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Fermare il genocidio e smascherare le cattive narrazioni che lo giustificano
di Paolo Ferrero
Da oltre 6 mesi lo stato israeliano sta massacrando i palestinesi a Gaza. Un tempo lunghissimo in cui un giorno segue l’altro in una brutalità che ha assunto un tratto burocratico, pianificato, normale… Un tempo infinito che ci dice quattro cose:
1. Quella di Israele non è una guerra contro Hamas, ma un genocidio contro il popolo palestinese. In ogni guerra vi sono vittime civili, hanno addirittura inventato la definizione di “danni collaterali” per darne conto. In questo caso non vi è alcun danno collaterale: il centro dell’azione militare dell’esercito israeliano è rivolto contro la popolazione di Gaza con decine di migliaia di morti di cui oltre 13.000 bambini. Le bombe sugli ospedali, sul parlamento, sull’università, sul complesso delle infrastrutture che permettevano la vita a Gaza di due milioni di persone, non sono danni collaterali ma la drammatica normalità di una brutale azione genocida.
2. L’obiettivo del genocidio che lo stato israeliano sta compiendo, non è lo sterminio di tutti i palestinesi ma la pulizia etnica della striscia di Gaza. Israele vuole rendere impossibile la vita a Gaza a due milioni di palestinesi, terrorizzandoli con i bombardamenti, distruggendo le loro case e le infrastrutture, in modo da poterli sgombrare e occupare quel territorio con nuovi insediamenti illegali di coloni israeliani. Siamo dinnanzi a un genocidio finalizzato alla “sostituzione etnica” nel territorio di Gaza.
3. La strumentazione che lo stato di Israele sta utilizzando per realizzare i suoi obiettivi a Gaza non è solo militare. Oltre alle bombe, man mano che passa il tempo, la strategia terroristica dello stato israeliano si esprime sempre più attraverso il blocco dell’ingresso a Gaza dei generi alimentari, dell’acqua, nei medicinali e di quant’altro sia necessario per permettere la nuda vita ai palestinesi intrappolati in quell’immenso campo di concentramento che è Gaza.
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La Resistenza palestinese e i movimenti antimperialisti
di Jacques Bonhomme
1. Perché la Palestina resiste
Perché la Palestina resiste? È questa la domanda che, riemersa da un vecchio titolo, si fa strada in molti di noi. Il vecchio titolo, giova ritornarci, era quello di un piccolo volumetto sulla lunga e travagliata storia anticoloniale del popolo vietnamita, scritto da Jean Chesneaux. La stessa domanda dopo sessant’anni, con altri luoghi e un altro popolo, con un popolo, quello palestinese, che già allora si specchiava in quello vietnamita, come del resto in quelli dell’Africa e dell’America latina; la stessa domanda, certo, ma con un mondo dove le restaurazioni sembrano subentrate alle rivoluzioni che allora scuotevano e percuotevano la catena imperialistica mondiale e che nella moltiplicazione dei Vietnam avevano la loro metaforica parola d’ordine. Ed è una domanda, inoltre, che avvicina i mondi complementari delle masse metropolitane dell’Occidente, disarmate dalla scomposizione tecnologica dei luoghi dell’unità di classe, e dei popoli delle periferie coloniali, anch’essi derubati dei progetti di liberazione del secolo scorso, di quei progetti che, dapprima, furono interrotti e soffocati da una controrivoluzione imperialistica mondiale e che, successivamente, o a volte contemporaneamente, vennero disarticolati dal neocolonialismo.
La domanda, quindi, riunisce umanità sfruttate, svalutate e respinte – i sottouomini di Sartre, per intendersi – e fa riascoltare voci antiche nelle nuove, apre una prospettiva sulle forze che, nei mutevoli contesti storici, ridanno costantemente vigore alle lotte antimperialistiche. Infine, questa domanda, come avviene in ogni buona filosofia, avvia un’indagine e chiede repliche e proseguimenti, e, soprattutto, non sollecita una risposta che stringa in mano elementi saldi e univoci, poiché questi, mentre gli aerei israeliani bombardano rabbiosamente i palestinesi e i loro fedayyin, non sono afferrabili.
