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sinistra

Una disputa italo-tedesca su Dante

di Eros Barone

dante alighieri 638x425In questo anno giubilare le acque stagnanti della cultura italiana sono state smosse da un lungo e interessante articolo del quotidiano tedesco «Frankfurter Rundschau» dedicato a Dante Alighieri e alla lingua italiana. Dare conto della disputa che ne è nata può essere opportuno per più motivi: verificare come viene considerato il “sommo poeta” in base all’ottica critica di un qualificato giornalista di un importante paese europeo; osservare come reagiscono gli esponenti ufficiali della cultura italiana a questo tipo di ottica; trarne elementi utili per un approfondimento multilaterale della poesia e della personalità di Dante, quale specchio in cui si riflette una vicenda plurisecolare che mette in gioco l’identità storica di un paese, l’Italia, che è caratterizzato dal complesso e conflittuale binomio: “nazione antica, Stato giovane”.

Ma leggiamo alcuni stralci dell’articolo che ha innescato la disputa: “Il 14 settembre 1321 il fiorentino Dante Alighieri morì in esilio a Ravenna, quindi perché un articolo su Dante oggi? L’anno scorso, il 25 marzo è stato introdotto come Dante Day1 in Italia. Il più grande poeta italiano deve essere commemorato in questa data ogni anno. Perché il 25 marzo? In questo giorno, un Venerdì Santo dell'anno 1300, si dice che abbia iniziato il suo viaggio attraverso l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Dante ama giocare con i numeri. La sua grande poesia, la Divina Commedia, inizia con le parole: ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita’. Poiché una data di nascita non è stata registrata, si è concluso presto da queste informazioni che Dante era nato nel 1265.

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nazione indiana

Quando finirà il Kali Yuga? Apocalisse e catastrofe dal Novecento a oggi

di Adriano Ercolani

hieronymus boschs apocalyptic visionsIl Novecento è stato un secolo attraversato da una profonda inquietudine apocalittica. In filosofia da Heidegger a Deleuze e Derrida, da Kojève a Fukuyama, passando per l’esistenzialismo, nella riflessione politica e sociologica da Pasolini a Baudrillard, in poesia da T.S.Eliot agli Ermetici e ai New Apocaliptycs inglesi, nell’arte da Munch a Bacon, nella letteratura attraverso le distopie antiutopistiche di Orwell, Huxley, Dick, Ballard, nella musica popolare di canzoni come A Hard Rain’s a-Gonna Fall di Bob Dylan o Eve of Destruction di Barry McGuire, nel cinema di massa con opere d’autore quali Il Dottor Stranamore di Kubrick, Melancholia di Lars Von Trier, I figli degli uomini di Cuarón, ma anche l’intero filone di film post-apocalittici dominante nel mercato americano. Soprattutto questo sentimento si manifesta più che mai nella ricerca spirituale, riferendosi non solo alla prospettiva escatologica di maestri orientali dal grande seguito come Shri Mataji Nirmala Devi e Ramana Maharshi, ma anche al pensiero di figure considerate fuori dagli schemi del calibro di Quinzio e Ceronetti. In queste e moltissime altre opere, in tutti i campi del sapere e della sfera creativa, si respira il senso di una fine ineluttabile, di una necessaria catastofe palingenetica.

Ciò si è manifestato talvolta come anticipazione profetica, l’anelito al potere sacro della violenza che animava le avanguardie storiche in mezzo ai due conflitti bellici, in altri casi invece si è tradotta nella contemplazione delle macerie dopo il disastro, esemplificata dall’arte giapponese del Dopoguerra.

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doppiozero

Recalcati, conversione all'infanzia

di Federico Leoni

9788806249243 0 0 626 75Conosciamo tutti il ritornello. La nostra è una società di eterni adolescenti, addirittura di eterni bambini. L’età adulta resta confinata all’orizzonte, inafferrabile e ormai indesiderabile. Peter Pan è il santo patrono di nuove generazioni di sdraiati.

