Il neoliberismo non è una teoria economica
Terza e ultima parte*
di Luca Benedini
Con un’appendice filosofica su Covid-19, dialettica e altro
L’euro stesso è stato impostato – e continua ad essere gestito – in una maniera sostanzialmente neoliberista
Al di là di procedure come quelle previste dal Sixpack e dal “fiscal compact”, l’eurozona stessa, per come è stata gestita sino ad ora, è divenuta uno strumento che funziona in pratica ai danni dei lavoratori. Si tratta di una questione di una certa complessità tecnica, ma se descritta con cura non ha niente di incomprensibile, neanche per chi non abbia minimamente fatto studi di economia.
È un meccanismo che opera in parallelo col fatto che le specifiche deregolamentazioni dei mercati previste dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nei suoi “piani di aggiustamento strutturale” e più in generale la globalizzazione neoliberista (praticamente priva di regole di tipo sociale, ambientale e giuridico secondo appunto i dettami del neoliberismo) sono diventate un’occasione per scatenare un’estrema concorrenza economica internazionale tra i vari paesi, con un effetto di gran lunga predominante: lo spostamento dei capitali e degli investimenti – e non di rado anche delle attrezzature stesse, attraverso le delocalizzazioni – verso i paesi dove vi sono una minore sindacalizzazione dei lavoratori e soprattutto minori costi di produzione (p.es. per i salari, per le protezione ambientale e per la tassazione) e dove, quindi, si possono ottenere profitti più alti e meno soggetti a contestazioni sociali e politiche. A causa di questo, i paesi con salari più elevati, lavoratori più sindacalizzati, protezioni ambientali più corpose e un fisco meno sensibile agli interessi delle élite economiche sono praticamente destinati a perdere delle attività produttive in modo più o meno costante, a meno che non sappiano offrire grossi vantaggi di altro tipo alle imprese (p.es., un sistema produttivo meglio organizzato, dei lavoratori più efficienti e preparati, pubbliche istituzioni più pronte a collaborare creativamente col settore privato, e così via).
Nonostante quest’ultima possibilità, che ha contribuito a stimolare vari paesi a migliorare aspetti della vita economica come la formazione dei lavoratori, le interconnessioni dell’apparato produttivo e le risposte pubbliche alle esigenze di tale apparato, è indubbio che la globalizzazione neoliberista ha posto enormi pressioni sulle retribuzioni dei lavoratori, sulle lotte sindacali di questi ultimi, sulla protezione dell’ambiente, sulla tassazione delle imprese e su quella dei ceti sociali ad alto reddito.
Analogamente, l’esistenza dell’euro, sottraendo qualsiasi possibilità di svalutazione ai paesi che l’hanno adottato, è diventato un’occasione per avviare un’intensa concorrenza economica tra tali paesi, con un effetto simile a quello derivante dalla globalizzazione. Così, da un lato l’euro ha fornito uno stimolo a migliorare l’organizzazione economica di ciascuno dei paesi in questione, ma dall’altro ha appunto posto pesanti pressioni sulle retribuzioni, sulle lotte sindacali e sulla tassazione rivolta ai ceti privilegiati (l’impatto è un po’ minore sull’ambiente in quanto una parte notevole della salvaguardia ambientale è regolamentata allo stato attuale da direttive dell’UE che si applicano in tutto il suo territorio), e ciò tanto più nei paesi dove i governi e gli imprenditori si sono curati poco di dare risposte effettive a quello stimolo di fondo. La più evidente ed ampia esemplificazione della dinamica in questione è costituita dal caso della cosiddetta “locomotiva tedesca”, che a lungo ha avuto la tendenza ad esportare prodotti in tutta l’UE mantenendo una bilancia commerciale intra-UE in grande attivo, mentre altri paesi – tra i quali soprattutto i paesi dell’Europa meridionale – hanno faticato enormemente a rimanere economicamente competitivi nei confronti della Germania e si sono trovati con grosse problematiche di ristagno industriale, disoccupazione, debolezza finanziaria dello Stato, ecc..
Osservava p.es. già diversi anni fa Marco Palombi, nell’articolo Germania, la ricchezza dai lavoratori alle imprese. Così nasce la “locomotiva” (Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013): «All’inizio dell’epoca dell’euro, Berlino era “la grande malata d’Europa” [54]. La reazione al declino è stata improntata a un unico obiettivo: comprimere i salari per spingere le esportazioni. Ha spiegato Roland Berger, uno dei consulenti economici di Angela Merkel: “Le riforme tedesche hanno avuto successo: [sono] iniziate nel 2003 con una liberalizzazione del mercato del lavoro e un aumento degli stipendi reali inferiore all’incremento della produttività. Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale [sanità, sussidio di disoccupazione, ndr], l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari. Nel frattempo la Germania ha ridotto le imposte all’industria ma aumentato quelle indirette”. Risultato: “Fra il 2000 e il 2010 i costi [...] dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2% rispetto agli altri Paesi dell’euro”. [...] La compressione dei salari tedeschi ha segnato la “vittoria” della Germania [...] verso i partner dell’Eurozona: nonostante la crescita asfittica di Italia, Spagna, Francia, negli anni pre-crisi il saldo tedesco nei confronti di questi paesi è più che triplicato [...]. Questa politica ha mandato in deficit i Paesi periferici [...] dell’Eurozona. Lo sostiene, tra gli altri, l’Ilo, l’istituto Onu che si occupa di lavoro: “L’aumento delle esportazioni tedesche è ormai identificato come la causa strutturale dei recenti problemi dell’area euro”».
Come ha commentato a proposito dell’economia tedesca Gaël Giraud nel libro Transizione ecologica (Emi, 2015), un’eventuale «svalutazione dei loro vicini compenserebbe di colpo il loro deficit di competitività rispetto alla Germania», il cui sistema produttivo risulta più competitivo nell’ambito dell’eurozona per effetto soprattutto «dell’austerità salariale che si sono imposti da vent’anni» i tedeschi. Dato che l’euro impedisce attualmente qualsiasi svalutazione ai paesi che l’hanno adottato, «è dunque proprio la moneta unica, ed essa sola, che rende fruttuosa (per la Germania) la sua politica di deflazione salariale», fruttuosa – s’intende – sul piano specifico del commercio continentale [55].
Per comprendere meglio la situazione, si tenga conto di altri due aspetti-chiave: da un lato, il fatto che in paesi come specialmente Grecia, Spagna e Portogallo le classi lavoratrici stavano cercando proprio in quegli anni di recuperare l’ampio divario salariale che avevano storicamente nei confronti di paesi europei con un’economia più florida, come appunto soprattutto la Germania e gran parte del Nordeuropa; dall’altro lato, il fatto che i rapporti di valore all’interno del primo gruppo di monete nazionali poi sostituite dall’euro sono stati fissati una volta per tutte nel 1998, in una sorta di fotografia che ha congelato in maniera del tutto statica diversi aspetti delle interrelazioni economiche esistenti in quel momento tra i vari paesi dell’eurozona. Questa circostanza fa sì che dal 1998 in poi, se nell’ambito dell’eurozona c’è qualche paese con un’inflazione maggiore di qualcun altro, la competitività economica del primo gruppo di paesi cala rispetto al secondo, con la conseguenza di evidenti danni all’“economia reale” del primo gruppo (che fatica ad esportare nel secondo gruppo e che facilmente verrà invaso sempre più da prodotti importati provenienti da quest’ultimo). Poiché i paesi con una più accentuata dinamica salariale hanno facilmente tendenza ad un’accentuazione dell’inflazione, a causa del tipico tentativo della classe imprenditoriale di recuperare attraverso aumenti dei prezzi l’incremento dei salari, ne consegue appunto che nell’eurozona una tale tendenza finirà col danneggiare l’“economia reale” di questi paesi. La presenza dell’euro implica dunque conseguenze economiche di cui la “popolazione comune” di molti paesi dell’eurozona era praticamente all’oscuro quando l’euro è stato progettato e poi realizzato, venendo descritto all’epoca dai suoi proponenti come una sorta di panacea commerciale europea praticamente priva di effetti collaterali, svantaggi, difetti, ecc.: una descrizione evidentemente falsa, ipocrita e, di fatto, pesantemente classista....
Sulla maggior competitività che nell’ambito dell’eurozona hanno paesi come la Germania ha influito anche l’evoluzione della produttività. Come ha riportato p.es. Domenico Moro in I trattati e l’euro producono il nuovo nazionalismo degli stati (una relazione presentata il 9 settembre 2017 ad un convegno a Roma su “Unione europea, lavoro, democrazia - Contributi per il programma dell’alternativa”), uno degli indicatori di base dell’attività economica è «la formazione di capitale fisso, importante misuratore degli investimenti. Tra 2005 e 2013, mentre la Germania ha aumentato dell’11% il flusso di capitale fisso lordo, l’Italia l’ha diminuito del 23% e la Spagna del 31%. È abbastanza facile rendersi conto di quanto l’opposto andamento degli investimenti abbia allargato la forbice tra i vari Paesi in termini di domanda, occupazione, innovazione e capacità produttiva interne» [56]. Questa differenza ha a che fare in parte con la maggiore redditività offerta tipicamente dagli investimenti in Germania, ma in parte anche con le scelte politiche dei vari governi e con le caratteristiche della mentalità imprenditoriale dominante in ciascun paese [57]. Solo molto recentemente questa posizione economico-commerciale predominante della Germania nell’ambito dell’eurozona ha cominciato a mutare, proprio in concomitanza con una riduzione di diversi dei fattori che stavano alla base di tale posizione [58].
Il fatto che l’euro sia stato gestito in maniera sostanzialmente neoliberista traspare in modo particolare sia dalla mancanza di regole precise nell’eurozona relative a fattori come i tassi nazionali d’inflazione e lo stato della bilancia commerciale di ciascun paese, sia da quanto avviene tipicamente nel caso in cui nella vita economica dell’eurozona emergano rilevanti squilibri tra nazioni a seguito di tale mancanza e/o crescenti problemi di qualche Stato nel piazzare i propri titoli sul mercato (e quindi nel finanziare il proprio indebitamento): squilibri e problemi notevolmente interconnessi tra loro in quanto le debolezze dell’“economia reale” e quelle delle finanze pubbliche si influenzano reciprocamente in vari modi ampiamente noti. Quando appunto in un paese membro dell’eurozona l’economia e/o la finanza pubblica entrano in difficoltà a causa di fattori come un’inflazione più alta di quella che si registra in altri paesi membri, un forte disavanzo nella bilancia commerciale col resto dell’eurozona (disavanzo cui corrispondono evidentemente degli avanzi in qualche altro paese membro), un debito pubblico particolarmente elevato che scatena la sfiducia dei mercati finanziari nei confronti dei titoli di Stato del paese in questione e/o un attacco della finanza speculativa verso tali titoli [59], l’interesse dei vertici dell’UE si concentra tipicamente sugli interessi delle élite economiche ed eventualmente su aspetti finanziari di tipo soprattutto privatistico, che consistono in pratica nel tutelare i detentori di titoli di Stato emessi da quel paese (così da evitare il più possibile che chi ha acquisito ampie quantità di tali titoli possa rimetterci). Tutto il resto – la disoccupazione, la qualità di vita dei lavoratori, dei pensionati e delle loro famiglie, ecc. – appare come qualcosa di indifferente o addirittura di fastidioso a tali vertici. Anzi, per la Commissione Europea e per l’Eurogruppo (che riunisce in pratica i ministri delle Finanze dei paesi dell’eurozona) quelle difficoltà costituiscono solitamente un’occasione per innescare nel paese implicato i famosi meccanismi di austerità che penalizzano ulteriormente le classi lavoratrici e spesso anche le piccole e medie imprese (Pmi) e facilitano alla “grande finanza” estera l’acquisizione di imprese e proprietà locali.
