La proiezione del trauma e la colpa rovesciata
L'autorità morale di Liliana Segre contro la verità di Gaza
di Lavinia Marchetti
So bene che non si avvertiva la necessità di un mio punto di vista sull'intervista a Liliana Segre, ne avrete letto ovunque e tutto e il contrario di tutto. Non volevo scriverne perché ho già letto interventi perfetti, fondati storicamente, però dopo averla letta stamattina ho avvertito un fastidio, un'irritazione che mi è rimasta addosso tutto il giorno. Le sue parole mi hanno fatto sentire inadeguata. Come se il solo fatto di nominarle mi sporcasse, mi collocasse in un angolo sbagliato della Storia. Quel negazionismo sottile, garbato, mi spingeva in una posizione di vergogna. Mi sono chiesta: perché?
Uno dei meccanismi psicologici più radicati nelle relazioni di potere è quello della proiezione, che agisce in tandem con un senso di colpa instillato, mai dichiarato ma onnipresente. Lo riconosco perché funziona così: qualcuno parla da un luogo di dolore indiscutibile e trasforma quel dolore in fondamento per delegittimare il tuo sguardo. In questo caso, chi siamo noi per dire che ha torto? Lei è stata ad Auschwitz, ha attraversato l'inferno. Il genocidio lo ha conosciuto sulla pelle.
Ma proprio qui sta la torsione manipolativa: quando una vittima storica parla, ogni sua parola viene accolta come sacra. E se quella parola nega il genocidio altrui, ti fa sentire un bestemmiatore. L'autorità morale dell'esperienza viene usata per zittire, non per illuminare. Questo è il primo punto dove il meccanismo agisce: quando dice che la parola genocidio è usata per vendetta, che c'è sotto un risentimento verso la memoria della Shoah. Qui, implicitamente, chi nomina il genocidio a Gaza viene accusato di rivalsa.
Il secondo punto è la frase: "Israele è stato una risposta alla Shoah". Questo passaggio salta tutta la storia intermedia, tutte le violenze attivamente compiute da quello Stato, e le pone sotto il segno della legittimità
traumatica. La vittima diventa scudo di ogni eccesso. E se osi dire che quel rifugio è diventato carnefice, sei un traditore, un revisionista.
In entrambi i passaggi, la manipolazione sta nel trasferire il proprio trauma su chi ascolta, senza possibilità di replica. È un meccanismo psichico potente, che trasforma la verità storica in un atto d'insolenza. La colpa cambia indirizzo e si pianta nel petto di chi cerca solo di nominare l'indicibile.
Leggere l’intervista di Liliana Segre su la Repubblica, 2 agosto duemilaventicinque, è come ascoltare una voce che ha attraversato i secoli e poi si è spenta d’improvviso, proprio dove avrebbe dovuto accendersi. Una voce che si piega, si chiude, non tanto per stanchezza esistenziale, ma per scissione, rifiuto della realtà. E questa scelta pesa più di mille omissioni, io non ce l'ho con lei, ma con ciò che rappresenta: il rifiuto, un rifiuto di buona parte degli intellettuali ebrei di vedere. Un rifiuto che giorno dopo giorno accumula cadaveri.
Liliana Segre è figura sacra della memoria ebraica in Italia. Deportata ad Auschwitz a tredici anni, sopravvissuta. La sua voce è stata per anni uno degli argini contro l'oblio. Ma oggi, di fronte alla distruzione sistematica di Gaza, dice che la parola genocidio sarebbe troppo piena d’odio. Dice: "È uno scrollarsi di dosso la responsabilità storica dell’Europa, inventando una sorta di contrappasso senza senso, un ribaltare sulle vittime del nazismo le colpe dell’Israele di oggi dipinto come nuovo nazismo". Dice che usarla è vendicativo. Dice che evoca paragoni impropri con la Shoah.
Questo è il punto. Non quello dell’opinione, ma del rifiuto della storia.
