el cielo — fu affisso per ordine dello Stato nelle chiese durante i 31 anni di regno di Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica Dominicana. I suoi sostenitori, come quelli di Trump, lo candidarono al Premio Nobel per la Pace. La pastoressa truffatrice di Trump, Paula White-Cain, offrì una versione aggiornata dell'autodeificazione di Trujillo quando avvertì: "Dire di no al presidente Trump sarebbe come dire di no a Dio".
Trump è la versione gringo di Anastasio "Tachito" Somoza in Nicaragua o di François "Papa Doc" Duvalier ad Haiti, che modificò la costituzione per farsi nominare "Presidente a vita". Una delle immagini più celebri del lungo regno del dittatore haitiano mostra Gesù Cristo con una mano sulla spalla di un Papa Doc seduto, con la didascalia: "L'ho scelto io".
I criminali dell'ICE sono l'incubo dei temuti Tonton Macoute, la polizia segreta di Papa Doc composta da 15.000 uomini, che ha detenuto, picchiato, torturato, incarcerato o ucciso indiscriminatamente tra i 30.000 e i 60.000 oppositori di Duvalier e che, insieme alla Guardia presidenziale, ha consumato metà del bilancio dello Stato.
Il Presidente Trump è il venezuelano Juan Vicente Gómez , che ha saccheggiato la nazione per diventare l’uomo più ricco del Paese e ha disdegnato l’istruzione pubblica per – nelle parole della studiosa Paloma Griffero Pedemonte – “mantenere il popolo ignorante e docile”.
El Presidente – in ogni dittatura – segue lo stesso copione. È un'opera buffa grottesca. Nessun elogio è troppo oltraggioso. Nessuna tangente è troppo piccola. Nessuna violazione delle libertà civili è troppo estrema. Nessuna stupidità è troppo assurda. Ogni dissenso, per quanto tiepido, è tradimento.
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Rompere la pace dentro territori, fabbrica e università della guerra
di kamo
Prima di presentare il testo, una piccola introduzione di riepilogo delle “puntate passate”, per meglio inquadrare il senso dell’iniziativa «Guerra alla guerra» dell’11 ottobre scorso con la redazione di Infoaut e i compagni di Askatasuna Torino. Va premesso infatti che come Kamo non abbiamo pensato questo incontro soltanto in rapporto alle ultime settimane e mesi di mobilitazione per la Palestina e contro la guerra – tempi intensi e convulsi di “aria frizzante”, che hanno visto anche Modena scendere in piazza in massa per la Palestina e in solidarietà con la Global Sumud Flotilla, per fermare il genocidio e “bloccare tutto”, a partire da quella che chiamiamo la «fabbrica della guerra», cioè quell’intreccio di territorio, industria e sapere in ristrutturazione in funzione del riarmo e della guerra, che pone Modena tra i centri dello sviluppo capitalista in trasformazione bellica.
L’incontro lo abbiamo voluto collocare soprattutto come il punto di condensazione dei precedenti cicli di discussione che abbiamo organizzato negli anni passati, in particolare «Militanti» (2023) e «La fabbrica della guerra» (2024-2025). Ciò di cui ci interessa ragionare è infatti come si possa esprimere la militanza politica nella fase attuale, e le sfide che le ultime piazze ci chiamano a raccogliere: se nel ciclo «Militanti» abbiamo tentato di riallacciare e riscostruire, selezionandoli e facendoli nostri, i fili di una tradizione novecentesca di militanza comunista che va da Lenin al movimento di inizio terzo millennio, passando dall’Autonomia operaia degli anni Settanta e alla nascita dei centri sociali – sempre con l’obiettivo di approfondirne la portata teorica e storica e i loro limiti, di riappropriarci di strumenti e soprattutto di riattualizzare il punto di vista della rottura rivoluzionaria –, con «La fabbrica della guerra» invece abbiamo voluto esaminare i processi di radicale e accelerata riorganizzazione e trasformazione del capitalismo innescati dalla guerra, che ci coinvolgono direttamente sul territorio emiliano e modenese.
