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lindipendente

Lo strano caso del naufragio del Bayesian

di Salvatore Maria Righi

Bayesian.pngNon risulta che fosse un lupo di mare, il reverendo inglese Thomas Bayes, noto agli statistici per il suo teorema sulla probabilità condizionata, che in sostanza permette una ricerca a posteriori delle cause di un evento che si è verificato. Ma calcolare le probabilità di una causa nel provocare un evento è esattamente quello che in sostanza stanno facendo gli inquirenti della procura di Termini Imerese, per cercare di diradare la nebbia e i misteri calati sul tragico affondamento del Bayesian, il veliero inglese colato a picco nei giorni scorsi davanti a Palermo e che proprio del matematico e filosofo del ‘700 portava il nome, la prima delle tante strane coincidenze, o brutti presagi, di questa storia che ha colorato di nero il mare blu di Porticello.

 

Le vittime

Sette vittime, a cominciare dal proprietario e uomo d’affari Mike Lynch e dai suoi importanti e potenti ospiti, e per finire con sua figlia Hannah, 18 anni, l’ultima dei dispersi e l’ultimo corpo restituito dal relitto, studentessa modello e prossima a frequentare la Oxford University. 15 superstiti che sono arrivati a terra terrorizzati col tender messo a disposizione dal capitano Karsten Borner, nostromo del “Sir Robert Baden Powell”, la nave olandese che ha prestato soccorso ai naufraghi nei momenti immediatamente successivi al disastro. Curiosamente, la furiosa tempesta e relativa tromba marina che avrebbero causato l’affondamento del Bayesian, hanno lasciato intatto e pienamente funzionante lo scafo governato dal tedesco Borner, nonostante sia più o meno la metà del veliero inglese finito a oltre 50 metri di profondità sul fondale palermitano: 32 metri di lunghezza, sei di larghezza, e pesante meno di un quarto, 111 tonnellate. 

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pressenza

Elon Musk e un nuovo “Ruanda” per il Venezuela

di Geraldina Colotti

Venezuela 25.jpgIl Venezuela è di nuovo sulle prime pagine dei giornali, e a livello internazionale. Perché tanto interesse per le vicende di un paese lontano dal “primo mondo”, se la maggioranza di coloro che ne parlano non riescono a segnalarlo nemmeno sulle carte geografiche? Perché tanta furia e tante “dichiarazioni” sul sistema che governa il Venezuela, anche da parte di chi, in Europa, è totalmente disinteressato alla politica? Per quali meccanismi si scatenano queste “passioni”?

Cerchiamo di elencare brevemente alcuni punti a questo proposito, sia dal lato della borghesia che dal lato di coloro che cercano di combatterla.

Il Venezuela è un paradigma, un nuovo paradigma – economico, politico, simbolico – per il 21° secolo. Un laboratorio che dovrebbe essere preso in considerazione anche da chi tiene gli occhi fissi sul modello europeo.

Il Venezuela rappresenta il punto di frattura più alto che si sia verificato nel modello capitalista dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Un esempio concreto che le cose si possono cambiare non solo con le armi ma anche con il voto, purché si assumano i costi della difesa del programma proposto, anche se “limitato” ad alcune modifiche strutturali, coniugando i principi del socialismo con la democrazia popolare.

Non dobbiamo sottovalutare la forza dell’esempio, decisivo nel corso del XX secolo (il secolo delle rivoluzioni), in cui tutti gli oppressi dal sistema capitalista “volevano fare come in Russia”. La forza dell’esempio, che l’imperialismo ha cercato di distruggere, distorcere o nascondere dispiegando un gigantesco apparato multiforme, come si è visto e si vede contro Cuba, Nicaragua e Venezuela.

È necessario riflettere profondamente sul significato della motivazione data, nel 2014, dal “democratico” Obama per imporre “sanzioni” al Venezuela, definito come “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”. La minaccia dell’esempio.

