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Come si costruisce un evento durante i mondiali di calcio?

Nique la Police

Queste giornate di coppa del mondo di epico hanno solo il fastidio provocato dalle vuvuzela. Basta alzare l’audio di pochi decibel per trovarsi immersi nel suono di un vespaio grande quanto un condominio.
In rete esistono software che, secondo i siti che li propongono, liberano l’audio dal micidiale ronzio. Come questi software funzionino non è poi così comprensibile, ma per fortuna non c’è il caldo di altre stagioni: l’accoppiata tra vuvuzela e temperature da record potrebbe creare fenomeni di intolleranza collettiva.

Il mondiale spesso si impone come un evento globale sganciato da quel fenomeno che l’evento l’ha creato: ci riferiamo al gioco del calcio in sé. L’evento, come in altre edizioni, è l’organizzazione del campionato, non tanto ciò che accade sul campo. In fondo questo è comprensibile: si passa dalla valorizzazione dell’evento che avviene tramite l’inatteso e la sorpresa, ed è quello che accade grazie alle trame incerte del gioco, a quella dell’evento come certezza. Il mondiale come evento organizzativo è una certezza: inaugurazione, fase a gruppi, eliminatorie, semifinali, finali. Quella la si può vendere con ragionevole anticipo agli sponsor e nei pacchetti tv.

Quella che non si può vendere è l’imprevedibilità del gioco. Per questo il gioco, che produce quell’inatteso, quella sorpresa che si costituiscono in evento prima e storia dopo (la mano di dio di Maradona, il colpo di testa nelle nuvole di Pelè a Messico ’70, la tripletta di Paolo Rossi al Brasile e persino la testata di Zidane) è un fenomeno accessorio mentre il rito dell’organizzazione del mondiale è il fenomeno centrale messo a produttività e piazzato su miriadi di mercati. Quest’ultimo è una merce emozionale però esente da rischi, si sa che accadrà NON importa come.

Sul campo questo carattere accessorio di evento imprevisto rappresentato dal gioco, rispetto al mondiale di calcio come evento certo offerto dalla programmazione, lo si vede tutto. A parte qualche frammento di partita nessuna squadra si è dimostrata davvero capace di saper attaccare, di costruire gioco come evento imprevisto. In questo senso la riforma del regolamento del gioco del calcio, voluta dalla FIFA dopo il deprimente mondiale del ’90, è fallita. Visto che il suo indirizzo di governo era proprio quello di rompere l’egemonia delle difese sugli attacchi e ristabilendo equilibrio e produzione dell’incerto  tra le fasi di gioco. Si dirà che nel calcio da diverso tempo è più facile distruggere che costruire. Vero se non si considera che molte squadre hanno giocatori che vengono dal oltre 60 partite l’anno nei club, cifra alla quale vanno aggiunte le fasi finali di qualificazione ai mondiali e le amichevoli di avvicinamento. In queste condizioni un gioco prevalentemente difensivo è maggiormente gestibile dalla squadra. Anche se si fanno il pressing e il raddoppio della marcatura (o dopo la marcatura tripla). Perché nel calcio ad alta complessità di schemi di oggi un gioco d’attacco richiede una preparazione, prima ancora tattica che atletica, che non si raggiunge in due-tre settimane di ritiro tra giocatori che magari parlano lingue calcistiche diverse perché giocano in campionati molto differenti tra loro.