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Mao era un mostro?
di Carlos Martinez
Per celebrare il 130° anniversario della nascita di Mao Zedong, pubblichiamo di seguito un estratto dal capitolo "No Great Wall: on the continuitys of the Chinese Revolution" del libro di Carlos Martinez L'Oriente è ancora rosso – Il socialismo cinese nel XXI secolo , che valuta l'eredità politica di Mao e si concentra in particolare su alcuni degli episodi più controversi associati alla sua leadership.
L'estratto si propone di fornire un'analisi dettagliata ed equilibrata del Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, e di spiegare perché la maggior parte della popolazione cinese continua a venerare Mao e perché, come disse Deng Xiaoping , "il Partito comunista cinese e il popolo cinese lo considereranno sempre come un simbolo, un tesoro molto prezioso".
La ragione fondamentale è che, più di ogni altro individuo, Mao Zedong simboleggia ed è responsabile della liberazione della Cina e della costruzione del socialismo cinese. Carlos scrive:
Gli eccessi e gli errori associati agli ultimi anni di vita di Mao devono essere contestualizzati in questo quadro generale di progresso trasformativo senza precedenti per il popolo cinese. Il tasso di alfabetizzazione in Cina prima della rivoluzione era inferiore al 20%. Alla morte di Mao, era intorno al 93%. La popolazione cinese era rimasta stagnante tra i 400 e i 500 milioni per circa cento anni, fino al 1949. Alla morte di Mao, aveva raggiunto i 900 milioni. Crebbe una fiorente cultura letteraria, musicale, teatrale e artistica, accessibile alle masse popolari. La terra fu irrigata. La carestia divenne un ricordo del passato. Fu istituita l'assistenza sanitaria universale. La Cina – dopo un secolo di dominazione straniera – mantenne la propria sovranità e sviluppò i mezzi per difendersi dagli attacchi imperialisti.
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Abu Mazen a Roma, nel silenzio di tomba del movimento per la Palestina
di Il Pungolo Rosso
Nei giorni scorsi Abu Mazen è stato a Roma, a rapporto prima dal duo Mattarella-Meloni, poi dal neo-crociato amerikano Leone XIV.
Cosa sia venuto a fare non è un mistero per nessuno: è venuto ad assicurare l’Italia (lo stato, le banche e le imprese italiane) che la sua “Autorità nazionale” si muoverà integralmente e fedelmente all’interno del piano neo-coloniale e schiavista di Trump, ma senza dimenticare gli “amici italiani” negli eventuali affari della ricostruzione di Gaza. E lo farà in totale contrapposizione alla resistenza palestinese (Hamas), costringendo questa alla resa e alla consegna delle armi.
Come premio per questo giuramento di fedeltà all’imperialismo occidentale tutto, Italia compresa, è venuto a mendicare il riconoscimento da parte di Roma di quello stato di Palestina accanto all’intoccabile stato di Israele che l’entità sionista ha reso materialmente del tutto impossibile, ormai, da decenni.
E’ poi passato dal papa neo-crociato a garantirgli il suo impegno, in chiave anti-islamica, “in favore della presenza cristiana in Palestina”.
Insomma, Abu Mazen è venuto a Roma a fare l’Abu Mazen, quello – tanto per dire – che da 16 anni ha il mandato scaduto, ma si rifiuta di indire elezioni che perderebbe di sicuro; quello che nel 2006-2007 chiese allo stato occupante un aiuto militare per sconfiggere Hamas a Gaza; quello che era talmente intimo con il macellaio Barak, il ministro della difesa sionista del tempo, da essere informato in anticipo dell'”operazione piombo fuso” (risulta dai files di Wikileaks, come ricorda Amadeo Rossi, ne Il muro della Hasbarà, Zambon, 2018, p. 223); quello che ha definito i combattenti di Hamas e delle formazioni della resistenza “figli di cane”, e fermiamoci qui.