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lantidiplomatico

Il volto del fascismo, tra il Venezuela e l'Europa

di Geraldina Colotti

720x410c50.jpgImmaginate un volo cancellato, diretto a un paese d'Europa e i passeggeri alloggiati in un hotel del Venezuela. Immaginate un incontro casuale con una signora dai tratti caraibici che vive da decenni in una città europea, preoccupata di non poter dare risposte certe alla famiglia in merito alla data del rientro. E immaginate una conversazione fra due donne, con la prima che mostra la foto dei figli, e la seconda che s'interroga, da giornalista, in quale campo politico si situi la signora – una venezuelana proveniente da una zona ricca del paese, teatro di recenti disturbi post-elettorali, tornata per votare. E la conversazione si rivela interessante.

Risulta che la venezuelana fa parte dei “comanditos”, che è attiva tra l'Europa e il suo paese, e che abbia risposto – dice - a “qualunque cosa” le abbiano chiesto le aggruppazioni di estrema dal Venezuela: dalla raccolta di medicine - sottratte “a quei malati di cancro che non ne avevano più bisogno”, ai soldi che di certo non servivano a curare, ma a organizzare violenze e colpi di stato, alla propaganda e a chissà cos'altro.

Ha avuto qualche esitazione solo quando, ai tempi del poliziotto-attore, Oscar Pérez, che voleva tentare il golpe nel 2018, “una persona poi tornata nell'ombra” le aveva chiesto un coinvolgimento maggiore. Ora rimpiange che “il sacrificio” di Pérez non sia servito a far ribellare i militari “che nei ranghi bassi - afferma – sono tutti con noi, ma negli alti comandi no, perché stanno con Padrino e Diosdado”.

La donna si considera un'anti-chavista della prima ora. Come tanti oppositori ritiene di essere stata penalizzata “perché Chávez ha espropriato i terreni e le fabbriche e ha portato alla rovina il paese”. Una convinzione ben radicata in famiglia, ma con qualche eccezione nella prole. Il voto della signora, invece, alle ultime elezioni europee è andato all'estrema destra. E qui le cose sono chiare, considerata l'ammirazione di Machado per la motosega del torvo Milei e per le politiche genocide del boia Netanyahu.

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altrenotizie

Venezuela, il manuale di un golpe

di Lorenzo Poli

2verme.pngNel luglio 2024, il Woodrow Wilson International Center for Scholars (o Wilson Center) - uno degli United States Presidential Memorial, fondato a Washington DC come parte dello Smithsonian Institution, riconosciuto come uno dei primi dieci più importanti think tank al mondo - ha pubblicato un paper dal titolo “Venezuela Desk – How to stop a coup”, ovvero “come fermare un colpo di Stato in Venezuela”. Un titolo che potrebbe trarre in inganno, in quanto potrebbe far pensare ad un documento che voglia prevenire un colpo di Stato, ma in realtà si tratta del suo opposto: il dossier illustra i piani golpisti di stampo fascista che gli Stati Uniti avevano preparato per le elezioni presidenziali del 28 luglio contro il governo socialista di Nicolas Maduro. A scrivere il dossier è stato Mark Feierstein, già funzionario del Dipartimento di Stato dell’USAID e del National Democratic Institute, nonché elemento chiave nella “sporca guerra” contro la Rivoluzione Sandinista in Nicaragua negli anni Novanta, nel colpo di Stato contro Fernando Lugo in Paraguay e nel creare il noto piano strategico venezuelano per destabilizzare il governo di Nicolás Maduro da quando è entrato in carica nel 2013. In questo paper, Feierstein, presenta in sette pagine una sorta di tabella di marcia per programmare l’ennesima “rivoluzione colorata”, come teorizzata da Gene Sharp, al fine detronizzare Maduro rivelando e dando conferma di questo.

Il documento ammette che il raggruppamento dell’opposizione venezuelana anti-Maduro è una strategia degli Stati Uniti; che Washington ricatta il governo bolivariano con le sanzioni e con il blocco economico; che la sua intenzione è quella di coinvolgere i governi europei, di Colombia e del Brasile per fare pressione prima e dopo le elezioni del 28 luglio e che gli Stati Uniti vogliono penetrare il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE).

