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Tre “malintesi” su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino
di Andrea Muni
Prosegue con questo nuovo trittico l’approfondimento su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino, iniziato in due puntate uscite tra ottobre e novembre 2022 (qui la prima parte e qui la seconda) [Ndr]
Una premessa
Due date. Oltre dieci anni fa (20 febbraio 2014) iniziava la guerra civile “aperta” in Ucraina, esplosa in seguito al golpe/rivolta di Maidan, la rimozione del presidente oligarca filo-russo Janukovich e la presa del potere centrale da parte dell’oligarchia filo-occidentale. Da quella data, le due principali fazioni del Paese e le rispettive oligarchie – filo-occidentale e filo-russa – non hanno mai cessato di affrontarsi in armi nella parte più orientale del Paese (Dontetsk e Luhansk), ovvero la parte di Ucraina da subito rimasta (insieme alla Crimea) in mano agli autonomisti/separatisti. In questo scenario, ancora aperto, oltre due anni fa (24 febbraio 2022) iniziava l’invasione russa dell’Ucraina in supporto dei cittadini ucraini autonomisti/separatisti. I morti civili di questi due anni di guerra sono, secondo l’Onu, più di diecimila. Numeri spaventosi eppure ancora lontani, per fortuna, da quelli del genocidio di Gaza (36.000 morti in otto mesi), che in parte si spiegano con la scelta dei russi di non assediare in modo frontale le grandi città russofone di Kharkov e di Odessa.
Alle vittime del conflitto russo-ucraino e della guerra civile vanno ad aggiungersi i milioni di vite spezzate di profughi, feriti, traumatizzati, reduci, molti dei quali – come le vittime stesse – sono anche cittadini ucraini russi (etnia), russofoni (lingua) e/o filo-russi (orientamento geopolitico); persone uccise, ferite e/o costrette a emigrare anche dai nazionalisti ucraini e dagli armamenti Nato, con cui vengono bombardati non solo i civili delle città filorusse di Donetsk e Luhansk, ma anche le città russe di confine (solo a Belgorod nell’ultima settimana sono stati quasi trenta i civili uccisi dalle bombe Nato e ucraine).
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L'affaire Crypto AG e l'"etica" dei nostri alleati
di Alberto Bradanini
1. Di tutta evidenza i tanti segreti di stato che hanno agitato la gioventù e l’età adulta di intere generazioni sono tali solo per il popolo deliberatamente oscurato. Davanti a vicende come quella che segue, le rare riflessioni mediatiche - che incidentalmente emerse sono state subito archiviate dall’azione di sorveglianza di chi ha sempre saputo e taciuto - hanno al più suscitato qualche pubblica ansia passeggera, mai comunque nella psiche di coloro che svolgono occulti ed esecrabili professioni.
Il grande filosofo tedesco F. Hegel affermava che le cose note, proprio perché note, non sono conosciute, di certo non abbastanza. È questo il caso di una vicenda di spionaggio che sembra tratta da un libro di Le Carré. Seppur a suo tempo sviscerata dalla stampa internazionale (poco comunque da quella nazionale), essa merita tuttavia di essere rievocata, affinché non si perda coscienza che molte cose restano occulte nelle tragedie che abbiamo davanti e che la qualità politica ed etica dei nostri cosiddetti amici è quanto mai scarsa.
2. L’11 febbraio 2020, per ragioni tuttora ignote, il giornalista del Washington Post[1] (WP) Greg Miller informa i lettori che per mezzo secolo un elevato numero di paesi al mondo ha affidato la tutela delle informazioni sensibili (quelle che si scambiano al loro interno governi, organismi di sicurezza, militari e diplomatici) a macchinari prodotti da un'unica azienda, la “svizzera” Crypto AG. Una notizia priva di rilevanza se non fosse che quella società, nata in Svizzera, poi divenuta una Joint Venture Usa-Germania Cia[2]-Nsa[3]/Bnd[4]), è servita per fabbricare macchine che consentivano di decifrare le comunicazioni classificate dei paesi acquirenti.
