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lantidiplomatico

Il Kosovo e la Serbia scivolano verso la guerra?

di Enrico Vigna

Cinque morti, quattro serbi e un albanese, numerosi feriti, nuovi arresti e retate nella aree serbe, non accadeva dal 2004

720x410c50nmuyrfvbnjk.jpgNella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, membri della polizia del Kosovo, hanno tentato di rimuovere le barricate erette da un gruppo di serbi armati, all'ingresso del villaggio di Banjska. Sono seguiti violenti scontri a fuoco per tutta la giornata con 500 uomini delle KPS, Forze Speciali Kosovo. Poi sul terreno sono rimasti uccisi quattro serbi (tre assassinati da cecchini) e un poliziotto albanese. Ecco dove hanno portato nella regione, le politiche terroristiche e vessatorie contro la popolazione serba kosovara del fanatico sciovinista Albin Kurti, reggente le autorità illegittime di Pristina e le strategie de stabilizzatrici della NATO e degli USA. La guerra è sempre più all’ordine del giorno e potrebbe essere devastante per tutti i Balcani e non solo.

Il quarto serbo assassinato è stato ritrovato a 1,5 km dal luogo degli scontri.

Premettendo che la dinamica complessiva della vicenda, degli obiettivi e delle finalità ha molte lacune e punti incerti e che forse, solo nei prossimi giorni o mesi si avranno risposte più certe, qui cerco solo di informare e documentare i fatti conclamati e provati, con grande cautela e attenzione, senza entrare negli aspetti tuttora dubbi o interpretabili sotto diverse o contrastanti letture. Questo, per non incorrere in letture o interpretazioni personali o virtuali, che, come nel caso della crisi ucraina, poi si rivelano nei fatti scombinate. Saranno i prossimi eventi e passaggi fattuali ad avvicinarci agli aspetti più profondi e congrui, per ora non accertabili.

Pertanto qui espongo alcuni punti fermi e fatti che sono a oggi fissati e riscontrati, utilizzando i contatti e le relazioni sul campo, queste sono sintesi e letture, di analisti, politici e militari serbi, tutte aperte a varie ipotesi in divenire, soprattutto politiche, come loro stessi confidano.

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lantidiplomatico

"Il golpe silenzioso": come il capitalismo ha sconfitto la decolonizzazione

di Chris Hedges* - Scheerpost e Matt Kennard

720x410c50.jpgIl XX secolo ha visto una grande rivolta globale contro l’imperialismo europeo quando gli ex paesi coloniali si sono liberati delle loro catene e si sono sollevati per l’indipendenza. Più di mezzo secolo dopo, la disuguaglianza globale è più acuta che mai. Per comprendere l’attuale situazione difficile della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, dobbiamo comprendere i decenni successivi. Il libro di Matt Kennard e Claire Provost , Silent Coup: How Corporations Overthrew Democracy, esamina l’architettura internazionale della governance aziendale globale che esiste per deridere e schiacciare qualsiasi tentativo da parte dell’ex mondo coloniale di attuare lo sviluppo alle proprie condizioni. Matt Kennard si unisce a The Chris Hedges Report per dare uno sguardo a questa storia intrigante ed essenziale.

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TRASCRIZIONE:

Chris Hedges: Gli Stati Uniti, come molti paesi industrializzati, hanno subito un colpo di stato aziendale al rallentatore, cementando un sistema di controllo che il filosofo politico Sheldon Wolin chiama “totalitarismo invertito”. Il totalitarismo invertito conserva l’istituzione, i simboli, l’iconografia e il linguaggio della vecchia democrazia capitalista, ma internamente le multinazionali hanno preso tutte le leve del potere per accumulare profitti e controllo politico sempre maggiori. Claire Provost e Matt Kennard, nel loro libro Silent Coup: How Corporations Overthrew Democracy, traccia il modo in cui è stato orchestrato il colpo di stato aziendale. Esamina l’uso di un sistema legale internazionale per controllare e saccheggiare le risorse nei paesi in via di sviluppo, compreso il rovesciamento dei governi che sfidano il dominio aziendale.