Il Brasile è l’esempio più evidente di questa evoluzione del calcio. Non è questione del carattere di Dunga, anche il ct precedente (come Scolari nel 2002) aveva dovuto tener conto di queste mutazioni nel mondo del calcio globale.
Il calcio ha quindi subito le trasformazioni tipiche della produzione di valore a mezzo spettacolo. Si pensi a Hollywood, quella postmoderna non quella di Cary Grant, come paradigma organizzativo di questa produzione.
La messa a valore dell’immagine a Hollywood è il risultato della convergenza a rete di almeno tre nodi ad alta complessità organizzativa che contengono una miriade di rapporti contrattuali: uno logistico, uno economico-finanziario e uno di contenuti. Questi nodi disposti a rete devono comporsi e dissolversi seguendo il ritmo imposto dal ciclo di valorizzazione del capitale. Ci sarebbe da domandarsi chi ha preceduto chi tra Hollywood e Silicon Valley nella costruzione di questi modelli a rete, e anche quanto Bollywood e i centri di eccellenza tecnologica cinesi siano affini e divergenti da questi modelli, e la risposta sta probabilmente nella storia dell’ibridazione tra modelli di organizzazione legati allo spettacolo e quelli legati alla performatività delle tecnologie.
Nel calcio non avviene qualcosa di differente: per fare una squadra si fanno convergere logistica, dimensione economico-finanziaria e contenuti (gioco) secondo il ciclo di valorizzazione del capitale tramite la produzione di immagini televisive.  Ciclo che può essere quello di un torneo amichevole, di una coppa del mondo, di un campionato nazionale. Per questo motivo i contenuti (il gioco) si compongono secondo il ritmo di valorizzazione dettato dalle specifiche industrie dell’entertainment.

In questo senso risulta stupefacente che il calcio riesca ancora a produrre emozioni anche nella sua forma omogeneizzata, che ha subito il dressage dei ritmi di produzione ad alta complessità di valorizzazione dell’immagine. E’ nella natura del gioco produrre spesso l’imprevisto a prescindere dalla sua qualità: il calcio in fondo contiene in sé la logica del tiro di dadi al Risiko e per questo può comunque arrivare l’inatteso. Ed è il modo con cui il gioco si prende la rivincita sull’entertainment. Valorizzando sia l’immagine televisiva formalizzata, intesa come capitale che si fa immagine riproducendo il ciclo del valore in forma digitale,  che la ricezione sganciata dalla logica economica del prodotto. Oppure riscoprendo il fatto che nel mondo la cultura del nuovo capitalismo (finanziario, logistico, flessibile, tecnologico, connesso globalmente grazie all’immagine) non è distribuita in modo omogeneo. Lo dimostra l’esultanza, non solo dei giocatori in campo ma degli spettatori connessi alla tv, al gol inutile del centrocampista nordcoreano contro il Brasile. Un gol inutile secondo la logica del risultato attualmente egemone ma a forte carica simbolica all’interno di latitudini sganciate dal tempo misura del capitale globale. E questa carica simbolica ha finito per risuonare anche nei terminali televisivi della capitalizzazione dell’immagine ovvero nelle miriadi di case del mondo capitalistico. Spettacolo questo che, come sappiamo, non può essere elaborato nell’enclave somala (buco nero della globalizzazione dello spettacolo) dove il militantismo islamico ha condannato a morte chiunque, a qualsiasi titolo, segua i mondiali. In quel caso anche la possibilità clandestina di seguire un incolore 0-0, oggi prodotto malriuscito della messa a produzione spettacolare del calcio, assume il senso di una avvenuta liberazione.

Il calcio è però radicalmente mutato. Un tempo le squadre famose erano la metafora di un’epoca e di una fase della produzione: il Manchester United di Best lo era per gli Swinging Sixties e per l’Inghilterra del lavoro laburista,  la Juventus dei primi anni ’80 lo era nella santificazione della vittoria della Fiat sugli operai di Mirafiori rendendo questi ultimi pura partecipazione dello spettacolo del capitale. Il modello di transizione tra la squadra come simbolo di un’epoca produttiva e la squadra come nodo di una rete immediatamente produttiva di valore è il Milan di Sacchi. Che è sia simbolo di un’epoca che immissione della squadra in un circuito del valore: di una televisione, di una serie di marchi, del prestigio di un tycoon televisivo poi diventato politico (completando il ciclo della messa a valore economica con quello della conquista del potere politico).  Oggi una squadra è prima di tutto un nodo di una rete di messa a valore dell’immagine secondo i ritmi, e le esigenze, della crescita del capitale tramite la valorizzazione economica dello spettacolo.

Chissà se un giorno tornasse il gioco, narrazione fondamentale del calcio quanti eventi potremo scoprire. Legati al campo e fuori. Perché la cultura occidentale vive con l’imprevisto che viene trasformato in evento. E l’imprevisto, come abbiamo visto, è comunque detenuto dal gioco. Che corrisponde ad una logica non capitalistica che non cessa di produrre alterità rispetto all’evoluzione dei modelli di messa a valore.

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