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doppiozero

Per Dante, svoltare a destra

di Stefano Jossa

DanteDante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d'Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».

Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.

Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.

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gasparenevola

Lucidità e tremore di Benedetto XVI, l’Inattuale

Eredità del “Papa della scelta”, che ha detto cose che andavano dette

di Gaspare Nevola

UrbietOrbi20121Ci sono molti che si dolgono della divina provvidenza perché lasciò peccare Adamo – sciocchi! Quando Dio gli diede la ragione, gli diede la libertà di scegliere, perché ragione non è altro che scelta, se no sarebbe stato solo un automa, un Adamo come appare nei teatri delle marionette

(John Milton, Areopagitica, 1644)

1. Ratzinger, il Papa della “scelta” e le sfide dell’iper o post modernità

La storia ricorderà Benedetto XVI come il Papa della clamorosa e inedita “rinuncia” di un pontefice al magistero pietrino e come il primo “Papa emerito” (forse destinato a restare unico). Il suo dell’11 febbraio del 2013 fu un gesto epocale: “inaudito”, senza precedenti. In un sol colpo, a saperlo leggere, quel gesto ha secolarizzato in profondità la Chiesa di Roma, forse più di ogni enciclica, tanto che mezzi di comunicazione ed esperti non sono riusciti a trovare la parola per definirlo. “Dimissioni”? No, perché non esiste una figura (terrena) alla quale un Papa possa inoltrarle: il Papa risponde solo al Signore Creatore. Il modo più appropriato per definire un simile gesto rimanda alla parola “scelta”. Una scelta maturata in dialogo con Dio e con la propria coscienza: la “scelta di Benedetto”. Questa la lezione.

Con quel gesto, annunciato urbi et orbi, il mondo (cristiano e non) apprende che anche un Papa può scegliere e scegliere, nella fattispecie, di rinunciare alla sua carica istituzionale (una lezione su cui molti dovrebbero riflettere). Eppure, per quasi un decennio quell’evento è rimasto a luci spente, nella dimenticanza dell’opinione pubblica.

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altraparola

Il proiettile umano nel “cupo incantesimo runico”

Lo sguardo di Ernst Jünger su guerra e pace

di Riccardo Ferrari

KubinPubblicato per la prima volta nel 1920, Nelle tempeste d’acciaio è un romanzo autobiografico tratto dai diari dove Ernst Jünger annotò meticolosamente quello che vedeva dalla «comunità combattente delle trincee» durante la Prima Guerra Mondiale, sul fronte franco-tedesco. La riscrittura continua dell’esperienza traumatica del conflitto (le successive cinque edizioni variamente modificate del primo libro, gli altri scritti narrativi che rielaborano i diari, i testi destinati alla pubblicistica di ambito nazionalistico, i saggi filosofici sulla Mobilitazione totale e sulla nuova figura storica dell’Operaio) percorre tutti gli anni Venti e i primi anni Trenta, configurandosi come un esasperato tentativo di trovare un senso all’evento insensato della guerra[1].

Ferito quattordici volte e decorato con la massima onorificenza del Reich, la “Croce pour le mérite”[2], Jünger racconta la sua esperienza con i toni di un’avventura epica ma, nello stesso tempo e in modo strabico, con distacco oggettivo e sguardo “fenomenologico”. È forse da questo doppio movimento che conviene partire per comprendere l’unicità di questo testo, ossia la capacità di essere contemporaneamente dentro l’evento epocale della modernità («La battaglia finale, l’ultimo assalto, sembravano ormai arrivati. Lì si gettava la bilancia del destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo»[3]) e di descriverlo con completa estraneazione, osservando da distante i processi di tecnicizzazione che la Grande Guerra aveva reso irreversibili.

Le tappe della discesa agli inferi del conflitto si snodano dall’arruolamento volontario, quando era ancora uno studente liceale, al primo contatto con il fronte e la morte, la vita elementare nel fango delle trincee, le grandi battaglie della Somme e poi nelle Fiandre come comandante di truppe d’assalto. La descrizione visiva prevale su ogni considerazione ideologica o politica, come ipnotizzata dallo spettacolo catastrofico di quella che chiamerà la “guerra dei materiali”.