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labottegadelbarbieri

Samir Amin: eurocentrismo, malattia congenita del capitalismo

di Monica Quirico*

Nel 1988 usciva Eurocentrismo, di Samir Amin. La casa editrice La città del sole ha reso disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera – Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022) – uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale.

colonialismo.jpgTrentacinque anni fa (1988) usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018) che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata da movimenti e partiti identitari (in Occidente come altrove), bene ha fatto la casa editrice La città del sole a rendere disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera (Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022), uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale. Tra la prima e la seconda edizione la storia è sembrata prima “finire”, con il crollo del socialismo reale, e poi regredire verso la barbarie generalizzata, con l’attentato alle torri gemelle preso a pretesto dagli USA per imporre il loro controllo militare sull’intero pianeta; un’involuzione che per Amin non è affatto una sorpresa: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).

Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non allineati.

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comedonchisciotte.org

Contro l’Imperialismo, anche se tricolore!

di Konrad Nobile

nobile 2 684x430.jpegDue rivendicazioni di molti attuali movimenti italiani di “dissenso” sono l’uscita dell’Italia dalla NATO e la chiusura delle basi americane presenti da decenni sul suolo nazionale, tributo da pagare per la sconfitta nella seconda guerra mondiale (il tentativo della borghesia italiana voltagabbana di salire sul carro dei vincitori con l’armistizio dell’8 settembre 1943, pietra tombale della sovranità italiana, non ci esentò dal pagamento di tale tributo). Tali rivendicazioni sono sacrosante, essendo intollerabile ed umiliante pensare al fatto che la terra in cui viviamo sia sotto occupazione da parte di truppe forestiere in armi, che nei nostri cieli decollino velivoli stranieri portatori di morte, da noi [1] e soprattutto altrove [2], e che la penisola italica venga pericolosamente usata come grande deposito per le armi (anche nucleari [3]) della più grande potenza globale.

Se tuttavia abbondano astio e critiche alla presenza americana in Italia non altrettanto si può dire su un altro tema collegato e sul quale diffusamente si tace: l’imperialismo italiano.

Lo Stato Italiano, stando ai dati ufficiali, dispiega attualmente circa 7.300 suoi militari in 24 paesi [4], dando un enorme contributo attivo a quelle missioni internazionali che non sono altro che operazioni di occupazione e brigantaggio imperialista, retoricamente edulcorate con definizioni come “peacekeeping” o “missioni umanitarie”.

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lantidiplomatico

L’ipocrisia delle grandi potenze nel discorso all’ONU di Vucic

di Chiara Nalli

“I principi non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, allora non sono più principi”.

720x410c50jfvy.jpgIl primo estratto del discorso del presidente serbo Vucic davanti all'Assemblea generale dell'ONU è apparso sulla stampa serba intorno alle 17.00 di giovedì 21 settembre. Il principale quotidiano del Paese ha titolato “Dov'era il diritto internazionale quando avete attaccato la Serbia?”. E se il resoconto dei giornali nazionali è stato capace di suscitare un immediato entusiasmo, l’intero discorso, disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=PXt1bBtHxVI - in inglese - può essere considerato, a pieno titolo, un intervento di portata storica. Tanto che la frase citata nel titolo è stata interrotta dagli applausi della sala.

In un consesso dominato dalle tematiche legate alla guerra in Ucraina, sgranellate dalla stampa con la consueta superficialità, il presidente serbo è intervenuto riportando al centro la vicenda del proprio Paese, sotto una duplice prospettiva: ricordando, da un lato, come le attuali situazioni di conflitto (con particolare riguardo all’Ucraina) siano in massima parte la conseguenza della violazione del diritto internazionale da parte delle grandi potenze, nell’ambito di un processo di espansione strategica avviato proprio con l’attacco NATO alla Serbia; dall’altro - denunciando l’attuale stato delle relazioni con il Kosovo, in cui le stesse superpotenze - USA e UE - coinvolte come meditatori, applicano sistematicamente “doppi standard” - capaci di portare alla cronicizzazione - o peggio l’inasprimento - del conflitto.

