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Marxistizzare la dialettica hegeliana: Geymonat, Colletti e Althusser a confronto con Lenin

di Eros Barone

hegel e la dialettica riassunto origNegli anni Settanta del secolo scorso due eventi di notevole importanza nella cultura italiana furono l’approdo di Ludovico Geymonat al materialismo dialettico e il costituirsi attorno al filosofo torinese, il quale da tempo insegnava presso l’Università Statale di Milano, di una scuola che sostenne un nuovo approccio alla filosofia marxista, rilanciando un tema tradizionalmente poco frequentato in Italia. 1 Riflettere sul significato, sul valore e anche sui limiti di questa esperienza culturale è necessario non solo per tornare a dipanare, nell’attuale congiuntura ideologica e teorica, il filo rosso del materialismo dialettico engelsiano e leniniano, ma anche per dimostrare, in primo luogo, che il marxismo ha un nucleo filosofico proprio e indipendente che si sviluppa in relazione alla lotta teorica, quindi in ultima istanza in relazione alla lotta di classe, e, in secondo luogo, che esso è in grado di conservare la sua autonomia nella misura in cui si sviluppa sulle proprie basi. Questa specificità e originalità del modo di concepire e di praticare la filosofia è un tratto saliente del marxismo, che non può venire meno senza che venga meno la sua stessa esistenza come filosofia: da qui nasce la necessità di riprendere in esame la concezione geymonatiana del materialismo dialettico a partire dalla individuazione della centralità di due testi quali Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici che si possono considerare terreni elettivi per saggiare il significato e il valore di quella concezione.

In effetti, il primo di essi, come è ben noto, ha conosciuto nel ‘marxismo occidentale’ una tale ‘sfortuna’ (peraltro simmetrica alla ‘fortuna’ dei Quaderni filosofici) che, già per questo solo motivo, una simile sorte richiederebbe una specifica e approfondita riflessione (per converso, come è altrettanto noto, ha conosciuto la massima auge nel marxismo orientale): comprendere e spiegare quale precisa funzione teorica abbia svolto il suo rifiuto, parziale o totale, significherebbe scrivere un capitolo non secondario della storia del marxismo. Sennonché il problema di fondo, che sottostà all’uno come all’altro caso, è lo stesso: il problema cioè della concezione leniniana della scienza, che si sdoppia nei due distinti problemi del rapporto tra scienza e filosofia, da una parte, e del rapporto tra scienza e politica, dall’altra.

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Antigone e noi

di Salvatore Bravo

antigone sito.jpgLetteratura e filosofia greca 

Vi sono opere eterne, il cui significato polisemico cela la verità della condizione umana che si presta a una molteplicità di letture condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa, pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.

La letteratura greca è fonte di verità come la filosofia, si utilizzano linguaggi differenti ma in esse si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo, essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni. La letteratura e la filosofia greca sono creazioni politiche, in esse sono iscritte le progettualità politiche nelle quali il processo che conduce dal particolare al generale si rende reale e razionale mediante il confronto dialettico. La tragedia è processo di superamento concettuale delle scissioni che conducono a una conflittualità nichilistica e irrazionale.

La letteratura e la filosofia greca, dunque, non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura, tale consapevolezza vi era anche in Marx. La verità eccede la storia pur vivendo in essa. L’eterno si materializza nella storia. Marx è autore di stampo idealistico, egli è un hegeliano in tale prospettiva, poiché l’eterno si svela nella storia. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale il quale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.

Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo, vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:

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contropiano2

Dialettica dell’economia cinese. Per Cheng Enfu i cinesi ricostruiscono il loro percorso

di Giovanni Di Fronzo

Cheng Enfu.jpgIl testo “Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della riforma”, edito in Italia da Marx XXI, è una raccolta di saggi scritti dal professor Cheng Enfu e da alcuni suoi collaboratori nell’arco di molti anni, dall’inizio degli anni ‘90, fino alla fine degli anni ‘10 del 2000. Cheng Enfu fa parte della prestigiosissima Accademia Cinese delle Scienze Sociali, molto ascoltata ai piani alti del Partito Comunista Cinese, ed è membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.