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Il prossimo Novus Ordo Seclorum: il cambiamento è necessario, non c’è scelta!
di Alastair Crooke
Durante una visita a Oxford alcune settimane fa, Josep Borrell, l'Alto Rappresentante dell'UE, ha fatto un'osservazione interessante: "La diplomazia è l'arte di gestire i doppi standard". Walter Münchau ha illustrato l'ipocrisia intrinseca di questo concetto, confrontando l'entusiasmo con cui i leader dell'UE hanno sostenuto la decisione della Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto contro Putin lo scorso anno e "il rifiuto di accettarla quando colpisce un membro del proprio team" (cioè Netanyahu).
L'esempio più eclatante di questo doppio standard riguarda la gestione occidentale delle realtà create. Un doppio standard – una 'narrazione' di noi che 'vinciamo' – viene costruito e poi contrapposto a una narrazione di 'loro che falliscono'.
L'uso della creazione di narrazioni di vittoria (invece di ottenere effettivamente la vittoria) può sembrare piuttosto astuto, ma l'incertezza che causa può avere conseguenze potenzialmente disastrose. Ad esempio, le minacce deliberatamente confuse del Presidente Macron di inviare forze NATO a servire in Ucraina – che hanno solo contribuito a preparare la Russia per una guerra più ampia contro tutta la NATO, accelerando le sue operazioni offensive.
Invece di scoraggiare – come probabilmente intendeva Macron – ha portato a un avversario più determinato, con Putin che ha avvertito che la Russia eliminerebbe qualsiasi 'invasore' della NATO. Non è stato così astuto, dopo tutto...
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La distruzione delle università di Gaza
di Michele Sisto
Tra gli aspetti più rivelatori del genocidio in corso a Gaza c’è quello che l’ONU definisce scolasticidio e alcuni studiosi educidio: la distruzione sistematica di scuole e università.
Non è la prima volta. Come scrive Norman G. Finkelstein, nel 2008-2009 «nel corso dell’operazione Piombo Fuso Israele ha distrutto o danneggiato 58.000 abitazioni (6.300 sono state completamente distrutte o hanno subito gravi danni) e 280 tra scuole e asili»: tra questi ultimi «6 edifici universitari sono stati rasi al suolo». E Max Blumenthal ha descritto come, durante il «venerdì nero» del 2 agosto 2014, l’aviazione israeliana ha bombardato gli uffici amministrativi e il Dipartimento di Inglese dell’Università Islamica di Gaza.
Dal momento che Israele impedisce ai giornalisti l’accesso alla striscia di Gaza e uccide i giornalisti palestinesi che soli potrebbero documentare la distruzione, è difficile raccogliere informazioni precise su quanto è accaduto. Fin da ottobre, tuttavia, si potevano vedere sui social media le immagini del bombardamento dell’Università Islamica di Gaza e dell’Università Al-Azhar, e più tardi quelle dell’abbattimento dell’Università Al-Israa (a proposito del quale i giornalisti hanno chiesto al governo degli Stati Uniti una presa di posizione, mettendo in imbarazzo il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller). Da novembre, poi, sono apparse le prime denunce, su organi di stampa specialistici come «University World News» o generalisti come il «Guardian».
Solo il 20 gennaio 2024, però, dopo quattro mesi dall’inizio della campagna dell’IDF, un’organizzazione non governativa con sede a Ginevra, Euro-Mediterranean Human Rights Watch, ha pubblicato i risultati di un’indagine che consentiva di fare un primo un bilancio dell’entità della distruzione. Poiché per mesi la stampa internazionale, da «Al-Jazeera» al «manifesto», ha fatto riferimento a queste cifre, le uniche disponibili, vale la pena citare qualche brano del documento (le traduzioni, di questo e dei successivi brani, sono mie).