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carmilla

E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale

di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00

Palestina.jpgLa violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.

Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza.

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lantidiplomatico

Il "piano di pace" di Trump: scaricare la guerra ucraina all'Europa per il vero obiettivo

di Clara Statello

bliv.jpgLa guerra in Ucraina è una guerra per il nuovo ordine globale. L'Occidente ha trasformato un conflitto locale nella lotta tra democrazia e autocrazia, tra Bene e Male, cioè in uno scontro di civiltà. La guerra sarebbe potuta finire dopo poco più di un mese, con l'accordo negoziato a fine marzo a Istanbul, che prevedeva condizioni vantaggiose per Kiev, se Boris Johnson e altri leader occidentali non l'avessero sabotato.

Ciò a dimostrazione che il sostegno militare all'Ucraina non è motivato dalla nobile difesa dei diritti fondamentali dei popoli. La NATO combatte una guerra fino all'ultimo ucraino contro la Russia per mantenere il proprio primato. I Paesi occidentali sacrificano Kiev sull'altare della supremazia del blocco imperialista a guida statunitense.

Se Putin vincesse, non si limiterebbe a colpire la Georgia, ma l'intero vicino estero russo, nel tentativo di ricostruire l'Unione Sovietica. La fine della deterrenza NATO, inoltre, incoraggerebbe l'iniziativa della Cina su Taiwan e di Hezbollah in Israele.

Questo è il timore dei leader europei, espresso in modo chiaro dall'ex premier inglese Johnson in un editoriale pubblicato sabato sul Daily Mail.

Su una cosa i vassalli di Washington hanno ragione: il mondo unipolare è al tramonto. Le nuove potenze emergenti, sempre più presenti sui mercati internazionali, chiedono un maggior protagonismo decisionale; chiedono un ordine internazionale dominato dalle regole del diritto, non dai veti statunitensi e dai doppi standard; chiedono pari dignità ai popoli del mondo.

Ma non sarà la Cina o l'Iran o la Russia ad attaccare militarmente l'Occidente, per imporre un ordine che è già reale.

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lantidiplomatico

Il “Destino Manifesto” degli Stati Uniti, i Nativi Americani e il resto del mondo

di Raffaella Milandri

owenguogNel XIX secolo si fece strada negli Stati Uniti il concetto di “Destino manifesto” (in inglese Manifest destiny), una sorta di credo nella naturale superiorità di quella che allora veniva chiamata la “razza anglosassone”: espandersi era considerata una missione, per diffondere la loro forma di libertà e democrazia. Per i sostenitori del Destino manifesto l'espansione non era solo buona, ma anche ovvia (manifesta) e inevitabile (destino). Tutti concetti legati all'eccezionalismo americano e al nazionalismo romantico, e precursori dell’imperialismo americano e dell’americanismo. Oltre alle ovvie (anzi manifeste) riflessioni sul fatto che questo concetto sopravviva anche oggi, approfondiamone l’influsso nefasto, facciamo una visione d’insieme. Chiuderemo attenendoci al tema di questa rubrica: i Nativi Americani, che sono un ottimo esempio per analizzare la politica e la storia contemporanea. Disse Alexis de Tocqueville: “La storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie”.

 

Il Destino Manifesto

Vorrei dare un breve quadro geopolitico d’insieme.

Secondo lo storico William Earl Weeks, alla base del concetto del Destino Manifesto c'erano tre principi fondamentali:

1)L’assunto della virtù morale unica degli Stati Uniti;

2)L'affermazione della sua missione di redimere il mondo attraverso la diffusione della democrazia repubblicana e più in generale dello “stile di vita americano”;

3)La fede nel destino della nazione, stabilito in modo divino, di riuscire in questa missione.

