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palermograd

Brexit, uscita obbligatoria a destra?

di Giovanni Di Benedetto

Scena con cattura e punizione di servi fuggiaschiNessuna lettura unilaterale delle dinamiche modernizzatrici del capitalismo è oggi possibile. Viviamo un tempo nel quale sembrano riemergere, a condizionare e compromettere un’impossibile linearità dello svolgimento storico, ambiguità drammatiche e contraddizioni laceranti. Le convinzioni interiori dei singoli cittadini e la cultura politica dei singoli militanti non sono entità isolate ma forme ideologiche, espressione  del vivere collettivo, che si sedimentano dentro gli abissi del disordine capitalistico. Alienazione e sfruttamento delle soggettività, oppressione e manipolazione delle coscienze sono il frutto avvelenato di tendenze che, su livelli differenti, ci parlano del sovrapporsi di crimini neocoloniali, guerre di religione, divaricazione scandalosa delle ricchezze, imbarbarimento delle periferie, estinzione dello spazio pubblico, violenza razziale, impoverimento culturale e materiale generalizzato, e altro ancora. Senza il riferimento a questo scenario più generale, di carattere economico, politico e sociale, essenzialmente determinato dall’estensione del capitalismo fino a costituire un unico e pervasivo mercato mondiale e compromesso dalle conseguenti linee di faglia fra sfera dell’economico, con le sue assurde pretese di autoregolamentazione, e la sfera del politico, diventa complicato elaborare un pensiero, per così dire, sine ira et studio, capace di fornire una chiave di lettura dotata di senso su quanto è accaduto con il Brexit. Laddove per dotato di senso è da intendersi, va da sé, lo sforzo di collocare l’evento, unico e irripetibile nella sua natura contingente, entro un contesto storico più grande e complesso, la lunga durata dei processi storici citando Braudel, per l’appunto entro una più ampia cornice di senso. 

A nulla vale, allora, da questo angolo visuale, il giudizio spesso scomposto, in altri casi arrogante, col quale si è reagito all’esito del voto referendario che sancisce l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Si è detto che il voto del Leave sarebbe stato il frutto di una scelta inconsapevole e sbagliata, che nasconderebbe rigurgiti di tipo xenofobo, populistico e razzistico, che dovrebbe fare riflettere sull’opportunità di valutare la correttezza stessa del metodo e, addirittura, l’attualità dei valori di cui le democrazie rappresentative sarebbero depositarie. Si è sostenuto, come se non bastasse, che avrebbe aperto la strada a scenari catastrofici, a crolli di borsa, svalutazioni incontrollabili, deprezzamenti della moneta, perdita del potere d’acquisto dei salari e via discorrendo. Si può tuttavia ragionevolmente sostenere che, almeno sul breve periodo, nonostante lo schock subìto nell’immediato dai mercati finanziari, peraltro subito rientrato, non sembra che le profezie che vaticinavano terribili sventure abbiano centrato il bersaglio. Del resto, gli scricchiolii dell’apparato categoriale della scienza economica mainstream non sono mai abbastanza.

A ricordarci che la conoscenza fondata sul pregiudizio confonde gli effetti con le cause è Spinoza, filosofo olandese del XVII secolo, non a caso accusato di eresia. Evidentemente, forse non poteva essere altrimenti, i suoi avvertimenti continuano a non essere (volontariamente?) ascoltati. Il tema, allora, consiste innanzitutto in una questione di metodo, nel ristabilire l’ordine delle cause e affidare a chi di dovere l’onere delle responsabilità. Nel caso specifico non ci sono dubbi: se l’architettura e gli assetti dell’attuale Unione Europea scricchiolano non sarà certo perché frazioni delle classi popolari e della stessa borghesia britannica hanno scelto di dismettere l’adesione all’Unione. Piuttosto, sarà vero il contrario, perché la camicia di forza dell’austerity, e delle sue politiche fiscali e monetarie, ha imposto alle classi popolari europee, e in subordine anche a quelle del Regno Unito, stremate dal processo lungo di privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, aumento della disoccupazione, inaugurati col thatcherismo, condizioni di vita sempre peggiori e a lungo andare non più sostenibili. Se fosse vero l’opposto, sarebbe come dire che le cause della crisi, una crisi devastante che si protrae dal 2008, più lunga di quella del 1929, vanno rintracciate nel malcontento delle classi popolari o nella protesta della piccola borghesia. È vero piuttosto il contrario, il Brexit è il segnale lanciato a tutta Europa, e chi vuole intendere intenda, che sono le assurde limitazioni imposte dagli artificiosi e, senza nessun evidenza di rigore scientifico, vincoli al deficit e al debito pubblico, a causare falle sempre più estese all’interno del sistema economico europeo voluto dai falchi dell’austerità; che è l’esistenza di tassi di cambio fissi determinati dall’adozione della moneta comune a segnare il rifiuto delle priorità della Troika e dell’establishment dell’integrazione comunitaria; che è la fine della sovranità monetaria delegata alla Bce a fare saltare gli equilibri decisi nelle stanze chiuse dagli apparati del turbo capitalismo che hanno sede a Bruxelles. La verità è che, con tutta probabilità, se si andasse a votare anche nel resto dei paesi europei, in particolar modo in quelli dell’area del Mediterraneo, non sappiamo quale esito si potrebbe registrare. Il malcontento espresso, seppur in maniera distorta e perversa, nel voto di protesta del referendum inglese, non è detto che non troverebbe possibili repliche.