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Javier Milei presidente: il caso argentino
Resoconto di 40 giorni a Buenos Aires
di Angelo Zaccaria
Questo contributo è prodotto di una recente permanenza di circa 40 giorni in Argentina, svoltasi fra la seconda metà di Marzo e fine Aprile di questo anno
Parlo di un “caso argentino” perché colpisce che un paese come l’Argentina, che nel cosiddetto “Occidente Allargato” vanta fra i più alti livelli di conflitto sociale , sindacale e politico organizzato e dal basso, il paese delle Madri di Plaza de Mayo, l’unico paese della regione latinoamericana che il suo dittatore (uno dei vari, Jorge Videla), lo ha fatto morire in carcere, colpisce che proprio un paese del genere si ritrovi ora col presidente forse più a destra, Javier Milei.
Cominciamo dai numeri. Nel primo turno delle elezioni presidenziali, svoltosi il 22 di ottobre del 2023 i risultati raggiunti dalle forze principali sono i seguenti: Sergio Massa (Peronismo) 36.69%, 9.645.983 voti.
Javier Milei (La Libertad Avanza) 29.99%, 7.884.336 voti.Patricia Bullrich (destra tradizionale) 23.84%. 6.267.152 voti. Il restante 6,79% viene raccolto da un altro candidato peronista ancora più moderato, più il 2,7% del candidato della sinistra variamente trotskista. Gli aventi diritto al voto sono 35.410.080, e quindi la partecipazione al voto è del 76,53%.
Al secondo turno di ballotaggio, svoltosi il 19 di Novembre, i risultati invece saranno questi: Javier Milei 55.69%, 14.476.462 voti. Sergio Massa 44.31%, 11.516.142 voti. La partecipazione al voto è quasi uguale a quella del primo turno.
Una prima osservazione. Premesso che stiamo comparando due risultati elettorali in paesi con sistemi istituzionali diversi, presidenziale quello argentino e parlamentare (per ora) quello italiano, il consenso reale sul totale della popolazione col quale al secondo turno è stato eletto presidente Javier Milei, è notevolmente più alto di quello sul quale si basa l’attuale governo di Destra-Centro italiano.
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Il Vertice Putin-Xi e l’iniziativa strategica a tutto tondo della Repubblica Popolare Cinese
di Gianmarco Pisa
Al culmine di un’iniziativa diplomatica di ampia portata (Germania, Francia, Serbia, Ungheria), la Repubblica Popolare Cinese, all’indomani della visita di Stato del presidente della Federazione Russa, rilancia il proprio profilo politico-diplomatico a tutto tondo, in uno con l’impegno della sua direzione politica nel concretizzare un rinnovato multilateralismo e un inedito mondo multipolare, nonché con il ruolo-guida del Partito Comunista nel definire un innovativo “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”.
Si è trattato della prima visita ufficiale all’estero del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, dopo l’inaugurazione, avvenuta lo scorso 7 maggio, del suo quinto mandato presidenziale, che ha fatto seguito all’ampio successo conseguito alle recenti elezioni del 15-17 marzo, quando, a fronte di un’affluenza alle urne pari al 77%, Putin ha superato l’87% delle preferenze. E, da questo punto di vista, non potrebbe assumere significato, politico e strategico, più rilevante il fatto che la prima visita di Stato sia stata effettuata proprio nella Repubblica Popolare Cinese, in un clima, peraltro, come lo stesso presidente russo ha avuto modo di mettere in evidenza, di amicizia e di cooperazione tra i due grandi Paesi.
E si è trattato, al tempo stesso, del culmine di una iniziativa politica e diplomatica di ampia portata avviata dal presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, che lo ha portato prima in Francia (5-7 maggio), nel contesto della quale, insieme con l’evidente significato politico di una visita di Stato presso uno dei due attori chiave, insieme con la Germania, della politica europea, è stata annunciata l’estensione a tutto il 2025 della politica di esenzione dal visto per undici Paesi europei, tra cui i quattro maggiori (Francia, Germania, Italia e Spagna).
