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Una foto in via De Amicis
L'immagine "icona" degli anni Settanta quarant'anni dopo il 14 maggio 1977
di Damiano Palano
Questa recensione del volume Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, a cura cura di Sergio Bianchi (Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00), venne pubblicata su "Maelstrom" circa sei anni fa e viene riproposta oggi, a quarant'anni dal giorno in cui la foto fu scattata, il 14 maggio 1977
Nel corso dei decenni, l’espressione «anni di piombo» - entrata nel nostro lessico dopo il film omonimo di Margarethe von Trotta – è andata progressivamente a identificare quel lungo periodo della storia italiana che inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni Ottanta. Nel dibattito pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni di piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta armata – quel periodo in cui il conflitto sociale e politico si trasforma in una dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» - ed è diventato qualcosa di più, la formula con cui rappresentare un decennio di follia, in cui l’Italia si muta in una fucina di violenza incontrollabile, di odio viscerale, di follia ideologica. Una simile dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà. Quantomeno perché, proprio negli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci della sua storia, una stagione di straordinaria creatività pressoché in tutti campi della sua vita culturale.
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Il Venezuela dall’interno
Sette chiavi di lettura per comprendere la crisi attuale
di Emiliano Terán Mantovani
[Presentazione di Perez Gallo e Simone Scaffidi: La situazione attuale che vive il Venezuela, come noto, è gravissima. Ma i termini della sua gravità non sono forse altrettanto noti, almeno rispetto a quello che propone la narrazione mainstream e alla confusione che regna a sinistra sui posizionamenti da prendere in proposito. Crediamo – e per questo lo abbiamo tradotto – che in questo testo del sociologo venezuelano Emiliano Terán Mantovani si possano trovare degli spunti per un’analisi più articolata, che sappia dare il giusto peso alle questioni realmente in campo, che sappia mettere in luce le differenze esistenti tra la sinistra di governo e la destra di opposizione nel Paese, ma che abbia ben chiaro che compito della sinistra e dell’internazionalismo non è difendere o no a prescindere un governo, ma stare sempre, inequivocabilmente, a fianco de los de abajo.
Non crediamo che questo articolo dia delle soluzioni politiche (come potrebbe?) alla crisi venezuelana e delle parole definitive sullo scontro in atto, ma sicuramente propone delle ottime chiavi interpretative. Uscito su alainet.org e ripreso dal giornale messicano Desinformemonos alla fine di aprile, non può dare conto di tutti gli eventi recenti in continua e rapida evoluzione.
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G7 a Taormina: ciò di cui non si parlerà
di Andrea Fumagalli
Il week-end del 26-28 maggio 2017 si terrà a Taormina il vertice G7, in Italia a 16 anni da Genova 2001 e a otto anni da quello di Aquila nel 2009. È il turno dell’Italia, come vuole la rotazione. Nel frattempo dal 2014, il G8, con l’esclusione della Russia di Putin, è diventato G7. Di che cosa si discuterà a Taormina? Diversi potrebbero essere i temi all’ordine del giorno, a partire dal tema ecologico. Il nuovo presidente americano Trump ha dichiarato che in quell’occasione prenderà posizione sui risultati del vertice di Parigi del 2016. Sicuramente, all’indomani dell’attentato di Manchester, si parlerà anche di terrorismo e di lotta all’Isis, con l’intento di far dipendere da questa emergenza, qualsiasi proposta (in senso restrittivo) di governance dei flussi migratori. Sulle questioni socio-economiche, a parte il comunicato standard finale di parole vuote, non ci sarà praticamente di nulla. Il che non può sorprendere.
Non c’è infatti bisogno di affrontare tematiche economiche, se non alcuni aspetti di natura geo-politica (principalmente legati al rapporto con la Cina). Tematiche, che, in ogni caso, non potranno trapelare nelle dichiarazioni ufficiali, anche se è facile immaginare che terranno banco nel backstage.