Il Volume, non sempre di facilissima lettura e fruizione, mira a dare una sistematizzazione teorica, basata sul marxismo, all’economia “socialista di mercato” inaugurata dal Partito Comunista Cinese con la politica di “Riforme e Apertura” del 1978, e proseguita successivamente con la “Nuova Era”, a partire dal 2012.

Quando si parla di marxismo, nel caso dei teorici cinesi, bisogna entrare nell’ottica di quella che loro chiamano “concezione olistica del marxismo”, ovvero una visione del corpus teorico marxista in termini di “sviluppo organico”, come si diceva da noi in Occidente, da Marx in poi. In pratica, fra Marx, Engels, Lenin e chi li ha seguiti, compresi i leader cinesi, non vi è distinzione fra coloro che hanno teorizzato il marxismo e coloro che lo hanno applicato, come siamo abituati a pensare in occidente negli ultimi 40 anni: fa parte tutto di un corpus unico in continuo sviluppo.

Così, ad esempio, s’invita a non considerare dogmaticamente le affermazioni di Marx secondo cui nuovi e più avanzati rapporti di produzione non emergono mai finché le condizioni non saranno maturate all’interno della vecchia società, altrimenti non si può concepire l’emergere e l’affermarsi della rivoluzione in Cina, avvenuta in un paese arretrato e che vede tutt’oggi la compresenza di forme di produzione e distribuzione diverse.

Inoltre, in luogo della classica definizione della contraddizione fra la natura privata della proprietà dei mezzi di produzione e la natura sociale dello delle forze produttive, viene data la seguente definizione della contraddizione che attanaglia i paesi a capitalismo maturo:

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fuoricollana

La guerra come atto impolitico

di Luigi Alfieri

Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: questo non porrà termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero, a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita

Alberi spettrali.pngIl nesso forte, sostanziale, tra guerra e politica è uno dei (pochi) punti fermi del pensiero politico contemporaneo. Non esiste o quasi, oggi, filosofo o politologo che non dia per ovvio che la guerra sia un atto politico, se non l’atto politico per eccellenza, uno dei poteri che per antica tradizione definiscono il sovrano, cioè, oggi, lo Stato: lo ius gladii, il diritto di spada. Che non è solo il diritto sovrano di fare la guerra, ma il diritto sovrano di disporre della vita dei sudditi; tanto di mandarli a rischiare la vita in guerra, quanto di condannarli a morte. E ne risulta, anche nelle attuali forme democratiche dello Stato, il correlativo dovere dei cittadini di mettere la propria vita a disposizione dello Stato, o meglio, come più spesso si dice quando è questione di sacrificare la vita, a disposizione della Patria. Come fa anche la nostra Costituzione all’art. 52, parlando, in quest’unico caso, di “sacro dovere”.

Ripercorrere la teorizzazione di questo nesso, tanto dell’essere sovrano quanto dell’essere cittadini, con la guerra sarebbe contemporaneamente facilissimo e impossibile. Facilissimo perché basterebbe un poco di pazienza per accumulare una quantità indefinita di citazioni, a partire dalla Grecia antica, senza affatto escludere il cristianesimo; impossibile perché la sovrabbondanza sarebbe tale da impedire comunque di tracciare un quadro completo. Mi limiterò a tre rapidi sondaggi nel pensiero contemporaneo: ulteriori approfondimenti sarebbero tipici sfondamenti di porte aperte.

 

Hegel, Schmitt. La politica è guerra, la guerra è politica

Comincio da quello che è il massimo teorico dello Stato nel pensiero classico tedesco: Hegel. Nel § 324 dei Lineamenti di filosofia del diritto, citando una sua opera precedente, Hegel sostiene che la guerra è il momento di suprema unificazione etica dello Stato, perché è il momento in cui i diritti individuali dei cittadini, compresi quelli alla vita e alla proprietà, rivelano la propria accidentalità e vengono giustamente sacrificati al superiore bene dello Stato, che è l’universale oggettivo.