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nazioneindiana

Al cospetto dell’angelo. Tre libri su Benjamin 

di Ludovico Cantisani

Screenshot 2022 12 14 at 12.28.49Nato nel 1892 a Berlino e morto nel 1941 lungo la frontiera spagnola, Walter Benjamin è un pensatore unico, e per parecchi motivi diversi: uno fra i tanti, la straordinaria molteplicità dei suoi scritti, al tempo stesso kafkianamente inconclusi e frammentariamente densissimi. Addentrandosi nella costellazione Benjamin non si tarda ad avvertire la sensazione che i passaggi più fertili, i movimenti più folgoranti del suo pensiero, si trovano soprattutto nelle note a piè di pagina, negli appunti mai ordinati, nelle intuizioni lasciate a latere della sua corrispondenza privata. Il suo carteggio con Gershom Scholem, pubblicato in Italia da Adelphi sotto il titolo di Archivio e camera oscura, ha le carte in regola per essere uno dei più begli epistolari del secolo scorso, certo il più rappresentativo dello stato della cultura ebraica nell’imminenza del nazismo.

Non può essere una coincidenza se, nell’ultimo periodo, Walter Benjamin è tornato “di moda”, con un profluvio di nuove pubblicazioni e trattazioni come non se ne vedevano da anni. A differenza che per Carl Schmitt, questa congiuntura si può spiegare solo in parte con l’avvento del Coronavirus: vero è che una delle più profonde intuizioni di Benjamin sancisce così, “che tutto vada avanti come prima è la vera catastrofe”, e giustamente la si è rievocata nei primi mesi di lockdown; ma se il fantasma di Schmitt è stato esplicitamente e surrettiziamente ripreso anche per contrastare le dinamiche da “stato di eccezione” rese necessarie della pandemia, il mormorio di Benjamin, su Benjamin è meno retorico, più laterale, liminare, ben più fecondo delle polemiche televisive dell’intellettuale contestatario di turno. Per non farci mancare nulla, ai primi di novembre al Teatro India di Roma è andato in scena anche uno spettacolo ispirato a Benjamin, L’angelo della storia di Sotterraneo, piacevolmente frammentario, monadistico.

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sinistra

Perchè la sinistra non impara a usare il meme?

Adorno, videogiochi e Stranger Things

Prefazione all'edizione italiana di Mike Watson

Mike Watson: Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things, Meltemi 2022

faccineMike Watson attualizza gli strumenti della teoria critica per riflettere sul rapporto odierno tra arte, industria culturale e politica. La principale questione su cui si concentra l’autore è l’incapacità della sinistra di vedere sia i lati positivi sia quelli negativi nello sviluppo di Internet e, di conseguenza, la particolare cultura della produzione e della ricezione delle immagini che lo accompagna. Secondo Watson, quella sinistra che voleva portare l’immaginazione al potere, salvo poi sposare la razionalità dei sistemi astratti e tecnocratici, può trovare nuova linfa vitale proprio nelle odierne tattiche di comunicazione politica. In tal modo, infatti, essa supererebbe tanto la condanna in stile anni Novanta di essere un baluardo della cultura del libro e del sapere alfabetico – dunque radical chic –, quanto quella più recente di essere parte di un’élite che difende la razionalità astratta del sistema – dunque dell’establishment – dimenticando le esigenze e i movimenti che spingono dal basso per rinnovare la società.