Questo è esattamente il tipico comportamento neoliberista: porre regole ai mercati e sollecitare interventi pubblici solamente quando si tratta di regole ed interventi che vanno a vantaggio dei “grandi ricchi” (e che a quel punto possono venire addirittura sbandierati come necessari e obbligatori e persino imposti praticamente a forza), altrimenti meglio astenersi e lasciare che le cose si risolvano attraverso la logica del mercato (logica che quando se ne presenta l’occasione viene anch’essa pressoché imposta con la forza, come fa da decenni il Fmi con i paesi che a causa di gravi difficoltà chiedono il suo aiuto). Infatti – proprio come ha fatto un sacco di volte il Fmi nel Terzo mondo – di fronte all’accumularsi di un insieme di problematiche sociali e/o finanziarie in qualche paese dell’eurozona la tutela delle élite economiche (nazionali e internazionali) e in particolare di coloro che detengono titoli di Stato o altre forme di prestito contratte dalla pubblica amministrazione (P.A.) viene trattata alla fin fine dai vertici dell’UE come qualcosa di dovuto e indiscutibile (nei limiti di quanto possibile compatibilmente con la situazione finanziaria complessiva), mentre la tutela delle classi lavoratrici e la vita stessa di milioni di persone facenti parte di tali classi devono invece venire lasciate in pratica alla logica del mercato. E questa logica, nella sua cinica freddezza e nella sua automaticità, non ci trova in sé e per sé niente da ridire, da commentare e da fare se in un paese migliaia di persone muoiono di miseria e milioni soffrono di indigenza mentre, nel contempo, le classi privilegiate proseguono come nulla fosse nel loro strabordante benessere, o addirittura si arricchiscono sempre più.... Come se ciò non bastasse, i governi che hanno provato con forza ad opporsi a questo tipo di comportamento – i governi Tsipras in Grecia – sono stati vessati e maltrattati dal resto della Commissione Europea e dell’Eurogruppo come in una sorta di combattimento all’ultimo sangue, evidentemente per mostrare a tutti che quando sono coinvolti direttamente i vertici dell’UE non c’è alcuno spazio in campo economico per idee alternative al neoliberismo galoppante.... E le prime fasi di un trattamento analogo l’hanno subito anche altri governi – come p.es. il governo Kenny in Irlanda – che avevano iniziato a porsi in maniera notevolmente critica rispetto a tale comportamento dei vertici europei (solo le prime fasi però, perché questi altri governi hanno rapidamente accettato di subire la volontà dei vertici in questione senza più alzare decisamente la voce, mentre invece Tsipras e i suoi non hanno praticamente mai smesso di criticare aspramente, contestare e protestare)....
È evidente che, se non è affatto strano che la “popolazione comune” di molti paesi non abbia capito tutte queste implicazioni dell’euro né all’epoca della sua entrata in vigore né magari fino a tutt’oggi (si tratta di meccanismi economico-finanziari piuttosto complessi e, per di più, solitamente taciuti dai mass-media), non è pensabile che i governi che si sono succeduti in questa ventina d’anni nei vari paesi dell’eurozona non ne fossero a conoscenza, dati anche i fior di economisti che ciascuno di tali governi ha avuto al proprio interno oppure ha avuto a disposizione come consulenti.... E le implicazioni in questione, unite al sostanziale strangolamento economico delle classi lavoratrici specialmente irlandesi e greche attuato dopo la “crisi dei mutui”, a meccanismi come il Sixpack e il “fiscal compact” – che sono stati ideati e approvati in più fasi durante gli anni 2010-2012 col consenso dei governi di tutti i paesi dell’eurozona (e pure di altri paesi dell’UE) – e al maltrattamento dei governi Tsipras durante gli anni 2015-2019 (che come quello strangolamento non ha visto nessuno degli altri governi dell’UE opporsi veramente), rendono del tutto evidente la piena collaborazione che è stata offerta stabilmente anche dai governi dei cosiddetti “paesi deboli” dell’eurozona (con l’eccezione in pratica solo dei governi Tsipras, appunto) nel mettere in piedi un sistema monetario e normativo che sta penalizzando gravemente i lavoratori e le loro famiglie in tutta l’eurozona e soprattutto proprio nei suoi “paesi deboli”, dove spesso sono ampiamente penalizzate anche le Pmi. Come si osservava p.es. già nel 2013 in Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, «il fatto che gli ultimi governi italiani abbiano sottoscritto» i recenti «comportamenti europei» in cui «viene data considerazione molto più alle banche che alle nazioni e quindi ai cittadini, molto più alle grandi aziende che alle Pmi, molto più al mondo della finanza che all’economia reale» e molto più «alla specifica volontà delle élite dei paesi europei economicamente e finanziariamente più forti» rispetto ai «paesi che da questi punti di vista sono più deboli [...] significa che anche gli attuali vertici politici italiani governano, senza ovviamente dircelo, molto più per le élite dei paesi forti, per le banche, per le grandi aziende e per il mondo della finanza che per i cittadini italiani, per l’economia reale italiana e per le Pmi italiane».... E tutto questo valeva anche per i governi degli altri paesi dell’eurozona, ovviamente con sfumature leggermente diverse tra i governi dei paesi del “gruppo debole” e quelli del “gruppo forte” [60]....
Così come la globalizzazione – che è per molti versi un fatto inevitabile, in quanto sostanzialmente conseguenza dell’evoluzione tecnologica – già da decenni avrebbe potuto essere organizzata e gestita in modi per niente neoliberisti, affiancando ai suoi aspetti commerciali la tutela dei diritti umani (inclusi in modo particolare quelli dei lavoratori), dell’ambiente e in generale della qualità della vita della gente, anche l’euro avrebbe potuto essere gestito in modi non neoliberisti, ponendo al centro dell’interesse delle pubbliche istituzioni non tanto il potere delle élite economiche, la finanza e i finanzieri, quanto tematiche come appunto i diritti dei lavoratori, l’ambiente, l’occupazione e in generale il benessere della gente. Più specificamente, nel caso di squilibri economici tra nazioni nell’eurozona, la focalizzazione andrebbe posta non solo sulle responsabilità dei paesi che col resto di essa hanno una bilancia commerciale in forte disavanzo ma anche su quelle dei paesi con un forte attivo in tale bilancia, così da intervenire anche correggendo in questi ultimi la loro spinta relativamente eccessiva ad esportare nell’eurozona stessa grazie tendenzialmente a un’eccessiva compressione dei salari e/o della spesa pubblica di tipo sociale e ambientale: ciò nella chiara prospettiva di amalgamare maggiormente le dinamiche socio-economiche tra i vari paesi che usano come moneta l’euro e di facilitare quindi in questi paesi l’estrinsecazione del senso sociale e di quello ecologico [61].
Le alternative alla globalizzazione neoliberista sono state al centro sia delle rivendicazioni avanzate dal “movimento di Seattle” a cavallo tra 20° e 21° secolo sia della specifica opera di diversi economisti e intellettuali di vari paesi, ma quasi tutto il mondo politico planetario appare aver voluto praticamente cestinare la questione rimanendo abbarbicato ad approcci politici neoliberisti o sostanzialmente localisti [62]. Analogamente, sulle complesse e molteplici possibilità di una gestione non neoliberista dell’euro e più in generale dell’economia dell’UE si sono focalizzate diverse opere di economisti e intellettuali in Europa e non solo [63], ma sino ad ora il mondo politico europeo appare non aver minimamente raccolto il testimone in una sorta di effettiva staffetta socio-politica – in cui le riflessioni dei tecnici vengano trasformate in articolate ipotesi di progetti organici da discutere diffusamente tra la gente nella prospettiva di giungere a piattaforme rivendicative ampiamente condivise e dotate di una sostanziale completezza – e continua sostanzialmente a baloccarsi con proposte di piccoli aggiustamenti che mirano a migliorare un pochettino gli aspetti sociali delle politiche economiche nell’UE, ma senza modificarne l’impianto di base e il suo pesante classismo di fondo, oppure a limitarsi a proposte di tipo “esplosivo” che puntano sostanzialmente a tornare nei vari paesi alle monete pre-euro, rinunciando quindi in pratica a quelle possibilità. In altre parole, in ciascuno dei casi si ritrova la stessa pesante limitatezza di un mondo politico che dal punto di vista dell’economia corrente non vede più in là del neoliberismo o di un sostanziale localismo di fondo – ormai obsoleto per molti versi – e che rimane in tal modo all’interno di visioni economiche superficiali, estremamente povere di scientificità e molto più semplicistiche e meccanicistiche dell’effettiva realtà dell’attuale vita economica, intellettuale e sociale.
Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia
La responsabilità di questo andamento delle cose a livello europeo, tuttavia, non è solo di chi occupa i vertici politici nell’UE e nei paesi dell’eurozona, ma anche delle classi lavoratrici stesse, dal momento che tutti questi paesi hanno bene o male istituzioni di tipo democratico e che tali classi rappresentano numericamente un’ampia maggioranza in ciascun paese.... Anche se i meccanismi di fondo legati all’euro possono essere stati poco noti a queste classi, invece lo strangolamento economico di popoli come quello irlandese e quello greco, i meccanismi antipopolari inseriti nel “fiscal compact” (che in pratica ha riproposto le tematiche del precedente Sixpack ma in un’altra forma istituzionale) e lo specifico maltrattamento attuato in modo deliberato nei confronti dei governi Tsipras sono riusciti bene o male a giungere agli occhi e alle orecchie di buona parte della “popolazione comune” delle varie parti dell’UE. Eppure l’atteggiamento popolare è rimasto comunemente segnato più che altro dall’indifferenza, da un senso di distanza e di distacco oppure da uno spirito rinunciatario derivante da un sostanziale senso di impotenza. Dietro a questo atteggiamento si può intravedere all’opera una serie di dinamiche.
In primo luogo – come si metteva in rilievo in Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017) riprendendo e ampliando considerazioni già espresse in precedenza [64] – «in un gran numero di paesi la popolazione sembra non aver ancora compreso chiaramente [...] che la lotta per la trasparenza amministrativa e contro le varie forme di corruzione e di incapacità dei politici non è soltanto un’ovviamente giustificatissima rivendicazione di civiltà e di lotta agli sprechi, ma è anche la base stessa della possibilità di tenere in piedi nel tempo uno “Stato sociale” capace di agire con efficacia nel controbattere la povertà, le recessioni economiche, i dissesti ambientali, ecc.. Malgrado la sua grossolanità e il suo essere quanto mai controproducente, è una lacuna presente quasi ovunque da numerosi decenni nella cultura dei movimenti politici che si dicono vicini alle classi lavoratrici». Non riuscendo a discernere questa fondamentale questione della vita sociale, in molti paesi le masse lavoratrici hanno dunque continuato per anni a votare partiti che a parole si dicevano di sinistra e che erano invece pesantemente affetti da arrivismo, corruzione, incompetenza, ecc.; quando poi questi nodi hanno cominciato ad arrivare al pettine mostrando sia l’evidente incapacità di tali partiti di gestire efficacemente uno “Stato sociale” sia l’ormai amplissimo distacco formatosi tra la dirigenza di questi partiti e le classi lavoratrici, gran parte di queste ultime si è limitata a rivotare ciecamente i medesimi partiti, oppure a scegliere altrettanto ciecamente – magari a mo’ di protesta – qualche partito particolarmente bravo in discorsi populisti e appartenente alla destra o al cosiddetto centro, oppure ad astenersi alle elezioni, il tutto senza peraltro cercare di avviare qualche altra corposa forma di organizzazione politica che si impegnasse per essere più efficace nel rappresentare la grande maggioranza lavoratrice. Si tratta di scelte che, tra l’altro, mettono in evidenza il fatto di non saper più uscire da un atteggiamento in cui si delega pressoché totalmente la politica ai politici....
