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doppiozero

Agamben. Tutto è reale

di Gianluca Solla

51w6UMXcwYLNon credo di essere il solo ad aver sempre amato nei libri di Giorgio Agamben la finezza con cui gli argomenti vengono prima posti e poi svolti, mediante riferimenti spesso sorprendenti. Da Walter Benjamin, di cui è stato curatore in Italia, Agamben pare aver appreso al meglio l’arte di coltivare percorsi all’apparenza marginali, ma che finiscono per andare al cuore delle questioni. Non sorprende, in un certo senso, che un lavoro teorico di tale finezza abbia spesso scontato un’accoglienza fredda, nonostante la sua ottima collocazione editoriale. Questa non-accoglienza, modesta quanto i suoi detrattori, ha significato dover passare dalla ricezione all’estero prima di ricevere attenzione nelle discussioni nella lingua in cui quei lavori erano originariamente scritti.

Un’altra caratteristica speciale dei suoi libri – penso in particolare al ciclo di Homo sacer – è sempre stata l’idea di costruire delle parti che si trovano a occupare una posizione eccentrica, ma strategica, rispetto al resto del libro. A queste sezioni, redatte in uno stile differente, viene solitamente affidata una funzione difficile da definire, ma essenziale rispetto all’argomento trattano. Accade così per i passi del progetto Homo sacer indicati da un alef (ℵ), che costituiscono come delle aperture improvvise di prospettiva rispetto a quanto il discorso andava sviluppando. O si pensi al Prologo iniziale di L’uso dei corpi (Homo sacer IV/2), dedicato alla figura di Guy Debord e alla sua vita, in un certo senso eterogeneo e, al tempo stesso, perfettamente calibrato rispetto alle finalità della ricerca (poi Debord non tornerà più all’interno di tutto il testo, se non en passant un’unica volta).

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acropolis

Paura 1/3. Filosofia e politica della paura

di Aldo Meccariello

immagine per la quarta di paura“La paura è il dolore provocato dalla rappresentazione di un male imminente” (Aristotele)

1. Prologo

«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato. Parlerò sia pure brevemente del presente, e perfino un poco del futuro. Ma ci arriverò partendo da lontano».[1]

Guardare di sbieco il presente o guardarlo a distanza è forse questa la chiave che prendiamo a prestito dallo storico C. Ginzburg per leggere questo nostro tempo pandemico, difficile, inatteso, segnato dalla tirannide occulta e silenziosa del Covid-19. Se c’è un sentire diffuso oggi, questi è la paura, il male oscuro, insidioso da cui tutti vorremo stare lontani, l’emozione arcaica che spinge l’essere umano ad agire d’istinto dinanzi a una situazione di pericolo per badare alla sua sopravvivenza.

Per l’umanità stanno aumentando i rischi di catastrofe: prima le guerre di ieri e di oggi, poi il devastante inquinamento ambientale, ora le pandemie. Dinanzi a questi rischi e ai connaturati danni irreversibili, regna la paura. Il Covid-19 ha provocato la più grave crisi economica, politica, sociale e sanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La percezione è che l’umanità sia ri-precipitata davvero in tempi bui.[2]

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operaviva

Dialettica dell’irrazionalismo

Lukács tra nazismo e stalinismo

di Enzo Traverso

Il saggio «Dialettica dell’irrazionalismo» di Enzo Traverso (ombre corte, 2022), appena arrivato in libreria, è uscito l’anno scorso in inglese come introduzione alla nuova edizione di «The Destruction of Reason» di György Lukács, per la Verso. La traduzione è stata curata da Gigi Roggero, rivista e aggiornata dall’autore. In occasione della sua pubblicazione per ombre corte pubblichiamo qui l’Introduzione. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Andy Warhol Hammer and Sickle 696x518Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács?

Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” – come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger – ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compie- re nelle pagine che seguono.

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acropolis

Pòlemos, padre di tutte le cose, 2/5. Lukács e Bloch nella grande guerra

di Antonino Infranca

doc 20220516 27175688 e1653035378457La Prima Guerra Mondiale divise fisicamente Bloch e Lukács in forma definitiva, non torneranno ad incontrarsi mai più. Essi avevano dato vita a una vera e propria simbiosi intellettuale, alla maniera di Schelling e Hegel o Croce e Gentile. Da questa distanza fisica, poi comincerà anche una distanza ideologica, fino al momento del confronto critico nel 1935, venti anni dopo. Torneranno a scriversi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale.