Vucic ha scelto di parlare del proprio Paese, con la consapevolezza della dimensione universale, profondamente politica e attuale, insita nella sua storia e nella sua posizione strategica:

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lantidiplomatico

È l’imperialismo umanitario che ha creato l’incubo libico

di Chris Hedges* Scheerpost

720x410c500nqw.jpg“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” ironizzò Hillary Clinton quando Muammar Gheddafi, dopo sette mesi di bombardamenti degli Stati Uniti e della NATO, fu rovesciato nel 2011 e ucciso da una folla che lo sodomizzava con una baionetta. Ma Gheddafi non sarebbe stato l’unico a morire. La Libia, un tempo il paese più prospero e uno dei più stabili dell’Africa, un paese con assistenza sanitaria e istruzione gratuite, il diritto per tutti i cittadini a una casa, elettricità, acqua e benzina sovvenzionate, insieme al tasso di mortalità infantile più basso e alla alta aspettativa di vita nel continente, insieme a uno dei più alti tassi di alfabetizzazione, si è rapidamente frammentata in fazioni in guerra. Attualmente ci sono due regimi rivali in lotta per il controllo della Libia, insieme a una serie di milizie canaglia.

Il caos che seguì l’intervento occidentale vide le armi degli arsenali del paese inondare il mercato nero, molte delle quali sequestrate da gruppi come lo Stato Islamico. La società civile cessò di funzionare. I giornalisti ripresero immagini di migranti provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dall'Eritrea picchiati e venduti come schiavi per lavorare nei campi o nei cantieri edili. Le infrastrutture della Libia, comprese le reti elettriche, le falde acquifere, i giacimenti petroliferi e le dighe, caddero in rovina. E quando ci sono piogge torrenziali come Storm Daniel – la crisi climatica è un altro regalo all’Africa da parte del mondo industrializzato – che ha travolto due dighe decrepite, muri d’acqua alti 20 piedi si sono precipitati giù per inondare il porto di Derna e Bengasi, provocando fino a 20.000 morti secondo Abdulmenam Al-Gaiti, sindaco di Derna e circa 10.000 dispersi.

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ilpungolorosso

I veri architetti e realizzatori del regime di supremazia ebraica di Israele

di Hagai El-Ad

ben givr.jpgLa smisurata ipocrisia degli oppositori democratici di Netanyahu e Gvir, che convivono benissimo con l’apartheid contro i palestinesi “Haaretz”

Riprendiamo dal sito di Assopace Palestina questo efficace, graffiante ritratto (comparso su Haaretz) degli oppositori democratici dell’ultra-sionista Ben Gvir e del suo capo di governo Netanyahu, accusati a buon diritto di difendere integralmente quel regime [militarista, razzista, coloniale] di apartheid, di “supremazia ebraica” sui palestinesi, di cui i due suddetti sanguinari personaggi sono soltanto l’estremizzazione.

Chi segue questo blog che interviene sistematicamente sulla “questione palestinese”, conosce la nostra risposta alla constatazione-domanda finale posta da Hagai El-Ad: “Il fatto è che, anche dopo 100 anni di sionismo, metà delle persone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sono palestinesi. Se siamo veramente intenzionati a vivere, dobbiamo trovare una risposta alla domanda logica: che tipo di vita costruiremo qui tutti insieme?“ (Red.).

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La grande maggioranza di coloro che sono così sprezzanti nei confronti di Ben-Gvir convive benissimo con l’apartheid israeliano, solo che non lo grida dai tetti.