Come denunciava amaramente tra gli altri Claudio Cagnazzo in Le strade tortuose della nuova politica (Rocca, 15 aprile 2019), in politica «il paese ed i suoi abitanti non sembrano ragionare più per grandi schemi e vogliono semplicemente delegare a qualcuno i singoli problemi, da qualsiasi parte egli stia» (sinistra, destra, centro, o che altro...). E ciò anche perché questa specifica terminologia che tende a distinguere le diverse aree del mondo politico in base al loro modo di rapportarsi con le classi sociali sta perdendo sempre più di significato – per lo meno per i “non addetti ai lavori” – a causa della falsità, dell’ambiguità e/o della sostanziale incapacità di gran parte del ceto politico [65].... Cagnazzo nell’articolo parlava dell’Italia, ma avrebbe potuto parlare anche di molte altre parti del mondo, non solo in Europa ma in tutti i continenti....
In secondo luogo – e questo è forse il lato più grave dal punto di vista della coscienza sociale – vi è il disinteresse di fondo che tendono ad avere i lavoratori di un paese per i lavoratori degli altri paesi, inclusi i paesi più vicini.... Come si ricordava di nuovo in Oltre Keynes sempre sintetizzando temi che erano stati approfonditi già anni prima in alcuni articoli [66], la globalizzazione è «il costituirsi di una sorta di mercato unico mondiale a seguito di sviluppi tecnologici come l’informatica, la velocizzazione dei trasporti, ecc.. [...] Parallelamente ci dovrebbe essere anche un’evoluzione della cultura popolare verso il comprendere che in un tale mercato unico – in cui già da decenni le élite economiche agiscono palesemente senza alcun pregiudizio nazionale, etnico, religioso, ecc. – anche i lavoratori per potersi difendere hanno bisogno di giungere a ragionare senza tali pregiudizi, che li dividono in mille segmenti separati. Ciò finora non è minimamente avvenuto – a parte il breve exploit del “movimento di Seattle” 15-20 anni fa, con la sua trasversalità Nord-Sud e le sue ampie e generalmente lucide proposte di regolamentazioni socio-ambientali internazionali – anche se la globalizzazione ha ormai un quarto di secolo. Questo enorme ritardo – tanto più nell’odierno mondo economicamente così interconnesso – nel cogliere il valore e il complesso significato umano, culturale, dialogico, sindacale e politico del proverbiale motto socialista “lavoratori di tutti i paesi, unitevi”, dei diritti umani sanciti dalla “Dichiarazione universale” del 1948 e del senso di fratellanza mondiale promosso sia dall’umanesimo che dai messaggi originari di tutte le principali religioni è forse il fattore più nodale nella palese e persistente incapacità dei lavoratori di tutelare con efficacia i propri interessi nell’attuale economia globalizzata. Così, finisce con lo sfuggir loro anche l’evidente fatto che la scala più naturale per le politiche keynesiane oggi sarebbe quella mondiale, o per lo meno una ampiamente internazionale»....
In altre parole – per quanto riguarda in particolare la situazione europea – colpisce l’estrema scarsità di attenzione, di interessamento, di solidarietà e di vicinanza sociale e politica che hanno mostrato non solo i governi ma anche le classi lavoratrici degli altri paesi dell’UE ogni volta che la “popolazione comune” di un paese membro è stata presa direttamente di mira dai vertici dell’UE mediante l’imposizione di piani di austerità più o meno brutalmente antipopolari: è successo così con l’Irlanda, con la Grecia, con la Spagna, con Cipro, con alcuni dei paesi che erano stati all’interno del “patto di Varsavia” e anche con nazioni che hanno patito un po’ di meno con i loro particolari piani, come il Portogallo e l’Italia. Men che meno da questa serie di brutali esperienze è riuscito a sorgere un movimento transnazionale che ponga pubblicamente la questione – che pure costituirebbe evidentemente un’esigenza sociale vitale in gran parte dell’UE – di ritarare e riscrivere alcuni precisi e specifici aspetti degli accordi in vigore nell’Unione, suggerendo con forza per tale opera anche una sorta di “bozza di partenza” che tuteli ampiamente gli interessi non solo delle élite economiche ma anche e soprattutto delle classi lavoratrici. Continua a perpetuarsi drammaticamente in tal modo l’incapacità di queste classi di pensare e agire in termini internazionali a dispetto dei circa tre decenni compiuti ormai dalla globalizzazione e, più specificamente, degli ormai numerosi decenni di sviluppo e ampliamento della Comunità Europea (oggi UE)....
Come si è accennato nel 2018 in Dopo gli errori di Seattle, questa serie di comportamenti sia dirigenziali che popolari è emersa nella cosiddetta sinistra soprattutto durante il Novecento, mentre la «sostanziale fusione dell’azione socio-economica e di quella politica era [...] uno dei punti-cardine del “socialismo scientifico” marx-engelsiano ed emerse come approccio vincente nel movimento dei lavoratori della seconda metà dell’Ottocento», un approccio accompagnato dal fatto che parallelamente «Marx ed Engels erano [...] divenuti attentissimi alle valenze democratiche dell’azione dei socialisti» [67]. Una tale fusione invitava in particolare le classi lavoratrici a partecipare in prima persona sia alle lotte di tipo sindacale o civile sia a quelle politiche, approfondendo i temi di tali lotte in maniera sufficiente a non limitarsi a seguire come pecore qualche leader, ma sviluppando ciascuno una propria autonomia personale di pensiero sia nel campo sindacale e civile che in quello politico. Sottolineava p.es. Friedrich Engels nella sua Introduzione alla ristampa del 1895 di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, di Marx: «Tutte le passate rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con quello di un’altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Così una minoranza dominante veniva rovesciata, un’altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello Stato, e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi». E concludeva: «È passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni della società, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta [...]. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi cinquant’anni. Ma affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso». Nel ’900 invece – a mo’ di sintesi di quanto si osservava in Dopo gli errori di Seattle – le maggiori correnti di fondo in cui si divise il movimento dei lavoratori («la “sinistra moderata”, di solito nettamente subordinata alla visione politica borghese, e la “sinistra rivoluzionaria”, comunemente caratterizzata [...] da un costante e praticamente irriducibile antagonismo nei confronti della borghesia» e dalla «tendenza a vedere la politica soprattutto nella prospettiva di una presa del potere e a concretizzare rivoluzioni anticapitalistiche sistematicamente sfociate poi in regimi fortemente repressivi») «hanno prodotto una frattura molto profonda [...] tra ceto politico e classi lavoratrici. [...] Queste due maniere di intendere l’azione politica – entrambe alla fin fine elitarie e distaccatissime dalla vita quotidiana della gente – hanno allontanato e separato sempre più le classi lavoratrici da una partecipazione personale a tale azione».
In breve, il sostanziale fallimento novecentesco sia della “sinistra moderata” che della “sinistra rivoluzionaria” – l’una succube delle élite economiche, con la loro tendenza alla corruzione della politica, alle guerre e negli ultimi decenni alla globalizzazione neoliberista, e l’altra incastrata alla fin fine in una visione volontaristica, autoreferenziale, verticistica, oppressiva e antidemocratica delle prospettive della società [68] – ha lasciato in sostanza quasi dappertutto le classi lavoratrici senza degli autentici rappresentanti politici capaci di esprimerne in maniera genuina e soprattutto duratura le esigenze e le aspirazioni. Fanno parzialmente eccezione due ulteriori correnti che hanno acquisito un certo peso nella sinistra durante l’ultimo secolo: da un lato, vi sono quelle aree della sinistra che operando in senso praticamente riformista si sono dimostrate notevolmente capaci di concretezza sociale ed economica nel loro rispettivo ambito nazionale mantenendo però una generale scarsità d’azione sul piano internazionale, come è avvenuto soprattutto in alcuni paesi dell’area scandinava e dell’America latina (in tempi recenti si sono posti in questa direzione anche formazioni politiche come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna) [69]; dall’altro lato, quella che può essere chiamata “sinistra spontaneista” è riuscita in vari luoghi e in varie occasioni ad esprimere genuinamente alcune delle esigenze e delle aspirazioni delle classi lavoratrici (anche perché in effetti in parecchie situazioni è stata davvero una forma organizzativa autonoma – e sovente ampiamente democratica – di queste classi), ma rapidamente si è trovata poi tipicamente in difficoltà a dare a tale espressione non solo durevolezza e stabilità ma anche un’ampia multidirezionalità, di fronte ad “avversari di classe” comunemente molto più organizzati e coesi su una scala non solo nazionale ma per molti versi anche praticamente mondiale, oltre che ovviamente molto più dotati di risorse economiche. Podemos in effetti costituisce il tentativo di dare dal 2014 un formato istituzionalmente rilevante a un movimento popolare del tutto spontaneo che era nato nel 2011 nel pieno della depressione economica spagnola innescata tre anni prima dalla “crisi dei mutui”.
Negli ultimi decenni all’interno della sinistra si è anche costituita in molti paesi un’area ecologista (sulla giustificatissima spinta derivante dalle problematiche sempre più pesanti che opprimono l’ambiente, la salute pubblica e le risorse naturali), ma è un’area che dal punto di vista delle strategie generali e della concezione della politica ha mutuato una grandissima parte dei suoi modi di essere dall’una o dall’altra delle tre principali correnti non rivoluzionarie della sinistra novecentesca: per questo motivo non appare valer la pena di approfondire ulteriormente qui gli sviluppi avvenuti in quest’area, che in pratica può essere considerata costituita da dei sottoinsiemi interni rispettivamente alla sinistra “spontaneista”, a quella “riformista incentrata sull’ambito nazionale” o a quella “moderata”.
Come effetto di tutta questa situazione, le masse lavoratrici di gran parte del mondo hanno finito col sentirsi politicamente sempre più spiazzate, per non dire orfane. Marco Revelli ha sottolineato questo genere di problematica già quasi un quarto di secolo fa nel libro Le due destre (Bollati Boringhieri, 1996), dove ha messo in evidenza i principali aspetti concreti assunti dalla questione specialmente in Italia, ma con considerazioni complessive che erano applicabili anche a molti altri paesi (ed è una problematica che si è poi ulteriormente accelerata e moltiplicata sotto la spinta della globalizzazione). E si potrebbe commentare che alla fin fine queste cose sono avvenute proprio a causa anche dell’ormai cronica distanza delle masse lavoratrici da una personale partecipazione attiva alla politica. Questa distanza aveva già prodotto la grave malattia sociale del “deleghismo politico” (vista dal basso) e del leaderismo (vista dall’alto) e aveva già portato in tal modo le masse stesse sull’orlo di una disastrosa crisi politica, che si è poi concretizzata quando – come è accaduto appunto con tempi diversi in un gran numero di paesi – è emersa col tempo la sostanziale incapacità di fondo dei loro leader.... Si è, così, corrosa sempre più quella sorta di stabile rapporto fiduciario che si era costruita in precedenza nei paesi in questione tra le classi lavoratrici e i maggiori leader della sinistra.