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Filosofia della storia

di Salvatore Bravo

71nSDxgVYCL. AC UF10001000 QL80 .jpgSperanza e futuribile

Il nostro tempo storico segnato da tragedie e da conflitti ha smarrito con la speranza la dimensione del “futuribile”. Per cancellare dalla dimensione politica il futuro il capitalismo utilizza una miriade di mezzi e strumenti, uno di questi è la cancellazione della cultura classica. Il deserto avanza con la polverizzazione della tradizione filosofica rea di conservare e trasmettere l’eccellenza della natura umana: il bene da rendere universale mediante la cura e la pratica sociale. Il futuro è possibilità esclusivamente umana ed esso prende forma solo con la definizione della natura umana mediante la quale si sottopone a giudizio onto-assiologico il presente storico. Il tempo è la dimensione del “senso”. La definizione di natura umana si esplica nella storia, pertanto essa non può che configurarsi secondo tonalità politiche. Il tempo presente è informe, perché non conosce la dimensione del bene-verità verso la quale orientarsi. Ciò che è informe non conosce il senso del limite e pertanto predispone al crimine. La tecnica contemporanea con le sue capacità di sorvegliare, condizionare e annichilire i dissenzienti trasforma il crimine relazionale in tragedia collettiva e prassi genocidiaria. Nel clima di normalizzazione legalitaria della violenza rileggere i Greci ci consente di acquisire concetti e strutture con cui valutare il presente per riorientarci verso il futuro.

Il testo di Luca Grecchi La filosofia della storia nella Grecia classica può esserci d’ausilio per emanciparci dalla barbarie del tempo presente e per consolidare la consapevolezza che senza il passato non c’è futuro. Comprendere la Grecia classica nella sua complessità-profondità veritativa ci consente di ricostruire la “dimensione di senso”, di cui siamo stati saccheggiati: il futuro conforme alla natura umana solidale e relazionale. A tal fine è necessario oltrepassare letture sclerotizzate e stereotipate della cultura greca antica secondo la quale la filosofia greca non conobbe che il tempo naturale circolare. La lettura documentata di Luca Grecchi dimostra che tale ermeneutica del tempo non esaurisce la problematizzazione e la teorizzazione greca della storia. Pregiudizi e letture semplicistiche non hanno consentito di cogliere il futuribile nella cultura greca.

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scenari 

Critica e autocritica del progresso

di Alessandro Volpe

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È concepibile una situazione in cui la categoria di progresso perda il suo significato, e che tuttavia non sia la situazione della regressione universale che oggi si allea col progresso. In tal caso il progresso si trasformerebbe nella resistenza all’incessante pericolo della ricaduta. Il progresso è quest’opporre resistenza al pericolo su ogni gradino, non l’abbandonarsi al flusso globale del processo, non il lasciarsi andare in balìa della scalinata.

(Theodor W. Adorno, da Parole chiave. Modelli critici)

1. Critica e progresso

Negli ultimi anni il tema del progresso è tornato all’attenzione del dibattito filosofico, e non sono pochi oggi i contributi teorici a recuperare un’idea forte di progresso che non si limiti a pensarlo in termini di possibilità, ma anche di realtà fattuale. [1] Alcuni di questi contributi si rifanno all’idea di evoluzione morale o di incremento etico-politico in termini di conquiste istituzionali e giuridiche. Una ripresa teorica che si presenta curiosamente in controtendenza rispetto alla generale percezione di una crisi del progresso e di fiducia che sembra investire le società occidentali. Tuttavia, la rivalutazione di un concetto così esigente deve sapersi accompagnare a una consapevolezza delle sue eventuali distorsioni e dei suoi eventuali nodi problematici. Il dibattito che ha di recente animato la teoria critica intorno all’idea di progresso può senza dubbio aiutare ad accrescere tale consapevolezza.