Ma proviamo a svolgere considerazioni dettate meno dalla foga e dalle emozioni e più dal tentativo di elaborare una comprensione razionale, sub specie aeternitatis, dei processi in atto. La scelta del Brexit, come ogni importante avvenimento politico europeo, dalle elezioni amministrative in Italia alle elezioni politiche spagnole, per non parlare delle mobilitazioni francesi contro il piano del lavoro, segna la presa d’atto che settori sempre più ampi dei cittadini e delle cittadine europee hanno capito che l’Unione Europea, per come si è costituita, non è l’unione dei popoli e la convivenza solidale di differenze ma è l’Europa delle banche e della speculazione finanziaria. Occorre ribadire che i dati relativi ai fondamentali dell’economia vanno in questa direzione? La verità è che il referendum sul Brexit, considerata la condizione di precarietà dell’Unione economica e monetaria, costringerà Bruxelles e i tecnocrati della Commissione Europea a fare i conti con ulteriori tentativi di rinegoziazione dei trattati commerciali e delle clausole pro austerity. È possibile che il Brexit produca un effetto domino che, al di là delle rigidità della Commissione Europea, possa aprire una nuova stagione per la messa in discussione delle dinamiche pro cicliche con cui si regola il processo di unificazione europea. La cui tenuta è, ovviamente, ancora più precaria. Se l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, infatti, non sarà immediata, su questo punto hanno argomentato gli articoli di Marco Palazzotto e Angelo Foscari, sempre pubblicati su Palermograd, ciò che deve essere chiaro è che al di là di quanto possa piacere o non piacere, il voto referendario imprime un’accelerazione, anche drammatica, al processo di disgregazione dell’area euro.

Occorre, dunque, ricollocare la vicenda del Brexit, con tutte le dinamiche contraddittorie che vi sono inscritte, entro un contesto storico più ampio, di lunga durata per l’appunto. Essa può essere utilizzata come cartina di tornasole per esemplificare il modo in cui si intrecciano, si sovrappongono e, al limite, si scontrano le tendenze globali del capitale e i processi nazionali di resistenza ai dispositivi di cessione di sovranità acutizzatisi a partire dalla crisi del 2008. Gli squilibri che ne derivano, all’origine delle dinamiche di disgregazione dell’Unione, mandano in soffitta, peraltro, i miti, sostenuti dalla scienza economica dominante, di una spontanea convergenza economica orientata da un’improbabile mano invisibile. Se è vero che oggi l’unico punto di osservazione attendibile si dà soltanto considerando il sistema capitalistico come un sistema mondiale è anche vero che, per dirla con Giovanni Arrighi, i cicli sistemici di accumulazione non sono esenti, al proprio interno, da logiche egemoniche concorrenziali e da rivalità inter-capitalistiche di tipo competitivo. Se si analizza l’esito del referendum utilizzando questa prospettiva interpretativa, non c’è dubbio che esso è anche il frutto del fatto che l’architettura dell’Unione Europea costringe (costringeva?) il Regno Unito, pur prescindendo dall’adozione della moneta comune e dall’adesione al fiscal compact, a scontare, nei confronti della Germania, deficit commerciali di considerevoli dimensioni. Inoltre non va dimenticato come tali frizioni siano acuite dal tradizionale ruolo occupato dal Regno Unito, a metà strada tra la sua relazione privilegiata con gli USA detentori di un indiscusso signoraggio finanziario e i suoi scambi commerciali con l’Europa (in particolare con il capitale francese e tedesco).