Un fattore nodale collegato a tale malattia – la quale tende ad essere contemporaneamente sia causa che effetto di questo fattore, in una sorta di circolo vizioso – è la presenza di una crescente ignoranza nelle classi popolari riguardo alle dinamiche politico-economiche di fondo del momento: da lì appunto un’ulteriore spinta alla cronicizzazione dell’abitudine al “deleghismo” e il non saper più uscire da quest’ultima [70]. Ciò, tra l’altro, chiarisce ancor meglio come si tratti di atteggiamenti e comportamenti che si situano proprio all’opposto di quanto cercavano di fare Marx ed Engels e il loro “socialismo scientifico”.
Negli ultimi decenni, in tantissimi dei paesi del mondo in cui le élite economiche continuano ad arricchirsi mentre i lavoratori continuano a soffrire pesantemente (tra forme di organizzazione del lavoro sovraffaticanti, alienanti, insensibili e/o vessatorie, salari decisamente bassi rispetto al lavoro compiuto e spesso addirittura anche alla possibilità stessa di una vita dignitosa dalle abbondanti potenzialità, scarsi servizi pubblici, una disoccupazione solitamente elevata, condizioni abitative e urbanistiche spesso penose, ecc.), le classi lavoratrici hanno accondisceso, senza tante contestazioni di fondo, a questo stato di cose. A seconda della struttura istituzionale della nazione in cui si trovano a vivere, tali classi hanno mostrato così di essersi fatte in pratica infinocchiare da quelle élite (nelle nazioni dotate bene o male di istituzioni democratiche), oppure di essere profondamente impaurite dalla capacità repressiva di regimi in cui i vertici politici e le élite in questione sono strettamente collegati – o addirittura coincidono – e in cui abbondano la polizia politica, l’incarcerazione di chi dissente dalle politiche governative, la disponibilità dello Stato a utilizzare contro delle manifestazioni di pacifici cittadini squadroni equipaggiati con fucili mitragliatori, autoblindo e persino carri armati, e via dicendo (questo nelle nazioni governate, appunto, in modo sostanzialmente oligarchico o dittatoriale). E tutto ciò è un segnale che nel primo gruppo di queste nazioni gran parte del ceto politico e di quello intellettuale e i maggiori mass-media hanno lavorato molto efficientemente a vantaggio di quelle élite, mentre nel secondo gruppo appaiono essere stati soprattutto l’apparato militare, quello giudiziario e appunto la polizia politica ad aver dato un sostegno molto efficiente alle élite economiche e politiche....
Data la particolare rilevanza delle questioni che si incentrano sulla democrazia e sulla partecipazione diretta della popolazione alla vita politica, appaiono decisamente opportuni qui degli approfondimenti specifici, a partire dal punto di vista storico.
Innanzi tutto, l’interessamento del “socialismo scientifico” marx-engelsiano a tali questioni si espresse in rivendicazioni miranti a un’ampia democratizzazione delle pubbliche istituzioni – privilegiando l’approccio proporzionale nei sistemi elettorali della “democrazia rappresentativa” e prevedendo delle forme esplicite di “democrazia diretta” con la possibilità di referendum popolari di tipo tanto propositivo quanto abrogativo – e a un forte decentramento amministrativo (accompagnato peraltro da un intenso spirito internazionalista, aperto tendenzialmente all’intera scala planetaria). Il tutto in una prospettiva fondata sulla riappropriazione della vita politica da parte delle classi lavoratrici, prospettiva in cui si teneva conto anche di possibilità operative collegate alla “democrazia assembleare e consiliare” (che trovò espressione nel 1871 nella “Comune di Parigi” e che con lo slogan “Tutto il potere ai soviet” venne poi inclusa tra le principali parole d’ordine della rivoluzione russa dell’ottobre 1917). Nella Russia post-rivoluzionaria, tuttavia, in brevissimo tempo l’accentramento assolutistico del potere politico nelle mani dei vertici del partito bolscevico decretò in pratica una generale sospensione di tale forma di democrazia, finché dopo qualche anno si giunse alla sua definitiva morte – e alla morte di qualsiasi forma di democrazia – nell’intero paese. Va notato che, su scale territoriali sufficientemente ristrette e/o con particolari metodologie, la “democrazia assembleare e consiliare” può anche essere sostanzialmente equivalente alla “democrazia diretta”, che in pratica dà il potere decisionale all’insieme costituito da tutti i cittadini residenti in un territorio o coinvolti in una particolare situazione.
L’orientamento antidemocratico affermatosi in Urss venne pienamente mantenuto anche dalle successive rivoluzioni cinese, cubana, vietnamita, ecc., nonostante le speranze di tutt’altro genere suscitate nella “sinistra rivoluzionaria” dell’Occidente. Nemmeno la cosiddetta “rivoluzione culturale” lanciata da Mao in Cina nella seconda metà degli anni ’60 cambiò minimamente la questione, a dispetto di slogan apparentemente antiverticistici come “fare fuoco sul comitato centrale”, “ribellarsi è giusto”, “procedere controcorrente”, ecc. (slogan che affascinarono non pochi in Occidente in quegli anni). Nei fatti, dal potere concentrato nelle mani dei vari organismi di partito si passò da un lato a poteri locali tipicamente in mano a fazioni di attivisti estremamente aggressivi e pronti alla violenza (che finivano molto spesso con l’angariare pesantemente altre fazioni e interi settori di popolazione e che erano appoggiate e manovrate da correnti e linee politiche diverse nell’ambito della dirigenza del partito) e dall’altro lato a brutali lotte di potere in tale dirigenza (e nelle correnti di quest’ultima vi furono in quel periodo anche cambiamenti dall’appoggiare una fazione e trarre forza da essa all’appoggiarne un’altra e trarre forza da questa emarginando e reprimendo la precedente “fazione favorita” di quella particolare corrente). E ciò senza che nel partito stesso si ponesse mai in modo significativo la prospettiva di restituire il potere – neppure a livello locale – a organismi effettivamente e democraticamente popolari.... Oltre tutto, a conferma di questo atteggiamento paternalistico solo fintamente aperto al popolo, la Cina continuò pure in quegli anni ad essere segnata da un forte autoritarismo imposto alle classi popolari anche a livello della vita personale, mediante sia l’applicazione di continue pressioni sociali sia l’uso di leggi specifiche: come ha ricordato p.es. Juliet Mitchell nel 1966 in La donna: la rivoluzione più lunga [71], l’ampio inserimento delle donne nei vari aspetti delle attività produttive cinesi – settore agroalimentare, fabbriche, ecc. – era «accompagnato da una pesantissima repressione sessuale e da un puritanesimo rigoroso (che si fa sentire di continuo nella vita civile)»; di converso a questa situazione che proseguì anche durante tutto il decennio della “rivoluzione culturale”, numerose voci hanno fatto notare che i vari strati dirigenziali del partito si permettevano generalmente molta più libertà nella loro vita sentimentale e sessuale....
In queste circostanze, anche aspetti della “rivoluzione culturale” ampiamente positivi per le classi popolari – come quelli sintetizzati p.es. in Economia e organizzazione del lavoro in Cina, di Manlio Dinucci (Mazzotta, 1976), e in L’uso del territorio in Cina, a cura di Enzo Mingione (Mazzotta, 1977) – finirono con l’essere indeboliti, minati e resi temporalmente fragili da quelle lotte spesso personalistiche tra correnti e tra fazioni, dalla frequente presenza di forti tendenze pesantemente dogmatiche (inclusa la crescente mitizzazione del “pensiero di Mao Tse-tung”), dal costante predominio dell’ideologia assolutistica secondo cui in pratica “il nucleo centrale del partito sta al di sopra di tutto” e dalle laceranti contraddizioni tra il ruolo formalmente predominante dei lavoratori nella società e la loro impossibilità di determinare liberamente anche soltanto la propria vita personale.... In italiano, per alcuni “esempi a caldo” delle valenze controproducenti collegate a questa serie di dinamiche politico-sociali, cfr. p.es. le varie voci – tra loro discordanti – che sono state raccolte in Cinesi, se voi sapeste... - Li Yizhe: Democrazia e legalità nel socialismo (Feltrinelli, 1976), voci che a una lettura attenta si rivelano particolarmente espressive sia per quanto dicono e per come lo dicono, sia per quanto è assente dai loro discorsi a più di 25 anni di distanza dal successo della rivoluzione cinese.... Dopo la morte di Mao (avvenuta nel settembre 1976), nella dirigenza del partito le lotte di potere vennero rapidamente stravinte dai sostenitori di una possente apertura economica della Cina ai meccanismi del mercato – che erano stati in gran parte rifiutati e combattuti sino a quel momento da tutti i regimi del “socialismo reale”, i quali in tal modo avevano finito tutti col ritrovarsi immersi in una serie pressoché infinita di pesanti contraddizioni economico-produttive [72], con la conseguenza di intense sofferenze della popolazione – e addirittura al rampante e brutale capitalismo neoliberista protagonista dell’attuale globalizzazione e causa anch’esso di un’ulteriore ondata di intense sofferenze popolari (in Cina come in gran parte del mondo): un’apertura accompagnata però dal fatto che non si potesse mettere minimamente in discussione l’assoluta autorità politica dei vertici del partito, autorità che in pratica è rimasta immutata dal 1949 ad oggi pur con l’innumerevole serie di corposi cambiamenti di linea politica che si sono susseguiti sin da allora.
A confronto, dal 1900 in poi le altre correnti della sinistra che in questo o quel paese hanno acquisito un certo peso politico hanno generalmente prestato una considerevole attenzione sul piano istituzionale solo agli aspetti più di spicco inerenti alle leggi elettorali della democrazia rappresentativa. In pratica, dei dettagli del funzionamento di questa se ne sono occupati intensamente di solito quasi solo gli esponenti della “casta politica” che avevano lo scopo precipuo di consolidare tale status di casta ai danni dei “cittadini comuni”; a sua volta, la democrazia diretta ha acquisito un ampio ruolo solo in un paio di nazioni (la Svizzera e molto più recentemente la Bolivia); nel contempo, con la democrazia assembleare e consiliare – che in pratica si basa su assemblee di base e a livelli territoriali più vasti su Consigli di delegati – hanno avuto a che fare molto più i movimenti della “società civile” che il mondo politico. Anche la sinistra rivoluzionaria, quando non al potere, ha seguito comunemente un’analoga linea d’azione. A tutto questo hanno fatto radicalmente eccezione solo i movimenti tribali socialmente impegnati – che tendono a rivendicare delle proprie forme tradizionali di democrazia, eventualmente “aggiornate” in base alle esigenze poste dal mondo attuale (cosa che ha ottenuto particolari successi appunto in Bolivia con la nuova Costituzione del 2009) – e i rari movimenti che nel Terzo mondo hanno elaborato concezioni istituzionali come la proposta gandhiana rivolta negli anni ’40 alla “grande India” e altre più o meno simili [73]. Una delle caratteristiche principali di questi approcci tribali o “gandhiani” alla democrazia è – nel caso in cui siano coinvolte delle popolazioni che nell’insieme hanno culture e tradizioni notevolmente diversificate – la presenza di un forte senso di autonomia locale, in base al quale spetta a ogni singola comunità scegliere il modo di esprimersi democraticamente sulla propria scala locale (vi possono essere p.es. comunità che tendono a decidere a maggioranza in un’assemblea plenaria, altre che tendono a procrastinare le decisioni finché non si ottiene una sostanziale unanimità tra i membri della comunità, altre che tendono concordemente a delegare le decisioni conclusive a un “Consiglio degli anziani”, altre maggiormente popolose che hanno bisogno di processi decisionali più complessi, e così via) e di nominare dei propri delegati per gli organismi di coordinamento territoriale che si riferiscono a scale più vaste di quella locale.