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Gaza (e Cisgiordania), tra massacri e doppi standard
di Paolo Arigotti
Quello di oggi non sarà un argomento semplice da trattare, se non altro perché sappiamo bene – basterebbe leggere alcuni giornali o assistere a qualche approfondimento curato dal cosiddetto mainstream – che parlare in modo critico di Israele, prima e dopo il 7 ottobre 2023, non è facile, e può costare facilmente l’infamante accusa di “antisemitismo”.
Il 7 ottobre 2023 un attentato terroristico di Hamas, organizzazione politica palestinese sunnita impegnata nel conflitto in Medio Oriente, avrebbe provocato, con una serie di azioni partite dalla striscia di Gaza, la morte di 1.200 cittadini israeliani. La reazione dello stato ebraico non si è fatta attendere e fin dal giorno successivo, su di un territorio esteso più o meno come la provincia di Prato e dove si concentravano due milioni e duecentomila persone, ha scatenato una spirale di bombardamenti e azioni militari, che avrebbero causato finora la morte di oltre 35mila persone (e quasi il doppio di feriti[1]), la maggior parte delle quali donne e bambini, quasi tutti civili. A ciò si aggiunge il fenomeno degli sfollati: si calcola che circa due milioni abbiano già abbandonato le proprie case, per dirigersi in prevalenza verso sud, a Rafah, dove sono da poche settimane iniziate le operazioni militari[2].
E la conta delle vittime, purtroppo, non finisce qui. Uno studio[3] curato dal Centro per la Salute Umanitaria della Johns Hopkins University e dalla London School of Hygiene and Tropical Medicine ha formulato previsioni ancora più fosche sul numero dei decessi potenziali, provocato non soltanto dalle operazioni militari, ma anche dalla mancanza di cure e dalle condizioni igienico sanitarie ogni giorno più disastrose; si parla perfino dei primi morti per fame[4], dovuti alla difficoltà negli approvvigionamenti, spesso ostacolati dagli stessi israeliani[5]. In base a questi studi, il numero di morti potrebbe arrivare fino a 85mila.
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Israele: dalla rissa tra gli assassini in capo saltano fuori due parole inattese: abisso, disfatta…
di Il Pungolo Rosso
Nel contesto di un movimento internazionale di solidarietà con la resistenza palestinese e di condanna senza appello di Israele per il genocidio in atto che non accenna a esaurirsi, le crescenti difficoltà che l’esercito israeliano incontra sul territorio palestinese di Gaza, tanto a Sud quanto a Nord, stanno facendo esplodere i contrasti all’interno della cupola sionista apparsa finora piuttosto coesa.
Per primo è uscito allo scoperto il ministro della guerra Gallant, a nome – così pare – dei comandi militari al completo e, forse, di un settore dell’amministrazione statunitense. In genere, si sa, nelle situazioni di guerra i leader politici sono più oltranzisti degli stessi capi militari: vuoi per inesperienza, vuoi perché inseguono una vittoria sul campo a tutti i costi per glorificare sé stessi o, più spesso, per evitare di venire travolti e fatti fuori dalla sconfitta, anche parziale. Netanyahu non fa eccezione, avendo fissato per l’attuale operazione-genocidio il più oltranzista degli obiettivi: l’espulsione da Gaza dei suoi due milioni di palestinesi e il definitivo controllo israeliano su Gaza, insomma la “soluzione finale” della questione palestinese. Data l’enorme disparità di mezzi militari tra apparati sionisti e guerriglia palestinese, la banda Netanyahu immaginava di compiere a Gaza qualcosa di simile a una passeggiata, da concludere in poche settimane con il gran finale del ritorno a casa di tutti gli “ostaggi” del 7 ottobre liberati manu militari dall’“invincibile” esercito. Le cose stanno andando in modo assai lontano dalle previsioni, se appena quattro giorni fa il comando delle Brigate Al-Qassam poteva dichiarare, con il suo portavoce Abu Obaida, quanto segue:
*I nostri combattenti sono riusciti a prendere di mira 100 veicoli militari sul fronte di battaglia di Gaza in 10 giorni.