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Il suicidio dell’Occidente
di Matteo Nucci
In questo momento, mentre comincio a scrivere, i video che arrivano dalla striscia di Gaza raccontano quella che sarà forse la fase finale dello sconvolgente massacro con cui da 215 giorni l’esercito israeliano rade al suolo un sovrappopolato angolo di terra. I tank sono entrati a Rafah e alcuni dei video mostrano in soggettiva l’ingresso israeliano. Si tratta dunque degli stessi militari che stanno filmando. Il più gettonato, fra questi trofei di guerra, mostra la famosa scritta I LOVE GAZA forse in plastica, certo tridimensionale, rossa, con il classico cuore. Si avvicina sempre più via via che il tank avanza. Poi le ruote cingolate la inghiottono. È un’anticipazione di quel che sarà: rovine e morte. Una terra spianata, il sangue interrato, il numero delle vittime incerto.
Ovviamente le storie che compaiono sui social sono già innumerevoli e di molti tipi. E se avete cuore, mentre vi meraviglierete di dover ricorrere a un simile strumento per trovare i barlumi di verità negati dai principali media delle democrazie occidentali (in questi giorni dediti a tutt’altro tipo di informazione), troverete molte altre testimonianze della prospettiva israeliana. Per esempio, i festeggiamenti sionisti per la decisione finale di sferrare l’attacco a Rafah, nonostante l’accordo fosse raggiunto. Balli e grida di giubilo. Si stappa champagne, si ride. Si celebra l’imminente annientamento.
Ma c’è anche un’altra prospettiva, quella del popolo che viene massacrato. E qui si rischia di non aver parole per ripetere quel che da sette mesi abbiamo visto fino alla nausea: un palazzo divelto, due bambini intrappolati fra le macerie, gli uomini che scavano a mani nude tentando invano di salvarli perché il loro volto è già più grigio della cenere che li ricopre. Si chiamavano Mahmoud e Hamdam, 8 e 6 anni.
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Il capitale va in guerra (e ci porta con sé)
di Xavier Vall Ontiveros - geoestrategia.es
Non credo che il catastrofismo serva a nulla, né a mobilitare la classe operaia contro la guerra né a contrastare l’euforia militaristica delle élite, ma è difficile stabilire una lettura alternativa di ciò che sta accadendo. La diplomazia è sepolta, i canali di dialogo sono inesistenti, si intraprende una corsa agli armamenti che non è altro che il preludio al disastro imminente. Molti degli ingredienti che portarono alla grande distruzione della carne umana che fu la Prima Guerra Mondiale sono sul tavolo. Ma sia per entusiasmo militaristico o per suprema ignoranza – o entrambi allo stesso tempo… – i media e i governi occidentali continuano a trasmettere un discorso unidirezionale e semplicistico, in base al quale tutto ciò che accade è spiegato esclusivamente dalle manie di grandezza di un pazzo disposto a distruggere il mondo. Le complesse analisi geopolitiche, quando sono più necessarie, non vengono prese in considerazione nel fissare le coordinate che orientano la politica estera, né da parte dei media sempre pronti a sfruttare la dimensione spettacolare della cosa e che considerano delle sciocchezze discorsive dotate di un certo fondamento noioso. Proprio come nel 1914, stiamo scivolando irresistibilmente verso l’abisso nichilista della guerra totale, i falchi militaristi hanno occupato la centralità del dibattito politico e sembra che non si possa tornare indietro per evitare il disastro. Come nel 1914, la sinistra è incapace di costruire un discorso internazionalista coerente e, nella migliore delle ipotesi, nasconde la testa sotto la sabbia; Nel peggiore dei casi, sostiene attivamente la politica di riarmo e il rafforzamento del blocco imperialista atlantista.
Eppure, indipendentemente dalle responsabilità della Federazione Russa, l’attuale conflitto non può essere compreso senza tenere conto dell’interventismo occidentale a partire dagli eventi di Euromaidan (2013-2014) e prima.