Il punto di vista che la teoria critica può offrire è quello di un’analisi dei rapporti di potere relativi e spesso impliciti ai concetti e alle formazioni di pensiero; un’impresa teorica non meramente decostruttiva poiché interessata anche a illuminarne contenuti di riflessione ed emancipazione.

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Giovanni Gentile: dalla discussione sul marxismo alla “riforma dell’idealismo” e al sostegno del fascismo

di Eros Barone

1715776453 giovanni gentileÈ certo che l’insegnamento più vivo lasciatoci da Gentile in eredità è quello che concerne la dimostrazione dell’impossibilità di rinunciare alla esigenza metafisica e insieme dell’impossibilità di insistere nel vecchio concetto di metafisica.

Ugo Spirito

Ricostruire la biografia intellettuale e politica del filosofo siciliano Giovanni Gentile (nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel 1875) significa fare i conti con una esperienza filosofica che ha caratterizzato profondamente la storia del nostro paese alla fine dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Il pensatore che fornì al fascismo, oltre che una giustificazione storica, un sostegno dottrinale, rappresentando il fascismo come compimento ideale del Risorgimento e concependo lo Stato fascista come uno “Stato etico” espressione dell’Io assoluto e quindi di tutto il popolo, era stato infatti uno dei maggiori protagonisti di quella discussione sulla teoria marxista che fu assai vivace alla fine dell’Ottocento. Prova ne sia che il maggiore esponente del marxismo rivoluzionario, Vladimir Ilic Lenin, arrivò a dichiarare che “La filosofia di Marx”, libro di Giovanni Gentile pubblicato nel 1899, era “una delle migliori opere su Marx che fossero state scritte da una penna non marxista”. L’apprezzamento per questa opera giovanile del filosofo siciliano si trovava nell’articolo “Karl Marx” steso da Lenin nel 1914 e destinato al “Dizionario enciclopedico Granat”: «È degno di attenzione il libro dell’idealista hegeliano Giovanni Gentile, “La filosofia di Marx” (Pisa, 1899); l’autore rileva alcuni aspetti importanti della dialettica materialistica che di solito sfuggono all’attenzione dei kantiani, dei positivisti, ecc.».

D’altro canto, pur avendo avuto il merito di porre il concetto di “prassi” al centro di un’acuta interpretazione del pensiero marxiano, a tale concetto (così come a quello positivistico di “processo evolutivo”) Gentile obiettò che attribuire capacità dinamiche e creative alla materia e alla sensibilità è contraddittorio, poiché solo il pensiero è capace di attività e di mediazione.

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dialetticaefilosofia

Dal rifiuto dell’universalità hegelomarxista alla frantumazione postmoderna delle identità

Sputando troppo su Hegel si finisce prima o poi per sputare anche su Diotima

di Stefano G. Azzarà - Università di Urbino 

dofeihgoPremessa 

In un’intervista rilasciata al giornale liberista-conservatore “Il Foglio”, la filosofa Adriana Cavarero – una delle maggiori teoriche italiane del femminismo della differenza sessuale – ha espresso di recente le sue preoccupazioni per gli sviluppi della «teoria del gender fluid» e per le rivendicazioni politiche maturate in seno alle «avanguardie lgbt»1. In questa composita «galassia», dice, è emersa via via una profonda «polemica» nei confronti del femminile e persino una volontà di censura «verso l’uso della parola donna». Nella «neolingua» che questo movimento va proponendo – con un’arroganza rafforzata dalla sintonia con le dinamiche linguistiche di stampo terroristico del “politicamente corretto” oggi dominante –, sarebbe «vietato dichiarare che i sessi sono due» e sarebbe vietato soprattutto – appunto – «l’uso della parola donna». La quale «non può essere detta né scritta», perché implicherebbe la cancellazione escludente, repressiva e genocidaria (non dissimile da quella operata dalla «destra», dai «conservatori» e dai «neocattolici») della sussistenza di una pluralità indefinita e cangiante di distinti orientamenti «intersex» e delle rispettive autopercezioni di genere, ciascuna con la propria legittimità e i propri diritti (in primo luogo il diritto alla genitorialità, tramite quella pratica che dai fautori viene chiamata “gestazione per altri” mentre dai detrattori è denigrata come “utero in affitto”).

