L’occidente vuole disarmare la Resistenza, i regimi arabi si accordano
di Giovanni Di Fronzo
Il nuovo mantra della diplomazia occidentale per alleggerire le pressioni internazionali sul regime sionista è “la resistenza deve disarmare”. Questo è, infatti, il filo rosso che unisce le ultime mosse su tre terreni, quello palestinese, quello libanese e quello iracheno.
In tutti e tre i casi si cerca di ottenere con la pressione diplomatica quello che con le guerre imperialiste non si è riuscito a ottenere, ovvero che rispettivamente le organizzazioni della Resistenza Palestinese, Hezbollah e le Forze di Mobilitazione Popolare depongano spontaneamente le armi; la motivazione “seducente” è il “ristabilimento della democrazia e della sovranità nazionale”, a beneficio delle rispettive autorità considerate legittime, ovvero l’Autorità Nazionale Palestinese, lo stato libanese e quello iracheno, che vengono attualmente dipinte come ostaggio, appunto, delle organizzazioni della resistenza e del loro agire come proxy dell’Iran.
Si tratta di una mistificazione totale perché la storia e la realtà sul terreno dicono che, nel caso in cui le varie organizzazioni della Resistenza dovessero lasciare indifese le loro comunità, queste verrebbero immediatamente fatte oggetto dell’espansionismo sionista o di massacri settari ancora di più di quanto non lo siano ora.
Senza che nessuno dei presunti difensori della “sovranità nazionale” dei loro paesi faccia nulla per aiutarle. Si veda cosa sta succedendo agli alawiti e alle altre minoranze in Siria o, per guardare indietro nel tempo, cosa successe a Sabra e Shatila.
Ciò è vero anche perché, nel frattempo, le entità che dovrebbero essere depositarie di questa sovranità nazionale, ovvero, come detto, ANP, stato iracheno e stato libanese, nel frattempo non è che vengano aiutate e legittimate, bensì vengono a loro volta fatte oggetto di pressioni e sanzioni con il pretesto che non sono adeguate al compito di disarmare la Resistenza e ristabilire la propria autorità.
La cosa grave è che a questa narrativa si stanno accodando, per subalternità o interessi geopolitici, molti paesi arabai e islamici, i quali spingono per portarsi dietro anche i BRICS.
Martedì scorso, Francia e Arabia Saudita hanno promosso una conferenza presso le Nazioni Unite con lo scopo di riaprire il negoziato sulla questione palestinese. Ne è venuto fuori un documento dall’impronta chiaramente equidistante nell’attribuzione delle responsabilità del genocidio in atto a Gaza: ”Condanniamo gli attacchi commessi da Hamas contro i civili il 7 ottobre. Condanniamo inoltre gli attacchi di Israele contro i civili a Gaza e le infrastrutture civili, l’assedio e la fame, che hanno provocato una devastante catastrofe umanitaria. Guerra, occupazione, terrore e sfollamenti forzati non possono garantire né la pace né la sicurezza. Solo una soluzione politica può farlo”.
La parte più importante, però riguarda la proposta politica: per una “una conclusione permanente delle ostilità”, ad Hamas viene chiesto di rilasciare tutti gli ostaggi (senza, dunque, negoziare scambi con le migliaia di ostaggi palestinesi nelle carceri sioniste) e di “porre fine al suo dominio su Gaza e consegnare le armi all’Autorità Palestinese, con il coinvolgimento e il sostegno della comunità internazionale, in linea con l’obiettivo di uno Stato palestinese sovrano e indipendente”.
Da parte sua l’ANP, con l’ausilio di una “missione internazionale temporanea di stabilizzazione sotto l’egida dell’ONU” dovrebbe impegnarsi a tenere “elezioni generali e presidenziali trasparenti e democratiche” entro un anno.
Sembra un piano di buon senso, ma in realtà è una replica di quelli già disattesi negli anni ‘90; inoltre, tutti sanno che l’ANP non ha la forza, l’autorevolezza e il consenso per ottemperare ai compiti richiesti e che, nel caso in cui Hamas e le altre organizzazioni della Resistenza Palestinese disarmassero, immediatamente i loro membri e la popolazione di quelle che sono percepite come le loro roccaforti verrebbero fatti oggetto di massacri.
Per non parlare del fatto che sia la Striscia di Gaza che la Cisgiordania verrebbero immediatamente occupate completamente, senza dar modo a nessuna missione internazionali di insediarsi. Infatti, ovviamente, Netranyahu e la sua cricca di genocidiari hanno detto “no” a questo piano e nemmeno gli USA hanno aderito; anzi, nei giorni scorsi hanno sanzionato anche alcuni membri dell’ANP.
Fra i firmatari ci sono anche paesi che portano avanti la mediazione per il cessate a fuoco a Gaza con Hamas – l’Egitto e il Qatar – o dichiarano di sostenerlo (la Turchia) e, contemporaneamente, ora ne chiedono il disarmo. La motivazione che adducono questi paesi è che, in tal modo, si fermano la guerra e i massacri.
In realtà, ponendo come condizione il disarmo della Resistenza, si fornisce l’alibi per continuare la guerra all’infinito, dando fiato alla retorica bugiarda dei filosionisti secondo cui “la guerra finirebbe immediatamente se Hamas liberasse gli ostaggi e posasse le armi”, mentre Netanyahu, Smotric, Ben Gvir e Trump parlano apertamente di deportazioni di massa e pulizia etnica quali veri scopi della guerra.