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ilpungolorosso

La Palestina nel suo contesto. Israele, gli Stati del Golfo ed il potere americano nel Medio Oriente

di Adam Hanieh

iychrhjIl saggio del ricercatore di Exeter Hanieh, che proponiamo in traduzione, offre una lettura di ampio respiro della questione israelo-palestinese inerendola nel contesto della vicenda del Medio-Oriente a partire dal secondo-dopoguerra. Hanieh ricostruisce le dinamiche politiche nell’area, divenuta, anzitutto per la dotazione di risorse petrolifere, un luogo strategico della storia del capitalismo contemporaneo. Richiama dunque l’azione spoliatrice e violenta dell’imperialismo occidentale a guida statunitense, che, con lo Stato di Israele come punta di diamante, mostra appieno il suo volto reazionario con la repressione del movimento di lotta anticoloniale, animato dal pan-arabismo, al cui interno, benché in subordine, sono vissute istanze di emancipazione sociale delle masse sfruttate. Hanieh si propone così di scardinare la lettura asfittica e astratta della questione israelo-palestinese, centrata su Israele, Gaza e la Cisgiordania soltanto, la quale priva la lotta dei palestinesi del suo enorme significato storico-politico e induce a credere che il legame tra Occidente e Israele sia un accidente da attribuirsi al semplice lavorio della “lobby ebraica”. Hanieh mostra come in Medio Oriente, viceversa, l’indomita resistenza palestinese costituisca storicamente, e a tutt’oggi, un macigno nella scarpa ferrata dell’imperialismo, e abbia dunque un significato generale di emancipazione dal giogo occidentale.

Una maggiore considerazione delle dinamiche sociali avrebbe ulteriormente avvalorato la tesi secondo cui, per usare un’espressione a noi cara, la Palestina è la patria degli oppressi di tutto il mondo. O meglio, Hanieh pone sotto la sua lente la società israeliana. Evidenzia come, al pari del Sud-Africa dell’Apartheid, sia nella natura delle colonie di insediamento, veri “centri di organizzazione del potere occidentale”, di diventare un concentrato di violenza militarista, a misura che rafforzano le proprie “strutture di oppressione razziale, di sfruttamento di classe e di espropriazione”, con il risultato che “una parte consistente della popolazione trae vantaggio dall’oppressione delle popolazioni indigene e intende i propri privilegi in termini razziali e militaristici.”

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giubberosse

American dystopia - La maschera della propaganda e la sindrome dell'utopia (revisited)

di Larry Romanoff per Blue Moon of Shanghai

nouvvc.pngIn un articolo del NYT sulla “democrazia razziale” (o democrazia razzista) dell’America [1], Jason Stanley e Vesla Weaver hanno osservato che “la filosofa Elizabeth Anderson ha sostenuto che quando gli ideali politici divergono molto dalla realtà, gli ideali stessi possono impedirci di vedere il divario. Quando la storia ufficiale differisce molto dalla realtà della pratica, la storia ufficiale diventa una sorta di maschera che ci impedisce di percepirla”.

Ciò significa che se la propaganda non solo è incessante e pervasiva, ma se i suoi principi sono troppo lontani dalla verità fattuale, le vittime di questa propaganda perdono la capacità di separare i fatti dalla finzione e diventano incapaci di riconoscere la discrepanza tra le loro credenze e le loro azioni, credendo che le loro azioni corrispondano ai principi di ispirazione religiosa della loro propaganda anche quando palesemente e ovviamente non corrispondono. La teoria non è intuitivamente ovvia, ma è fortemente supportata dai fatti. Forse è per questo motivo che gli americani sono colpevoli di quella che io chiamo “la sindrome dell’utopia”, in quanto si confrontano non con il mondo reale delle loro azioni ma con qualche standard utopico che esiste solo nella loro immaginazione, un mondo di fantasia e di illusioni in cui loro soddisfano gli standard ma tutti gli altri no. In quest’ottica, è possibile che molto di ciò che attribuiamo all’ipocrisia americana sia in realtà dovuto a un tipo di follia di massa peculiarmente americana.

I dizionari definiscono generalmente “l’aberrazione” come una deviazione dal normale o dal tipico, un evento o una caratteristica che può essere sgradevole o addirittura criminale, ma che si incontra raramente.

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ilblogdim.consolo

Sul fallito golpe in Bolivia

di Marco Consolo

Bolivia golpe.jpgIl 26 giugno scorso il mondo è stato testimone dell’ennesimo tentativo di golpe nello Stato Plurinazionale della Bolivia, per il momento fallito.