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Lo Stato guardiano notturno
di Renato Caputo
L’ideologia liberista dominante nel nostro paese, con la complicità dei populisti, sta riducendo nuovamente lo Stato alla funzione di guardiano notturno di un modo di produzione in crescente crisi
Presentando alla facoltà di economia il “rapporto sullo Stato sociale 2017”, il prof. R. F. Pizzuti ha usato toni forti, descrivendo – come aveva già fatto L. Summers, ex segretario del Tesoro negli Usa – nei termini di stagnazione secolare l’attuale crisi strutturale del modo di produzione capitalistico. L’accumulazione capitalistica non accenna a ripartire – nonostante le alchimie monetariste delle Banche centrali che continuano a drogare il mercato inondandolo di liquidità – a causa del drastico calo degli investimenti e del conseguente “eccesso di risparmio” causati dalla perdurante crisi di sovrapproduzione. Nonostante i tentativi del capitale di rilanciare il processo di accumulazione scaricando gli effetti sociali negativi della crisi sulle classi subalterne, a partire dal radicale aumento della precarietà, la produttività resta bassa. Anche perché la lotta di classe condotta in modo preponderante dall’alto – grazie alla crescita con la crisi della pressione sugli occupati dell’esercito industriale di riserva – gli imprenditori non sono spinti a innovare il processo produttivo, sviluppando ulteriormente il capitale costante, ma puntano a rilanciare l’accumulazione comprimendo i salari, aumentando i ritmi e gli orari di lavoro e rilanciando le esportazioni.
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Essere e agire da comunisti oggi. Apriamo il confronto
di Mauro Casadio*
La crisi di sistema che va avanti da quasi un decennio sta producendo un “passaggio d’epoca” che si manifesta a livello mondiale e che produce i suoi effetti anche nel nostro “specifico” nazionale e continentale. Questa evoluzione abbiamo cercato di analizzarla nel convegno promosso a Dicembre del 2016 riprendendo le parole di Gramsci quando nelle carceri fasciste affermava che “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”.
Questi effetti si avvertono nei processi di riorganizzazione produttiva, di scomposizione sociale generalizzati e di disorientamento politico dei settori di classe generando dei riflessi sul piano politico-istituzionale scompaginando le vecchie formazioni politiche e producendo i cosiddetti populismi che si esprimono nei differenti paesi in modi diversificati. Questi fenomeni inaspettati sono il prodotto di una rabbia sociale che cresce e che per ora si manifesta sul piano strettamente elettorale e istituzionale, piano che da una parte mette in crisi gli assetti politici ma che può essere utilizzato dalle classi dominanti per il mantenimento della propria egemonia; vedi la gestione che è stata fatta in Francia della vicenda Le Pen e l’uso televisivo in Italia di Salvini per dimostrare che non esistono alternative al quadro politico europeista.
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"L'Antisovrano" ha paura della sovranità popolare perchè non vuole la democrazia
di Quarantotto
1. Il titolo di questo post è agevolmente comprensibile, direi autoesplicativo, per chi segua questo blog.
Ma non si può ignorare il fatto che, specialmente a seguito della vittoria di Macron (quale che ne sia l'effettiva tenuta, alla luce degli eventi che egli stesso non potrà evitare di determinare), in quanto principalmente interpretata come una sconfitta di Marie Le Pen, nel dibattitto politico-mediatico, si registri la tendenza a considerare il "sovranismo" come un concetto programmatico in arretramento. E, dunque, proprio presumendosi la sua subentrata scarsa presa elettorale, in via di ridimensionamento nel linguaggio à la page, cioè elettoralmente remunerativo.
Inutile dire che questo ridimensionamento viene con immediatezza, e quindi molto frettolosamente e in base ad analisi delle effettive propensioni al voto piuttosto rozze ed emotive, legato alla questione dell'opposizione alla moneta unica.