Stesso discorso, ma su scala, al momento, ridotta, riguarda il Libano. L’inviato americano Barrack continua a fare la spola fra Ankara, dove è ambasciatore, e Beirut per fare pressione sul presidente della Repubblica Aoun e sul Primo Ministro Salam affinché sia impostata una road map che porti al disarmo di Hezbollah entro l’anno. Altrimenti, dicono chiaramente i funzionari USA, gli attacchi sionisti continueranno (in spregio del cessate il fuoco raggiunto a novembre scorso, che appare già un lontano ricordo) e le istituzioni finanziarie internazionali continueranno a non aiutare il Libano a uscire dalla sua crisi economica.
Il Presidente Aoun non può far altro che assecondare Barrack, nelle proprie dichiarazioni pubbliche, ma sa che l’esercito libanese non è minimamente in grado di esigere il disarmo di Hezbollah, che dovrebbe prendere autonomamente questa decisione.
Il movimento sciita ha ottemperato alla richiesta di ritirare le proprie milizie al nord del fiume Litani e ciò, di fatto, ha già comportato la consegna di alcuni depositi di armi all’esercito libanese. Tuttavia, per bocca del suo Segretario generale Naim Qassem, continua a escludere categoricamente di voler disarmare: “Hezbollah non ha alcuna intenzione di consegnare le sue armi, né gradualmente né secondo alcun meccanismo proposto, soprattutto perché le circostanze e le dinamiche regionali rendono il disarmo una forma di suicidio. Siamo un popolo che rifiuta l’umiliazione, che non rinuncerà alla propria terra e che non consegnerà mai le proprie armi al nemico israeliano”, ha dichiarato a inizio luglio.
Altri esponenti affermano che la questione delle armi potrà essere trattata nell’ambito di un riassetto generale delle strategie difensive del Libano, dopo che vi sarà stata la completa adesione del regime sionista ai termini del cessate il fuoco; questi discorsi sembrano aprire a forme di integrazione delle milizie sciite all’interno dell’esercito nazionale. Tuttavia ogni discorso del genere è prematuro anche perché fino a ora nessuno è in grado di garantire che, nel caso Hezbollah disarmasse domattina, poi il sud del Libano non verrebbe rioccupato e la minoranza sciita massacrata.
Il governo libanese, per il momento, continua a prendere tempo nella speranza che le pressioni internazionali pieghino Hezbollah. Sul paese incombe sempre lo spettro della guerra civile, che le componenti politiche post-falangiste e quelle filo-saudite potrebbero provocare proprio con il pretesto del mancato disarmo del movimento libanese.
Immediatamente dopo, data la sproporzione delle forze, seguirebbe la richiesta dell’intervento esterno, che arriverebbe a colpire Hezbollah con il finto scopo di “stabilire un disarmo generale delle milizie e il monopolio dello stato centrale sulle armi”. Ci sono da attendersi provocazioni nei confronti di Hezbollah in tal senso, specie se si giungesse a un cessate il fuoco a Gaza.
C’è poi il terzo fronte, quello dell’Iraq, che ha le Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), milizie nate nel 2014 grazie ai finanziamenti e agli armamenti iraniani per combattere l’Isis e formate prevalentemente da unità sciite, affiancate da turkmeni, cristiani e dall’ala yezida del PKK. Ovviamente sono accusate dall’Occidente e dalle petromonarchie del golfo di essere uno strumento d’intervento dell’Iran nella politica irachena specie da quando, nel 2016, sono state formalmente inserite nell’esercito nazionale iracheno.
Gli USA stanno intensificando le loro pressioni affinché tali milizie vengano sciolte e, ovviamente, promettono sanzioni se ciò non dovesse verificarsi. Intanto, alcune forze politiche minacciano di boicottare le elezioni a causa di quello che ritengono essere il crescente potere delle PMF e la loro crescente integrazione negli apparati statali.
Il casus belli che potrebbe far precipitare la situazione, specie se continuasse a ripetersi, è il verificarsi di una serie di attacchi di droni, non rivendicati da nessuno, che hanno colpito molte infrastruutre nella regione autonoma curda. Immediatamente il dito è stato puntato contro le PMF, che hanno una serie di conti in sospeso che i Barzani.
In definitiva, tutte queste pressioni nei confronti delle organizzazioni dell’Asse della Resistenza sono effettuate col pretesto di “pacificare l’area” ma, in realtà, pongono le basi per continuare le guerre indefinitamente, addossando le responsabilità non alle forze genocide e a chi le sostiene, bensì a tali organizzazioni per il loro mancato disarmo.
Esse si stanno intensificando a causa della caduta del regime baathista, che consentiva massima agibilità politica sul proprio territorio a tutte queste organizzazioni, e a causa del minore supporto che il governo “riformista” dell’Iran fornisce loro rispetto ai precedenti governi. Tuttavia, il fatto più grave è costituito dal marcato collaborazionismo dei paesi arabi e islamici che emettono continue dichiarazioni contro i massacri sionisti, ma poi contribuiscono al loro protrarsi.