Nei mesi trascorsi da quando il deputato Itamar Ben-Gvir (Otzma Yehudit/Sionismo Religioso) è stato nominato ministro della sicurezza nazionale israeliana, non c’è stata quasi settimana in cui un maggiore generale dell’esercito o della polizia in pensione non abbia espresso il proprio disprezzo nei confronti del “ministro della distruzione”, di una nullità che non capisce nulla e ha ancora meno esperienza, della “persona di rilievo” dello Shin Bet che è diventata il “ministro delle piadine” [si allude al divieto imposto ai prigionieri palestinesi di cuocersi le piadine, NdT] e così via.

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carmilla

Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione)

di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

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Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] È ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni.

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lafionda

La questione ecologica vista dalla Cina

di Gianmatteo Sabatino

green china.jpg1. La posizione cinese sul cambiamento climatico

Come numerosi altri temi sensibili negli attuali, turbolenti anni dello sviluppo globale, anche quello del cambiamento climatico diviene, inevitabilmente, terreno di confronto tra approcci allo sviluppo ed ideologie politiche ed economiche differenti.

Con specifico riferimento alla Cina, la questione del qihou bianhua (appunto, il cambiamento climatico), è sinora riuscita in gran parte a sottrarsi, perlomeno a livello di dibattito, dall’agone politico internazionale, difendendosi dietro una prospettiva di neutralità e scientificità condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità accademica internazionale. Tuttavia, la crescente polarizzazione del confronto geopolitico, l’ormai conclamata contrapposizione tra modelli e la rinnovata attenzione mediatica verso strategie (peraltro esistenti da tempo) di cooperazione multilaterale alternative a quelle a guida occidentale (come i paesi BRICS) sono tutti elementi che giustificano un minimo di sforzo chiarificatore. Uno sforzo che, peraltro, è chiaro in primo luogo al governo cinese, il quale, nel 2021, ha licenziato un Libro Bianco sulle politiche ed azioni in materia climatica[1]. È un documento che, ovviamente, va letto tenendo conto del suo scopo prettamente informativo e, se si vuole, propagandistico, ma che nondimeno offre importanti spunti su quale possa essere il ruolo della Cina nei prossimi decenni di lotta al cambiamento climatico.

In altri termini, vale la pena chiedersi quale sia oggi il modello cinese di contrasto al cambiamento climatico, in cosa differisca da altri modelli e quale valenza politica abbia sul piano tanto interno quanto delle relazioni internazionali. Sono tutti temi vastissimi, che qui possono essere richiamati solo sommariamente, ma su cui è opportuno riflettere criticamente.

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cumpanis

BRICS, Johannesburg attraverso la documentazione ufficiale, guardando al 2024

di Gianmarco Pisa*

XBZDXHNKFBPULJS2ZNZW3KMJLU.jpgIl recente vertice dei Paesi BRICS in Sudafrica, da buona parte degli osservatori giustamente definito «storico», ha segnato una tappa di sviluppo particolarmente significativa nell’evoluzione delle relazioni all’interno della piattaforma e, in generale, nella prospettiva della cooperazione sud-sud e degli equilibri internazionali.

Una chiara indicazione di tali conseguimenti è contenuta nella comunicazione diramata dalla presidenza sudafricana del vertice con la quale, lo scorso 24 agosto, sono stati annunciati i più importanti risultati conseguiti: si è deciso «di incaricare i Ministri delle Finanze… di prendere in esame la questione delle valute locali, degli strumenti e delle piattaforme di pagamento»; si è raggiunto un accordo «sui principi-guida, gli standard, i criteri e le procedure del processo di espansione dei BRICS» vale a dire della trasformazione progressiva dei BRICS in un vero e proprio BRICS+ con l’ingresso di nuovi Paesi. Si è deciso poi, a conclusione del vertice, di «invitare la Repubblica Argentina, la Repubblica Araba d’Egitto, la Repubblica Federale Democratica dell’Etiopia, la Repubblica Islamica dell’Iran, il Regno dell’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a diventare membri a pieno titolo dei BRICS dal 1° gennaio 2024» e di «sviluppare ulteriormente il modello di partenariato dei BRICS e un elenco di ulteriori Paesi potenziali partner», in modo da ampliare il numero di Paesi che entreranno a fare parte di questo sistema.