Dopo essere pressoché scomparsa per mezzo secolo dalla vita sociale delle parti del mondo uscite dallo stadio tribale (che a sua volta è sopravvissuto in pratica soltanto in diverse foreste pluviali e in poche altre aree “marginali” del pianeta), un’autentica democrazia assembleare e consiliare è ricomparsa in parte in tali parti del mondo durante gli ultimi decenni, in forme di tipo prevalentemente locale collegate – appunto – soprattutto a delle esperienze di movimenti sindacali o studenteschi (a partire dagli anni intorno al ’68) o alla cosiddetta “democrazia partecipativa”, intesa sostanzialmente come complemento e integrazione degli organismi locali della democrazia rappresentativa.
Un esempio molto interessante e significativo delle speranze suscitate in Occidente dalla “rivoluzione culturale” cinese – fin tanto che permasero le illusioni sulle sue valenze antiverticistiche e sulla sua qualità politica concreta – lo si può trovare in un libro, Ribellarsi è giusto (Einaudi, 1975), costituito da una prolungata conversazione a più fasi (dal novembre 1972 al marzo 1974) tra Philippe Gavi, giornalista del quotidiano Libération, Jean-Paul Sartre, filosofo e scrittore ormai famoso, e Pierre Victor, giovane esponente di spicco di un’organizzazione maoista francese.
In particolare, nel dicembre 1972 Victor osservava che, «dopo il Maggio ’68», in Francia un’ampia parte del movimento operaio e studentesco ha «respinto una tradizione marxista fondata sul Che fare? di Lenin [del 1902, N.d.R.]. In quest’opera Lenin riprendeva la “teoria filosofica della coscienza” propria della socialdemocrazia tedesca [post-marxengelsiana, N.d.R.]. Vi si legge che la coscienza è elaborata al di fuori della classe operaia e che deve essere immessa nella pratica spontanea della classe operaia. Un tale schema ebbe come esito la costruzione di un concetto di “proletariato incosciente” che avrebbe procurato non pochi guai al partito bolscevico. Ciò s’è manifestato chiaramente al tempo della prima rivoluzione del 1905. I bolscevichi si sono ritrovati bruscamente di fronte ad un movimento spontaneo, a delle organizzazioni di massa spontanee (i soviet), che nel senso stretto essi non potevano considerare che come organizzazioni di proletari incoscienti, dato che la coscienza apparteneva al partito socialdemocratico. Prodigioso paradosso: la più sviluppata forma d’organizzazione dell’autonomia operaia, il soviet, era considerata un insieme di proletari incoscienti».... In seguito, attraverso «il riconoscimento [...] che esistono delle forze creatrici nella classe e nel popolo», «Lenin si accorse che il soviet era una creazione e che quindi bisognava ripensare la tattica socialdemocratica a partire dalla realtà del soviet. Lo fece, e non senza conflitti: e i conflitti furono risolti, provvisoriamente d’altronde, soltanto nel 1917. In realtà il conflitto [sulla questione, N.d.R.] è permanente nel pensiero di Lenin. Se si riconosceva nel soviet una prodigiosa organizzazione operaia di massa, il rapporto del soviet con un partito [...] fondato sui princìpi del Che fare? [...] rappresentava un grave conflitto. Se il partito incarna la coscienza collettiva della classe operaia, il soviet non ha più senso: ciò è evidentemente una delle basi filosofiche della perdita di sostanza dei soviet [che appunto sono stati svuotati molto rapidamente di significato in Urss dopo il 1917, N.d.R.]. Dopo il ’68 noi diciamo: tutto quello che ci viene da questa tradizione kautzkista del Che fare? noi lo respingiamo. È la sanzione teorica della nostra rivolta contro il marxismo autoritario. [...] Qual è allora l’enunciato positivo del pensiero maoista? Il nostro pensiero in questo momento si definisce come l’insieme dei mezzi per liberare il pensiero pratico di massa» nell’azione politica, sociale, ecc.. In breve – sintetizzava Victor – «rompendo con il marxismo autoritario» abbiamo «rigettato il kautskismo presente nel pensiero di Lenin, precisamente nel Che fare?», e «riconosciamo l’esistenza di una forza spirituale creatrice nelle masse oppresse». Aveva anche precisato Victor sempre in quel dicembre: «Vogliamo una democrazia diretta sostenuta da organi di potere: organi di potere decentrati, nelle imprese e in tutti i settori sociali».
Questa frase aveva immediatamente ottenuto il pieno consenso di Sartre, che poco dopo aveva aggiunto: «Uno Stato repressivo non considera mai i cittadini maggiorenni. È un fatto che colpisce in Urss. Io sono con voi [cioè con l’organizzazione maoista francese di cui faceva parte Victor, N.d.R.] perché voi, almeno apparentemente, volete preparare l’avvento di una società che non sarà fondata sull’autoaddomesticamento dell’uomo, ma sulla sua sovranità». E «io penso che la società che dovrebbe nascere dalla rivoluzione dovrebbe essere una società di uomini liberi e adulti», «maggiorenni» appunto.
Tuttavia, col passare degli anni le informazioni giunte dalla Cina in Occidente sono diventate sempre meno propagandistiche e immaginifiche e sempre più concrete e drammaticamente sfaccettate, fino a mostrare in modo ineludibile che il “pensiero di Mao Tse-tung” non era affatto così antiverticistico, vicino al popolo e politicamente lucido come era stato presentato da Mao stesso e dai suoi sostenitori in Cina, ma anzi presentava caratteri di lotta personalistica tra correnti politiche, di esasperata violenza, di orientamenti patriarcali e di una tendenza al culto del leader che ricordavano per molti aspetti lo stalinismo, pur sotto una superficie così diversa (con le “Guardie Rosse” e le “Squadre di Propaganda del Pensiero di Mao” al posto dei burocrati di partito fedeli a Stalin e della polizia politica collegata al partito...).
A questo proposito, si può mettere in evidenza che il paternalismo dominante nell’esperienza post-rivoluzionaria cinese ha trovato le sue espressioni politiche più palesi probabilmente in due temi cruciali del “pensiero di Mao Tse-tung”. Da un lato, recita il famoso intervento di Mao Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo (del 1957): «Il nostro Stato è una dittatura democratica popolare diretta dagli operai e fondata sull’alleanza tra operai e contadini. [...] Questo significa che la democrazia è praticata in seno al popolo e che la classe operaia, unendosi con tutti coloro che godono dei diritti civili, i contadini in primo luogo, esercita la dittatura sulle classi e gli elementi reazionari e su chiunque si oppone alla trasformazione e alla edificazione socialiste. [...] Nel mio intervento alla II sessione della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, nel giugno 1950, dicevo [...]: “La dittatura democratica popolare usa due metodi. Nei confronti dei nemici, usa il metodo della dittatura [...]. Nei confronti del popolo, al contrario, non usa il metodo della costrizione, ma il metodo democratico; in altre parole, deve necessariamente permettergli di partecipare all’attività politica e non lo costringe a fare questa o quella cosa, ma usa il metodo democratico dell’educazione e della persuasione» (concetto ribadito più e più volte...) [74]. Ecco a cosa il maoismo ha ridotto – svuotandoli – la nozione di democrazia e lo spirito di quest’ultima: all’equazione “democrazia = educare e persuadere il popolo (dall’alto, ovviamente...)”. La stessa cosa, del resto, l’hanno fatta in pratica prima il bolscevismo a poco a poco in Russia, poi lo stalinismo con una decisione e una violenza molto maggiori in tutta l’Europa orientale, poi il castrismo a Cuba, ecc.. Ed è spaventosamente ipocrita, oltre che fasullo come un bullone di stagno spacciato per acciaio, che in quell’intervento Mao – leader istituzionale di un paese in cui la gerarchia del partito al potere poteva per certi versi fare e disfare quanto voleva su qualsiasi argomento, cosa che in pratica aveva già fatto più volte a partire dal 1949 (come mostrano in modo particolare la progressiva invasione del Tibet e la rilucente e libertaria campagna dei “Cento fiori” trasformata rapidamente poi in un’occasione di vasta repressione punitiva) e continuò a fare anche dopo il 1957 – arrivasse ad aggiungere che «la nostra democrazia socialista è la più ampia forma di democrazia, una democrazia che non può esistere in nessuno Stato borghese»....
Dall’altro lato, affermò Mao in un discorso tenuto il 21 luglio 1966, durante la fase iniziale della “rivoluzione culturale” (il Discorso ai dirigenti del Centro, apparso per iscritto in Cina in quegli anni in diverse antologie di testi di Mao realizzate dalle “Guardie Rosse” e da altre organizzazioni simili): «Combattere, in particolar modo combattere l’ideologia “autoritaria” borghese, significa distruggere. Senza questa distruzione non si può edificare il socialismo e noi non possiamo nemmeno portare avanti in primo luogo la lotta, in secondo luogo la critica, in terzo la trasformazione» [75]. In questo e in altri discorsi paralleli, all’epoca Mao non fece obiezioni al ripetuto uso delle bastonate e di altre forme di violenza da parte delle squadre di attivisti alle quali la sua strategia politica si appoggiava in quel periodo. Colpisce questa enfasi sulla distruzione e su una successiva critica pubblica – intesa anch’essa allora in una maniera personalistica, estremamente aggressiva e spesso violenta, oltre che ferocemente umiliante (simile alla gogna cui nell’Europa medioevale il potere condannava frequentemente contestatori, piccoli delinquenti, ecc.) e, per di più, non di rado priva di sostanziali giustificazioni – come necessarie e propedeutiche alla trasformazione socialista (che lo stesso Mao dirigeva in Cina ormai da una ventina d’anni...). Dato l’insieme delle circostanze, è un’enfasi che appare essere stata soprattutto una scusa fittizia – e pesantemente fuorviante dal punto di vista politico, sociale, etico, ecc. – per stabilire in modi ancora radicalmente antidemocratici e fondati sul leaderismo, sull’aggressività, sulle minacce e sulla forza le priorità, le prospettive e gli equilibri di potere nella vita pubblica del paese.
La progressiva presa internazionale di coscienza di tutto questo ha fatto praticamente scomparire le organizzazioni maoiste dall’insieme dei movimenti alternativi in Occidente (anche perché – come sottolineava nell’ottobre 1973 Gavi in quel libro – ormai se si voleva cercare di «costruire in Francia una maggioranza per il socialismo» doveva trattarsi di «un socialismo libertario»: concetto applicabile già all’epoca praticamente in tutto l’Occidente). L’organizzazione stessa in cui militava Victor si è disciolta nel movimento generale dell’estrema sinistra francese nel corso del 1973. Ciò non toglie che molte delle critiche formulate a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 dai maoisti occidentali nei confronti delle varie forme del cosiddetto “marxismo autoritario” (che con Marx in realtà non ha nulla a che fare) fossero quanto mai centrate: p.es., le critiche di Victor qui già citate. È che ci si è accorti che occorreva aggiungere anche il maoismo tra quelle forme....
