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Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war

di Alessio Mannino

Il problema non è Michele Serra. Il problema è chi si beve i brodini tossici di Michele Serra. E potremmo dire più o meno lo stesso per Maurizio Molinari, Conchita De Gregorio, Adriano Sofri, Francesco Merlo e le altre firme di Repubblica. La polemica contro il “serrapiattismo” guerrafondaio è diventato un genere di maniera, e perciò ci interessa poco o punto. Interessa molto di più capire cosa si muove nella testa dei 97 mila lettori totali (di copie cartacee più digitali, dati Ads maggio 2025) che acquistano ancora un quotidiano che, come il resto della stampa stampata, rappresenta lo zero virgola della popolazione e tuttavia influenza, quota parte, l’agenda mainstream del Paese attraverso la grancassa deformante dei talk show televisivi. Perché, nonostante l’avanzata dei media sul web, è ancora la tv generalista a militarizzare le priorità del dibattito politico, almeno per quella minoranza di italiani che costituiscono la cosiddetta “opinione pubblica”. Nella selva di canali su internet si è lasciati liberi di ruzzolare (fino ad algoritmo contrario, s’intende), ma è sul piccolo schermo che il regime del consenso può continuare il balletto di idee ammesse e allineate, sfruttando la potenza d’attrazione di un numero limitato di emittenti nelle mani di pochi gruppi editoriali nazionali e internazionali (Rai semper fidelis al governo di turno, Mediaset copia conforme sia pur sotto spirito berlusconiano, La 7 di Urbano Cairo, l’americana Discovery-Warner Bros, e stendiamo un velo pietoso sull’editoria locale, che con il suo provincialismo non fa fare di certo una bella figura alla “provincia” del Belpaese).

Solo ed esclusivamente per questo un articolo come quello firmato da Serra su Repubblica del 15 luglio, intitolato “La comunità gentile e i conflitti”, merita di essere compulsato: perché ha il pregio di riassumere, come una boccetta da laboratorio, l’essenza del Benpensante. In questo caso de sinistra. Ma si potrebbe compiere l’operazione rovesciata con un qualsiasi editoriale di Alessandro Sallusti sul Giornale (o di Mario Sechi su Libero, rispettivamente veleggianti, per la cronaca, a 24 mila e 17 mila copie…). Che dice, il bolso sciorinatore di luogocomunismi? Volendo a tutti i costi renderci edotti del fatto che ha assistito con gaudio a un concerto di Marco Mengoni a San Siro, prende spunto dall’ordinato e composto svolgersi dello spettacolo per trasfigurarlo, niente meno, che a esempio ideale di convivenza sociale. “Non ho visto una sola lattina per terra” osserva compiaciuto, con sopracciglio disteso, il gran borghese esperto di amache. “Molte e molti i sorridenti, poco percepibili (anche grazie all’abbigliamento estivo) le differenze sociali” e, udite udite, perfino un clima “di pace e di serenità”. “Incredibile a dirsi”, se raffrontato a un “discorso pubblico che è un irto groviglio di problemi, recriminazioni, faziosità”. Finalmente, insomma, un oasi di tranquillità per i fragili, i bimbi e gli anziani. Di qui l’idillio, vergato con prosa paraletteraria: “Sicuramente ognuna delle persone presenti aveva un cahier di rivendicazioni da porre, e un taccuino di dolori personali da scontare. Ma nella comunità, tutto sembrava sciogliersi in una insospettata amicizia reciproca. Un gomito a gomito fitto, ma senza che nessuno potesse urtarsi, farsi del male”. Un mini-paradiso, dove la tensione del vivere si scioglie, le contraddizioni si riconciliano, gli interessi si uniscono in un grande, ecumenico abbraccio consolatorio. Ah, la comunità in serra: nessuno che rompe i coglioni.

“Gentile”, la chiama lui. Uno al quale, quando dirigeva Cuore, il bel settimanale satirico dell’Unità, sarebbe forse venuto un soprassalto di umorismo, prima di mettere insieme una serqua di banalità da far invidia a Massimo Gramellini. Gentile in realtà sta per pacificata, rabbonita, ammansita, cloroformizzata, anestetizzata. Il fu comunista Serra, come tutti gli ex comunisti passati armi e bagagli all’ottimismo obbligatorio da neoliberali fresconi, ammette, sì, che i “conflitti” richiamati nel titolo, bene o male, persistono, e sarebbe ineducato negarli (“la società ribolle di conflitti e sopirli, tacerli o negarli, da sempre, è un torto che si fa ai più deboli e ai soccombenti”). Ma il conflitto, signora mia, “nella sua rappresentazione politica quotidiana, quella che assorda e ormai disgusta, e nella sua sfilacciata e sanguinolenta scia sui social, assomiglia a una parodia della conflittualità sociale e politica”. Troppo baccano, là fuori. Troppo “chiasso di fondo”. Per cui, poveri noi, “poco cambia di concreto negli assetti sociali, i deboli rimangono deboli e i forti, forti”. E noi, cioè lui, si fatica a “trovare parole importanti, che ci soccorrano ed orientino”. L’unica salvezza possibile, care pecorelle del gregge, è “stare insieme e scoprire che è possibile starci con piacere”. Forza, qualche giornata di comunione e allegria come nelle parrocchie da oleografia e l’asprezza dello scontro si acquieta, l’animo turbato si riposa, e finalmente si può tirare un sospiro di sollievo. Manca solo, per completare il quadretto, l’invito alla preghierina a mani giunte prima di andare a letto, e don Michele arcangelo giungerebbe all’apoteosi.