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effimera

Diario della crisi | Gli spettri del debito cinese

di Christian Marazzi

AFP 33RD8HT keFI U34301452009015NAG 656x492Corriere Web Sezioni.jpgIn questa estate infuocata, una possibile tempesta (non solo meteorologica) potrebbe abbattersi sul sistema finanziario globale. Christian Marazzi analizza i rischi connessi al possibile scoppio di una bolla immobiliare in Cina. Il crescente indebitamento di alcuni colossi del real estate evidenziano le difficoltà dell’economia cinese a riprendersi dopo i lock-down del Covid. Anche se il sistema finanziario cinese è chiuso e non vi è libera circolazione dei capitali (per loro fortuna), le ripercussioni sui mercati finanziari globali potrebbero essere rilevanti. Tutto ciò si inquadra in un processo di ridefinizione degli assetti geopolitici, stretti tra il tentativo Usa di mantenere l’egemonia economico-finanziaria (sempre più in difficoltà) e l’aspirazione dei paesi Brics di costruire un mondo multipolare

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Il superciclo del debito

Intervistato da Eugenio Occorsio sulla crisi cinese (la Repubblica, 19 agosto), l’economista americano Kenneth Rogoff (Harvard) fissa così i termini della questione: “Purtroppo sta verificandosi quanto, con altri economisti come Larry Summers, avevamo immaginato da tempo: il ‘superciclo del debito’, lo stesso che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008 e l’Europa nel 2010, ora si abbatte sulla Cina. Le conseguenze possono essere molto dolorose per tutti”. Il premio Nobel Robert Shiller, intervistato sempre da Occorsio il 21 agosto, introduce un altro fattore nella spiegazione della crisi in Cina, per ora circoscritta al settore immobiliare: “A questo punto non rimane che attendere i risultati delle misure d’emergenza approntate a Pechino, compreso il cambio di narrazione.

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contropiano2

Politica che comanda l’economia. Il segreto della Cina

di Redazione Contropiano - Guido Salerno Aletta

cina politica segreto.jpgRagionare in termini ideologici (non “teorici”, che è all’opposto attività molto seria) porta sempre i un buco nero del pensiero da cui non si sa più come uscire.

È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.

In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).

In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.

Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.

La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.

E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo…

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lantidiplomatico

Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione

di Eusebio Filopatro

720x410c50nuyws.jpgIl 26 luglio 2023 gli uomini della guardia presidenziale nigerina hanno catturato il presidente Mohamed Bazoum, dando inizio ad un colpo di stato.

L’evento ha brevemente spostato i riflettori verso il Sahel, una delle regioni più trascurate e povere del mondo, che pure con buone ragioni è stata definita la frontiera meridionale d’Europa (da ultimo in una lettera di Roberta Pinotti a Repubblica).

Nella presente serie di articoli mi propongo (1) di contestualizzare il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni, e in particolare sullo sfondo della travagliata dissoluzione del neo/postcolonialismo francese, (2) di valutare le prospettive e le difficoltà di un eventuale intervento ECOWAS, e (3) di inserire queste considerazioni nello scenario internazionale più ampio, in particolare rispetto alle aspirazioni realistiche che l’Europa se non l’intero Occidente può mantenere rispetto al suo (dis)impegno in Sahel e in Africa.

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I. Niger: Le ragioni di un golpe

In un articolo del 1989, Guy Martin ricostruiva le relazioni franco-africane da un punto di vista spinoso: l’estrazione dell’uranio. Martin introduceva la questione del Niger chiarendo senza troppi giri di parole che esso “può anche essere descritto come un'enclave neocoloniale dominata dagli interessi politici, economici, culturali e strategici francesi” (p. 634). In conclusione, alla sua disanima, Martin suggeriva anche un’interpretazione inquietante quanto plausibile del golpe del ’74:

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tempofertile

L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?