* * * *

Che i ragazzi appassionati di meme dell’alt-right abbiano potenzialmente aiutato Donald Trump a vincere la presidenza nel 2016 è un fatto ben documentato, anche se non necessariamente comprovato. Quello che sappiamo per certo è che la libertà messa a disposizione da Internet, in quanto piattaforma di pubblicazione, ha permesso a una forma deleteria di immaginario di destra di diffondersi a livello globale, trasformandosi in una chiamata all’azione per gli estremisti di destra, come abbiamo visto a Charlottesville e durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

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paroleecose2

Humanities in distress

di Andrea Sartori

humanitiesL’appello di Serenella Iovino rivolto alla sinistra a fare “qualcosa di darwiniano” (“la Repubblica”, 31 ottobre, 2022), può valere tanto per l’Italia quanto per il Paese che l’8 novembre s’appresta a delle elezioni di midterm, le quali si preannunciano problematiche per i dem e in generale per la cultura liberal d’oltreoceano.

Iovino, è ovvio, non ha in mente l’immagine di Charles Darwin pressoché caricaturale, che del naturalista britannico è spesso propagandata da chi lo elegge a teorico della brutale legge del più forte. Chi s’assesta su tale posizione, infatti, omette di considerare che il realismo darwiniano è reso umano da un impianto teorico anti-dogmatico e dalla fortuità delle variazioni dei caratteri, da un radicale scetticismo nei confronti dell’assolutismo filosofico e della mitologia dell’origine, e dalla propensione ad accogliere nel metodo dell’indagine scientifica l’imprevedibilità dell’accostamento metaforico e la creatività (anche letteraria) dell’analogia. Si pensi ad esempio, a quel che nel primo decennio del ventesimo secolo scriveva di Darwin un campione della pedagogia democratica americana come John Dewey (The Influence of Darwinism on Philosophy and Other Essays, New York, H. Holt and Co., 1910).

Iovino, d’altra parte, non cessa di ricordare che per l’autore de On the Origin of Species (1859) l’evoluzione è un problema di competizione e, insieme, di cooperazione (o di “alberi”, per stare sempre a Darwin, ma anche di reti e networks di spessore, per rifarsi invece alle riflessioni di Joseph A. Buttigieg concernenti la scrittura dei Quaderni di Antonio Gramsci; si veda Gramsci’s Method, “boundary”, 17, 2, 1990, 65).

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una citta

Pensieri censurati

di Stephen Eric Bronner

Una satira spietata dell’ondata oscurantista, questa volta proveniente da sinistra, contro la letteratura del passato, accusata di razzismo, sessismo, classismo e di quant’altro; un desiderio di censura, questa volta “progressista”, che ricorda tempi andati e da cui non si salva nessuno dei capolavori del passato, neppure Shakespeare

blocco studentesco censura odisseaImparo qualcosa ogni giorno -va beh, diciamo “a giorni alterni”. Questo perché leggo sempre i giornali -ok, diciamo che li leggo “occasionalmente”. A ogni modo, oggi ho appreso che tra le opere più bersagliate dagli aspiranti censori statunitensi ci sono "Il buio oltre la siepe" di Harper Lee, "Uomini e topi" di John Steinbeck e "Il giovane Holden" di J. D. Salinger. Confesso che non vado pazzo per nessuno di queste classici. D’accordo: il libro di Harper Lee ha difeso accoratamente dagli intolleranti sia un senso di giustizia elementare sia il movimento per i diritti civili -tutto questo, poi, in un’epoca in cui la segregazione era ancora in auge- ma il suo stucchevole sentimentalismo mi ha sempre dato il voltastomaco. Ogni accademico radicale contemporaneo che si rispetti, peraltro, non potrebbe esimersi dal ravvisare nel libro di Lee un razzismo e un sessismo lampanti, in quella che è una celebrazione patriarcale del “salvatore bianco”.

Anche in Steinbeck le motivazioni alla base dell’opera sono quantomeno sospette: il suo breve romanzo rappresenta senza pudori la violenza sulle donne, sfoggia epiteti razzisti e si dimostra insensibile rispetto al tema della disabilità mentale. Per quanto riguarda il leggendario adolescente di Salinger, Holden Caulfield, invece, dico solo che quel ragazzo è talmente alienato da avermi sempre dato sui nervi.