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"Gramsci conteso": vent'anni dopo
di Guido Liguori
Il testo della relazione di Guido Liguori al Convegno Gramsciano il 18 e il 19 maggio 2017, Roma, su "Egemonia e Modernità"
Il contributo che dovrei cercare di dare in questa sede, nell’ambito di una sezione dedicata alla ricerca e al dibattito italiani sui temi del convegno, si intitola “Gramsci conteso”: vent’anni dopo.
Non è un titolo che ovviamente possa essere svolto in modo esauriente. Tanto più nello spazio di una esposizione orale necessariamente sintetica.
Anche intendendo il titolo come relativo solo al concetto di egemonia, come credo vada fatto, nell’ambito di questo convegno che all’egemonia è dedicato, dico subito che ho inteso il compito che mi è stato affidato non come un invito a ripercorrere pedissequamente il dibattito italiano degli ultimi venti anni (per autori e correnti di pensiero di altri paesi, del resto, sono previste in questo nostro incontro sessioni e relazioni apposite), ma solo come tentativo di indicare alcune delle principali idee-guida che hanno nutrito la ricerca e le interpretazioni gramsciane sul tema, in Italia, negli ultimi due decenni.
Per comprendere i caratteri di fondo della ricerca gramsciana in Italia nell’ultimo ventennio occorre in primo luogo partire dal dato della grande diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo, iniziata già nel decennio precedente, ma di cui si è avuta piena coscienza in questo paese soprattutto negli anni Novanta.
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Storia e potere
di Ottone Ovidi
Esiste un legame di mutuo interesse tra la storia e il potere, perché il secondo ha bisogno di appoggiarsi sulla prima per legittimare il proprio ruolo, la prima del concorso decisivo del secondo per imporsi.
La storia è legata ad un sistema di potere o a dei sistemi di potere che la producono e la impongono e pertanto è uno strumento di cui il potere stesso ha bisogno. Ma quello che deve far riflettere non è tanto l’uso strumentale che il potere fa della storia quanto l’interiorizzazione che le classi subalterne, gli oppressi in genere, subiscono facendo propria la lettura vincente.
In questi giorni se ne ha una verifica puntuale in occasione dell’anniversario del ’77 che ha portato molti a tentare ricostruzioni, a organizzare dibattiti, a misurarsi con i movimenti e le lotte politiche che lo hanno caratterizzato, fino a comprendere un giudizio globale degli anni settanta. Si ripete come un mantra la frase “anni di piombo”, omettendo, dimenticando e rovesciando il fatto che questa frase venne coniata proprio dal movimento, con riferimento alla cappa repressiva messa in atto nel nostro paese, a partire dalla promulgazione della Legge Reale.
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Estrarre, mercificare e sorvegliare
di Dario Guarascio
Dario Guarascio sarà ospite, assieme a Marco V. Passarella, del convegno “LAVORO E AUTOMAZIONE“, che si svolgerà il prossimo 3 giugno a Perugia. Per sapere di più del convegno di Perugia clicca QUI
La trasformazione in atto è visibile anche guardando ai dati economici. In pochissimi anni, una manciata di multinazionali del capitalismo digitale – Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple, per citare le più rilevanti – è divenuto il blocco di potere globale più significativo dal punto di vista del valore economico e della capacità d’influenza politica.
Nella Londra di 1984 (Penguin, 2008 p. 326), il solo luogo dove Winston Smith può nascondersi per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Big Brother è una piccola intercapedine della sua casa. Asserragliarsi in quel rifugio è l’unica strategia per pensare in modo autonomo fuggendo dall’eterno presente in cui sono costretti gli abitanti di Oceania. La sorveglianza ininterrotta e la sistematica distruzione di tutto ciò che è esperienza e storia annichilisce l’arbitrio, erigendo il riflesso condizionato a norma comportamentale. Nel 1984, lo stato d’emergenza permanente giustifica ogni forma di repressione e rende accettabili le più odiose condizioni sociali. Una comunicazione di massa cacofonica e martellante inverte e mortifica il reale, ad uso e consumo dei governanti. Guerra è pace. Ignoranza è forza. Libertà è schiavitù. Più si dimostra contraddittoria e priva di coerenza e più la cultura dominante stringe il giogo al collo delle masse, conformando i pensieri nei loro meandri più profondi.