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La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto
di Susan Abulhawa
In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.
Quasi nessun albero
Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.
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L’intreccio dei paradigmi strategici
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Molti europei vorrebbero un'Europa nuovamente competitiva, che fosse un attore diplomatico, piuttosto che militare
Theodore Postol, professore di Scienza, Tecnologia e Politica di Sicurezza Nazionale al MIT, ha fornito un’analisi forense dei video e delle prove emerse dall’attacco dimostrativo dell’Iran con droni e missili del 13 aprile contro Israele: Un “messaggio”, piuttosto che un “assalto”.
Il principale quotidiano israeliano, Yediot Ahoronot, ha stimato il costo del tentativo di abbattere la salva di missili e droni iraniani in 2-3 miliardi di dollari. Le implicazioni di questa cifra sono sostanziali.
Il professor Postol scrive:
“Ciò indica che il costo della difesa contro ondate di attacchi di questo tipo è molto probabilmente insostenibile contro un avversario adeguatamente armato e determinato”.
“I video mostrano un fatto estremamente importante: tutti i bersagli, droni o altro, sono abbattuti da missili aria-aria”, [lanciati per lo più da aerei statunitensi. Secondo quanto riferito, circa 154 velivoli erano in volo in quel momento] che probabilmente usavano missili aria-aria AIM-9x Sidewinder. Il costo di un singolo missile aria-aria Sidewinder è di circa 500.000 dollari”.
Inoltre:
“Il fatto che molti missili balistici non intercettati siano stati visti brillare al rientro nell’atmosfera ad altitudini inferiori [un’indicazione di ipervelocità], fa capire che, in ogni caso, gli effetti delle difese missilistiche David’s Sling e Arrow di [Israele], non sono stati particolarmente efficaci. Pertanto, le prove a questo punto mostrano che essenzialmente tutti o la maggior parte dei missili balistici a lungo raggio in arrivo non sono stati intercettati da nessuno dei sistemi di difesa aerea e missilistica israeliani”.
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Rivolta nelle università
di Chris Hedges* - Scheerpost
Gli studenti universitari di tutto il Paese, alle prese con arresti di massa, sospensioni, sgomberi ed espulsioni, sono la nostra ultima, migliore speranza per fermare il genocidio a Gaza.
PRINCETON, N.J. - Achinthya Sivalingam, studentessa laureata in Affari Pubblici all'Università di Princeton, quando si è svegliata questa mattina non sapeva che poco dopo le 7 si sarebbe unita a centinaia di studenti in tutto il Paese che sono stati arrestati, sgomberati e banditi dal campus per aver protestato contro il genocidio a Gaza.
Quando le parlo indossa una felpa blu, a volte trattenendo le lacrime. Siamo seduti a un tavolino dello Small World Coffee shop di Witherspoon Street, a mezzo isolato di distanza dall'università in cui non può più entrare, dall'appartamento in cui non può più vivere e dal campus in cui tra poche settimane avrebbe dovuto laurearsi.
Si chiede dove passerà la notte.
La polizia le ha dato cinque minuti per raccogliere gli oggetti dal suo appartamento.
“Ho preso cose a caso”, racconta. “Ho preso i fiocchi d'avena per un motivo qualsiasi. Ero davvero confusa”.
Gli studenti che protestano in tutto il Paese dimostrano un coraggio morale e fisico - molti rischiano la sospensione e l'espulsione - che fa vergognare tutte le principali istituzioni del Paese. Sono pericolosi non perché disturbano la vita del campus o attaccano gli studenti ebrei - molti di quelli che protestano sono ebrei - ma perché denunciano l'abissale fallimento delle élite al potere e delle loro istituzioni nel fermare il genocidio, il crimine dei crimini.