Da subito si sono susseguite interpretazioni più o meno interessate a costruire una matrice di opinione (auto-golpe del Presidente Luis Arce) o fantasiose ricostruzioni sulla rivalità tra Evo Morales e Luis Arce in base alle rispettive “simpatie” per la Russia o la Cina, le cui imprese hanno firmato contratti con il governo boliviano. Mi sembra importante evitare le ricostruzioni sempliciste, superficiali o manichee. Come sempre accade, i tentativi di golpe sono complessi e con molte varianti, con diversi ballon d’essai, tentativi in progress, esperimenti. E non tutte le ciambelle riescono col buco.

Ma andiamo con ordine.

 

Una prima ricostruzione dei fatti

La mattina del 26 giugno, alla testa di un manipolo di soldati e diversi autoblindo, il Gen. Juan José Zuñiga, fino ad allora a capo dell’Esercito, appare in Plaza Murillo, sede del palazzo presidenziale al centro della capitale La Paz. Il generale Zuñiga cerca di entrare nella Casa Grande del Pueblo (sede del Governo), con le truppe d’élite nascoste dietro i passamontagna e armate fino ai denti.

Nelle ore precedenti, in un’intervista televisiva, il generale aveva accusato di qualsiasi nefandezza l’ex-presidente Evo Morales, e aveva minacciato di “arrestarlo” (senza nessun tipo di sentenza giuridica) se si fosse candidato alla presidenza nel 2025. Il giorno prima, nonostante quelle dichiarazioni, Zuñiga non era stato destituito ipso-facto dal Presidente Arce per la violazione della legge boliviana sulle FF.AA., la cosiddetta LOFA.

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tpi

“In Italia si fa disinformazione su Gaza. Rai e La7 non mi vogliono perché accuso Israele di genocidio”

Enrico Mingori intervista Francesca Albanese

“L’Olocausto non ci ha insegnato niente: abbiamo sconfitto Hitler ma non le su idee razziste. In Occidente c’è una forte lobby pro-Israele, un sistema di suprematismo bianco che intimidisce e punisce chiunque osi criticare lo Stato ebraico. E in Italia questo sistema è particolarmente forte: nei miei confronti c’è una conventio ad excludendum. Vi spiego perché quello di Israele è un genocidio e quello di Hamas no”. Intervista alla Relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati

1200x675 cmsv2 5313e609 21f3 5892 905b 4262989d40c3 8158592Francesca Albanese, 44 anni, originaria della provincia di Avellino, dal 2022 è Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. Laureata in Giurisprudenza a Pisa, si è specializzata fra Londra e Amsterdam in diritti umani e in diritto internazionale dei rifugiati. TPI l’ha intervistata per parlare dell’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza e del modo in cui il conflitto viene raccontato in Occidente.

* * * *

Albanese, in cosa consiste il suo lavoro di Relatrice speciale Onu per i territori palestinesi occupati?

«Il mio lavoro è sostanzialmente cambiato dallo scorso 7 ottobre. Prima c’era, sì, una violazione costante dei diritti umani nella Palestina occupata, ma non era tanto esasperata quanto adesso. La situazione è stata sempre grave, certo, ma ora è in atto un vero e proprio assalto costante nei confronti della popolazione sotto occupazione. Il mio lavoro consiste nella documentazione delle violazioni che hanno luogo a Gaza, ma sto raccogliendo informazioni anche su quello che succede in Cisgiordania e a Gerusalemme. Israele, infatti, sta approfittando del fatto che in questo momento l’attenzione è tutta rivolta su Gaza per accelerare con l’annessione di terre palestinesi in Cisgiordania, dove intere comunità pastorali sono state scacciate: fino a una decina d’anni fa incontrare tali comunità, incluso beduini nell’Area C della Cisgiordania (60% della terra che Israele controlla interamente) era un fatto comune, mentre oggi sta diventando sempre più difficile. Addirittura è documentata la vendita di proprietà e di terre palestinesi a compratori occidentali, con maggioranza di statunitensi o canadesi. È tutto abbastanza surreale».