Tra l’altro, l’intero libro-conversazione di Gavi, Sartre e Victor contribuisce a mostrare quanto le principali prospettive politico-economiche di fondo sviluppate da Stalin – il “socialismo in un solo paese” e il cosiddetto “socialismo di Stato” – fossero di fatto ormai sostanzialmente egemoniche e prese acriticamente per scontate in Europa anche in quell’ampia parte della “sinistra rivoluzionaria” che specialmente negli anni intorno al ’68 era giunta a contestare profondamente quelli che emergono come i maggiori aspetti del machiavellismo staliniano: oltre al pesantissimo senso del verticismo politico e della gerarchia, «i milioni di kulaki massacrati o deportati, l’esecuzione degli anarchici o dei trotzkisti, la liquidazione dei compagni dissidenti», ecc., come elencava criticamente Gavi nell’ottobre 1973. E questo ha marcato una grandissima distanza dal pensiero marx-engelsiano, che vedeva la rivoluzione socialista come un’iniziativa che per tutta una serie di corpose e complesse ragioni – che appaiono esser state tendenzialmente confermate dalle vicende storiche successive – avrebbe dovuto prender piede non solo con uno spirito fortemente democratico, ma anche su una scala ampiamente internazionale che includesse per lo meno una gran parte del mondo industrializzato [76]. Si potrebbe dire che Marx ed Engels, al di là degli slogan e delle frasi roboanti che menzionavano così spesso i loro nomi, fossero davvero i “grandi sconosciuti” del pensiero – e dell’azione – della sinistra novecentesca....
Peraltro, un certo riavvicinamento con i due filosofi del “socialismo scientifico” ottocentesco ha cominciato a prendere appunto forma negli ultimi decenni del ’900 con la “nuova” – ma in realtà anche “vecchia”, come avviene del resto a un gran numero di buone idee... – elaborazione di un movimento socialista finalmente libertario, antidogmatico, antiautoritario, trasparente politicamente e attento alla presenza di forme di effettiva democrazia: direzione in cui si sono mossi esplicitamente Gavi, Sartre e Victor alla fine di quel libro, così come hanno fatto parecchi altri nel loro percorso politico ed esistenziale nelle varie parti del mondo a partire dall’epoca del ’68, e come aveva fatto un secolo prima gran parte del movimento socialista ottocentesco sulla spinta soprattutto della fondazione e del successivo sviluppo della “prima Internazionale”, alla quale Marx ed Engels dedicarono decisamente una grande quantità d’impegno e d’energia.
Dal punto di vista delle prospettive del movimento socialista e della sua storia, uno dei meriti specifici di un libro come Ribellarsi è giusto (e naturalmente delle esperienze umane e politiche che gli stanno dietro) è l’aver messo esplicitamente in evidenza – in modo simile al fatto che già nel Manifesto del partito comunista del 1848 Marx ed Engels misero in evidenza che per andare oltre l’utopismo il movimento socialista doveva prendere coscienza di varie dinamiche della vita sociale, tra le quali in particolar modo la lotta di classe e gli altri aspetti della dialettica delle classi presente nella storia umana – che una società i cui governanti asseriscono di porsi in maniera non classista ma nella vita politica rinunciano in maniera duratura ai processi decisionali democratici prende inevitabilmente la strada dell’autoritarismo, che a sua volta è incompatibile con un movimento autenticamente socialista. In altre parole, per non ricadere nell’utopismo e in una drammatica e oppressiva caricatura di se stesso il movimento socialista ha l’imprescindibile necessità di prendere coscienza anche del fatto che – con l’eccezione di quanto può eventualmente avvenire in brevi periodi caratterizzati da sollevazioni, insurrezioni, rivoluzioni, ecc. – i processi decisionali democratici in politica sono inscindibili dalla prospettiva socialista (come del resto suggerirono ampiamente in vari scritti anche Marx ed Engels). E una misura adeguata di quella brevità può essere quantificata in «qualche mese o al massimo [...] qualche anno», come si è già messo in evidenza in Dopo gli errori di Seattle.
In estrema sintesi, la rottura novecentesca tra da un lato il pensiero e l’azione del movimento socialista e dall’altro lato l’approfondimento dell’esperienza della democrazia e lo studio dei meccanismi interni di quest’ultima appare essere stata uno dei fattori fondamentali che, col tempo, hanno indebolito enormemente il movimento stesso e hanno finito drammaticamente col rendere di fatto i lavoratori delle varie parti del mondo quasi impotenti di fronte alla globalizzazione neoliberista degli ultimi decenni.
Ciò soprattutto in quanto la democrazia, intesa come luogo decisionale spettante effettivamente al popolo (e non certo come operazione di persuasione delle masse dall’alto, operazione che in realtà non ha nulla a che spartire col termine “democrazia”, che proviene dal greco antico e significa letteralmente “potere del popolo”, in sintonia con una serie di esperienze politico-amministrative realizzate in città di cultura greca durante il 1° millennio a.C.), costituisce comunque un’attività e un vero e proprio esercizio sociale, comunicativo e intellettuale – paragonabile come senso intrinseco agli esercizi sempre più complessi che si possono compiere nello sviluppo delle tecniche professionali, nelle arti marziali, in sport di destrezza come la ginnastica artistica, ecc. – attraverso i quali il popolo stesso si evolve, matura, apprende dall’esperienza e dalle difficoltà, impara a dialogare maggiormente al proprio interno, esercita le proprie capacità, si assume le proprie responsabilità nella sfera pubblica, ha occasione di correggere eventuali propri errori precedenti, ecc.. Senza un’effettiva democrazia, tutto questo può accadere solo in minuscola parte [77]....
L’insensibilità, il cinismo e la miopia elevati a sistema
Dato che i sostenitori del neoliberismo predicano comunemente lo strapotere dei mercati (con l’eccezione rappresentata appunto dalle occasioni in cui qualche settore delle élite economiche può trovare qualche giustificazione d’emergenza – vera o fasulla che sia – per usare scopertamente o sotterraneamente dei fondi pubblici a proprio vantaggio [78]...), qual è il metodo neoliberista per rispondere a realtà come i “fallimenti del mercato”, che hanno effetti problematici non solo innegabili e inequivocabili, ma spesso anche drammatici?
Come si è già parzialmente accennato, in pratica la risposta neoliberista è aspettare che le conseguenze dell’uno o dell’altro di questi vari fallimenti diventino così gravi da dare origine a un mercato – di tipo strettamente privatistico oppure attivato da forme straordinarie di spesa pubblica – per le varie iniziative che potrebbero tamponare, correggere o eventualmente risolvere alla radice tali conseguenze. In molti casi, così l’iniziativa privata ci potrà beffardamente guadagnare due volte: prima, scaricando gratuitamente su una parte più o meno ampia della popolazione gli effetti negativi (spesso definiti in linguaggio tecnico come “esternalità”) di un modo cinico di produrre e/o di operare nell’ambito dell’economia; dopo, facendosi pagare per porre qualche rimedio a quegli effetti negativi....
Ovviamente, questo atteggiamento presuppone – o implica, a seconda che si voglia guardare alle cose attraverso la psicologia o la sociologia... – che per i sostenitori del neoliberismo le uniche cose veramente interessanti siano appunto gli interessi economici e il benessere materiale delle classi privilegiate e che tutto il resto per loro non significhi alla fin fine praticamente nulla. E non si tratta soltanto di un’estrema insensibilità per le questioni umane (la disoccupazione, la fame, la miseria, le malattie da indigenza, da scarsità di acqua potabile, da inquinamento, da sovraffaticamento lavorativo o da stress cronico, lo scarso accesso di un gran numero di persone a una sanità efficace, le distruzioni provocate dai disastri naturali in via di moltiplicazione come conseguenza dell’effetto serra, ecc.): si tratta anche di un estremo menefreghismo sia per la natura e le sue creature sia per il “paesaggio complessivo” presente in gran parte del pianeta.
Il culmine di questo vero e proprio disprezzo per tutto quanto non procuri un guadagno, un rafforzamento del potere o un soddisfacimento di qualche piacere eminentemente materiale a degli esponenti delle classi privilegiate – un disprezzo che può essere considerato una sorta di esasperazione ed estremizzazione degli aspetti della cultura patriarcale maggiormente egocentrici, utilitaristi, aggressivi e antropocentrici – è il costante e pesantissimo danno che da svariati decenni colpisce la biodiversità planetaria, con un’estrema accelerazione rispetto al pur significativo impatto che in epoche tecnologicamente meno sviluppate l’umanità le ha provocato per millenni con la sua solitamente scarsa attenzione per gli ecosistemi naturali. La capacità umana di disboscare, inquinare, desertificare e dissotterrare ha ricevuto un’enorme spinta dal boom tecnologico novecentesco, e tra gli effetti di questa moltiplicata capacità c’è la totale scomparsa di migliaia di specie viventi – animali e vegetali – ogni anno (tra le quali pressoché sicuramente, pur nella nostra estrema ignoranza su moltissimi aspetti della natura, anche specie che al di là del loro intrinseco e ovvio valore vitale avrebbero potuto pure insegnarci molte cose dal punto di vista medicinale o tecnico-scientifico in genere). Questa perdita di biodiversità – una perdita in cui viene distrutta un’ampia parte di una creatività naturale che ha impiegato milioni di anni ad esplicarsi – rimarrà ovviamente irrecuperabile, ma per chi ha sostenuto nel recente passato e continua a sostenere oggi che al mercato vada data un’ampia libertà di disboscare, inquinare, desertificare, dissotterrare, ecc., e in tal modo distruggere appunto la biodiversità, non importa nulla di tutto questo....
Si aggiungano a ciò, poi, gli altri effetti della vera e propria guerra che l’umanità (o meglio, le sue élite economiche col supporto di quelle politiche) sta facendo all’ambiente e se ne ricava un quadro mostruosamente devastante: dallo smog, che tra polveri sottili, diossido di azoto e altre sostanze inquinanti atmosferiche provoca milioni di morti all’anno su scala planetaria [79], all’effetto serra, che sta mettendo a repentaglio la vita di intere generazioni sulla Terra; dai pesticidi e da altre sostanze tossiche, che stanno avvelenando terreni, acque, cibi e settori dell’atmosfera in tutto il mondo, alla plastica, che sta invadendo praticamente tutti i mari e gli oceani del globo; dall’erosione dei terreni agricoli, provocata soprattutto dalle monocolture, alla crescente desertificazione di terre un tempo verdeggianti, che appunto è conseguenza soprattutto del disboscamento attuato in zone climatiche particolarmente “sensibili” come le fasce tropicali ed equatoriali; e via dicendo. Da tempo il risultato di tutto questo va ormai oltre le possibilità di difendersene che possono avere anche i “grandi ricchi”: pesticidi, microplastiche e altri prodotti chimici spesso cancerogeni sono presenti ormai ovunque, diffusi persino nelle zone artiche ed antartiche a seguito della circolazione planetaria dei venti e delle acque, ed entrando nella catena alimentare sono penetrati nell’organismo praticamente di ogni essere vivente, inclusi gli esseri umani (tra i quali ovviamente anche i “grandi ricchi” stessi); ormai da tempo è ben noto che l’effetto serra sta minacciando conseguenze climatiche ed ambientali così gravi da indurre sul pianeta, tra pochi decenni, uno stato complessivo di carestia oltre a svariate situazioni apertamente disastrose in numerose parti del globo, con impatti sociali così pesanti e complessi da scavalcare qualsiasi genere di artificiosa protezione con cui i “grandi ricchi” possano pensare di circondarsi in futuro; e così via.