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La locomotiva cinese rallenta?
di Vincenzo Comito
Secondo alcune stime l’economia cinese è in fase di rallentamento. In realtà per il momento il Pil è in crescita di oltre il 5%. C’è senz’altro un cambio di strategia in atto e si presentano alcuni problemi, soprattutto sociali, che la dirigenza cinese è chiamata ad affrontare
Premessa
Da qualche tempo i media occidentali pubblicano articoli molto critici sull’attuale situazione economica cinese, prevedendo prospettive molto negative per il Paese asiatico. Bisogna a questo proposito ricordare che ormai da decenni la pubblicistica del Nord del mondo ci ha abituati a vedere sfornare in grande abbondanza previsioni catastrofiche sul Dragone, previsioni poi regolarmente smentite dai fatti.
In realtà nel 2023 il Pil cinese è cresciuto del 5,2% e le stime per il 2024 parlano di un 5,0%. I dati a consuntivo del primo trimestre sembrano confermare la plausibilità di tale valutazione; in effetti il Pil è cresciuto del 5,3%. Certo tali cifre appaiono inferiori a quelle cui Pechino ci aveva abituati in passato, ma, oltre a ricordare che questi dati sono inferiori soltanto a quelli dell’India, va anche considerato che, vista la dimensione cui è ormai giunta l’economia cinese, ottenere tassi di crescita superiori appare un’impresa assai ardua. Certamente, per altro verso, la Cina si trova oggi di fronte ad alcuni problemi di peso mentre sta cercando di cambiare alcuni aspetti del suo modello di sviluppo.
Nel testo che segue cercheremo di fare il punto sulla situazione attuale, avvalendoci anche di molte informazioni tratte da diversi media internazionali, con particolare riferimento ad alcuni articoli apparsi di recente su The Economist.
Le nuove forze produttive
L’economia cinese sta cercando di cambiare, almeno in parte, le sue strategie di crescita. Di fronte a problemi interni (si veda meglio al paragrafo successivo), al rallentamento degli scambi internazionali e all’ostilità crescente dei Paesi occidentali, di fronte anche allo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, il gruppo dirigente cinese ha messo a punto linee di sviluppo abbastanza nuove.
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Sei mesi di crimini di guerra a Gaza
di Lee Mordechai*
In questi sei mesi Israele ha ucciso i civili di Gaza, distrutto infrastrutture e ospedali, limitato l'accesso a beni di prima necessità e compiuto una progressiva pulizia etnica. Ecco le prove che documentano questa operazione
Negli ultimi sei mesi, Israele ha ripetutamente massacrato i palestinesi di Gaza, causando la morte di ben oltre trentamila palestinesi, di cui circa il 70% sono donne e bambini. Altre decine di migliaia di persone sono rimaste ferite. Queste stime sono probabilmente per difetto, considerando la deliberata distruzione da parte di Israele del sistema sanitario di Gaza, che è l’unica fonte indipendente di questi dati (che sono utilizzati anche da Israele, compreso il suo primo ministro e l’esercito).
Israele ha cercato attivamente di provocare la morte della popolazione civile di Gaza. Lo ha fatto attraverso la distruzione di istituzioni civili o umanitarie – come ospedali o agenzie di supporto–- e chiudendo la Striscia di Gaza alle sue necessità: cibo, acqua e medicine. Di conseguenza, la popolazione di Gaza (soprattutto bambini) ha già iniziato a morire di fame e disidratazione.
A causa della mancanza di medicine, procedure mediche difficili come amputazioni e cesarei sono condotte senza anestesia. Israele si è spinto oltre nel tentativo di distruggere il tessuto della società palestinese prendendo deliberatamente di mira istituzioni culturali come università, biblioteche, archivi, edifici religiosi e siti storici.
Disumanizzazione
Il discorso israeliano ha disumanizzato i palestinesi a tal punto che la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani sostiene le misure sopra citate. Innumerevoli video dalla Striscia di Gaza difffusi da soldati dell’esercito israeliano attestano ampi abusi nei confronti dei palestinesi (tra cui violenze crudeli e disumanizzazione), saccheggi continui, ormai la norma, e la distruzione selvaggia di ogni tipo di proprietà senza che vi siano state conseguenze.