Naturalmente chi parla degli sdraiati immagina di starsene in piedi, ben dritto, in mezzo a un paesaggio molle, nebbioso, orizzontale. Dimostra una certa fierezza per questa sua stazione eretta. Eppure non è anche questo sogno di essere grandi e di grandezza, un sogno da bambini o forse il sogno da bambini per eccellenza?

Massimo Recalcati ha pubblicato due libri, recentemente, contemporaneamente. Sono due libri molto diversi ma molto solidali. Si saldano intorno al tema dell’infanzia, appunto. Consentono di leggerlo in tutt’altro modo. Disegnano una specie di filosofia dell’infanzia perenne, di psicoanalisi dell’infanzia perenne. E poi si saldano intorno al tema della conversione, intorno alla parola conversione.

Ora, si sa che l’infanzia è materia da psicoanalisti, si sa che Freud ne fa l’età decisiva di quello che sarà una vita. Certi primi incontri lasciano il segno, il fantasma di un soggetto prende forma per non smettere mai più di visitare quella vita futura. Meno chiaro è che cosa abbia a che fare la conversione con l’infanzia. A meno di non pensare che la conversione sia sempre il passaggio da una vita vecchia a una vita nuova, il gesto con cui qualcuno tenta di fare qualcosa di nuovo della propria vita vecchia. Allora anche la conversione è materia da psicoanalisti, dopo essere stata, per secoli, materia da teologi. Anche questo passaggio di mano è interessante. Ci torneremo.

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quadernidaltritempi

Rinascimento cyberpunk: da Neuromante a Mr. Robot

di Giovanni De Matteo

Ricognizione sul genere alla luce dei classici ristampati in “Cyberpunk” e della serie Mr. Robot

mappe cyberpunk2 04In principio era il cowboy della consolle. L’hacker, il pirata del cyberspazio, lo scorridore dell’interfaccia.

La sua comparsa in letteratura è graduale e comincia a prendere forma dalla metà degli anni Settanta, prima con Rete globale di John Brunner (1975) e pochi anni dopo con Vernor Vinge e Il vero nome (1981), che già preludono agli sviluppi successivi ma, come i loro protagonisti assillati dall’anonimato e dalla copertura delle rispettive identità, sono ancora delle ombre vagamente delineate. L’irruzione formale del nuovo protagonista sulla scena della fantascienza si ha all’inizio degli anni Ottanta, grazie ai racconti di William Gibson Johnny Mnemonico (1981) e soprattutto La notte che bruciammo Chrome (1982), e poi a un romanzo di culto, che ne riprende le premesse e le spinge alle estreme conseguenze, segnando uno spartiacque nella storia della fantascienza (e non solo).

“Case aveva ventiquattro anni. A ventidue era un cowboy, un pirata del software, uno dei più bravi nello Sprawl. Era stato addestrato dai migliori in assoluto, da McCoy Pauley e Bobby Quine, leggende del ramo. Aveva operato in un trip quasi permanente di adrenalina, un effetto collaterale della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio su misura che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice. Ladro, aveva lavorato per altri ladri più ricchi, che gli avevano fornito l’arcano software per penetrare le brillanti difese innalzate dalle reti delle multinazionali, per aprirsi un varco in banche-dati pressoché sterminate”

(Gibson, 2021).

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coku

Con gli analfabeti non si può fare la guerra

di Leo Essen

Bundesarchiv Bild 183 H0611 0500 001 Berlin Intellektuelle bei FriedenskundgebungCon gli analfabeti non si può fare la guerra
(Bertolt Brecht)

Sul numero 84 del 2001 della Rivista La Contraddizione, Vladimiro Giacché propone la traduzione di alcuni testi minori di Bertolt Brecht, ai quali premette una breve e preziosa presentazione che mostra quanto istruttiva era ancora la loro lettura. Soprattutto, dice Giacché, questi testi sono preziosi per fugare un luogo comune della politologia borghese contemporanea, rappresentato dall’opposizione di democrazia e totalitarismo. Luogo comune che, dice, ha il suo nume tutelare in Hannah Arendt, e che oggi (2001) è pienamente egemone, e consente di cogliere tre obiettivi in un colpo solo: a) trasformare la democrazia parlamentare in un feticcio; b) demonizzare l’esperienza sovietica, assimilata in tutto e per tutto alla Germania nazista; c) cancellare il puro e semplice dato di fatto che la Germania nazista fu un Paese capitalista.