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analisidifesa

Media, censure e facce di bronzo

di Gianandrea Gaiani

x1080.jpgHa suscitato reazioni aspre quanto ingiustificate in Europa la decisione resa nota il 25 giugno dalle autorità russe di imporre restrizioni nei confronti di 81 media europei impedendone l’accesso tv e internet al territorio della Federazione Russa.

Tra i media europei presi di mira figurano i siti di RAI, LA7, La Stampa e Repubblica, come spiega l’agenzia di stampa Ria Novosti ma anche i giornali tedeschi Der Spiegel, Die Zeit e Frankfurter Allgemeine Zeitung, i quotidiani francesi Le Monde, La Croix e l’agenzia France Presse (AFP) oltre a Radio France Internationale. La Russia ha imposto restrizioni anche ai quotidiani spagnoli El Mundo ed El Pais, all’agenzia di stampa EFE, all’emittente statale austriaca ORF e ai giornali web Politico ed Euobserver.

L’iniziativa russa costituisce una “rappresaglia” sul fronte mediatico rispetto alla decisione assunta il 17 maggio dal Consiglio Europeo di vietare sul territorio dell’Unione la diffusione video e internet dell’agenzia Ria Novosti e dei giornali Izvestia e Rossiyskaya Gazeta: divieto che ha preso il via proprio il 25 giugno.

”In risposta alla decisione presa dal Consiglio della Ue il 17 maggio di vietare ‘qualsiasi attività di trasmissione’ su tre media russi che entra in vigore oggi, 25 giugno, vengono adottate contro-restrizioni all’accesso introdotte dal territorio della Federazione Russa alle risorse radiotelevisive di numerosi media degli Stati membri dell’Ue e degli operatori di tutta Europa, che diffondono sistematicamente false informazioni sullo svolgimento dell’operazione militare speciale” in corso in Ucraina, si legge nel comunicato del ministero degli Esteri russo.

I russi, prosegue la nota, hanno ripetutamente e a vari livelli avvertito che ”le molestie politicamente motivate nei confronti dei giornalisti e i divieti infondati nei confronti dei media russi nella Ue non passeranno inosservati”.

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intelligence for the people

Dal 7 ottobre a oggi – Scivolando verso l’abisso

di Roberto Iannuzzi

Dal rischio di deflagrazione del conflitto tra Israele e Hezbollah, ai fantasmi del 7 ottobre che ancora aleggiano sul governo Netanyahu (con qualche stralcio tratto dal mio nuovo libro)

3965ff37 a12e 4bb8 9e09 f091feb6099d 1074x673.jpgIl protrarsi dell’operazione militare israeliana a Gaza, e l’intensificarsi dello scontro fra Israele e Hezbollah al confine libanese, hanno definitivamente sancito la saldatura delle due crisi o, se vogliamo, una sorta di “principio dei vasi comunicanti”.

Tradotta in altri termini, l’equazione è la seguente: 1) non ci sarà pace sul confine libanese se non verrà decretato un cessate il fuoco a Gaza.

2) Quanto più aumenterà il rischio di genocidio della popolazione palestinese nella Striscia, tanto più lo scontro al confine libanese rischierà di deflagrare in un conflitto su vasta scala, in grado di far impallidire la catastrofe di Gaza.

Per certi versi, questo esito era scritto fin dai primi giorni successivi al 7 ottobre. Allorché si è compreso che quella avviata da Israele a Gaza non era una semplice rappresaglia, per quanto dura, ma un’azione volta ad annientare Hamas sia militarmente che politicamente (se non addirittura a compiere una vera e propria pulizia etnica della Striscia), è parso evidente che questo conflitto avrebbe avuto pericolose ripercussioni regionali.

Come ho scritto nel mio libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda”,

Se c’è una cosa che i primi cento giorni del tragico conflitto di Gaza hanno dimostrato è che esso non sarebbe rimasto confinato a Gaza.