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Scalfari, Calabresi e la Storia scritta sui fazzoletti di carta
di Dante Barontini
Ci si può rammaricare di tante scelte fatte, ma chi “si pente” appare agli occhi del mondo doppiamente stupido. Una prima volta per aver fatto, senza averci riflettuto su bene, le scelte che oggi critica; una seconda volta per il tentativo di “rifarsi l’immagine” a distanza di tempo, con comodo, puntando a concentrare su di sé la benevolenza di un pubblico (ritenuto) boccalone.
L’anniversario dell’uccisione di Luigi Calabresi, spietato commissario della “squadra politica” della questura di Milano alla fine degli anni ’60, è stato occasione per Eugenio Scalfari di un pentimento decisamente tardivo, ma – come tutti i “pentimenti” – per nulla innocente.
Sorvoliamo sul curioso “conflitto di sentimenti” di cui da una vita lo stesso Scalfari è protagonista, capace di assumere e promuovere a caporedattore di Repubblica quello che poi è tornato per dirigerla, Mario Calabresi. E al tempo stesso capace di costringere il figlio del defunto commissario a convivere pacificamente per anni con l’uomo condannato in via definitiva – dopo otto gradi di giudizio – come “mandante” dell’omicidio del padre, ovvero Adriano Sofri, ex capo assoluto di Lotta Continua e per almeno due decenni collaboratore, inviato, editorialista di quel giornale.
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Tutto l’onore di un «economista defunto»
Parte II
di Giorgio Gattei
Nella prima puntata di questo “omaggio” ai 150 anni di pubblicazione del primo volume di Il Capitale. Critica della economia politica (e il sottotitolo è tutto un programma!), si è visto come Karl Marx nella sua grande opera abbia voluto estendere il metodo della critica (invenzione intellettuale che si era giocata tra Kant e Hegel) alla political economy di Adam Smith e David Ricardo, Ed egli ne ha riconosciuto l’oggetto nel capitale, ossia in quella maniera del produrre, storicamente determinata, definita dallo “scambio speciale” del denaro con la forza-lavoro come merce: «quel che dà il carattere all’epoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma di una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma del lavoro salariato» (Il capitale, I, Roma, 1964, p. 203). Resta allora da dire quale sia il soggetto della critica e quale la contraddizione che finisce per opporre questo soggetto al suo oggetto.
Il soggetto della critica.
Non condivido affatto l’idea comune, a cui sembra indulgere anche Diego Fusaro in Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani, Milano, 2009), che nel Marx “maturo” si conservi ancora quell’elemento normativo che, oltre a quello conoscitivo, era stato proprio del “giovane” Marx.
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Lo spostamento a destra della politica italiana
Cosa sta succedendo e come reagire
di Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"
Ripubblichiamo questa ottima analisi da "Ex Opg Occupato - Je so' Pazzo" che analizza la fase di una politica italiana sempre più ad destra e che vorrebbe trascinare verso questa deriva autoriaria e razzista tutto il paese. Se loro stanno spingendo su queste tendenze, noi dobbiamo organizzarci per costruire una forza in grado di far pesare i nostri reali bisogni che sono casa, lavoro e servizi pubblici per tutti.
* * * *
È da un po’ di tempo che – presi dall’attività pratica e dalle lotte quotidiane – non scriviamo sulla fase politica del nostro paese. Eppure di cose importanti ne stanno accadendo, e meritano di essere analizzate con attenzione. In queste pagine vogliamo provare a restituire un quadro della situazione, e proporre alcune pratiche per reagire alla barbarie che nel nostro paese sta velocemente avanzando. Nella speranza di aprire un po’ di dibattito e trovare magari qualcuno che condivide le nostre stesse preoccupazioni.