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Quarta guerra mondiale
di Salvatore Bravo
La quarta guerra mondiale è la normalità nel tempo del capitalismo assoluto, Costanzo Preve ne ha analizzato le dinamiche allo scopo di sostenere l’uscita dalla gabbia d’acciaio del sistema capitale. Essere rivoluzionari significa conservare un sano e realistico ottimismo, l’essere umano per natura è logos, pertanto nessuna notte della ragione è eterna. La quarta guerra mondiale è guerra nel senso largo del termine e, in tal senso, è un evento assolutamente nuovo nella storia dell’umanità. La guerra con le armi è solo una fase della lunga battaglia politica, economica e culturale per piegare l’umanità alla sola grammatica del capitalismo. La prima guerra mondiale (1914-1918), la seconda guerra mondiale (1939-1945), la terza guerra mondiale (1945-1989) e la quarta hanno connotati diversi. Costanzo Preve identifica le prime due con la guerra in senso stretto, le successive con la guerra in senso largo, in un crescendo di violenza economicistica e tecnocratica.
L’esito della quarta guerra mondiale non è ancora deciso, siamo dinanzi a una soglia di imprevedibilità. Essa potrebbe portare a un nuovo incipit nella storia dei popoli, a un nuovo livello di consapevolezza rivoluzionaria o al lungo congelamento di ogni prospettiva storica. Il futuro si gioca nel nostro presente. La storia non è scritta nei testi sacri degli economisti liberisti, le infinite variabili, la prima è la coscienza umana, la quale è individuale e collettiva potrebbero riservare delle sorprese. L’insostenibilità-innaturalità dell’individualismo fluido e atomistico può portare a esiti incontrollabili e reazionari. In tale cornice delicatissima è necessario intervenire per decostruire le dinamiche e le tattiche delle oligarchie in guerra contro i popoli. Il clero mediatico e accademico è parte integrante della guerra in corso. Il fine del loro intervento che in modo tentacolare raggiunge ogni cittadino mediante i media e la formazione ha l’intento di derealizzare e di impedire la comprensione radicale del periodo storico nel quale ci dibattiamo. Il pericolo è l’infrangersi tra gli scogli della menzogna pianificata.
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Il genocidio di Gaza come politica esplicita: Michael Hudson fa tutti i nomi
di Pepe Escobar – Strategic Culture Foundation
Israele, Gaza e Cisgiordania dovrebbero essere viste come l’inizio di una Nuova Guerra Fredda
In quello che può essere considerato fino a oggi il podcast più cruciale del 2024 [1], il professor Michael Hudson – autore di opere fondamentali come Super-Imperialism e il recente The Collapse of Antiquity, tra gli altri – stabilisce clinicamente il contesto essenziale per comprendere l’impensabile: un genocidio del 21° secolo trasmesso in diretta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in tutto il pianeta.
In uno scambio di e-mail, il Prof. Hudson ha spiegato che ora sta sostanzialmente ‘svuotando il sacco’ su come “50 anni fa, quando lavoravo all’Hudson Institute con Herman Kahn [il modello per il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick], venivano addestrati i membri del Mossad israeliano, tra cui Uzi Arad. Ho fatto due viaggi internazionali con lui e mi ha descritto più o meno quello che sta succedendo oggi. È diventato capo del Mossad e ora è il consigliere di Netanyhau”.
Il professor Hudson dimostra come “il piano di base di Gaza è lo stesso che Kahn aveva progettato con la divisione in settori della guerra del Vietnam, con canali che tagliavano ogni villaggio, come stanno facendo gli israeliani con i palestinesi. Inoltre, già all’epoca, Kahn aveva individuato il Belucistan come l’area in cui fomentare disordini in Iran e nel resto della regione”.