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carmilla

Complottismo e narrative egemoniche: sono così diversi?

di Stefano Boni

truthPer certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.

Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.

… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).

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jacobin

Un Nobel oltrecanone

di Jessy Simonini

Nella scrittura sovversiva di Annie Ernaux soggetto politico è prima di tutto il corpo nella sua vita materiale, nella densità e intensità dei suoi momenti d'essere

Ernaux jacobin italia 1320x481Oltre un anno fa, nello scrivere un lungo testo in occasione dell’uscita in Italia de La donna gelata, mi interrogavo su come la scrittura di Annie Ernaux ci imponesse di ripensare in profondità il rapporto fra politica e letteratura, generando uno spazio altro in cui il libro diventa «strumento di lotta» (Gli anni) e, allo stesso tempo, «ultima risorsa» di fronte al tradimento, in particolare quello del «transfuga di classe» che deve fare i conti con il proprio irreparabile mutamento (ne Il posto, citando una frase di Genet: «Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito»). E giungevo a una strana conclusione, riprendendo un’idea di Anna Maria Ortese, quella della letteratura come reato, «reato di nitida e feroce opposizione al potere e ai suoi rappresentanti, alla società nella sua attuale configurazione, alla dominazione maschile e del capitale, al classismo costitutivo del pacifico mondo occidentale». Mi sembrava che quel «reato» simbolico racchiudesse il cuore di un progetto in cui vita e scrittura diventano la stessa cosa, fino a non essere più distinguibili.

Il 6 ottobre, Annie Ernaux ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Sui giornali e sulle riviste si sono susseguite moltissime riflessioni (talora acute, talora molto meno) che hanno messo in luce il rapporto di Ernaux col femminismo (anche in seguito all’uscita del film tratto da L’evento) e i grandi temi che attraversano la sua scrittura: la memoria (nella sua dimensione concreta, materiale), i legami familiari da intendersi in una prospettiva transclasse, la sessualità, la maternità, il rapporto fra letteratura e analisi sociologica. Si sono citati i libri considerati come suoi «capolavori», fra cui Il posto e Gli anni.

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acropolis

Breve introduzione alla lettura di Bruno Latour

di Nicola Manghi

Da Magritte a Duchamp mostra palazzo blu 2Bruno Latour (1947) è autore impossibile da assegnare stabilmente a un’appartenenza disciplinare. Sociologo, antropologo, filosofo, egli è oggi in prima linea nei dibattiti di ecologia politica: la portata teoretica ed euristica della sua opera va ricercata – questa l’ipotesi che ci ha guidati nel condurre l’intervista che segue – proprio nella sua indisciplinatezza. Tale indisciplinatezza non è, si badi, da confondersi con una mancanza di pertinenza dei suoi contributi; piuttosto, essa segnala la loro pertinenza simultanea per una serie di campi di studio abitualmente distinti.

La feconda intuizione che soggiace a tutta l’opera di Latour, saldamente ancorata a una serie di studi empirici (Latour, Woolgar, 1979; Latour, 1984; Latour, 1992), può essere riassunta così: l’immagine che si ha della scienza differisce radicalmente a seconda che la si osservi «in azione», nel suo farsi, oppure nel momento in cui essa si presenta «pronta per l’uso», ovvero come una «scatola nera» che può essere utilizzata senza che se ne conoscano storia o contenuto (Latour, 1987). Gli scienziati tendono a presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di scoperta della natura; a osservarli in laboratorio, tuttavia, li si trova alle prese con i numerosissimi passaggi di traduzione necessari per trasformare un evento sperimentale nel tassello di una conoscenza cumulabile.

Da qui la necessità di studiare le scienze etnograficamente, secondo modalità in tutto e per tutto analoghe a quelle impiegate dagli antropologi che si recano presso popolazioni lontane, interessandosi a particolari cui la sociologia classica non aveva ritenuto di attribuire importanza alcuna: «le fonti di finanziamento, il background dei partecipanti, i pattern di citazioni nella letteratura rilevante, la natura e l’origine della strumentazione, e così via» (Latour, Woolgar, 1986, 278).