di Alessandro Visalli

niger 1 330x173.jpgQuello che si è manifestato a Johannesburg appare essere un punto di svolta simile a quello degli anni Settanta[1]. Con l'ingresso nei Brics da gennaio 2014 si completa il passaggio dell'Arabia Saudita in nuove alleanze, preludio per l'annunciata chiusura delle basi americane (a giugno annunciata da Bin Salman[2]) e del consolidamento delle transazioni in altra valuta del petrolio. Insieme al gigante arabo entrano anche altri attori di primo piano come l'Egitto, gli Emirati Arabi e l'Iran, in Sud America l'Argentina. Infine, l’importante, sotto il piano simbolico, Etiopia[3].

Impossibile sottovalutare l'evento, se pure atteso (e che spiega lo sforzo per escludervi Putin incriminandolo[4]): tra le cose più importanti c’è che l'Occidente collettivo (ed in particolare l'Europa) perde ogni residua influenza sull'Opec+[5] e quindi sulla geopolitica dell'energia, aspettiamoci benzina a parecchi euro ed energia a valori stabilmente alti (con buona pace di coloro che si attardano contro il cambiamento climatico 'inventato', senza capire che è questione letteralmente di sopravvivenza e non solo del pianeta[6]); in Africa a questo punto abbiamo, da Nord a Sud, tutte le principali potenze schierate contro l'Occidente imperiale[7], o almeno capaci di rivendicare maggiore indipendenza da questo, nessuno può immaginare anche militarmente di andare in Africa contro Egitto, Algeria e Sud Africa insieme, o in Medio Oriente contro Arabia Saudita, Iran, Emirati, e i relativi alleati (senza considerare che ha fatto domanda anche la Turchia); si saldano due colossi d'ordine come Arabia Saudita e Iran (capolavoro della diplomazia cinese) e con Egitto e Emirati diventano il polo inaggirabile della regione; nel cortile di casa degli Usa si saldano Brasile e Argentina, in pratica il centro del subcontinente ha cambiato collocazione.

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I BRICS hanno cambiato l’equilibrio delle forze, ma non cambieranno da soli il mondo

di Vijay Prashad

brics equilibrio mondo 553x300.jpgNel 2003, alti funzionari dal Brasile, dall’ India e dal Sudafrica si sono incontrati in Messico per discutere dei reciproci interessi nel commercio di farmaci.

L’India era ed è uno dei maggiori produttori mondiali di vari farmaci, compresi quelli utilizzati per il trattamento dell’HIV-AIDS; il Brasile e il Sudafrica avevano entrambi bisogno di farmaci a prezzi accessibili per i pazienti affetti da HIV e da una serie di altri disturbi curabili.

Ma a questi tre Paesi è stato impedito di commerciare facilmente tra loro a causa delle rigide leggi sulla proprietà intellettuale stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Pochi mesi prima del loro incontro, i tre Paesi hanno formato un gruppo, noto come IBSA, per discutere e chiarire le questioni relative alla proprietà intellettuale e al commercio, ma anche per confrontarsi con i Paesi del Nord globale per la loro richiesta asimmetrica di cessare i sussidi agricoli dei Paesi più poveri. Il concetto di cooperazione Sud-Sud ha fatto da cornice a queste discussioni.

L’interesse per la cooperazione Sud-Sud risale agli anni ’40, quando il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite istituì il primo programma di aiuti tecnici per favorire il commercio tra i nuovi Stati post-coloniali di Africa, Asia e America Latina.

Sei decenni dopo, proprio in concomitanza con la nascita di IBSA, questo spirito è stato commemorato dalla Giornata delle Nazioni Unite per la Cooperazione Sud-Sud, il 19 dicembre 2004.

In quell’occasione, le Nazioni Unite crearono anche l’Unità speciale per la cooperazione Sud-Sud (dieci anni dopo, nel 2013, questa istituzione fu rinominata Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione Sud-Sud), che si basava sull’accordo del 1988 sul Sistema globale di preferenze commerciali tra i Paesi in via di sviluppo.