Noi si scherza per evitar la bile, ovviamente. L’auto-parodia di questi sacerdoti dell’ideologicamente corretto è talmente comica e tragica insieme, che il sarcasmo viene naturale. Ma vogliamo immaginarci la reazione di un lettore di Repubblica dopo essersi trangugiato questa pappetta: ammaestrato da un’ultradecennale pedagogia da capitalismo vincitore (talmente vincitore che nel parlato comune il termine si è eclissato, segno della sua introiezione a orizzonte definitivo, a capitolo ultimo della Storia), formatosi sul ributtante moralismo di Eugenio Scalfari prima e di Ezio Mauro poi (altoparlanti di quel figuro di Carlo De Benedetti), adagiatosi sul nuovo corso di Jaki Elkann (che ha trasformato il giornale in un doppione della Stampa di Torino, storico house organ degli Agnelli), il nostro aficionado troverà probabilmente di corroborante buon senso il flautare magico dell’intellettuale organico a Stellantis. Che c’è di male a “non farsi del male”, a “non urtarsi”, a “stare insieme”, ad azzerare per un giorno “le differenze sociali”? C’è tutto il male possibile, invece. C’è tutta la pervicace volontà, cosciente e in malafede, di rimuovere le sofferenze e le speranze di chi sta peggio, per difendere la rendita di posizione di chi sta meglio. C’è tutta l’ipocrisia, che sembra davvero uscita da una caricatura della borghesia ottocentesca, da parte di chi, bontà sua, concede pure che qualche motivo per lottare contro gli infamoni d’alto bordo ci sia, ma per carità divina non si faccia casino, niente insulti, non si buttino le cartacce e guai a calpestare le aiuole.

Soprattutto: che non ci si lasci andare all’odio, come ricordava un’altra pompiera in servizio permanente effettivo come Milena Gabanelli in un’articolessa del giorno prima sul Corsera (199 mila copie) in difesa delle scempiaggini woke. Odio di classe, si sarebbe detto una volta. E dovrebbe poter dirsi ancor oggi, non meno di ieri. Non odio per Serra Michele, o per Molinari Maurizio, o per chiunque altro inteso come singolo: odio, sacrosanto e nobile, per il loro paternalismo, e per il privilegio neo-feudale per il quale ogni fervorino è buono. Ora, come l’amore, l’odio – che poi sarebbe l’aggressività – è un sentimento umano vitale. Ma, esattamente come l’amore, va educato, altrimenti prende strade perverse. I diseducatori di professione distorcono l’amore a poltiglia zuccherosa e l’aggressività a delitto sociale. Così facendo, alterano il primo e reprimono la seconda. E difatti, se l’esperienza non ci inganna, chi si bea annuendo a queste elegie con la puzza al naso è il classico esemplare di animale impolitico: non sa più distinguere e dare una gerarchia d’importanza alle ingiustizie sociali, non concepisce più una società divisa sulla base di interessi materiali e valoriali contrapposti, non si ricorda più che la politica è, costitutivamente, cooperazione e conflitto. Sa solo crogiolarsi nella visione di un mondo dove uno spossessato, privato dei diritti elementari (tetto sicuro, reddito decente e non precario, istruzione adeguata, sanità efficiente) dovrebbe dibattere pacatamente, e con i congiuntivi al loro posto, con i rappresentanti di penna o di scranno degli Elkann, dei Cairo, dei Berlusconi e, più in largo, dei banchieri benefattori, degli industriali amabili dispensatori di lavoro, dei giocherelloni che speculano in Borsa, dei plutocrati big tech (a patto non siano temporaneamente trumpiani: in quel caso, disprezzo viscerale), dei professoroni e professorini che s’indignano di fronte al maschilismo (patriarcato, patriarcato!) ma accettano consenzienti e camuffano entusiasti il più obbrobrioso classismo che l’umanità ricordi.

Per concludere. Siamo abbastanza sicuri che i 97 mila reduci che sprecano il loro denaro comprando Repubblica, manipolo semicolto del cosiddetto “ceto medio riflessivo” che tutto è tranne che riflessivo, guardano, loro sì in buona fede, a un Serra come riferimento intellettuale, ma solo perché ormai abituati a scambiare il ragionamento con i buoni sentimenti. E con la frolla dei buoni sentimenti si è sempre impastato il pane drogato della retorica. La politica ridotta a retorica moraleggiante per un pubblico infantilizzato: tel chì, il segreto dell’ideologia imperante. Ecco perché i discorsetti di pace e unione, anche fatti da qualche critico radicale, andrebbero evitati come la peste bubbonica. Perché corrono il rischio di confondersi con la cornice dominante. Not war, but social war.

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Comments

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Michele Castaldo
Tuesday, 22 July 2025 16:47
Un mio vecchio amico, operaio e persona sincera amava ripetere:
"la parola po-po-lo " comprende TRE ZERI. Che può essere?
Un Miche Serra sa di parlare al po-po-lo, lui e tanti come lui.
Sicché il problema non sono i Michele Serra, ma il po-po-lo a cui parla.
Michele Castaldo
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Sergio
Monday, 21 July 2025 10:33
Lasciamo perdere Serra e gli altri capimanipolo repubblichini. Contribuiscono assieme al resto del regime mediatico alla rappresentazione di una commedia incentrata sullo scontro tra Buoni e Cattivi, dove vincono i Buoni (del Tesoro) mediante le buone maniere politicamente corrette.
Il problema, enorme, è il fatto che ci credono in milioni.
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Irene Starace
Monday, 21 July 2025 16:13
No, non sono milioni a crederci, ma a non sapere cosa fare o a essere convinti che tanto agire non servirebbe a niente.
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