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La finzione dell'impresa privata
di comidad
Alcuni osservatori trattano la questione dei supporter della Meloni come se fosse una sorta di enigma antropologico, alla stregua dell’individuazione dell’anello mancante tra l’australopiteco e il pitecantropo. In realtà la stupidità e la cieca fedeltà al capobranco non spiegano tutto. Certe manifestazioni particolarmente abiette e regressive della destra vanno comunque inquadrate in una narrazione che è trasversale agli schieramenti politici. La fiaba dominante consiste nel rovesciamento del concetto di socialismo, interpretato come se fosse per forza questione di togliere ai ricchi per dare ai poveri. Su questa falsa narrazione la destra può costruire il proprio mito di argine contro la minaccia dell’esproprio proletario. Il problema si pone in termini esattamente opposti, dato che l’esproprio avviene costantemente a danno dei ceti poveri.
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La (vera) portata dello scandalo corruzione a Kiev. Se i media italiani censurano il NYT...
di Fabrizio Poggi
Lo scandalo affaristico che sta interessando la “democrazia” nazigolpista di Kiev non sembra aver ricevuto la necessaria attenzione sui media italici. Ma, se non ne parlano i media di regime nostrani, lo fa il New York Times e lo fa – forse non casualmente - pressoché in contemporanea con lo svolgersi degli eventi.
Dunque, nei giorni scorsi, l'Ufficio Nazionale Anticorruzione (NABU, quel fantomatico ufficio messo in piedi da Washington per il controllo sulle "élite" ucraine) ha condotto una perquisizione a casa del socio d'affari di Vladimir Zelenskij, Timur Mindic, direttore dello studio “Kvartal 95”. Innegabile che si tratti quantomeno dell'avvisaglia di un attacco diretto allo stesso Zelenskij e dato che in particolare il NABU è agli ordini diretti degli USA, la cosa non è di poco conto.
Nel corso delle indagini, scrive il New York Times, in 15 mesi sarebbero state raccolte 1.000 ore di registrazioni audio, documentando «le attività di un'organizzazione criminale di alto livello».
Pare che il caso contro Mindic fosse aperto da tempo, osserva PolitNavigator e i media avevano a lungo diffuso voci su registrazioni effettuate dagli investigatori nel suo appartamento nel centro di Kiev, che era essenzialmente uno dei quartier generali della cerchia ristretta di Zelenskij. Ne era seguito il tentativo del regime di liquidare il NABU, inizialmente con successo, fintanto che non erano scoppiate proteste, si erano intromessi diplomatici occidentali e Zelenskij aveva dovuto far abrogare la legge che liquidava la struttura.
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Minacce di golpe in Honduras
di Geraldina Colotti
Una “cospirazione contro il processo elettorale”. Così, il consigliere honduregno, Marlon Ochoa, ha qualificato il simulacro del sistema di Trasmissione dei Risultati Elettorali Preliminari (Trep), svolto domenica scorsa dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE). Il simulacro del Trep è stato uno degli esercizi chiave per misurare la capacità tecnologica del sistema prima delle elezioni generali del 30 novembre, ma i guasti segnalati hanno generato preoccupazione tra i partiti politici e gli osservatori nazionali.
Il CNE non ha ancora rilasciato un rapporto ufficiale sulle cause tecniche dei guasti segnalati né sulle accuse di Ochoa, arrivate pochi minuti dopo che Rixi Moncada, candidata presidenziale di Libre (il partito di governo), aveva affermato durante un comizio tenutosi nella capitale che non avrebbe riconosciuto i risultati trasmessi dal Trep: “Il CNE – aveva detto Moncada – ha fatto un simulacro sul sistema di trasmissione dei risultati e questo, sia nella trasmissione satellitare che nella trasmissione di una delle aziende attraverso i canali dati, è stato un fallimento totale”. La candidata aveva per questo fatto riferimento a una denuncia presentata da Ochoa al Ministero pubblico in merito a “26 audio” filtrati, contenuti in una chiavetta Usb, circa l’esistenza di un piano interno e istituzionale, orchestrato dall’opposizione e da membri del CNE a questa legata, per sabotare l’esito democratico delle elezioni attraverso l’uso improprio del sistema di trasmissione dei voti.