Come è noto entrambi furono profondamente avversi alla guerra, al punto che Bloch per evitare la chiamata alle armi si rifugiò in Svizzera e vi rimase per tutta la durata della guerra. Le motivazioni che spinsero Bloch all’esilio sono nel suo pacifismo. Lukács, invece, aveva motivazioni di ordine più strettamente politico:

A proposito della guerra non posso proprio dire altro che io fin dal primo istante fui contro. La mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin li, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici[1].

Lukács rifiuta la guerra ma non sa cosa proporre in sostituzione delle sue conseguenze, perché egli intuisce che questa è una nuova forma di guerra, è una guerra universale, che avrà conseguenze universali. Si ritrova in quella che Hegel chiamò la “mera negatività”. Gli era chiaro che la guerra era una forma di dipendenza della monarchia asburgica e con essa della società civile ungherese rispetto al Reich tedesco e alle sue mire di espansionismo imperiale in Europa.

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consecutiorerum

Il Nome del Padre: da primo(-rdiale) finisce coll’arrivare sempre per ultimo

di Roberto Finelli

Finelli 768x5761. Leggenda o inizio reale della storia?

Rileggere Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il testo di cui si celebra quest’anno il centenario, insieme agli altri tre grandi saggi freudiani di psicologia sociale, quali Totem e Tabù (1912-13), Il disagio della civiltà (1929), L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), non può non significare rilevare il motivo di fondo del “nome del padre” che li attraversa tutti e in qualche modo li unifica. E sollecitarci alla domanda se la continuità della costellazione edipica, come motivo dominante della teoria della cultura e della società, non rischi di compromettere la teoria psicoanalitica di Freud, nel suo transito dalla psicologia individuale alla psicologia collettiva, curvandola da psicologia scientifica della storia in una filosofia della storia, gravata da troppo facili e semplicistiche presupposizioni, otrechè dal loro troppo lineare e persistente operare.

A tutti è ben noto quale accadimento reale Freud abbia posto in Totem e Tabù a fondamento della storia umana e del passaggio da natura a cultura. La condizione primordiale della vita associata, ancora in una condizione di natura, sarebbe stata quella di un’orda primordiale in cui un maschio padre, prepotente e geloso, aveva il monopolio di tutte le femmine, escludendo dal loro possesso, tutti i figli maschi. Con la conseguenza che, come scrive Freud in quel testo: «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. […] Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’’obbedienza posteriore’, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili»1.

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consecutiorerum

Il centenario di Psicologia delle masse e analisi dell’Io

Psicoanalisi della storia o scienza della storia?

di Roberto Finelli & Luca Micaloni

Introduzione a Consecutio rerum n. 11, anno VI (1/2021-2022), Il centenario di Psicologia delle masse e analisi dell’Io a cura di Roberto Finelli e Luca Micaloni

Copertinanjug1. Lo scorso anno è caduto il centesimo anniversario di Massenpsycholo- gie und Ich-Analyse, il testo pubblicato da Freud nel 1921 sulla psicologia collettiva e la cui composizione s’intreccia profondamente con la stesura di Al di del principio di piacere, apparso qualche mese prima nel 1920. La nostra rivista dedica il suo numero 11, nella sezione monografica, al tema di questa ricorrenza, avendovi visto una occasione da non perdere per tornare a riflettere sulla questione del rapporto tra psicoanalisi e storia e su quella, ad essa intrinseca, della relazione tra psicologia individuale e psicologia collettiva, o psicologia sociale.

Psicologia delle masse e analisi dell’Io è componente fondamentale di quel quadrilatero con il quale Freud ha inteso stringere e definire una teoria psicoanalitica della storia e che accomunava, oltre al saggio del ’21, Totem e tabù, Il disagio della civiltà e Mosè e il monoteismo: opere dotate ognuna di una peculiarità di oggetto e di ambito di studio, ma tutte e quattro riconducibili a un impianto concettualmente unitario di fondazione e di spiegazione della storia umana, che facilmente si riassume nella centralità, per usare la celebrata espressione di J. Lacan, del “Nome del padre”.