Ecco, perciò, che queste frange «vogliono che non si dica che le donne partoriscono, ma che “le persone con utero” partoriscono», e così via. E si propongono di rompere, mediante i loro divieti morali, la «gabbia teorica» che sarebbe sottesa a quella visione binaria del mondo che si attarda a nominare i “maschi” e le “femmine” e della quale il femmminismo sarebbe appunto complice.

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Epicuro e la sociologia. Conversando con un filosofo su sapere critico e ricerca sociale

Patrizio Paolinelli intervista Massimo Piermarini

2da29cc37e560956b6c1675deed589 XL.jpgCome tante altre discipline anche la sociologia ha contratto numerosi debiti con la filosofia. Debiti inestinguibili e che tali resteranno qualsiasi sia il destino della più giovane tra le scienze sociali. Oggi la sociologia vive più che mai all’ombra del pensiero liberale. Pensiero che attinge da varie fonti: l’illuminismo, l’utilitarismo, l’economia politica classica, la teoria politica, il neopositivismo e persino il materialismo. Per quante e differenziate siano le fonti tutte sostengono la visione del mondo propria delle classi dominanti dal XIX secolo a oggi.

La vittoria sul piano della prassi basta e avanza per costituire un’egemonia culturale che da tempo ha interessato, e spesso inquinato, tutte le istituzioni, comprese la scuola, l’università, il sistema dell’informazione, l’ordinamento giuridico. L’egemonia raggiunta ha un protagonista preciso: il neoliberismo. Come è noto si tratta di una teoria a tutto campo (economico, politico, filosofico, antropologico) a sostegno di un tipo di capitalismo refrattario a ogni compromesso con le classi subalterne e incline a imporre il proprio comando su ogni aspetto della vita sociale. Anzi, per effetto dell’accelerazione tecnologica, della vita in quanto tale. La visione del mondo imposta dal neoliberismo tramite le più avanzate macchine del sapere, dell’editoria e della comunicazione si coniuga col ritorno in Europa del primitivismo tipico dell’homo homini lupus. Ossia con l’importazione nel Vecchio continente dello stile di vita statunitense fondato sulla competizione, la misurazione della performance, l’interesse personale, la legge del profitto. Modello che compensa lo spaventoso impoverimento spirituale, psicologico e umano diffondendo valori materialistici legati alla ricchezza economica e al consumismo.

Dunque, sì, anche il capitalismo è materialista. Ma di un materialismo negativo che poco ha a che fare con quello dell’antichità classica e ancor meno con quello teorizzato da Marx. Va detto però che da entrambi ha appreso qualcosa; ovviamente pervertendo questo qualcosa.

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quadernidaltritempi

La scienza di von Neumann, o di come capiremo il mondo

Pioniere dell’IA, John von Neumann provò a superare l’impasse della scienza del suo tempo

di Roberto Paura 

Ananyo Bhattacharya: L’uomo venuto dal futuro. La vita visionaria di John von Neumann, Traduzione di Luigi Civalleri, Adelphi, Milano, 2024, pp. 447, € 30,00