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Eugenetica e colonialismo. Nel cuore del dominio occidentale
di Stefano Dumontet
La terribile situazione che stanno vivendo i gazawiti, da ormai quasi tre anni, è stata presentata dalla maggioranza dei media occidentali come la lotta di una democrazia (incarnata da Israele) per la sua sopravvivenza. Una lotta contro terroristi sanguinari di oggi e potenziali terroristi di domani (i bambini) oltre che contro le donne, fattrici di terroristi non ancora nati.
L’unico, controverso, riferimento storico che si evoca è quello relativo alla lucida ferocia del terzo Reich, orientata contro gli ebrei. Gli israeliani, cittadini di uno stato confessionale ebraico, adopererebbero oggi mezzi e finalità analoghe a quelle utilizzate dai nazisti per portare avanti un programma di pulizia etnica attraverso un genocidio. In realtà, limitare il fenomeno dello sterminio dei palestinesi sulla contrapposizione genocidio sì / genocidio no, serve solo a distogliere l’attenzione dalla vera motivazione di tanta barbarie e della sua fanatica accettazione da parte delle élite occidentali.
Quello nazista fu un micidiale programma di pulizia etnica, sostenuto da una pseudoscienza, largamente condivisa nell’intero occidente, quella della “purezza della razza” o “eugenetica”. È bene ricordare che le teorie eugenetiche nacquero, almeno nella loro forma “scientificamente definita”, in Inghilterra in seguito al lavoro di Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Alla Galton Society afferì, nel tempo, il fior fiore della società britannica rappresentato da aristocratici, prelati, premi Nobel, famosi scienziati, celebri intellettuali e ricchi imprenditori. Solo per fare alcuni nomi, particolarmente noti, tra i tanti che condivisero negli anni le idee eugenetiche di Galton, citiamo il celebre economista John Maynard Keynes, James Meade (premio Nobel per l’Economia nel 1977), Peter Medaware (premio Nobel per l’Immunologia nel 1987) ed il famosissimo statistico Charles Spearman (tra i padri dei test per la misura dell’intelligenza e dell’analisi fattoriale). Anche Winston Churchill era un estimatore delle teorie eugenetiche, insieme al commediografo George Bernard Shaw.
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Il pianeta Marx illustrato all’ingrosso: il “fatto” del capitalismo
Cronache marXZiane n. 18
di Giorgio Gattei
"I fatti hanno la testa dura"
(attribuito a V. I. Lenin)
1. Capitalismo. Riassumo il risultato conseguito nella Cronaca precedente: dato che le ideologie storiche (nella loro varia tipologia religiosa, per cui “ci ha creato Dio”, politica con “lo Stato che ci protegge” e filosofica dove “è l’Idea che ci illumina”) non sono altro che il riflesso nella mente, più o meno adeguato, di un determinato “stato concreto delle cose” (all’inverso di Hegel, per Marx «l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini» (Il capitale, I, p. 45), è impossibile che quelle ideologie se ne vadano per opera di una critica pur feroce ma soltanto verbale, che sarebbe anch’essa mentale, di quel medesimo “stato delle cose”. Occorre infatti che cambi quest’ultimo nella realtà, così che tutti quei riflessi ideali precedenti si dimostrino inadeguati, al punto da dover essere sostituti da un altro “concreto di pensiero”, ovvero da una diversa ideologia che sia espressione nella mente dei “tempi nuovi”. Qui vale la lezione marxiana (indigeribile agli ideologi) per cui soltanto «cambiando la base economica viene a essere sovvertita più o meno rapidamente tutta l’enorme sovrastruttura… delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, in breve ideologiche, in cui gli uomini si rendono coscienti dei loro conflitti e si battono per risolverli» (Prefazione a Per la critica della economia politica, 1859).