Per quanto riguarda direttamente i testi di Brecht, devo ammettere che ancora oggi, 2021, sono utili per fugare altrettanti luoghi comuni della politologia borghese che dominano il dibattito televisivo-filosofico nostrano.

Non solo è importante tenere a mente che il fascismo è stato legato alla necessità di conservare l'ordine sociale capitalista, e che, qualsiasi cosa se ne dica, e nonostante le differenze, anche enormi, con gli anni Trenta del Novecento, il capitalismo è vivo e vegeto e cerca, anche con i mezzi più disumani, di organizzare le nostre esistenze.

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machina

Riprendiamoci i saperi, riprendiamoci la vita

Emiliana Armano dialoga con Antonella Corsani

0e99dc 58900295ef604841a9e8d476b3ab4a8dmv2In occasione della recente pubblicazione del suo libro, Chemins de la liberté. Le travail entre hétéronomie et autonomie abbiamo invitato Antonella Corsani ad approfondire presupposti e implicazioni della sua ricerca.

Questo libro si iscrive in una prospettiva critica delle tesi sul capitalismo cognitivo – concetto che Antonella Corsani ha contribuito in modo importante ad introdurre nel dibattito teorico-politico – ed è scritto a partire dalla sua esperienza di inchiesta di più di quindici anni, prima nel movimento degli intermittenti dello spettacolo, poi nel movimento delle cooperative di attività e di impiego. È contemporaneamente uno studio di ampio respiro, insieme militante e teorico, che investe trent’anni di elaborazione critica e pratica del pensiero post-operaista, e ricostruisce in maniera chiara e puntuale la nascita negli anni ‘90 e la successiva articolazione delle tesi sul capitalismo cognitivo. Uno studio che ha il coraggio e il merito di fare un bilancio sulle coordinate teoriche fondamentali di un concetto, che è stato centrale nella teoria dei movimenti radicali. Riuscendo a tenere coesa, in una visione militante e rigorosa, sistematica e severa, la teoria e l’esperienza politica in un tentativo di situare questi diversi piani in maniera relata. In corso d’opera, durante il periodo di elaborazione ho avuto il piacere di dialogare con Antonella Corsani e ora quello di poterle rivolgere alcune domande sugli intenti e sulle tesi contenute nel suo libro per poterlo far conoscere e discutere. Qui di seguito riporto questo dialogo.

* * *

D. Vuoi fornire, ai lettori, qualche elemento sul percorso teorico e politico che ti ha condotta a scrivere Chemins de la liberté. Il progetto come è nato? Come si è inserito tra la contingenza del tuo attuale lavoro di ricerca in Università e i tuoi precedenti studi e ricerche militanti? Come hai pensato che fosse l’occasione di fare il punto di un percorso collettivo…?

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sinistra

Una figura colossale”: Dante Alighieri

di Eros Barone

Portrait de DanteUna lettura più attenta rivela l’impossibilità di distinguere, sia pure idealmente, quelle che sono le componenti fondamentali del genio di Dante: la serietà e grandiosità, incorporata in un fermo disegno strutturale, del proposito etico e, dall’altra parte, una straordinaria plasticità di invenzioni figurative e una prodigiosa fertilità di risoluzioni stilistiche e verbali.

N. Sapegno, Storia della Letteratura Italiana, vol. I, Garzanti, Milano 1965-1969, p. 76.

Ma se potessimo intravedere anche solo di spalle Dante Alighieri che s’inerpica sull’Appennino, non capiremmo della Divina Commedia qualcosa di più di quel che oggi ne sappiamo? 1

C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, p. 133.