Il punto è che, almeno dalla metà degli anni ’70, il capitalismo mondiale è attraversato da una profonda crisi di redditività, alla quale ha fatto seguito il tentativo di avviare una profonda ristrutturazione del regime di accumulazione che potesse garantire il mantenimento di alti surplus di profitti. A fronte della tendenziale caduta del saggio di profitto la macchina capitalistica, e le sue classi dirigenti, hanno provato a rimediare attraverso l’esportazione di merci e, soprattutto, di capitali. È in questo scenario, caratterizzato dalla conseguente corsa dei flussi di capitale verso l’estero, che si accentua la tendenza liberoscambista ad abbattere le barriere del commercio mondiale, a limitare l’efficacia di dazi e vincoli doganali e a ridurre le restrizioni sui flussi transfrontalieri di capitale. L’intensificazione dello sfruttamento del mondo del lavoro, i tagli alla spesa pubblica, le politiche di privatizzazione sono l’effetto congiunto di questa strategia più complessiva. Da qui, per altro verso, come si è già accennato, la crescita di dinamiche concorrenziali fra Stati, anche all’interno dell’Unione Europea, determinate da processi di divergenza interni all’architettura dei Trattati e che hanno causato squilibri perversi nei rapporti di credito e di debito tra i singoli paesi. Ci sarà più di un nesso, per quanto flebile, tra l’esito del Brexit e il fatto che, se la Germania ha inanellato avanzi commerciali stratosferici, il Regno Unito ha registrato disavanzi commerciali che sono dovuti, principalmente, all’enorme sovrappiù della bilancia commerciale tedesca. 

Perché il problema è che alle tendenze liberoscambiste fanno da contrappeso quelle neomercantiliste, della Germania in primis che, agendo dentro le maglie, elaborate a propria immagine e somiglianza, delle regole dell’Unione monetaria, ha praticato politiche deflattive che le hanno permesso, a danno dei suoi partner commerciali europei, enormi avanzi commerciali; ma si contrappongono anche quelle del neoprotezionismo britannico che, contando sulla svalutazione della sterlina e su una più ampia revisione degli accordi commerciali con la UE, punta a riconquistare quell’autonomia che compete a uno dei più aggressivi, assieme agli USA, paesi imperialisti e a una delle più potenti piazze finanziarie del mondo. D’altra parte, libero scambio e protezionismo, da che mondo e mondo, sono da sempre dispositivi strategici adoperati, integrati e alternati, a seconda del ciclo, espansivo o recessivo, dal capitalismo.  

Si è delineato, così, un modello, per quanto approssimativo, che aspiri a descrivere, nella sua astrazione, la complessità dei processi che stanno investendo, a livello quanto meno continentale e nella dimensione della statualità, le formazioni economiche e sociali. Ma non è stato fatto soltanto che un piccolo passo in avanti. Perché un tale schema di massima sia messo alla prova, e calato entro la bruciante attualità dello svolgimento storico, occorre farsi trovare pronti lì dove le cose accadono, lì dove irrompono i soggetti reali, potenzialmente dotati, sottolineo il potenzialmente, della capacità di sovvertire lo stato di cose presenti. E allora, che fare? Dubito che ai moniti del voto britannico facciano seguito cambiamenti di rotta, che magari inducano le classi dirigenti europee a considerare la possibilità di una revisione dei Trattati, magari investendo su politiche fiscali anticicliche, espansive e, non oso neanche pensarlo, redistributive. Tuttavia, è pur vero che la rabbia e il malcontento montanti, che si indirizzano anche nei confronti del blocco delle socialdemocrazie europee perché considerato corresponsabile (a cominciare dal partito laburista inglese) di compartecipazione nell’edificazione dell’Unione, non assumono un carattere progressivo. È drammaticamente vero il contrario, rabbia, disagio e protesta, non c’è ombra di dubbio, vengono sussunti dentro una logica populistica di stampo nettamente regressivo, che si nutre di pulsioni xenofobe, pregiudizi nazionalistici e beceri istinti identitari che si scagliano contro l’alterità, in particolare quella rappresentata dalla pressione concorrenziale esercitata dal lavoro migrante. Questo insieme deleterio di funesti reagenti accende la miccia della guerra fra poveri e scatena il fuoco delle destre populiste.