Ora un mutamento epocale decisivo dello “stato materiale delle cose” fortunatamente c’è stato nella storia a seguito della scoperta accidentale del continente americano da parte di Cristoforo Colombo nel 1492, che fu un evento fortuito quanti altri mai perché che cosa sarebbe successo se non ci fosse stata quella “terra di mezzo” tra l’Europa e quell’Asia che Colombo, con la sua navigazione atlantica, intendeva raggiungere? Che avrebbe fatto la fine di quei poveri fratelli Vivaldi che, usciti dallo stretto di Gibilterra nel 1291 (ma con delle galee, non con le caravelle!), scomparvero in mare lasciando dietro di sé appena l’allusione poetica di Dante Alighieri nella Divina Commedia al «folle volo» di Ulisse, la cui nave affondò nell’oceano quando «dalla nova terra un turbo nacque che tre volte fé girar con tutte l’acque / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù…/ infin che ‘l mare fu sopra noi richiuso» (Inferno, canto xxvi).
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Sudan. L’altro genocidio
di Francesco Cappello
Il Sudan si trova al centro di dinamiche che rischiano di comprometterne ulteriormente l’integrità. Sono attivi fenomeni che provocano instabilità, ottimali per la continuazione dell’accaparramento delle risorse del paese africano da parte di agenti esterni
Non si tratta di una guerra civile tribale, ma di un genocidio pianificato alimentato da potenze straniere interessate alle ricchezze naturali, in particolare l’oro, complici la mancanza di attenzione internazionale e la complicità di paesi occidentali che sostengono l’RSF (forze di intervento rapido paramilitari) come fa la Francia, Israele, EAU e altri [*].
Il conflitto attuale è l’esplosione di una tensione irrisolta risalente, come vedremo, ai crimini del Darfur e al fallimento della transizione post-El Bashir, dove i generali in competizione, finanziati e armati da potenze esterne, si contendono il controllo strategico ed economico di un paese estremamente ricco di oro. Le vaste riserve d’oro del Sudan agiscono da calamita geopolitica, attirando l’interesse di potenze esterne che, attraverso il finanziamento di gruppi armati (le FSR, eredi delle milizie genocidarie), trasformano la ricchezza potenziale in un ciclo di violenza e guerra per procura.
L’entità dei massacri a danno della popolazione
A partire dall’inizio del secolo a oggi, l’analisi della letteratura consente di ricostruire alcune stime di massima sull’entità dei massacri a danno della popolazione civile. Un rapporto del Council on Foreign Relations (via il database CRED) stima che, nel periodo da settembre 2003 a gennaio 2005, ci siano state circa 121.582 morti nella regione del Darfur, con un “eccesso di mortalità” stimato di circa 118.142 morti. Université catholique de Louvain. Altre fonti (tra cui studi epidemiologici e analisi dell’ONU) riportano che fino al 2008 il totale delle morti (violenza + malattia/fame) potrebbe essersi avvicinato a circa 300.000 persone nella regione del Darfur. Guardian
Fonti più recenti relative al conflitto scoppiato nel 2023 indicano che solo nei primi mesi della guerra ci sono stati decine di migliaia di morti civili — ad esempio, un articolo riporta che il conflitto dal 2023 avrebbe causato “almeno 40.000 morti” in Sudan. AP News
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Virno, Fanon e Virno ancora: antidoto alla pseudo-moltitudine
di Pasquale Liguori
Il 7 novembre è morto Paolo Virno. Ho iniziato a leggerlo da studente, con i suoi editoriali sul Manifesto. Negli anni ho inseguito, con fatica, le pagine più ostiche dei suoi libri. È un percorso da lettore, non da addetto ai lavori. Non so se agli amici e ai custodi della sua opera piacerà che un lettore qualunque lo evochi, magari risultando irriverente. Ma a me interessa riportare una sua intuizione dentro il presente, farle provocare attrito con ciò che accade. Credo che questa vitalità discreta, più che la devozione, gli sarebbe piaciuta.