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La crisi dell’imperialismo Usa, dall’interno e dall’esterno
di Pasquale Liguori
Crisi dell’imperialismo Usa. Israele avamposto imperialismo. Cina, Russia, Iran, Asse della resistenza: multipolarismo delle formazioni sociopolitiche versus Impero. Intervista a Matteo Omar Capasso
A più di sette mesi di distanza dal 7 ottobre di Al-Aqsa Flood, continua lo sforzo titanico di media mainstream per una spiegazione mite, edulcorata degli immani crimini compiuti e ancora in corso a Gaza. Non sembrano sufficienti le quarantamila vittime palestinesi e la totale devastazione urbana nella Striscia a scuotere la coscienza dei produttori di informazione al soldo dell’atlantismo.
Segnali più autentici di rifiuto e contrasto a quest’ordine di cose provengono dall’imponente movimento degli accampamenti universitari che si oppone a programmi collaborativi con Israele, esprimendo sostegno all’indomita resistenza palestinese.
Una delle sfide comunicazionali più rilevanti da quel sabato mattina di ottobre è stata una normale opera di contestualizzazione storica e politica di quegli atti resistenti. Contro di essa si è attivato infatti l’ampio uso di una narrativa che di colpo cancellava un secolo di occupazione, crimini, reati, apartheid operati da Israele. Ancor più sfocata è apparsa la collocazione delle crisi contemporanee all’interno del quadro geopolitico con il protagonismo degli interessi imperialisti degli Stati Uniti d’America per un mondo unipolare sottoposto al loro dominio.
Ritornano perciò utili, profetiche, le parole che vent’anni fa pronunciava il politologo ed economista Samir Amin “Il progetto di dominio degli Stati Uniti – con l’estensione delle dottrine Monroe all’intero pianeta – è sproporzionato. Questo progetto che, sin dal crollo dell’Urss nel 1991, individuo come Impero del caos si scontrerà fatalmente con l’insorgere di una crescente resistenza delle nazioni del vecchio mondo indisponibili a essere assoggettate. Gli Stati Uniti dovranno allora comportarsi come un “Stato canaglia” per eccellenza, sostituendo il diritto internazionale con il ricorso alla guerra permanente (a partire dal Medio Oriente, ma puntando oltre, alla Russia e all’Asia), scivolando sulla china fascista”.
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Tre “malintesi” su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino
di Andrea Muni
Prosegue con questo nuovo trittico l’approfondimento su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino, iniziato in due puntate uscite tra ottobre e novembre 2022 (qui la prima parte e qui la seconda) [Ndr]
Una premessa
Due date. Oltre dieci anni fa (20 febbraio 2014) iniziava la guerra civile “aperta” in Ucraina, esplosa in seguito al golpe/rivolta di Maidan, la rimozione del presidente oligarca filo-russo Janukovich e la presa del potere centrale da parte dell’oligarchia filo-occidentale. Da quella data, le due principali fazioni del Paese e le rispettive oligarchie – filo-occidentale e filo-russa – non hanno mai cessato di affrontarsi in armi nella parte più orientale del Paese (Dontetsk e Luhansk), ovvero la parte di Ucraina da subito rimasta (insieme alla Crimea) in mano agli autonomisti/separatisti. In questo scenario, ancora aperto, oltre due anni fa (24 febbraio 2022) iniziava l’invasione russa dell’Ucraina in supporto dei cittadini ucraini autonomisti/separatisti. I morti civili di questi due anni di guerra sono, secondo l’Onu, più di diecimila. Numeri spaventosi eppure ancora lontani, per fortuna, da quelli del genocidio di Gaza (36.000 morti in otto mesi), che in parte si spiegano con la scelta dei russi di non assediare in modo frontale le grandi città russofone di Kharkov e di Odessa.
Alle vittime del conflitto russo-ucraino e della guerra civile vanno ad aggiungersi i milioni di vite spezzate di profughi, feriti, traumatizzati, reduci, molti dei quali – come le vittime stesse – sono anche cittadini ucraini russi (etnia), russofoni (lingua) e/o filo-russi (orientamento geopolitico); persone uccise, ferite e/o costrette a emigrare anche dai nazionalisti ucraini e dagli armamenti Nato, con cui vengono bombardati non solo i civili delle città filorusse di Donetsk e Luhansk, ma anche le città russe di confine (solo a Belgorod nell’ultima settimana sono stati quasi trenta i civili uccisi dalle bombe Nato e ucraine).