Divideremo il discorso in tre momenti:
1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione;
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Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati
di Alessandro Visalli
Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
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Xi Jinping e l'ochetta Martina
di Pierluigi Fagan
La Belt and Road Initiative – BRI (che, come acronimo, prende il posto del precedente One Belt One Road – OBOR, detta anche “Vie della Seta”) ha avuto il suo primo summit fondativo. Si tratta di un progetto infrastrutturale (strade, porti, stazioni, ferrovie, reti elettriche – tlc, gasdotti etc.) che vorrebbe innervare l’eurasia, coinvolgendo Medio Oriente ed Africa, per cui sarebbe più giusto dire “afro-eurasia”. Il capofila è la Cina che traina l’economia asiatica (presa senza India e Giappone) che pesa un 21% dell’economia mondo. Assieme all’area russo-centro asiatica, arrivano al 23%. Coinvolgendo Pakistan, Iran e Turchia, si supera il 25%, un quarto dell’economia mondo. Questa rete potenziale di stati-economie ha dalla sua tre carte importanti: 1) la continuità geografica di aree differenti sia in longitudine, che in latitudine; 2) ricca dotazione di energia (Russia, repubbliche centro-asiatiche, Iran); ma soprattutto 3) ampi margini di sviluppo potenziale. Quest’ultimo punto dice che se oggi questa parte di mondo pesa un 25%, fra dieci anni (o forse prima) potrebbe crescere al 30%, è cioè all’inizio o poco dopo l’inizio, di un ciclo di sviluppo potenzialmente lungo.
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Hegel: lo Stato perfetto (e la spina di Marx)
di Fulvio Papi
Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica.
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I miti dell’economia neoliberale
C. J. Polychroniou intervista Ha-Joon Chang
In questa lunga intervista al celebre economista sudcoreano Ha-Joon Chang, professore alla Cambridge University, sono affrontati i miti e le bugie dell’economia neoliberale, un sistema che Chang, citando Gore Vidal, definisce “libera impresa per i poveri e socialismo per i ricchi”. Il neoliberalismo ha diffuso la convinzione che ci sia un campo “oggettivo” dell’economia, nel quale la logica della politica non deve intromettersi, e così facendo ha sottratto le politiche economiche alla dinamica democratica, permettendo alle élite di fare ritirare il perimetro dello Stato e reindirizzarne le scelte a loro favore.
Per gli ultimi 40 anni circa, il neoliberalismo (scegliamo volutamente questo termine al posto del più usato “neoliberismo” NdVdE) ha regnato incontrastato su gran parte del mondo capitalista occidentale, producendo livelli di accumulazione di ricchezza senza precedenti per una manciata di individui e di multinazionali, mentre al resto della società si è chiesto di ingoiare austerità, stagnazione dei redditi e la continua riduzione dello stato sociale. Ma proprio quando tutti pensavamo che le contraddizioni del capitalismo neoliberale avessero raggiunto il loro penultimo stadio, culminando nel malcontento di massa e nell’opposizione al neoliberalismo globale, l’esito delle elezioni presidenziali 2016 negli Stati Uniti ha portato al potere un megalomane che aderisce all’economia capitalista neoliberale, pur opponendosi a grande parte della sua dimensione globale.
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Difesa del territorio, difesa della democrazia
di Paolo Ortelli
- Antonio Cederna, I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1956)
- Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2010
Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi[1]
La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini.
Charles Baudelaire
“I vandali in casa” di Antonio Cederna e “Il grande saccheggio” di Piero Bevilaqua: due testi fondamentali per riscoprire l’attualità del pensiero di Cederna – padre nobile delle moderne leggi di tutela delle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane – e comprendere la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale.A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti».[2]
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Attacchi informatici e guerra planetaria
di Francesco Galofaro*
Sembra la trama di un film di fantascienza: il 12 marzo il mondo intero, al risveglio, scopre di essere sotto attacco di un virus. I danni sono incalcolabili: fabbriche bloccate, università ferme, i centralini del pronto soccorso non sono più in grado di inviare un'ambulanza. A partire dall'Inghilterra e nel giro di poche ore, seguendo la rotazione terrestre, il virus si diffonde a oriente: duemila sistemi informatici si fermano in Iran, trentamila in Cina. In Italia si teme l'effetto-lunedì, il giorno in cui gli impiegati tornano al lavoro dopo il fine settimana.