Benjamin Labatut: Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Traduzione di Lisa Topi, Adelphi, Milano, 2024, pp. 180, € 12,00

jolly q b n 02.jpgQuando Roberto Calasso, dominus della casa editrice Adelphi, morì, il matematico e polemista Piergiorgio Odifreddi pubblicò una violentissima invettiva alla sua memoria su La Stampa dal titolo Cacciari, Calasso e gli antiscienza. A Calasso Odifreddi rinfacciava innanzitutto la scelta di pubblicare l’opera omnia di Friedrich Nietzsche, il filosofo del “Non ci sono fatti, solo interpretazioni” che il matematico considera un sottile veleno che ha intossicato le menti di generazioni, spingendole verso atteggiamenti antiscientifici. Da lì, poi, proseguiva stigmatizzando le scelte editoriali di Calasso, “che ‘infiniti addusse danni’ alla cultura italiana”, per la sua scelta di “opere scientifiche borderline”, come Il Tao della fisica di Fritjof Capra, Il principio antropico di John Barrow e Frank Tipler, La matematica e degli dèi di Paolo Zellini, Psiche e natura di Wolgang Pauli, accostati a “ciarlatani come René Guénon o Elémire Zolla” (Odifreddi, 2021). Con ciò ignorando o, meglio, fingendo di ignorare altre opere di scienza uscite per Adelphi, tra cui i testi di premi Nobel come Richard Feynman, Leonard Susskind, James Watson, Konrad Lorenz, insieme a giganti come Oliver Sacks, David Quammen, Luigi Cavalli-Sforza, John Bell, Carlo Rovelli, Martin Rees, Edward O. Wilson, Sean Carroll, Douglas Hofstadter, Rudy Rucker. Certo però l’invettiva colpiva nel segno, perché l’impronta dell’editore (come si intitola un libro dello stesso Calasso) non è mai stata più forte nel mondo editoriale italiano che in Adelphi, in cui ogni titolo non è mai una scelta casuale. Anche oggi che Calasso non è più tra noi, se ne può scorgere l’impronta nella recente pubblicazione di due titoli su un personaggio che meritava una riscoperta proprio negli anni in cui viviamo: John von Neumann. Di lui si è occupato Benjamin Labatut in Maniac (testo che abbiamo già analizzato in precedenza su Quaderni d’Altri Tempi) e, più prosaicamente e con un taglio più strettamente biografico, il giornalista e scrittore di scienza Ananyo Bhattacharya in L’uomo venuto dal futuro.

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coku

Breve storia (teologica) del lavoro

di Leo Essen

japan 1220x600.jpgI

Il tempo, per i cristiani come per gli ebrei, ha un fine, un telos. L’avvenire – la fine – dà un senso a tutta la storia. Per i cristiani questa fine (della storia) è già cominciata. L’avvento di Cristo rappresenta una certezza, la certezza che la fine è già cominciata. Ma deve essere compiuta con il concorso della Chiesa. Il dovere missionario della Chiesa, la predicazione del Vangelo, dà al tempo compreso tra la resurrezione e la parusia il suo significato nella storia della salvezza. Cristo ha apportato la certezza dell’avvento della salvezza, ma resta compito della storia collettiva e della storia individuale compierla. Di qui il fatto, dice Le Goff (Nel medioevo: tempo della Chiesa e tempo del mercante, 1960), che il cristiano deve rinunciare al mondo, che è soltanto la sua dimora transitoria, e in pari tempo optare per esso, accettarlo e trasformarlo perché è il cantiere della storia presente della salvezza.

È l’esperienza del mondo come redenzione, come ritorno all’unità con Dio, via verso la pienezza, via della verità – Hegel. È l’esperienza del mondo come dislocazione o delocalizzazione, cacciata dal paradiso, scissione, differenza. Il corpo che diventa lo scrigno o l’arca di questo fine, di questo ritorno, di questo recupero di una condizione perduta, passata e che ci attende nel futuro, quando il percorso sarà compiuto e il corpo abbandonato, non prima di avere recuperato dall’esperienza il senso e la direzione della salvazione, il biglietto di ingresso.

 

II

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Il tramonto dell’Occidente”in quale parte della notte abitiamo?

di Eros Barone

tramonto occ okVi sono sette parti della notte: il vespro, il crepuscolo, il conticinio, l’intempesto, il gallicinio, il mattutino e il dilucolo.