Il termine genocidio è giuridico, definito nel 1948 dalla Convenzione dell’ONU. Non è un insulto. È una categoria precisa: sterminio intenzionale, parziale o totale, di un gruppo umano. Non è nemmeno una metafora. E ci sono giuristi, relatori speciali, rapporti ufficiali, sentenze della Corte Internazionale che parlano chiaro. Il Sudafrica ha portato Israele davanti alla Corte con questa accusa. Il Sudafrica qualcosa ne sa. Francesca Albanese, relatrice speciale ONU, ha usato più volte l’espressione "genocidio in atto". Amnesty International, Human Rights Watch, B’Tselem: la parola apartheid ricorre da anni. Non nelle piazze. Nei documenti. Eppure, nell’intervista di Liliana Segre tutto questo scompare. Non c'è storia. Non c'è diritto. Non c'è Gaza. C'è solo una torsione morale. Come se chi usa la parola genocidio volesse ferire con una specie di rivalsa. Un dispetto. Come se il massacro in corso fosse secondario rispetto all’uso che se ne fa.
La Segre dice che il 7 ottobre è stato lo shock dentro il rifugio, la violazione della promessa "mai più". "È stato lo shock di vedere di nuovo assassinare e rapire casa per casa donne, vecchi e bambini proprio dentro quel rifugio che era stato costruito perché non potesse mai più accadere", dice. Ma quel rifugio, fin dal 1948, si è costruito sullo sfollamento forzato dei palestinesi. Nessuno lo dice con leggerezza. Ma la verità storica non è una questione di delicatezza. La Nakba è reale. Le occupazioni del 1967 sono reali, Grossman almeno questo lo ha riconosciuto. Il blocco di Gaza dura da diciassette anni. Le prove non sono opinioni. La Storia è lì...
La verità è questa: Israele ha ucciso almeno, dice il Washington Post con nomi e cognomi, 18.500 (poi saranno il triplo e quanti altri moriranno per mancanza di cure e lesioni varie, malnutrizione, in futuro) bambini. C'è un elenco scorribile, alcuni con foto. Ha affamato un’intera popolazione. Ha colpito ospedali, ambulanze, giornalisti, scuole. Ha prodotto fosse comuni. Ha spostato milioni di persone. Ha parlato di bestie umane, di cancellazione. Ha usato bombe da due tonnellate in zone abitate. Questo non è un rischio. Questo è.
Liliana Segre non nega questi fatti, ma li svuota. Li dissolve in un discorso prudente, che sembra costruito più per non disturbare che per comprendere. Il genocidio viene trattato come parola sporca. E chi la pronuncia è sospettato di antisemitismo, magari inconscio. "L’abuso di 'genocidio' che dal primo giorno viene fatto qui, il compiacimento, l’isterica insistenza per imporlo a chi non lo condivide - e in primo luogo a tutti gli ebrei - è un fatto morboso", afferma. Questo rovesciamento è insopportabile. Perché trasforma la memoria in un recinto e lascia morire i palestinesi due volte: sotto le bombe, e poi nel linguaggio.
Ciò che manca nell’intervista è lo sguardo che Segre ha sempre saputo esercitare quando parlava della Shoah. Lo sguardo sui dettagli. Sul quotidiano del male. Sugli sguardi abbassati, sui vagoni piombati, sulle scarpe dei bambini. Eppure, Gaza trabocca di dettagli. Corpi sotto le macerie. File per il pane colpite dai cecchini. Soldati che sparano ai genitali dei ragazzi. Ragazze amputate. Madri che partoriscono in tenda senza assistenza con mortalità infantile per parto a livelli settecenteschi. Ma in Segre, tutto questo non ha cittadinanza. Il male che colpisce i palestinesi viene trattato come accidentale. Come sproporzione, non come progetto. Come fosse un errore e non come un sistema pianificato a tavolino.