“Voglio piangere” (wannacry), è un ransomware: un sistema escogitato per chiedere un riscatto. Entra nel tuo computer attraverso un “buco” delle vecchie versioni del sistema operativo Windows, cripta i dati del tuo disco e non li decodifica finché non paghi una somma in bitcoin, la moneta privata virtuale internazionale più amata dalle organizzazioni criminali.
Fin dal primo giorno il New York Times punta il dito contro la NSA, la National Security Agency statunitense: si sarebbero lasciati rubare Eternal blue, uno degli svariati sistemi che impiegano per infiltrarsi nelle reti dei PC [1].
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Il "piano" di Macron? E' il piano funk, l'unico €uro-futuro praticabile
di Quarantotto
1. Noi abbiamo già visto in vari post, nel corso di questi anni, come Martin Wolf, nell'ambito degli economisti-commentatori dell'establishment, (oscillante nel tempo tra posizioni hayekiane, quando, non a caso, era forte l'influenza del "68"...e neo-keynesiane, all'indomani della crisi del 2008), sia fondamentalmente un fautore della "classe media", come fosse una sorta di specie protetta alla quale, agli occhi dell'establishment, spetta quella funzione di stabilizzatore della conflittualità sociale evidenziata da Basso, con esito inevitabilmente favorevole al dominio delle elites.
La tattica più efficace di conservazione dell'assetto capitalistico neo-liberista, è appunto quella di trovare in ogni maniera una (almeno) formale differenziabilità di interessi socio-economici, pur in concomitanza della scomparsa dei partiti di massa (e quindi della democrazia sostanziale), da tradurre in una facciata di pluralismo politico.
Anzitutto, ai suoi occhi, occorre conservare ad oltranza una parvenza di dialettica destra-sinistra, tutta svolta sul piano ideologico-cosmetico, proprio perché meglio capace di dissimulare l'esistenza del conflitto scatenato dal capitalismo per poterlo portare a compimento in modo più discreto ed efficiente.
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Contro il liberoscambismo
Marco Veronese Passarella*
1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1.
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Debolezze e potenzialità negli argomenti anti-hegeliani del giovane Marx
di Carlo Scognamiglio
1. La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Karl Marx (scritta tra il 1842 e il 1843, ma pubblicata postuma nel 1927) si sviluppa intorno a un’argomentazione dominante, mutuata da Ludwig Feuerbach, il quale nel 1839, in uno scritto intitolato Per la critica della filosofia hegeliana, aveva insistito sul difetto della dialettica di Hegel, consistente nel ribaltamento dei rapporti tra soggetto e predicato. In altri termini, secondo Feuerbach, Hegel spiegherebbe l’esistente, cioè la vita concreta degli uomini, attraverso categorie astratte e universali, attribuendo a queste ultime la dimensione della soggettività, e considerando le circostanze materiali come predicati, per giunta accidentali. Tale rapporto, secondo Feuerbach, dev’essere ribaltato, per indicare nell’essere vivente concreto la vera soggettività, della quale è possibile predicare la capacità di pensiero e l’universale qualità astratta.
Marx non recepisce meccanicamente l’intuizione feuerbachiana, ma la assimila in modo critico e articolato. Il libro su Hegel è sostanzialmente frutto di quest’opera di appropriazione concettuale.
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Il negativo in questione. Una lettura di Adorno
di Angelo Cicatello*
1. Logica della disgregazione
Cosa significa ‘dialettica negativa’? Cosa dice di più e di diverso dalla parola ‘dialettica’ un aggettivo che ne specifica la fisionomia negativa?