Maggio 1990. Al salone del libro di Torino si tiene una conferenza sull'«identità culturale europea». Intellettuali (Vattimo, Derrida) discutono la crisi di quell'identità. Notano che è un «cumulo di paradossi», un territorio di «non più», un concetto «estenuato fino al collasso». È l'élite culturale europea che mette in scena un dibattito su sé stessa, ma lo fa solo per certificare la propria impotenza, la propria “dissoluzione”.
Paolo Virno scrive a riguardo un editoriale sul Manifesto, lo si può trovare nella bella raccolta “Negli anni del nostro scontento” edita da DeriveApprodi. La sua diagnosi è spietata: quel dibattito accademico è vacuo. E lo è perché ignora la lezione che, trent'anni prima, Frantz Fanon aveva imposto al mondo: "abbandoniamo questa Europa".
Per Virno, l'intuizione di Fanon non era una semplice rivendicazione anticolonialista. Era una rottura metodologica. Fanon non intendeva rampognare l'Europa per aver tradito i propri "ideali universalistici" (il Diritto, l'Uomo, la Cultura); aveva attaccato quegli stessi ideali, smascherandoli come linguaggio del dominio.
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Lenin e la metafisica
di Salvatore Bravo
In Materialismo ed empiriocriticismo (1908) Lenin pone le condizioni per la pensabilità della rivoluzione. Il marxismo dogmatico conduceva all’inazione, in quanto la storia era consegnata alle leggi supreme e positivistiche della storia speculari alle leggi di natura, per cui bisognava attendere l’ordine delle leggi. Una delle motivazioni del fallimento del biennio rosso in Italia fu l’attesa incrollabile negli eventi, per cui non ci si adoperò per coordinare le azioni tra operai e campagne, ma si attese la rivoluzione che non si materializzò.
Lenin comprese nel suo genio l’urgenza di ricostituire il legame tra pensiero ed essere senza dogmatismi e ponendo la centralità della coscienza del partito e della classe operaia in relazione dialettica e pensata con la storia. La scissione tra pensiero ed essere aveva assunto caratteri di “scientificità”, si pensi al fisico Mach per il quale anche le teorie scientifiche erano prospettive che funzionavano e non rispondevano alla realtà come essa era nella sua verità, giacché l’essere umano è prigioniero della sua rappresentazione e dei suoi sensi, questi ultimi sono l’unica realtà accessibile e pertanto l’in sé resterà sempre un “segreto e un mistero”. La filosofia di Mach è una forma di positivismo che cela l’idealismo, o meglio è idealismo travestito di idealismo, così affermava Lenin. Tale concezione in campo filosofico e politico ledeva fortemente la prassi e la razionale dialettica progettuale, poiché i singoli come i gruppi sociali sono interni a una rappresentazione del mondo e di conseguenza la progettualità è prospettica e non ha nessun valore oggettivo, essa è fortemente limitata dal soggettivismo interpretativo.
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La politica al tempo della società dello spettacolo: il caso Mamdani
di Andrea Balloni
Il Paese di Hollywood continua a fare cinema. Come ho scritto nel mio ultimo articolo, “[…] i suoi vertici ricreano ogni giorno un mondo magico e fasullo […]”.
E questa è la volta del film sul nuovo sindaco di New York.
Zohran Mamdani, che dichiara che i miliardari non dovrebbero esistere, è diventato sindaco della Grande Mela con il supporto di George Soros, il criminale multimiliardario filantropo che da decenni finanzia azioni e progetti sovversivi internazionali.
Come dimostra il New York Post attraverso l’analisi di alcuni documenti finanziari, in circa dieci anni la Open Society Foundation di Soros, per mezzo di una rete di finanziamenti definiti dal quotidiano “ultra-woke”, ha indirettamente convogliato un totale di 37 milioni di dollari a una decina di gruppi di fantasinistra e fantamarxisti che hanno appoggiato e fatto propaganda attiva per sostenere la campagna elettorale di Mamdani.
Torno quindi al concetto di magia cinematografica, attraverso la cui lente gli americani intendono continuare a stravolgere la visione della realtà.