Segre immagina che chi urla genocidio lo faccia per vendetta. "Si percepisce chiaramente un sottofondo di questo tipo: 'mi avete seccato per decenni con il Giorno della Memoria? e adesso mi prendo la rivincita e vi grido in faccia 'genocidio, genocidio, genocidio'...". Ma è un’immagine miserabile. Perché riduce chi nomina il genocidio a un adolescente isterico. Ignora l’amore vero che tanti provano per la cultura ebraica, e insieme la rabbia per l’uso ideologico che Israele fa della Shoah.
Chi ama la storia non la separa. Non protegge un dolore a scapito di un altro. Sa che i morti non si pesano. Si piangono.
Liliana Segre aveva l’occasione per dire qualcosa di alto. Per dire: la memoria mi obbliga a vedere. Anche quando fa male. Anche quando Israele, lo Stato che doveva proteggere i sopravvissuti, uccide. Anche quando la mia storia personale viene chiamata in causa.
Ha scelto un’altra via. Ha scelto la neutralità. Ma in tempo di genocidio, la neutralità è complicità. E, dico la verità, sono profondamente dispiaciuta che una donna simile, con il suo passato, sarà ricordata per questo presente, come dire, sarò dolce, di negazione e riscrittura della storia.
Comments
Gli israeliani vanno salvati da loro stessi perchè la devastazione portata avanti a Gaza si ritorcerà contro, essendo l'opinione pubblica mondiale dalla parte dei palestinesi, e non basterà l'appoggio degli stati occidentali ad assolverli davanti al tribunale della storia.
Pertanto, assumerebbe un grande significato se Liliana Segre, nel suo ruolo, avesse parole di condanna verso il governo di Netanyahu.
Mai più Shoah si era detto ma non è così; siamo ancora in tempo per fermare il massacro dei palestinesi e per ripristinare la dignità umana che è stata calpestata. [youtube][youtube][youtube]
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Gli israeliani vanno salvati da loro stessi perchè la devastazione portata avanti a Gaza si ritorcerà contro, essendo l'opinione pubblica mondiale dalla parte dei palestinesi, e non basterà l'appoggio degli stati occidentali ad assolverli davanti al tribunale della storia.
Pertanto, assumerebbe un grande significato se Liliana Segre, nel suo ruolo, avesse parole di condanna verso il governo di Netanyahu.
Mai più Shoah si era detto ma non è così; siamo ancora in tempo per fermare il massacro dei palestinesi e per ripristinare la dignità umana che è stata calpestata.
Grazie per l'attenzione. Giorgio Stern
Quanto al termine "genocidio", al di là della definizione del 1948, è stato usato più volte dalla propaganda al punto da diminuirne la valenza. La destra italiana l'ha usato per la questione delle foibe, più recentemente l'atlantismo l'ha evocato, con conferma tribunalizia olandese e voto ONU, per quanto avvenuto a Srebrenica e dintorni. In nessuno di questi due casi però i dati numerici, etnici, sociali e politici giustificano il termine. Poi, se fu "genocidio" quello degli ebrei in Europa, lo fu anche quello dei pellerosse, degli armeni, dei tasmaniani, dei rom croati, e di tanti altri gruppi etnici al mondo. Quello dei palestinesi di Gaza, a leggere i dati, si avvia a diventarlo.
Quando un mito di regime parla, ogni sua parola viene accolta come sacra.
Finché durerà la pax americana dovremo accollarci la religione umanista, il totem olocaustico e le divergenze fra i credenti sui loro ambiti e meccaniche di applicazione, proprio come avveniva fra le sette cristiane.
Quando un santo (consacrato tale da Santa Madre Televisione) enunzia una linea di discrimine fra cosa è tabù e cosa no, chi non la condivide si sente colpito nel vivo della propria fede. D'improvviso gli manca l'ebreo buono da contrapporre a quelli cattivi.