Isidoro di Siviglia, Etimologie.

Nel 1918 e nel 1922 apparvero i due tomi del Tramonto dell’Occidente, opera principale non meno che monumentale (si tratta infatti di un testo di oltre 1500 pagine) del filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936): uno studioso che, muovendo da posizioni conservatrici, sarà un critico severo della repubblica di Weimar (1918-1933) e giudicherà positivamente, almeno all’inizio, salvo poi prenderne le distanze, il nazionalsocialismo. Tuttavia, poche opere hanno ottenuto un successo di pubblico paragonabile a quello che arrise a questo libro e poche opere hanno fissato in modo durevole i fondamenti di quella “critica della notte” cui, da allora fino a oggi, deve il suo enorme successo di pubblico, perlomeno fra le persone colte, questa opera geniale.

 

1. Dalla storia alla natura: ‘Kultur’ e ‘Zivilisation’ 

Nel Tramonto dell’Occidente Spengler si propone di scoprire la forma che ogni civiltà incarna nel suo svolgersi, laddove proprio il termine di civiltà è quello con cui in italiano conviene tradurre il pregnante vocabolo tedesco ‘Kultur’. Ed è in tal senso che l’autore parla di una morfologia della storia universale. Alla logica delle scienze naturali, che egli definisce meccanica, Spengler contrappone allora una logica organica che coglie il complesso delle manifestazioni di una ‘Kultur’ come un organismo biologico. Il mondo “come natura”, che risponde alla logica meccanica delle scienze naturali, è per tali scienze un insieme di fenomeni sparsi nello spazio e legati fra loro da nessi causali: è ciò che Spengler chiama sistematica.

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carmilla

La resurrezione dell’utopia

di Luca Baiada

Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 128, € 12

resurrezione 696x302.jpgDiciamo subito. Chi con questo titolo si aspetta dimostrazioni o confutazioni su Dio, resta deluso, e chi cerca la mappa perduta dell’utopia, prima si metta gli occhiali giusti. Sulla religione:

Non è sostituibile – è la tesi di questo piccolo libro – se non con una prospettiva utopico-politica che si ponga in concorrenza, e al tempo stesso al fianco, delle religioni storiche, scontando però, rispetto a queste, una debolezza intrinseca, che consiste nel proporre una rottura con quel retroterra tradizionale propriamente culturale a cui esse, invece, restano saldamente ancorate.

Piccolo libro? Forse nel numero delle pagine. Di certo il peso delle questioni comprime i temi alla densità di un buco nero, che inghiotte la luce e si rende imperscrutabile. Scelta abile, anche se, malgrado l’autore sia filosofo, tutto il discorso cede linearità in favore di un’irresistibile suggestione. Che lo faccia apposta? In fondo, a proposito del lavoro culturale, anni fa ha scritto: «Mai arrendersi completamente. Fuggire sempre – anche dal proprio fallimento»[1].

Qualche punto debole. «La credenza di tipo religioso, la fede, ha in sé l’altra fede come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo». Sì, ma siamo sicuri che l’utopia eviti l’aggressività? La conquista del West, per esempio, col mito della frontiera, dava ai pionieri un’aura di progresso intrisa di utopia, oltre che di messianismo protestante. Ma non era identitaria e aggressiva?

Ancora. «Il riconoscimento della pluralità delle religioni, e della loro crescente importanza culturale, ha messo in stato d’impasse la tendenza liberale a far convivere ragione e religione, che meglio poteva esprimersi quando la società mondiale pareva avviata al trionfo dell’Aufklärung e all’affermazione del solo cristianesimo»[2].