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L'affaire Crypto AG e l'"etica" dei nostri alleati
di Alberto Bradanini
1. Di tutta evidenza i tanti segreti di stato che hanno agitato la gioventù e l’età adulta di intere generazioni sono tali solo per il popolo deliberatamente oscurato. Davanti a vicende come quella che segue, le rare riflessioni mediatiche - che incidentalmente emerse sono state subito archiviate dall’azione di sorveglianza di chi ha sempre saputo e taciuto - hanno al più suscitato qualche pubblica ansia passeggera, mai comunque nella psiche di coloro che svolgono occulti ed esecrabili professioni.
Il grande filosofo tedesco F. Hegel affermava che le cose note, proprio perché note, non sono conosciute, di certo non abbastanza. È questo il caso di una vicenda di spionaggio che sembra tratta da un libro di Le Carré. Seppur a suo tempo sviscerata dalla stampa internazionale (poco comunque da quella nazionale), essa merita tuttavia di essere rievocata, affinché non si perda coscienza che molte cose restano occulte nelle tragedie che abbiamo davanti e che la qualità politica ed etica dei nostri cosiddetti amici è quanto mai scarsa.
2. L’11 febbraio 2020, per ragioni tuttora ignote, il giornalista del Washington Post[1] (WP) Greg Miller informa i lettori che per mezzo secolo un elevato numero di paesi al mondo ha affidato la tutela delle informazioni sensibili (quelle che si scambiano al loro interno governi, organismi di sicurezza, militari e diplomatici) a macchinari prodotti da un'unica azienda, la “svizzera” Crypto AG. Una notizia priva di rilevanza se non fosse che quella società, nata in Svizzera, poi divenuta una Joint Venture Usa-Germania Cia[2]-Nsa[3]/Bnd[4]), è servita per fabbricare macchine che consentivano di decifrare le comunicazioni classificate dei paesi acquirenti.
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Il suicidio dell’Occidente
di Matteo Nucci
In questo momento, mentre comincio a scrivere, i video che arrivano dalla striscia di Gaza raccontano quella che sarà forse la fase finale dello sconvolgente massacro con cui da 215 giorni l’esercito israeliano rade al suolo un sovrappopolato angolo di terra. I tank sono entrati a Rafah e alcuni dei video mostrano in soggettiva l’ingresso israeliano. Si tratta dunque degli stessi militari che stanno filmando. Il più gettonato, fra questi trofei di guerra, mostra la famosa scritta I LOVE GAZA forse in plastica, certo tridimensionale, rossa, con il classico cuore. Si avvicina sempre più via via che il tank avanza. Poi le ruote cingolate la inghiottono. È un’anticipazione di quel che sarà: rovine e morte. Una terra spianata, il sangue interrato, il numero delle vittime incerto.
Ovviamente le storie che compaiono sui social sono già innumerevoli e di molti tipi. E se avete cuore, mentre vi meraviglierete di dover ricorrere a un simile strumento per trovare i barlumi di verità negati dai principali media delle democrazie occidentali (in questi giorni dediti a tutt’altro tipo di informazione), troverete molte altre testimonianze della prospettiva israeliana. Per esempio, i festeggiamenti sionisti per la decisione finale di sferrare l’attacco a Rafah, nonostante l’accordo fosse raggiunto. Balli e grida di giubilo. Si stappa champagne, si ride. Si celebra l’imminente annientamento.
Ma c’è anche un’altra prospettiva, quella del popolo che viene massacrato. E qui si rischia di non aver parole per ripetere quel che da sette mesi abbiamo visto fino alla nausea: un palazzo divelto, due bambini intrappolati fra le macerie, gli uomini che scavano a mani nude tentando invano di salvarli perché il loro volto è già più grigio della cenere che li ricopre. Si chiamavano Mahmoud e Hamdam, 8 e 6 anni.