 

Asse filo-iraniano

Ciò è fondamentalmente dovuto al fatto che Hamas non è un attore isolato, ma fa parte del cosiddetto asse regionale filo-iraniano, che oltre a Teheran include le milizie sciite irachene (e alcuni raggruppamenti politici sciiti a Baghdad), la Siria del presidente Bashar al-Assad, Hezbollah in Libano, e il gruppo degli Houthi nello Yemen.

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jacobin

Il laboratorio Israele

Chiara Cruciati intervista Enzo Traverso

Dialogando con Chiara Cruciati, Enzo Traverso spiega perché la posta in gioco della guerra a Gaza ha una portata che va ben al di là del Medio Oriente

israele palestina traverso jacobin italia 1536x560.jpgQuesta intervista di Chiara Cruciati, vicedirettrice del manifesto, a Enzo Traverso è avvenuta il 16 giugno nell’ambito del festival Contrattacco organizzato da Edizioni Alegre. All’iniziativa, durata due ore, hanno assistito quasi 200 persone. Qui la trascrizione del colloquio, rivista dagli autori.

* * * *

L’8 giugno 2024, un’operazione israeliana per la liberazione di 4 ostaggi ha ucciso 276 palestinesi. Nei giorni successivi sono usciti dettagli sul modo in cui l’operazione è stata compiuta, nel cuore del campo profughi di Nuseirat. Eppure sui media occidentali e nelle dichiarazioni pubbliche dei leader politici si è parlato di «successo». La narrazione dell’offensiva israeliana passa da mesi per la sotto-rappresentazione se non l’occultamento dei crimini di guerra israeliani, eppure stavolta si è raggiunto un nuovo apice: definire una carneficina «un successo». Un massacro ampiamente anticipato dalle leadership europee che all’indomani del 7 ottobre dichiararono il sostegno «incondizionato» a Israele, dando di fatto la benedizione a qualsiasi forma di reazione.

In Gaza davanti alla storia dedichi un capitolo prezioso all’Orientalismo, più forte scrivi dell’eredità dell’Illuminismo. Dare valore diverso a una vita e a una comunità sulla base della presunta superiorità morale e culturale del mondo bianco occidentale è un tratto essenziale dell’Orientalismo. Possiamo leggere dentro a questo però anche una deriva necropolitica e, di rimando, fascista?

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contropiano2

L’imperialismo e il conflitto tra aree valutarie

di Carla Filosa - Francesco Schettino

1200x630c50.jpgImperialismo transnazionale e aree valutarie

La concatenazione transnazionale che ha cambiato la configurazione della lotta interimperialistica, ormai da molto non più rigidamente suddivisa per prevalente appartenenza statuale, appare nella richiesta di un’accresciuta capacità di penetrazione del capitale nel mercato mondiale. Perciò la predeterminazione di aree valutarie di riferimento supera in importanza la mera collocazione storica geografica dell’investimento.

Sarebbe perciò un grave errore ritenere, com’è diffuso costume, che gli elementi monetari e valutari siano soltanto una questione separata dalle strategie industriali produttive.

Da un lato, si pongono in risalto i caratteri di una rincorsa dell’“economia reale”, disperata perché in crisi, nell’attuale nuova divisione internazionale del lavoro – ovverosia, filiere di produzione, dislocazioni, esternalizzazioni, subfornitura a scala mondiale, “corridoi” energetici e altro, “vantaggio competitivo”, centralizzazione e trasformazione degli assetti proprietari internazionali, con rovesciamento del ruolo tra organismi sovrastatuali e stati nazionali, privatizzazioni se reputate efficaci, ecc.

D’altro lato, si evidenziano quelli di un’“economia monetaria” che cerca di procedere alla ridefinizione egemonica delle suddette aree valutarie di riferimento significativo per il mercato mondiale “unificato”.

La tematica delle aree valutarie si pone per individuare nel dettaglio quali elementi di costo siano espressi in dollari, in euro o nelle valute asiatiche, rublo, yuan e yen, e in quale valuta quindi si presentino in divenire anche i prezzi di vendita. Da quanto precede si possono dedurre alcuni argomenti chiave.