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paroleecose2

Non so più a chi appartengo. Autodafé dell’antropologia culturale

di Andrea Sartori

catoblepaNel 1892, il medico e sociologo ungherese Max Nordau pubblicava un libro che avrebbe avuto immediatamente una grande eco in tutta Europa, Degenerazione. In piena fin de siècle, Nordau se la prendeva non solo con l’arte che considerava corrotta – a partire da quella decadente, incluso Oscar Wilde – ma dava soprattutto voce a un disagio innescato dalla turbolenza politica, sociale ed economica di quegli anni, per altro verso ricchi di speranze nel progresso e pertanto di promesse tutte da mantenere. In sintesi, scriveva Nordau, “le sensazioni dell’epoca sono straordinariamente confuse, constano di instancabilità febbrile e di scoraggiamento represso, di presentiti timori e di umorismo forzato. Il sentimento che prevale è quello d’una fine, di uno spegnimento” (Degenerazione, Bocca, 1913, p. 5). Un iper-attivismo che girava a vuoto – ma a cui i media dell’epoca davano grande risalto – faceva velo a una disillusione di fondo; i sorrisi comandati e falsi dell’ipocrisia sociale, e della sua insopportabile retorica – più tardi messa sulla graticola da Luigi Pirandello – a stento nascondevano paure profonde circa la direzione che l’Europa stava prendendo, e che in poco più di vent’anni l’avrebbe condotta sul baratro della Grande Guerra.

Se v’era una Stimmung, essa aveva a che fare con un graduale rallentamento del ritmo della vita, anzi, con un “sentimento” di “spegnimento”. Quest’ultimo contrastava la baldanza, la frenesia e lo slancio cinetico con cui da una nazione all’altra s’idolatravano i passi in avanti della scienza, dell’organizzazione sociale, riflessi tra l’altro nel sogno colonialista.

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carmilla

Armi letali / 3: A cercar la bella morte

di Sandro Moiso

Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio

gesù 300x225«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo il mondo libero a un prezzo molto alto». (capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov).

«Scappare è da codardi. Non possiamo fermarci e trattare, il nostro obiettivo è fermare la minaccia russa: stiamo lottando non solo per l’Ucraina ma per il mondo libero… La debole reazione del mondo è uno dei motivi per cui siamo ancora qui. L’Ucraina è lo scudo dell’Europa, lo è stata negli ultimi due secoli. Abbiamo lottato contro le invasioni nei tempi passati, adesso è un’altra storia. Lottiamo da soli da quasi due mesi e mezzo, abbiamo ancora acqua, munizioni e armi. I soldati mangiano una volta al giorno, ma continueremo a lottare». (Denis ‘Radis’ Prokopenko, comandante del battaglione Azov)

“I nostri militari in un certo senso stanno ripetendo quello che ha fatto Gesù Cristo, sacrificando la propria vita per il prossimo, per i figli, per la propria gente e difendendo la loro terra dall’aggressore. Per questo consacro le loro armi, perché le usino per riprendersi la nostra terra benedetta da Dio”. (Mykola Medynskyy, cappellano militare ucraino membro del partito Pravyj Sektor)

La saga di Azovstal è terminata ormai da tempo. Il sacrificio in stile Götterdämmerung (crepuscolo degli dei) auspicato in un primo tempo da Zelensky e dal suo governo non c’è stato (forse anche per le proteste dei famigliari dei combattenti là asserragliati) e i russi sono stati abbastanza saggi da non trucidarne i difensori sotto gli occhi di tutto il mondo.