 

  1. L’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno”

Non esiste gesto o atteggiamento umano che Dante, nella Divina Commedia (per tacere delle altre opere), non abbia descritto, scolpito, evocato, e ciò è stato riconosciuto dagli autori più diversi, i quali non hanno mancato di rendere il loro omaggio all’autore del “poema” cui “ha posto mano e cielo e terra” 2 e all’artefice primo della lingua italiana. In tal senso, come ha scritto uno di essi, Dante è davvero “l’inevitabile”. 3 E come non ricordare che non vi è esercizio più sano per la mente e per il cuore, nonché per i sensi, della ‘lectura Dantis’? Sì, anche e soprattutto per i sensi, giacché questi organi traggono uno speciale godimento dalla lettura, ancor meglio se ad alta voce, delle terzine incatenate dell’Alighieri. Il che è comprovato, fra l’altro, dal costante successo che hanno riscosso tali letture nel corso del tempo: da Carmelo Bene, passando attraverso Roberto Benigni, sino a Vittorio Sermonti.

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losguardo

Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann

di Stefano Virgilio

Francesco Saverio Trincia: Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Scholè, 2019

9788828400370 0 0 573 75Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di Francesco Saverio Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti della portata filosofica (termine particolarmente significativo, considerando la diffidenza di Freud nei confronti della filosofia) della psicoanalisi freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann. Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e di reinterpretare alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si possano accostare categorie apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando “hegelianamente” una loro reciproca implicazione ossimorica.

Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12).

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doppiozero

Recalcati lettore di Fachinelli. L’oceano al di là dell’Edipo

di Rocco Ronchi

25833 396699408248 840845 n 1 0Elvio Fachinelli ha avuto il grande merito di portare la psicoanalisi dentro il dibattito politico e culturale dell’Italia degli anni ’60 – ‘80, quando il vento del rinnovamento soffiava forte sulla società italiana. Psicoanalista eterodosso, ma non dissidente, sospettoso delle dinamiche autoritarie dei gruppi, anche quando questi erano fondati su buone cause, si era sottratto all’invito formulatogli da Jacques Lacan di rappresentarlo in Italia, preferendo mantenere una posizione da libero battitore. A trent’anni dalla prematura scomparsa, uno dei maggiori “eredi” italiani di Jacques Lacan, Massimo Recalcati, gli ha dedicato un piccolo densissimo volume, articolato in tre saggi e in una Appendice, dal titolo significativo e assai impegnativo: Critica della ragione psicoanalitica.

Di Fachinelli, il suo esegeta condivide non solo una matrice intellettuale lacaniana, che è certamente più sfumata nel caso di Fachinelli, ma anche quella che si potrebbe definire una comune vocazione all’“impegno”. Per entrambi, infatti, la psicoanalisi è una prassi interamente calata nell’attualità, che non teme di sporcarsi le mani con il conflitto. Certamente diversissimi sono gli sfondi nei quali prende rilievo la loro riflessione. La temperie sociale, politica e culturale che caratterizzava gli anni di Fachinelli non ha quasi più rapporto con quella attuale. Le urgenze sono altre, anche se non meno drammatiche. Comune a entrambi è tuttavia la persuasione che la psicoanalisi, che nella sua pratica resta sostanzialmente una faccenda privata, sia, quanto al suo senso, parte integrante del discorso pubblico. Essa deve fungere da criterio di orientamento nel reale e da principio della sua trasformazione.