Facciamo dissolvere il fumo degli ultimi effetti speciali e ragioniamo:
– com’è possibile che un ultracapitalista neoliberista impunito, che si è arricchito con speculazioni finanziarie criminali, un sovversivo odiatore dichiarato del socialismo, uno che fa parte dei peggiori club di potenti del mondo, finanzi la campagna elettorale di un socialista, uno che dice che i miliardari non dovrebbero esistere?
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Dalle grandi opere inutili e imposte alla grande opera suicida
di Tiziano Cardosi
Riflessioni dopo il convegno di Avigliana 18 ottobre 2025 “Grandi opere – Storie di opacità”
Prima di entrare nel merito dei temi che concernono l’estrema ipotesi di essere chiamati a modellare una diversa politica estera per il paese, occorre procedere a un’operazione preliminare, decolonizzare la mente dalla macchina della menzogna che inquina la vita pubblica, nazionale e internazionale in ogni dove.
Alberto Bradanini
Dalle grandi opere inutili e opache…
Le parole dell’Ambasciatore Alberto Bradanini sull’inquinamento della politica estera può benissimo essere esteso anche ad altri aspetti del mondo contemporaneo, per esempio il mondo delle grandi opere inutili, imposte e anche molto opache; pure queste nascono da falsità che dopo decenni riempiono ancora la bocca di troppi. La principale è che i problemi economici dell’Italia nascano da un insufficiente sistema infrastrutturale, dall’eccessivo intervento dello Stato nel sistema economico, dagli ostacoli posti al libero dispiegarsi dell’iniziativa privata. Dopo decenni di verifiche empiriche possiamo dire serenamente che è vero il contrario, è arrivata una stagnazione di lunga durata proprio nello stesso momento in cui c’è stato l’avvento di TAV SpA e delle grandi opere, lo smantellamento dell’IRI, la tempesta delle privatizzazioni.
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Gli articoli più letti degli ultimi tre mesi
Alastair Crooke: Il quadro finanziario e geopolitico mondiale in un momento di imminente disordine
Ernesto Screpanti: Un capitalismo con caratteristiche cinesi
Vincenzo Comito: Cina, Russia, India: un nuovo ordine mondiale?
Jeffrey Sachs: Una nuova politica estera per l’Europa
Maurizio Lazzarato: Gli Stati Uniti e il «capitalismo fascista»
Carlo Formenti: Arlacchi spiega la Cina all'Occidente
Mimmo Porcaro: Guerra e controrivoluzione: i conti con Lenin
Andrea Pannone: Per un'analisi scientifica del potere nel capitalismo contemporaneo
Gianandrea Gaiani: Droni russi sulla Polonia: dall’allarme rosso all’ennesima farsa di guerra
Fulvio Grimaldi: IL 7 ottobre è un altro e 1 milione di manifestanti lo sa
Sonia Milone: “Vita e pensiero nel regno dell'insignificanza”
Antonio Camuso: Troppi gli interrogativi sulla strage di carabinieri a Castel D’Azzano
Paolo Di Marco: Kirk, bufale e boomerang
Roger Waters: Roger Waters, al cuore
Davide Malacaria: Trump-Putin: i Tomahawk e il vertice di Budapest
Luca Benedini: Effetti culturali dell’economia neoliberista V
Giorgio Agamben: Sull’intelligenza artificiale e sulla stupidità naturale
Salvatore Palidda: Dall’autonomizzazione fallita alla nuova subalternità
Gli articoli più letti dell'ultimo anno
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
Yanis Varofakis: Il piano economico generale di Donald Trump
Andrea Zhok: "Io non so come fate a dormire..."
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
Guido Salerno Aletta: Italia a marcia indietro
Elena Basile: Nuova lettera a Liliana Segre
Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
Diego Giachetti: Dopo la fine del comunismo storico novecentesco
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata

Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto













