In altre parole, il neoliberismo è il trionfo non solo dell’egocentrismo, del narcisismo, di una sostanziale anaffettività umana, del dualismo classista e della spietatezza, ma anche di una miopia estremamente ignorante e stupida e pure vuotamente presuntuosa che non vede più in là del naso dei ricchi – considerando privo di significato, di valore e di importanza tutto quello che va più lontano appunto del loro naso – e crede di essere, grazie ai soldi, molto più potente della natura stessa.... Forse fino a circa mezzo secolo fa, quando l’impatto ambientale delle attività umane era ancora limitato – sia nella portata che nella diffusione geografica – da una relativa scarsità di capacità tecnologiche e dalla durata ancora relativamente breve delle attività dell’industria chimica, un tale modo di ragionare poteva ancora essere corrispondente in un certo senso alla realtà; ma dopo di allora le cose sono cambiate in modo così vasto e radicale che, da qualche decennio in qua, solo dei veri e propri idioti possono ragionare ancora in quel modo.... Le forze della natura che – a livello macroscopico e microscopico – le attività umane hanno disturbato, alterato e sconvolto negli ultimi decenni sono infatti molto più potenti di quanto possiamo anche solo pensare di poter controllare localmente. Proseguire per questa strada, continuando ad anteporre il mercato e soprattutto il guadagno, il potere e i privilegi di classe agli equilibri della natura e alle esigenze dell’umanità, non potrà che divenire un boomerang drammaticamente controproducente che – come già ha iniziato a fare – si rivolterà con grande e crescente asprezza anche contro le élite economiche e politiche che si ritengono “intoccabili”.
Insomma, non sempre aspettare ad intervenire finché le situazioni sono così gravi da dare origine a un mercato – nel quale a quel punto l’iniziativa privata possa affrontarle guadagnandoci anche sopra – può essere sufficiente a risolvere davvero le cose....
Alla fin fine, dunque, il neoliberismo è un’ideologia non solo distruttiva per la qualità della vita di gran parte dell’umanità, ma anche – con lo scorrere del tempo – tendenzialmente autodistruttiva per coloro stessi che la predicano e che ne accumulano i frutti economico-politici di breve termine (ricevendo oltre tutto da essa un continuo stimolo ad accentuare sempre più la propria insensibilità, il proprio infantilismo e la propria megalomania...).
In sintesi – se si vuole utilizzare un linguaggio un po’ impertinente – si tratta di un’ideologia politica miope e contraddittoria che nel breve termine va materialmente a favore di pochi stupidi, però molto ricchi, e nel medio-lungo termine non è a favore praticamente di nessuno....
Che cos’è il mercato?
Un’ultima annotazione. Anche nell’attuale periodo di successo del neoliberismo, le élite economiche e/o politiche si incontrano ciclicamente sia in maniera discreta e riservata sia a volte con grande pompa (p.es. nei meeting annuali di Davos in Svizzera o in riunioni come quelle dei “G7”) e soprattutto si coordinano tra di loro e mettono a punto accurate e dettagliate strategie comuni – tanto economiche quanto politiche – per promuovere quelli che le élite stesse ritengono essere i propri interessi materiali. In altre parole, se si accettano benignamente gli slogan neoliberisti che esaltano il mercato e parallelamente lo “Stato snello, leggero e dal bilancio sobrio” (e si chiude in maniera “comprensiva” un occhio sugli enormi aiuti statali deliberati a favore delle banche e di altre grandi imprese dai governi neoliberisti, sulle vaste spese militari di questi ultimi, ecc., così da guardare a questi aspetti del “sistema” come a delle “eccezioni alla regola” che in fondo confermano la regola stessa...), si ricava che il modo in cui i neoliberisti vedono e praticano il loro sbandierato idolo – cioè il mercato accompagnato dalla snellezza dello Stato – è un modo unitario, che alla fin fine non separa economia e politica ma le vede intrecciate in un tutt’uno all’interno del quale le strategie neoliberiste si spostano con grande fluidità dal campo economico a quello politico e viceversa a seconda delle circostanze. E nel fare ciò le élite in questione tutelano i propri interessi comuni con le unghie e con i denti, più o meno come un atleta che si arrampichi – con tutte le sue forze e tutta la sua destrezza – su una parete nel più breve tempo possibile per vincere un ampiamente sponsorizzato campionato mondiale di scalata e ottenere in tal modo la fama e un consistente premio in danaro....
Logica vorrebbe dunque che anche i lavoratori dovrebbero poter fare comunemente e semplicemente la stessa cosa senza che nessuno tra i sostenitori del neoliberismo se ne stupisca o addirittura accusi i lavoratori di ledere le fondamenta del funzionamento dell’economia. Invece, ogni volta che un ampio numero di lavoratori difende i propri interessi collettivamente e in maniera corposa – cioè in maniera non subalterna agli interessi della classe imprenditoriale e del ceto dirigenziale – tipicamente i neoliberisti attaccano quei lavoratori attribuendo loro delle orribili colpe in campo economico e sostanzialmente anche politico, così che su di essi vengano gettati l’ostracismo e l’anatema da parte sia di una grandissima parte delle élite economiche e del ceto politico sia dei maggiori mass-media (che tipicamente rispecchiano in gran parte o addirittura del tutto i punti di vista dei gruppi di popolazione dominanti). In altre parole, il concetto neoliberista di “mercato della produzione e del lavoro” vede gli imprenditori e i maggiori dirigenti d’impresa come dei veri e propri padroni (che si frequentano liberamente tra loro e che spesso si mettono d’accordo per tutelare meglio gli interessi comuni, coinvolgendo in ciò anche i vertici del mondo politico) e i lavoratori come dei veri e propri servi (che dovrebbero vivere chini all’ombra dei rispettivi padroni senza avere una vera vita propria, né una vera volontà propria, né tantomeno la possibilità di organizzarsi a effettiva tutela dei loro interessi comuni, né un’efficace espressione – o sponda – politica che rappresenti e tuteli davvero tali interessi)....
Questo non è per niente un vero mercato: è soltanto un volgare casinò, dove i ricchi giocano d’azzardo spostandosi liberamente e spesso giocondamente da un tavolo all’altro, mentre tutti gli altri lavorano intensamente: stanno come addetti ai tavoli da gioco, servono al bar oppure come camerieri, si danno da fare nella cucina e nel ristorante per allestire pranzi e cene per i giocatori, fanno le pulizie, eseguono la manutezione degli impianti, ciclicamente dispongono nuovi arredamenti, in certe fasce orarie fanno qualche spettacolo canoro o coreografico per allietare i giocatori, si propongono tra i tavoli con una certa discrezione come escort, ecc.. E poi ci sono quelli che stanno fuori dal casinò a chiedere l’elemosina.... Tutto questo circo non è altro che la versione moderna di quanto facevano i più sfacciati e pretenziosi tra i nobili aristocratici di una volta: trattare tutti gli altri come cafoni, pezzenti, servi – appunto – o ancor più semplicemente come bestie, senza riconoscere mai il loro valore umano, la loro dignità intrinseca e la loro capacità creativa....
E anche da questo punto di vista – come per tutti gli altri punti di vista già approfonditi in precedenza – il neoliberismo si mostra come un qualcosa che è totalmente privo di una qualsiasi coerenza interna se non la tutela univoca e chiusa in se stessa della ricchezza materiale, del potere e dei privilegi dei “grandi ricchi”.... Nient’altro che una mera e autoreferenziale ideologia di classe.
A mo’ di appendice (anche alla luce del Covid-19): Siamo tutti “cavalieri sul dorso della tempesta”, anche se non tutti se ne accorgono...
La posizione in cui ci ritroviamo noi esseri umani venendo a questo mondo è stata forse espressa nella maniera più sintetica, pregnante ed espressiva dai Doors nel ritornello della loro canzone Riders on the storm, incisa nell’album L.A. Woman (del 1971) e firmata da tutti e quattro i componenti del gruppo: John Densmore, Robby Krieger, Ray Manzarek e Jim Morrison. È una strofa in cui riecheggiano diversi testi filosofico-sapienziali, come in modo più diretto Essere e tempo (del 1923), di Martin Heidegger, che ha coniato il concetto dell’“essere gettati” come categoria esistenziale, e in modo più indiretto specialmente due opere la cui datazione a oltre venti secoli fa non preclude loro il fatto di essere per molti versi estremamente moderne, cioè il Tao tê ching, di Lao-tze, e il Libro di Giobbe, che è parte della Bibbia ebraica.. Per quanto riguarda il primo, il riferimento è soprattutto alla sua frase secondo cui «cielo e terra non sono benevoli, considerano tutti gli esseri come dei cani di paglia». Riguardo al secondo, vi sono particolari risonanze sia con la frase «Ecco, non conto nulla» e con il rendersi conto di «nulla sapere» – come conclusioni cui nella narrazione il protagonista giunge dopo un prolungato susseguirsi di dolorose e devastanti esperienze “eticamente immeritate” e dopo una teofania turbinosa e rivelatrice – sia con un’ampia serie di considerazioni e riflessioni sul riconoscere che in questo mondo non esiste quella giustizia divina immanente che nell’antica cultura ebraica era comunemente sperata (e addirittura spesso descritta come assodata, sicura e indiscutibile) a dispetto di molti aspetti dell’evidenza quotidiana [80].
«Cavalieri sul dorso della tempesta.
In questa casa veniamo messi al mondo,
In questo mondo veniamo gettati,
Come un cane senza osso,
Un attore prestato.
Cavalieri sul dorso della tempesta».
Questo mondo non appare avere particolari riguardi per noi, esponendoci a vari tipi di disastri naturali, a pericolosi predatori e parassiti [81], a malattie potenzialmente devastanti, e via dicendo, per non parlare dei rischi provenienti dal comportamento di altri esseri umani: rischi di incuria, di condizionamenti emotivi e psicologici, di pesanti pressioni culturali orientate in senso conformistico, di conseguenze derivanti da danni ambientali provocati da attività umane (dei quali oggi i più gravemente generalizzati sono l’inquinamento e i dissesti dell’ecosistema), di maltrattamenti e/o di altre forme di violenza, tanto più durante la nostra prima e seconda infanzia quando ci è particolarmente difficile autotutelarci da alcunché. Non è particolarmente raro nemmeno che nascano esseri umani con particolari doti e capacità che, nonostante la loro palese efficacia, nella società circostante non vengono affatto amate come manifestazioni di una persona in carne ed ossa, in quanto effettivamente “troppo diverse” da come si sentono gli altri (evidentemente non capaci – per un motivo o per l’altro – di mettere concretamente in discussione i loro “vecchi” schemi mentali, emotivi e/o pratici di fronte ai “nuovi” aspetti della realtà espressi da tali manifestazioni): anche in questo non appare esservi alcuna sintonia di fondo che accompagni il nostro venire al mondo.... E da questa situazione – così come da altre simili in cui l’ambiente sociale circostante fatica a cogliere e valorizzare vari aspetti delle doti e capacità naturali che si possono presentare nelle persone – tendono a conseguire sia un enorme spreco di risorse umane, sia un grandissimo accumulo di sofferenze esistenziali, sia il fatto che una parte molto ampia delle potenzialità creative presenti in ciascun essere umano rimane del tutto inespressa (e addirittura in molti casi resta letteralmente nascosta, pienamente ignorata, sostanzialmente ignota, persino agli occhi del soggetto stesso...).