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paroleecose2

Che importa chi parla? Manifesto per l'anonimato intellettuale

di Anonimo

Anonymous[Questo è un manifesto-proposta per l’anonimato intellettuale. L’idea è semplice: almeno in questo ecosistema – nei blog, nelle riviste online, nei social –, ma forse anche fuori di qui, l’autore non è affatto in declino, né morente, pace Roland Barthes. Forse il lettore è autore, qui più che altrove. Forse questa è la fabula dove regna incontrastato il lector, sotto forma di like. Eppure, se è così, il lettore è inevitabilmente irretito nelle maglie dell’autore – della sua celebrità, del ruolo che ha, del pulpito da cui parla. E anche chi autore non può essere nel senso classico, cioè l’individuo qualunque, qui – in questo ecosistema – spesso come autore si atteggia sin da subito. La funzione-autore foucaultiana si esercita a tutto spiano in certi ambiti della Rete, fagocitando tutto il resto. Fagocitando soprattutto le idee e il merito delle argomentazioni. Allora, la proposta è mettere l’autore fra parentesi, dare uno spazio a chi accetterà di prenderselo – a certe condizioni, naturalmente – senza volerlo occupare con la propria identità, ma solo con la propria voce. Potrebbe non accettare nessuno; potrebbero essere troppi i favorevoli alla proposta. Lo vedremo. La rubrica inaugurata da questo intervento, e curata dal suo autore anomimo,  sarà lo speaker’s corner per chi, parte del General Intellect, vorrà sfuggire dalla logica che rende la produzione intellettuale un altro ambito della produzione di ricchezza, che fa della comunicazione umana una fra le altre merci. Testi collettivi, testi irregolari, testi provocatori, testi marginali: voci della moltitudine potranno apparire qui, sotto le mentite spoglie dell’anonimato e grazie allo scudo che esso garantisce.]

* * * * 

Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio.

M. Foucault, Che cos’è un autore?

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lantidiplomatico

"Quel sole e quel cielo"

Raccolta di poesie di Geraldina Colotti

di Fosco Giannini

Dall’ultima raccolta di Geraldina Colotti, Casa Editrice “La Città del Sole”, dal perfetto amalgama tra forma e contenuto, tra postazione rivoluzionaria e raffinatezza del linguaggio traiamo un dono: la poesia

69afd2f965bb1b1b7e5723c79fa65ac7Libera nos a malo: con la stessa espressione evangelica con la quale, nella versione latina, si pregava il padre nostro di liberarci dal male, potremmo chiedere al dio della della poiesis di liberarci da Benedetto Croce e da tutto il vasto, secolare, crocianesimo servile, che mai non muore e che come una fabbrica di merci di massa ha invaso il mercato della critica letteraria con i criteri standardizzati per la lettura della poesia e della letteratura. È attraverso il crocianesimo che per decenni abbiamo creduto che vi fosse una letteratura di serie “a” e una di serie “b”, una alta e una negletta; che il grande romanzo inglese o francese fosse letteratura classica e il “giallo” fosse letteratura per ceti operai e proletari, quelli senza capacità critica e, in fondo, senz’anima. Finché dalle viscere della società americana uscirono le pagine, altrettanto classiche di un Flaubert, di Dashiell Hammett o di un Raymond Chandler, che scrivevano gialli, che usavano la forma del giallo per raccontare la miseria, la violenza, la vita oscura delle metropoli americane, con la stessa luce veggente di quel Balzac che scriveva della piccola borghesia in formazione. Libera nos a malo, liberaci dal crocianesimo che come un feroce ingegnere israeliano ha tirato su un Muro tra il contenuto e la forma, condannando reggimenti di critici letterari ed eserciti di lettori a parlare dell’una e dell’altra, salvandone una e condannandone l’altra, mai viste convivere in un unico corpo.

Occorre innanzitutto prendere le distanze da “Poesia e non poesia” (1923) dove Croce stabilisce per i posteri che l’arte è pura forma e che il mondo fisico è irreale quanto reale è la poesia, per leggere il lavoro di Geraldina Colotti. È vero che sono le scelte di vita, politiche, filosofiche, esistenziali di Geraldina a prendere, da sole e senza aiuto esterno, le distanze dal vate dell’idealismo conservatore italiano.