Il problema, arduo, complicato ma non impossibile, risiede allora nella capacità delle Sinistre di strappare alla reazione il monopolio della rivolta contro il capitalismo finanziario, tecnocratico e industriale incarnato, a vario titolo e su livelli differenti, dall’Unione Europea. Avendo chiaro che, spesso, nella storia delle classi oppresse, si sono sovrapposte aspirazioni, in termini di contenuti e di fini, internazionaliste, e bisogni, altrettanto legittimi, di una collocazione nazionale entro cui riconoscersi. Sotto questo rispetto non è un caso, infatti, se la dialettica tra questione nazionale e nazionalismi sia vecchia più di 150 anni. Per tacere del fatto che il punto più lacerante dell’adesione alla logica interventista abbia come culmine, agli inizi del secolo scorso, lo scoppio della prima guerra mondiale e, tre anni dopo, cambiando di segno, l’esaltante sbocco della rivoluzione bolscevica. Risiede nella tradizione del movimento operaio e del marxismo la consapevolezza che al socialismo internazionalista degli scopi e degli obiettivi si può affiancare un socialismo nazionale nelle forme concrete di organizzazione e di lotta. Che se ne sia persa la memoria è, di per sé, un dato, oltre che sconfortante, significativo e che indica il luogo da cui si dovrebbe ripartire. Il tema, di conseguenza, non può essere ridotto alla scelta tra l’adesione a scenari che rimandano a logiche liberoscambiste e l’adesione ad un orizzonte di riferimento che faccia propria la logica della chiusura neomercantilista. Occorre liberarsi dai vincoli di una scelta fra alternative entrambe incagliate dentro lo stesso schema, ossia il paradigma secondo il quale è una cosa naturale, immodificabile e giusta che il prodotto del lavoro umano assuma la forma di merce da scambiare, per recuperare la capacità di elaborare uno sguardo in grado di partire dalla propria condizione di soggetti singoli e collettivi, portatori di interessi legittimi alla liberazione e all’uguaglianza, in grado di elaborare un pensiero al contempo antagonistico e radicale, infine in grado di sperimentare pratiche democratiche e originali percorsi istituzionali.

Come non è affatto inedita l’esigenza di misurarsi dialetticamente con la necessità di un disegno politico di governo razionale dell’economico, al limite, di un progetto coerente alternativo a quello dell’euro, ossia del dispositivo su cui si è articolata la ristrutturazione capitalistica, e la contraddittoria necessità di un rinnovato protagonismo popolare e democratico, un nuovo entusiasmo militante che, come tutti gli entusiasmi, può però nutrirsi dello scatenamento di energie autonome, dunque anche di energie provenienti dalle pulsioni più basse e meno nobili interne al corpo sociale medesimo. Se il carattere della spontaneità creativa della classe è il lievito dell’intrapresa politica, può, questo lievito, per fermentare, fare a meno di un dispositivo organizzativo? Da questo punto di vista, di fronte all’egemonia economica, politica e ideologica dei poteri e dell’establishment che si riconoscono nell’architettura dell’Unione Europea, la dimensione continentale favorisce o limita, sul piano meramente organizzativo, lo sforzo di costruzione di un fronte di opposizione in grado di lavorare per rappresentare gli interessi dei ceti subalterni e delle classi oppresse? Ed è più agevole lavorare alla rivoluzione sociale, mi si lasci passare la locuzione, focalizzando nella dimensione nazionale l’impegno di formazioni, aggregazioni di lotta, movimenti, partiti, sindacati in una certa misura riconoscibili, magari riservando ad un futuro, neanche troppo lontano se solo si riuscisse a darsi una boccata d’ossigeno e a invertire la tendenza, la possibilità che questa dinamica conflittuale e costituente possa essere riarticolata su scala continentale, oppure risulta ancora più semplice praticare vertenze e conflitto sul livello europeo?

Il punto è che non esistono soluzioni facili né, tantomeno, agevoli scorciatoie. È convinzione di chi scrive, per esempio, che debbano essere riabilitate quelle istanze politiche di governo dell’economia che si condensano in un ruolo attivo dello Stato nell’allocazione delle risorse, nell’esplicazione di politiche fiscali espansive, nel controllo della moneta, nel governo del prelievo fiscale e della spesa pubblica, nella tutela del lavoro e in una riacquisita sovranità sulle istituzioni finanziarie, a partire dalle banche. Nulla toglie, tuttavia, che si possa al contempo evocare un socialismo del XXI secolo all’altezza delle sfide che si è chiamati ad affrontare, che si possano immaginare, oltre i limiti dei confini statuali, inediti sentieri in grado di edificare nuove impalcature pubbliche, articolazioni istituzionali fondate sull’uguaglianza, esperienze di rinnovato democraticismo e di autentica partecipazione dal basso. Di fronte alla metamorfica e camaleontica capacità del capitalismo di reinventare se stesso in forme sempre nuove, dovrebbe essere quasi come una sorta di imperativo categorico di kantiana memoria quello di provare ad elaborare un punto di vista autonomo, di classe per l’appunto, in grado di indagare i rapporti di produzione, per rimettere al centro dell’elaborazione e della riflessione collettive la madre di tutte le contraddizioni, quella fra capitale e lavoro. E dunque la lotta al capitalismo tout court, con i suoi residuati di alienazione, reificazione, mercificazione, sfruttamento e oppressione.

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