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doppiozero

Che cosa significa essere umani?

di Marco Rovelli

Vittorio Gallese e Ugo Morelli: Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, 2024

anche questa è stock per cervello e cose simili non sapevo dove recuperare immagini carine .jpgChe cosa significa essere umani? Partiamo da qui, da questa domanda capitale, perché quel punto interrogativo non è retorico, ma fondativo. Il libro pone molte domande, e a nessuna pretende di rispondere in maniera conclusiva: nella densità del testo a ogni pagina, a ogni questione, si dipartono altre vie, altre domande. Essere umani, del resto, è una domanda aperta: l'ente che chiamiamo umano, infatti, consiste in una radicale dimensione di apertura al mondo. E a farlo consistere in quanto umano, c'è proprio il fatto di essere un produttore di significati: l'umano è l'animale che si chiede “che cosa significa essere umani?”.

Vittorio Gallese, neuroscienziato che negli anni novanta fu parte del team che scoprì i neuroni specchio, e Ugo Morelli, psicologo e studioso di scienze cognitive, hanno scritto a quattro mani questo testo che suona come il precipitato di un comune itinerario di conoscenza e riflessione, nella distinzione delle rispettive competenze e attività, e si pongono la domanda sull'umano incrociando differenti saperi nell'ottica della complessità, con una scrittura a un tempo rigorosa e divulgativa: insomma, mettono a disposizione di un ampio pubblico di lettori il modo in cui i saperi neuroscientifici, psicologici e filosofici cercano di far luce sulla “natura umana” in una prospettiva evolutiva.

Spesso, nel senso comune, le neuroscienze appaiono come la frontiera del riduzionismo: scopriamo i meccanismi del cervello, si pensa, e scopriremo le fondamenta dell'umano, che a quei meccanismi neurali possono tutti quanti essere ricondotti – come molti auspicavano sarebbe stato per il DSM-5 del 2015 – l'ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali –, ovvero realizzare una mappatura dei cosiddetti disturbi mentali in relazione al loro fondamento neurobiologico – tentativo fallimentare, ma che testimonia di una tendenza persistente e centrale della nostra cultura e della nostra contemporaneità.

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Note su “Categorie della politica” di Vincenzo Costa

di Linda Dalmonte

Mario Sironi Periferia 1922 e1714738198588Della scomparsa della diade destra/sinistra si può parlare in diversi modi, e con scopi più o meno espliciti. Nel dibattito degli anni Ottanta, segnato dalla fine del comunismo nella storia mondiale e dal trionfo della democrazia liberale, la critica alla distinzione destra/sinistra poteva maturare in seno all’orizzonte della perdita di alternative reali, di fronte alla quale si aveva buon gioco nel dichiarare la fine delle ideologie minimizzando le differenze politiche, tanto più se all’alba di quel nuovo Manifest destiny verso un mondo unico e omogeneo, presuntivamente pacificato secondo le categorie del mercato. In questa contingenza, destra/sinistra si sarebbero ridotte a semplici varianti del neoliberalismo: due alternative vuote, artificiosamente reimpostate di fronte al fatto della globalizzazione, e di cui – perfino dal versante socialista – si sarebbe potuta ribadire una «natura inservibile»[1] di contro a Bobbio e al criterio – resosi presto pilastro teorico – dell’eguaglianza come valore discriminante. E non solo perché, a conti fatti, «esse applicano le stesse ricette economiche e sociali»[2], in linea cioè con la prosecuzione del modo di produzione capitalistico e dell’equilibrio di mercato; ma, più radicalmente, per la loro strumentalità al nuovo spazio economico: c’è il sospetto di una nuova tassonomia fatta ad arte per riorganizzare la politica in maniera innocua, così da respingere come “radicali” ed “estremiste” le alternative reali, escluse dal bipolarismo costruito. Tanto da suscitare una tesi, scriveva Costanzo Preve, «molto più folle e scandalosa, quella della profonda affinità di fondo tra cultura di sinistra e il “fatto della globalizzazione”»[3]. Oppure, questa la tesi di Vincenzo Costa, da far pensare a una ricaduta oligarchica, a «una regressione a un’organizzazione concettuale ottocentesca e all’articolazione politica che precedette l’introduzione del suffragio universale e la conseguente affermazione dei partiti popolari di massa» (p. 12).