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doppiozero

La rivoluzione di Eleanor Marx

di Claudio Cinus

miss marx fig. 3Il primo riferimento storico di Miss Marx è l’anno della morte di Karl Marx, 1883; non ci sono altri cartelli o sovrimpressioni a illustrare il contesto. Susanna Nicchiarelli non vuole indirizzare il suo film verso la classica ricostruzione storica e preferisce concentrarsi subito su un poco noto rapporto padre/figlia. L’orazione funebre rappresentata sullo schermo è da parte di Eleanor Marx, detta Tussy, figlia più giovane del grande pensatore tedesco. Romola Garai, che dà il volto alla protagonista, guarda in camera come per presentare il suo personaggio a una platea che probabilmente non lo conosce e nel rivolgersi, per la prima ma non ultima volta, direttamente agli spettatori del film (oltreché alla piccola platea di astanti nella finzione cinematografica) accetta il ruolo subalterno di “figlia di”. Le sue parole sono dedicate quasi esclusivamente al rapporto di Karl con la moglie Jenny, celebrazione di un matrimonio felice nei sentimenti quanto travagliato economicamente; nelle frasi di Eleanor la politica quasi scompare innanzi all’aspetto più intimo e quotidiano di un uomo noto invece per il suo impegno sociale. Eleanor è erede di nome e di fatto del padre: il partito la stima, le sue qualità oratorie e di scrittura sono riconosciute, nessuno mette in dubbio che sia capace di portare avanti con autonomia le idee ereditate dal padre. Ma lei preferisce filtrare tutta l’esperienza della figura paterna attraverso il racconto della loro vita familiare. Ricorda l’uomo che ha amato una donna nella maniera in cui ogni donna vorrebbe essere amata, il padre che le ha dato una degna educazione; questo è stato per lei Karl Marx.

Scoprirà solo qualche anno dopo che la vita sentimentale del padre non era stata lineare e monogama come lei credeva fermamente, ma ormai il danno è fatto: l’ammirazione profonda per il genitore la porta a volerne continuare la lotta politica cercando al contempo di replicare quell’ideale romantico che credeva di avere osservato e compreso coi suoi occhi di bambina.

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effimera

Rossana

di Alisa del Re

lisi e rossanaEra una comunista. Ha attraversato il secolo scorso ma non si è persa nulla dei primi venti anni del ventesimo. L’anno passato, in aprile, scrisse su sessualità e filiazione, partendo da sé per affrontare temi difficili e complicati di dibattito nel femminismo. “Partendo da sé” come aveva appreso dal femminismo degli anni ’70.

“Dunque sono sicuramente una donna, e un po’ qualunque, come milioni di altre donne da quando esistono le civiltà greca, romana e giudaica, che sono le principali dalle quali una donna qualunque europea soprattutto deriva.

Di particolare c’è che ho sempre avuto una vera passione politica; in suo nome ho dato vita al “manifesto”, gruppo politico italiano, poi anche quotidiano autofinanziato assieme – fra altri – a Lucio Magri, a Luigi Pintor e Luciana Castellina, che esce ancora oggi. Posso aggiungere che sono una marxista ortodossa, adepta a suo tempo anche di quel marxismo-leninismo, che giustamente si accusa di essere “volgare”, ma che mi ha aiutato anch’esso a capire com’era fatto il mondo e a diventare comunista: lo sono rimasta, non sono dunque di formazione condivisa dai più né in onda con il tempo.” […]

“Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo: non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva; non ne ho, penso, nei confronti del testo fatto circolare ora da “Non una di meno”, che forse avrei scritto in modo a momenti diverso, come mi permetto di dire oggi.”[1]

Così si presentava Rossana l’anno scorso, battagliera, parlando di sé come se pochi e poche la conoscessero, con quella civetteria altera che la caratterizzava. Piangendo sulla sua morte, oggi, capisco perché la consideravo indistruttibile, perché non ho mai messo in conto che lei non ci fosse più.