Non è un caso che il Belucistan sia stato per decenni un territorio “fiore all’occhiello” della CIA e, più recentemente, con l’ulteriore incentivo dell’interruzione con ogni mezzo necessario del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) – un nodo chiave della connettività per l’Iniziativa cinese del Belt and Road (BRI).
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Venezuela. Sanzioni e manovre USA sulle presidenziali del 28 luglio
di Geraldina Colotti
In questo anno di elezione presidenziale, fissata per il 28 luglio, il Venezuela bolivariano è di nuovo nell’occhio del ciclone. L’attualità ne dà conto, anche a livello internazionale. Intanto, perché il Dipartimento di Stato nordamericano ha deciso di non rinnovare la “General License 44” che aveva autorizzato, fino al 18 aprile, il ripristino delle transazioni commerciali nel settore del petrolio e del gas venezuelano.
Alle numerose imprese multinazionali, sia statunitensi che europee, tornate a investire nel paese, ora viene dato un lasso di 45 giorni per fare i bagagli, o per presentare specifiche richieste di deroga per restare. A loro, la Legge contro il bloqueo, varata dal parlamento venezuelano per far fronte al blocco economico-finanziario (innescato a suo tempo da Obama, incrementato da Trump e mantenuto da Biden), aveva consentito ampi margini di profitto, pur lasciando saldamente in mano dello Stato venezuelano (e della sua principale impresa petrolifera, Pdvsa), il controllo delle risorse.
I risultati della deroga alle “sanzioni” sono subito apparsi evidenti agli indicatori economici internazionali. Da quando, a dicembre del 2023, a seguito degli Accordi delle Barbados, conclusi tra governo e opposizione, per far fronte alla “sete” di petrolio dovuta al contesto internazionale Biden ha flessibilizzato le “sanzioni” a Pdvsa, l’economia petrolifera venezuelana è cresciuta del 18 per cento nel primo trimestre del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023.
Anche per questo, le ultime inchieste (per esempio la firma Hinterlaces) stanno dando un ampio margine di gradimento a Nicolas Maduro, candidato – dal Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), dagli alleati del Gran Polo Patriottico e dai movimenti popolari – per un terzo mandato.
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Il silenzio dopo Gaza? Un seminario per ripensare umanismo e antiumanismo*
di Valerio Romitelli
I
Nel 1949, fu detto, da Adorno, che dopo Auschwitz anche far poesia sarebbe divenuto atto barbaro[1]. Che si potrà dire dopo Gaza? Il timore è che non se ne dirà nulla: che l’orrore della disumanità sarà diventato normalità.
La svolta in atto nella nostra civiltà, che si tenga o meno a questa parola, è comunque clamorosa. Per averne una qualche misura occorre quanto meno risalire ai primi anni Novanta, quando a seguito del crollo dell’Urss nulla parve più moderare l’euforia dell’impero americano. La sua immagine da trionfatore del XX secolo poteva allora arricchirsi di un nuovo trofeo: dopo la vittoria su nazifascismo, poteva infatti vantare anche la disfatta di quella patria del comunismo già sua alleata e concorrente principale sulla scena mondiale. Venne quindi il gran momento delle dottrine neoliberali accompagnato da altri fenomeni per lo più mai visti, quali la globalizzazione dei mercati, il diffondersi della rivoluzione informatica, la fede in una definitiva democratizzazione dell’intero pianeta. A consacrare questa aura magica scorsero fiumi d’inchiostro tra i quali eccelse il celeberrimo libro di Fukuyama sulla fine della storia[2].
La storia stessa, come concetto designante il divenire controverso e incerto dell’umanità, si trovò così screditata: anche le sue figure protagoniste fino ad allora più riconosciute a livello di opinione cominciarono a divenire quanto meno sospette. Va da sé che il bersaglio grosso più o meno dichiarato era quella concezione che aveva istruito più generazioni del personale dirigente degli stati socialisti e dei partiti comunisti, oltre che dei militanti di movimenti “di classe”: la concezione materialista della storia come storia della lotta di classe.