Proprio perché le cose stanno così, la principale difesa che abbiamo nei confronti di tutti questi pericoli, rischi, sfasature, sprechi e accumuli è la presenza di un’ampia collaborazione su molti piani tra i componenti della specie umana: per aiutarsi reciprocamente; per studiare da un lato i pericoli in questione e dall’altro le modalità per proteggersi da essi ed eventualmente per affrontarli in caso di necessità, dando poi concretezza a tali modalità nella vita di tutti i giorni; per trovare i modi più appropriati per convivere proficuamente col resto della natura; per costruire forme di armonia tra noi – trovando in particolare una sintesi (dialettica) tra l’occuparsi di sé e l’occuparsi degli altri, tra l’attenzione per sé e l’attenzione per gli altri, tra l’amore per sé e l’amore per altri – e scoprire se si possono scoprire e/o costruire simili forme anche nei nostri rapporti con le altre specie viventi e con l’universo che abitiamo; per comprendere meglio come la vita è apparsa sulla Terra, come gli esseri umani sono apparsi ad un certo punto nel lungo cammino dell’evoluzione planetaria delle specie e come ci collochiamo in tale cammino dai vari punti di vista possibili [82].... In tal modo, attraverso dinamiche relazionali e interiori come la solidarietà, l’affettività e la disponibilità a tener conto delle esigenze e delle caratteristiche di quanto è “altro da noi” (nel senso non solo delle altre persone, ma anche del mondo non umano) possiamo aggiungere a quella serie di pericoli, di sfasature e di possibili rischi, sprechi e accumuli anche forme di effettiva vicinanza, di sintonia, addirittura di armonia.
Se in una tale posizione rinunciamo in gran parte alla dimensione collaborativa e alla reciprocità con gli altri esseri umani e col resto della natura per concentrarci quasi solo sulla dimensione competitiva e su un banale e gretto utilitarismo, come propone il neoliberismo, facciamo come qualcuno che pensi che subire una lobotomia sia vantaggioso, perché così si può lavorare in maniera pressoché automatica e indefessa per un maggior numero di ore al giorno soffrendo molto meno per la scarsità di vita relazionale e affettiva, di tempo libero, di contatto con la natura e con l’espressività artistica, ecc.....
Quella sintesi dialettica, anzi, equivale dal punto di vista esistenziale e filosofico al cogliere il senso profondo della propria interezza, dal quale segue il fatto che per essere naturali ci serve sostanzialmente ogni parte strutturale di noi stessi e che quindi ciascuna di tali parti è praticamente irrinunciabile (anche se, in caso di corposi impedimenti, ovviamente di certe parti si può virtualmente fare a meno, come hanno sperimentato molte persone che sono state fisicamente menomate da qualche incidente, infortunio o malattia e che riescono ugualmente a vivere una vita decisamente piena grazie al proprio impegno e generalmente anche ad una intensa collaborazione con altri). Si tratta dunque di un discorso che vale con pienezza, più che per la sfera fisica in senso stretto, soprattutto per la sfera della personalità umana, analogamente a quanto osservava con chiarezza e semplicità estreme – e per certi versi uniche nel corso della storia – Karl Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale», attraverso «tutti i rapporti umani che l’uomo ha col mondo, vedere, udire, odorare, gustare, toccare, pensare, intuire, sentire, volere, agire, amare, in breve tutti gli organi che costituiscono la sua individualità [...]. L’appropriazione della realtà umana [...] è l’attuazione della realtà umana», che «è quindi molteplice quanto sono molteplici le determinazioni essenziali e le attività dell’uomo». A questa spiccata lucidità e a questo straordinario entusiasmo (che appare collegato in parte, in questo specifico testo, all’età giovanile di Marx, ventiseienne all’epoca), andrebbero naturalmente associati – se e quanto possibile – sia la saggezza dell’esperienza e del progredire dinamico dell’autocoscienza e della capacità comunicativa nel corso del tempo, sia gli ampliati orizzonti culturali e pratici che possono provenirci da un confronto con le esperienze, le riflessioni e le scoperte altrui, il tutto cercando nel contempo di mantenere vivo e vitale un tale genere di entusiasmo.
In pratica, le considerazioni marxiane in questione vanno in una direzione che per molti versi è sostanzialmente opposta a quanto si asserisce – e si fa – nelle svariate mentalità dualiste diffusesi nel corso dei secoli soprattutto all’interno della civiltà patriarcale e, nel prendere una tale diversa direzione, si spostano su un piano d’osservazione e di riflessione estremamente più ampio, più acuto, più penetrante e più inclusivo (e quindi anche molto più consapevole e complesso), rispetto a quanto avviene in tali mentalità [83]. Parallelamente, le divisioni e i conflitti che queste ultime inducono all’interno della personalità umana spingono a pensare alla dialettica – ed eventualmente a interpretarla, presentarla e impiegarla – in modi paradossalmente non dialettici, ma dualisti (p.es., chi di fatto apprezzi aspetti della società patriarcale come il maschilismo e l’orientamento gerarchico finirà, se si interesserà alla dialettica, col proporre versioni di quest’ultima incomplete o deformate che tendono a giustificare quegli aspetti, che in realtà sarebbero incompatibili con lo spirito essenziale della dialettica esposto in modo particolarmente accurato e scientifico da Marx ed Engels e prima di loro in modo necessariamente più intuitivo da altri filosofi ricordati specialmente nell’Antidühring engelsiano).... Nel contempo, da un punto di vista più pratico, le divisioni e i conflitti in questione limitano fortemente le capacità cui si ha concretamente accesso come singoli esseri umani e rendono molto più difficile per le persone fare bene – cioè con efficacia e con buoni risultati – quanto si vorrebbe, con una conseguenza manifesta che appunto tali divisioni e conflitti si portano dietro: o con il proprio ampio fare si finisce con lo spargere un’ampia serie di complicazioni e di sofferenze attorno a sé, o il proprio fare lo si riduce a qualche campo molto ristretto, nel quale grazie al proprio impegno, alla propria esperienza, alla collaborazione di altre persone, ecc. si riesce più facilmente ad operare in modo positivo per sé e anche per gli altri.
Anche con tutto questo ha di fatto a che fare l’osservazione posta da Marx a conclusione delle sue Tesi su Feuerbach (scritte nel 1845 e pubblicate postume nel 1888 in una versione lievemente adattata da Engels e nel 1924 nella versione originale), cioè il fatto che in passato i filosofi a lui noti avessero «solo interpretato il mondo», mentre «la questione è cambiarlo».
Il classismo neoliberista, la presunzione di far parte di una ristrettissima minoranza che può fare a meno della creatività della grande maggioranza del genere umano (trattando quest’ultima appunto come una massa di lavoratori sostanzialmente manuali da sfruttare il più possibile e poi gettare come si fa con un abito logoro e pieno di buchi, o con un giornale ormai vecchio) è semplicemente un’allucinazione, un’infantile fantasia di onnipotenza, una sorta di riedizione attuale di antichi miti secondo cui i maggiori esponenti della classe dominante avevano qualcosa di divino, mentre tutti gli altri esseri umani no: miti ovviamente del tutto fasulli e sostanzialmente folli, come il dipanarsi della vita e della storia ha sistematicamente mostrato.... E, ciononostante, tali miti si erano diffusi tra gli egizi, tra gli assiro-babilonesi, in Cina, nell’impero romano, tra gli aztechi, tra gli incas, e via dicendo, in una sorta di globalizzazione ante litteram nella quale la follia del potere e l’ambizione pressoché infinita dei potenti hanno toccato tutti i continenti che ci hanno lasciato tracce dell’antichità.... Anche in epoche successive si trovano delle sostanziali riformulazioni di quei miti: p.es., ancora nel medioevo era piuttosto diffusa l’idea che i sovrani e magari anche i loro principali vassalli fossero stati posti nella loro posizione privilegiata e quasi intoccabile da una esplicita volontà divina, mentre nell’età moderna correnti di pensiero che si autodefiniscono “cristiane” – come il calvinismo e la cosiddetta “teologia della prosperità” – hanno ribaltato completamente le quanto mai chiare considerazioni dei Vangeli in merito alla centralità dell’amore manifestato al prossimo e alle asperrime problematiche etiche e spirituali insite nella passione per la ricchezza [84] e hanno preteso di far diventare la ricchezza stessa un segno della benevolenza e della grazia divine (di modo che anche la diffusione della miseria ha finito col diventare di fatto un segno della predestinazione e della volontà divina)....
Nemmeno il coronavirus Covid-19 e la sua pandemia capace di attraversare facilmente tutte le frontiere – sia politico-amministrative che socio-economiche – sembrano aver toccato sino ad ora il cuore e l’intelligenza dei neoliberisti [85]. Che cosa ci vorrà per farlo (sempre ammesso che siano loro rimasti cuore e intelligenza...)?
E che cosa ci vorrà perché i vari popoli vedano che il re di oggi – cioè appunto il neoliberismo con i suoi “grandi ricchi” che non vedono più in là del proprio naso – è nudo, come nella vecchia fiaba di Hans Christian Andersen, e perché i popoli stessi comincino a mostrare esplicitamente di essersene accorti nella vita politico-sociale [86], in occasione delle elezioni, ecc....?
Comments
Per esempio, per restare nel semplice, la rivendicazione oltre Keynes per il contesto in cui viene fatta e modo in cui viene elaborata è priva di senso e fuorviante.
complimenti vivissimi per questo lavoro lungo e articolato, complesso sia dal punto di vista analitico, che degli argomenti che affronti che, non da ultimo, dei collegamenti che operi. I russi, in lavori come questi, di solito l'ultimo paragrafo lo intitolano Vmesto zaključenija (Вместо заключения), "al posto della conclusione", perché le questioni sollevate sono tante e tali che, a fine elaborato, restano ancora punti di domanda importanti senza ancora una risposta.
Ed è questo che più apprezzo, in elaborati come questo, aldilà del fatto che vi sia o meno un'identità di vedute. Non solo non è interessante, ma passa decisamente in secondo piano rispetto al resto. Aggiungo: in un mondo dove si creano ad arte dualismi fittizi, fasulli, in un esercizio retorico anche abbastanza puerile se vogliamo, ma efficace, dal momento che il bipolarismo è utile, specialmente se finto, ad ammazzare qualsiasi voce di dissenso e fuori dal coro, porsi domande è invece un esercizio rivoluzionario. Perché va nel senso opposto, perché obbliga me, che sia d'accordo o meno è irrilevante a questo punto, a pormi lo stesso interrogativo e a provare, se ci riesco, a dare una risposta diversa, al limite anche a confutare (e rifiutare) la domanda stessa, in toto o parzialmente, perché mal posta, perché implica passaggi che tanto impliciti o logici non sono, perché contraddittoria, quindi, piuttosto che mendace. E nell'accompagnarti nella lettura di domande me ne son poste tante.
Per alcune avrei anche risposte diverse o soluzioni differenti, piuttosto che per altre ancora contesterei la domanda stessa, o la metterei giù diversamente. Ma non è questo il punto, ripeto. Son contento di averti letto fino alla fine di quest'ultima puntata per quanto sopra.
Il "con noi o contro di noi" mi fa sempre venire in mente la risposta di mio nonno alla domanda: "perché sei diventato partigiano?" La risposta era stata semplice. Quando l'8 settembre nella caserma in provincia di Parma dove stava di stanza, arrivò una signora trafelata a portare dei vestiti civili e ad avvisare tutti che era in arrivo una colonna di blindati con intenzioni tutt'altro che pacifiche, o diventavi partigiano o gli andavi incontro col braccio teso (per inciso, magari non proprio quel giorno... perché quel giorno una pallottola in fronte non te l'avrebbe levata nessuno). Mio nonno, insieme a tanti giovani che padri non lo sono mai diventati, ha combattuto perché noi non dovessimo mai arrivare, nuovamente, a questo punto.
Grazie e complimenti ancora!
Ciao
Paolo Selmi