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carmilla

Della dolce vita, l’incerta sorte

di Gianfranco Marelli

Raffaele Alberto Ventura, Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, Torino 2020, pp. 236, euro 14,00

978880624474HIGRicordate dove eravate e cosa vi apprestavate a compiere venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18? Qual è il vostro alibi che potrebbe scagionarvi dall’aver partecipato al flash mob tutto italiano lanciato e diffuso attraverso l’hashtag “#cantachetipassa”, in cui si invitava a esporre dai balconi e dalle finestre il tricolore, nonché a esibirvi in un afflato canoro/musicale con strumenti, sirene, tamburelli e stoviglie prese a colpi per far rumore, ma anche con telefonini, tablet e casse audio accesi ad alto volume e rivolti verso la strada, ascoltando e facendo ascoltare la vostra hit parade anti-pandemia? E se anche obtorto collo vi siete sentiti costretti a partecipare alla kermesse nazional popolare, ma senza per questo intonare l’inno di Mameli, preferendo l’allegria, la nostalgia, la spensieratezza di “Azzurro”, “Abbracciame”, “Ma il cielo è sempre più blu”, perché non scegliere la canzone “Un senso” di Vasco Rossi, di certo più opportuna per rimarcare la progressiva e ineluttabile ricerca di un senso a quanto era accaduto, stava accadendo e sarebbe accaduto1?

Forse perché il Senso, la Causa, il Fondamento, l’Ordine, l’Origine in grado di comprendere e spiegare il diffondersi della pandemia da Covid-19 ci si aspettava fossero gli ‘esperti’ a comunicarlo; gli stessi esperti utilizzati come paravento dai politici per giustificare provvedimenti eccezionali tali da imbrigliare le normative procedurali di una democrazia, da intravvedervi il compiersi di una dittatura invisibile che sorregge un’apparente libertà di scelta: la democratura. Tant’è che il rimedio contro il terrore provocato dall’imprevedibilità del virus a non pochi è sembrato peggiore del male da curare, soprattutto perché chi avrebbe dovuto capirci qualcosa stentava a farlo, dimostrando di non saper utilizzare al meglio la propria competenza così da generare maggiore insicurezza, al punto da suscitare più dubbi che certezze sul come comportarsi, su cosa e a chi credere.

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gliasini

David non ci vorrebbe Graeberiani

di Lorenzo Velotti

2020 0904 david graeber 1200x836 1All’inizio di quest’anno, Goffredo Fofi mi chiese di intervistare David Graeber con l’idea di farne un libro-intervista. Estremamente onorato e al contempo nervoso, in cerca di qualche direzione, cominciai a chiedere a Goffredo che temi avremmo dovuto affrontare, e a David che disponibilità avesse e di cosa gli sarebbe piaciuto parlare. Il primo mi rispose che ero libero di fare quello che volevo, il secondo che certamente avremmo potuto fare l’intervista e parlare di qualsiasi cosa! Che potevo aspettarmi, incastrato tra due anarchici? Ricordo una meravigliosa conversazione con David nel suo studio, dove parlammo a lungo del libro e dei titoli che avremmo potuto dargli, finché David non cominciò a espormi la sua teoria delle libertà perdute, che aveva appena formulato per il suo prossimo libro (The Dawn of Everything: A New History of Humanity, 2021), un po’ come se io avessi dovuto offrire un commento critico (cosa che chiaramente non feci). Non perché io fossi speciale in alcun modo, ma perché, da anarchico e da antropologo, pensava e scriveva con gli altri. Infine parlammo d’attivismo, su cui mi diede alcuni consigli. Da allora cercammo di fissare delle date per l’intervista, ma la pandemia stava scoppiando, l’università stava chiudendo e David mi disse: “l’intervista la facciamo non appena finisce questo casino”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Non avrei mai pensato che il casino gli sarebbe sopravvissuto.

Ho conosciuto David Graeber nel 2018, seguendo il suo corso di “Antropologia e Storia Globale” alla London School of Economics, all’inizio di un percorso che mi ha cambiato la vita. L’ho conosciuto per poco e tuttavia non poco, come tanti suoi studenti e compagni, per via della sua irriverente trasparenza e di una curiosità volutamente infantile verso l’altro.