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Siamo la scorta mediatica dei massacri
di Raffaele Oriani
Il 25 febbraio l’aviere statunitense Aaron Bushnell si dà fuoco in divisa davanti all’ambasciata israeliana di Washington. Aaron ha 25 anni, ci sono foto che lo ritraggono sorridente, paffuto, il classico ragazzone americano con tutta la vita davanti. Prima di immolarsi scrive un post su facebook: “È capitato a molti di noi di chiedersi ‘Cos’avrei fatto al tempo della schiavitù? O dell’apartheid? Cosa farei se il mio Paese commettesse un genocidio?’ La risposta è quello che stai facendo ora. Proprio ora”. Alla Corte di giustizia dell’Aja si sta dibattendo se quello che succede a Gaza in risposta ai massacri di Hamas del 7 ottobre sia o meno un genocidio. Con una sentenza provvisoria la stessa Corte ha riconosciuto la “plausibilità” del genocidio. Ci sono i morti, certo – tra accertati e dispersi al momento quasi 40mila. Ma non solo. C’è la distruzione di tutto. Ci sono le dichiarazioni dei leader politici israeliani, che fanno intendere la volontà non solo di sconfiggere ma di sterminare il nemico: ricordatevi di Amalek, ha detto il premier Netanyahu in un’allocuzione alle truppe, con implicito riferimento al passo biblico che invita a “uccidere uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”. E poi ci sono le immagini che i soldati israeliani si scambiano freneticamente nei social: “Questa è dedicata a mia figlia, la principessa Ayala per il giorno del suo secondo compleanno” ride un soldato mentre fa saltare una casa palestinese. “Eccoli, gli unici civili innocenti” ride un altro, filmando due capre che brucano. Da sei mesi a Gaza succedono cose che non siamo abituati a vedere. Le vediamo poco, in realtà. Ma sono così gravi che, anche se la Corte dovesse decidere che questo non è un genocidio, la domanda del soldato Aaron continuerebbe a interrogarci: “Cosa facciamo noi mentre accade tutto questo?”.
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Il declino dell'imperialismo francese e la fine del franco CFA
di Domenico Moro
Recentemente Macron, il presidente francese, ha dichiarato “Non escludo l’invio delle truppe in Ucraina, la Russia non può e non deve vincere”. Si tratta di una affermazione molto grave che, se messa in pratica, porterebbe all’allargamento della guerra in Europa. Per questa ragione, gli altri Paesi della Ue, a partire dalla Germania e dall’Italia, si sono affrettati a escludere l’intervento di truppe europee nel conflitto tra Ucraina e Russia. L’affermazione di Macron può apparire contraddittoria, anche perché nel 2022 la Francia aveva cercato di venire incontro alle ragioni della Russia, sostenendo la necessità di non umiliarla se e quando si fosse arrivati a un trattato di pace. Quali sono le ragioni che hanno portato Macron a cambiare atteggiamento e alle recenti dichiarazioni? La ragione principale è probabilmente da rintracciare nella crisi dell’imperialismo francese. In particolare, la dichiarazione di Macron è una risposta alla crescente presenza della Russia nell’area di influenza francese nelle sue ex colonie dell’Africa occidentale ed equatoriale.
Per comprendere quello che sta accadendo è utile rifarsi a una categoria dell’economia e della politica, quella di imperialismo. La Francia, infatti, può essere definita, come gli Usa e più degli altri principali paesi avanzati dell’Europa occidentale, un Paese imperialista. La Francia è un paese avanzato che fa parte del centro dell’economia-mondo e che sfrutta i paesi periferici, in particolare quelli dell’Africa da cui drena ricchezze verso la propria economia. A differenza degli altri Paesi della Ue, la Francia è una grande potenza che, oltre a poter drenare ricchezza attraverso lo sfruttamento dell’Africa, ha due vantaggi: dispone di armi nucleari e ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu dove esercita il potere di veto.
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