Non è un segreto che il progetto di una dialettica negativa abbia come sfondo il confronto costante con quelli che Adorno, a torto o a ragione, denuncia polemicamente come gli esiti concilianti della dialettica hegeliana[1]. Il che però, nella prospettiva adorniana, non si riduce al confronto con le tesi specifiche di un autore. Hegel figura, piuttosto, come il momento culminante di una tradizione dal cui peso la dialettica dovrebbe essere liberata. Ed esattamente a questa impresa di liberazione Adorno consegna, già dal titolo, il suo lavoro teoretico più maturo:
L’espressione dialettica negativa viola la tradizione. Già in Platone la dialettica esige che attraverso lo strumento di pensiero della negazione si produca un positivo; più tardi la figura di una negazione della negazione lo ha nominato in modo pregnante. Questo libro vorrebbe liberare la dialettica da una siffatta essenza affermativa, senza perdere neanche un po’ di determinatezza (ohne an Bestimmtheit etwas nachzulassen). (Adorno 1966, 3).
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A/traverso (a suo modo) una pratica dell’obiettivo
di Gioacchino Toni
Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00
«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare» (“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975)
La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione.
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Estremismo di centro e lotte sociali in Francia
Dalla Loi Travail alle elezioni presidenziali
di Davide Gallo Lassere
Contro la Loi Travail e il suo mondo
Per render conto della primavera francese del 2016, si può trarre ispirazione dallo slogan che ha caratterizzato la mobilitazione: “Contre la Loi travail et son monde”[1]. Le lotte francesi del 2016 sono infatti iniziate con la contestazione della Loi Travail per assumere immediatamente una portata e una radicalità molto più ampie e generali, che sono sembrate andare ben aldilà della Loi Travail: la Loi Travail e il suo mondo, giustamente. E ciò non tanto perché la Loi Travail, in fin dei conti, sia una riforma trascurabile o perché la contestazione di questa legge sia rimasta marginale nel movimento, bensì per due altre ragioni.
Innanzitutto, perché questa legge si salda perfettamente con l’insieme dei rapporti sociali esistenti; perché fa sistema con il quadro normativo e istituzionale del presente francese e, più estesamente, del presente europeo (si può sostenere che, un anno fa soltanto, questa legge potesse essere considerata come l’anello mancante dell’attuale “regime europeo del salariato”).
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Giorgio Agamben - “Che cos’è la filosofia?”*
di Enrico Cerasi
Giorgio Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 2016
Non so se nelle domande che si pone sia possibile scorgere il profilo di un’epoca. Eppure saltano agli occhi alcune insistenze, alcune fissazioni - dal περί Φύσεως che assillava i primi sapienti greci alle indagini concerning human understanding dei filosofi del Seicento. Comunque sia, l’epoca attuale sembra porsi con una certa frequenza la domanda intorno all’essenza, o quanto meno al compito della filosofia. Penso naturalmente a Martin Heidegger, e al suo Was ist das – die Philosophie? del 1956 (preceduto da Was ist Metaphysik? del ’29); a Deleuze e Guattari, che nel 1991 conclusero il loro sodalizio filosofico rispondendo alla domanda: Qu’est-ce que la philosophie?, o a Pierre Hadot che nel 1995 diede alle stampe il suo libro forse più noto: Qu’est-ce que la philosophie antique? (che per lo storico francese equivaleva a chiedersi che cosa sia la filosofia tout-court). Non è l’ultimo dei meriti di Giorgio Agamben, quasi a voler suturare questo secolo col precedente, l’aver riproposto la domanda, alla quale – come del resto gli altri autori citati – ha dato la sua risposta, che ben s’inquadra nel contesto di una produzione filosofica ormai imponente e articolata. Ripercorrerne i tratti essenziali sarebbe impresa poco adatta a una recensione. Basti ricordare che quest’ultimo libro si pone al termine della notevolissima ricerca intorno alla figura dell’Homo sacer, ovvero del rapporto tra potere sovrano e nuda vita, come s’è andato definendo nel corso della storia occidentale.
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