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iltascabile

Che cosa significa destra politica?

di Giacomo Croci*

Una riflessione a partire da Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 di Mimmo Cangiano

Schermata 2022 07 29 alle 11.18.24È un dato registrato da ormai qualche anno la reviviscenza in Europa, o almeno in Europa, della cosiddetta cultura di destra, su ampia scala, partitica e non. Piuttosto, ancora meglio che cosiddetta: di una cultura che si comprende, si identifica, si vuole e si proclama di destra. La rivendicazione è spesso netta, totemica quasi. La nettezza delle identificazioni, che sembra caratterizzare questi anni, pare però allo stesso tempo contraddire un altro elemento, che si è fatto sempre più preponderante nel dibattito pubblico, su quotidiani e social media: l’impazzimento della bussola ideologica. Da Alessandra Mussolini che si candida madrina del pride a testate del sedicente centro-sinistra che si lanciano nella più sperticata propaganda contro le più minime iniziative di welfare. È come se avessimo a che fare con due fenomeni: per un verso auto-identificazioni pietrificate, come se fossero certe di ciò che sono (una tendenza a oggi troppo spesso purtroppo condivisa da tutto il discorso politico); per l’altro lo smarrimento, tradito anche da questa pietrificazione, che di fronte a fenomeni storici, sociali, economici, anche naturali come una pandemia, non sa che pesci pigliare e dà luogo a risultati ideologicamente curiosi. La questione è ormai particolarmente spigolosa. Che cosa significa orientarsi nello spazio politico? E che cosa significa adoperare le due categorie di destra e di sinistra per farlo?

È un modo di ragionare diffuso quello che consiste nello spiegarsi gli eventi e le cose considerandone innanzitutto la provenienza e le cause. Si spiegano i comportamenti delle persone considerandone il vissuto; si spiegano gli eventi naturali identificandone le condizioni e le leggi che sembrano di prevedere con maggior affidabilità quali condizioni risultano in quali risultati e come.

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doppiozero

Niels Bohr: 100 anni dalla rivoluzione dell’immaginario

di Emilia Margoni

022622 reviews feat“In certi momenti, una sensazione di conflitto tra irrealtà diverse mi faceva chiedere se tutto quel dramma giocato tra forze fantastiche […] non fosse una specie di sogno semillusorio creatosi in gran parte nella mia mente” (Howard P. Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Newton Compton, Roma, p. 120). Così, Lovecraft segna quel salto imprevisto con cui la mente razionale del calcolo e della ponderazione prende atto che qualcosa sfugge, che si danno vie d’accesso a dimensioni subliminali in cui la distinzione tra realtà e irrealtà è poco più che analogica. Né stupisce che sorsero dubbi e leggende più che urbane sull’esistenza del Necronomicon, che possiede l’invidiabile virtù di essere un libro mai scritto, eppure citato, commentato, ricco di genealogie. Il punto, però, non sta nell’esistenza dell’oggetto-libro, quanto nella sua capacità, da oggetto inesistente, di produrre sia realtà sia dubbi intorno ad essa.

D’altro canto, è questa la dinamica portante dell’intera produzione letteraria del genere horror: la progressiva perdita di quel solido piano d’appoggio che siamo soliti definire “reale”. Ma pensare che simili fascinazioni riguardino il solo campo della letteratura è un malinteso che varrà qui la pena segnalare. Basterà far cenno al fascino che la fisica esercita oggi, e in misura crescente, sul grande pubblico: quel che in essa ne va non è il reale né l’irreale, ma un “conflitto tra irrealtà diverse”. E proprio questo conflitto è stato al centro della più che decennale polemica tra Niels Bohr e Albert Einstein, due divinità ctonie del campo in questione – un confronto serrato e a più riprese, che non ruotava attorno a come la teoria dell’uno spiegasse qualcosa meglio di quella dell’altro, ma come la teoria dell’altro, secondo l’uno, portasse a concepire un universo del tutto irreale.

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barravento

Ritorno alla vita*

di Raoul Vaneigem

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Nota del traduttore

Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero – come documenta ampiamente lo spettacolo sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana – è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto radicale di autogestione generalizzata della vita quotidiana che Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.

Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli esseri umani a schiavi dell’economia politica – teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.

La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata della peste emozionale dei suoi servitori volontari.