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Il capitale va in guerra (e ci porta con sé)
di Xavier Vall Ontiveros - geoestrategia.es
Non credo che il catastrofismo serva a nulla, né a mobilitare la classe operaia contro la guerra né a contrastare l’euforia militaristica delle élite, ma è difficile stabilire una lettura alternativa di ciò che sta accadendo. La diplomazia è sepolta, i canali di dialogo sono inesistenti, si intraprende una corsa agli armamenti che non è altro che il preludio al disastro imminente. Molti degli ingredienti che portarono alla grande distruzione della carne umana che fu la Prima Guerra Mondiale sono sul tavolo. Ma sia per entusiasmo militaristico o per suprema ignoranza – o entrambi allo stesso tempo… – i media e i governi occidentali continuano a trasmettere un discorso unidirezionale e semplicistico, in base al quale tutto ciò che accade è spiegato esclusivamente dalle manie di grandezza di un pazzo disposto a distruggere il mondo. Le complesse analisi geopolitiche, quando sono più necessarie, non vengono prese in considerazione nel fissare le coordinate che orientano la politica estera, né da parte dei media sempre pronti a sfruttare la dimensione spettacolare della cosa e che considerano delle sciocchezze discorsive dotate di un certo fondamento noioso. Proprio come nel 1914, stiamo scivolando irresistibilmente verso l’abisso nichilista della guerra totale, i falchi militaristi hanno occupato la centralità del dibattito politico e sembra che non si possa tornare indietro per evitare il disastro. Come nel 1914, la sinistra è incapace di costruire un discorso internazionalista coerente e, nella migliore delle ipotesi, nasconde la testa sotto la sabbia; Nel peggiore dei casi, sostiene attivamente la politica di riarmo e il rafforzamento del blocco imperialista atlantista.
Eppure, indipendentemente dalle responsabilità della Federazione Russa, l’attuale conflitto non può essere compreso senza tenere conto dell’interventismo occidentale a partire dagli eventi di Euromaidan (2013-2014) e prima.
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La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto
di Susan Abulhawa
In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.
Quasi nessun albero
Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.
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L’intreccio dei paradigmi strategici
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Molti europei vorrebbero un'Europa nuovamente competitiva, che fosse un attore diplomatico, piuttosto che militare
Theodore Postol, professore di Scienza, Tecnologia e Politica di Sicurezza Nazionale al MIT, ha fornito un’analisi forense dei video e delle prove emerse dall’attacco dimostrativo dell’Iran con droni e missili del 13 aprile contro Israele: Un “messaggio”, piuttosto che un “assalto”.
Il principale quotidiano israeliano, Yediot Ahoronot, ha stimato il costo del tentativo di abbattere la salva di missili e droni iraniani in 2-3 miliardi di dollari. Le implicazioni di questa cifra sono sostanziali.
Il professor Postol scrive:
“Ciò indica che il costo della difesa contro ondate di attacchi di questo tipo è molto probabilmente insostenibile contro un avversario adeguatamente armato e determinato”.
“I video mostrano un fatto estremamente importante: tutti i bersagli, droni o altro, sono abbattuti da missili aria-aria”, [lanciati per lo più da aerei statunitensi. Secondo quanto riferito, circa 154 velivoli erano in volo in quel momento] che probabilmente usavano missili aria-aria AIM-9x Sidewinder. Il costo di un singolo missile aria-aria Sidewinder è di circa 500.000 dollari”.
Inoltre:
“Il fatto che molti missili balistici non intercettati siano stati visti brillare al rientro nell’atmosfera ad altitudini inferiori [un’indicazione di ipervelocità], fa capire che, in ogni caso, gli effetti delle difese missilistiche David’s Sling e Arrow di [Israele], non sono stati particolarmente efficaci. Pertanto, le prove a questo punto mostrano che essenzialmente tutti o la maggior parte dei missili balistici a lungo raggio in arrivo non sono stati intercettati da nessuno dei sistemi di difesa aerea e missilistica israeliani”.
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