La proposta freudiana d’interpretazione del formarsi di masse in cui predominano l’affettività e uno psichismo inconscio è, com’è ben noto, fondata sulla centralità di un legame libidico che lega un gruppo umano, regredito a una dimensione fusionale e priva di libertà del singolo, al padre/ padrone/capo. Nella massa, inoltre, ogni individuo appare libidicamente legato, da un lato, al capo attraverso identificazione/introiezione e, dall’altro, a tutti gli altri individui che esperiscono il medesimo innamoramento e formano con lo stesso contenuto oggettuale l’Ideale dell’Io.

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scenari

Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano

di Ludovico Cantisani

carl schmittIl giurista tedesco Carl Schmitt rappresenta una delle pietre angolari del pensiero del Novecento. Non solo e non tanto perché sulle sue tesi, e soprattutto sulla sua nozione di “stato d’eccezione”, sono stati pubblicati innumerevoli libri, saggi e riflessioni, l’ultimo, di poche settimane fa, Che cos’è lo stato di eccezione? secondo Mariano Croce e Andrea Salvatore (Nottetempo, 2022). Schmitt è una pietra angolare anche e soprattutto in virtù della sua non sopita capacità di fare scandalo, uno scandalo che solo in parte si giustifica con la sua momentanea adesione e partecipazione ai primi anni del potere hitleriano in Germania. Ma sfogliare le sue pagine tuttora dona un brivido inesplicabilmente panico, come se in opere di filosofia del diritto in parte datate sia rimasto oscuramente celato qualcosa di grandioso, come un segreto antichissimo che si sporge alla luce.

Giudicata “ai limiti dell’escatologico”, e dello gnostico, da Franco Volpi, ogni pagina di Schmitt è prima di ogni altra cosa una grande lezione di eleganza di pensiero, e di stile. La prosa di Schmitt è segretamente ossessiva, come tutte le grandi prose, quando non lo sono apertamente. Senza dubbio, si tratta di un inseguimento: di riga in riga, di pagina in pagina, Schmitt insegue come un cacciatore sacro le “parole originarie” – il conio è suo – su cui intessere una griglia di interpretazione del politico, e del giuridico. Nihil aliud. Ogni fondazione parte dal tracciare una linea di confine, lo sa fin troppo bene Remo. Ecco allora i confini di Schmitt.

“Un intrigante amalgama di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo”, venne definito da Franco Volpi il fortunato saggio di Schmitt Terra e mare, in un’elencazione che potrebbe facilmente essere estesa all’intero corpus schmittiano, e a ogni discorso potenziale sulla sua prosa.

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machina

Guerra, capitalismo, ecologia

Sui limiti di comprensione della filosofia ecologista

di Maurizio Lazzarato

0e99dc f074be12bf2448abb3f0af3b85b342b4mv2Pubblichiamo il primo di tre interventi programmati a opera di Maurizio Lazzarato sui temi della guerra in corso sulla soglia dell’Europa. Lazzarato, che ha già pubblicato lo scorso 7 marzo un testo a riguardo nella sezione «mundi» di Machina (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-in-ucraina-l-occidente-e-noi), è autore del recente libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze, ombre corte. Nel 2019 DeriveApprodi ha pubblicato il suo Il capitalismo odia tutti. Fascismo e rivoluzione.

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Di fronte alla guerra scoppiata in Ucraina, il filosofo ecologista Bruno Latour, è smarrito, sopraffatto dagli eventi: «Non so come tenere insieme le due tragedie», l’Ucraina e la tragedia del riscaldamento globale. L’unica cosa che afferma è che l’interesse per l’una non deve prevalere sull’interesse per l’altra.

Non riesce a cogliere la loro relazione, eppure sono strettamente legate perché hanno la stessa origine. Latour, per capirci qualcosa, dovrebbe prima ammettere l’esistenza del capitalismo, che è il quadro nel quale le due guerre emergono e si sviluppano.

La guerra tra Stati e le guerre di classe, di razza e di sesso hanno da sempre accompagnato lo sviluppo del capitale perché, dai tempi dell’accumulazione primitiva, sono le condizioni della sua esistenza. La formazione delle classi (degli operai, dei colonizzati, delle donne) implica una violenza extra-economica che fonda il dominio e una violenza che lo conserva, stabilizzando e riproducendo i rapporti tra vincitori e i vinti. Non c’è capitale senza guerre di classe, di razza e di sesso e senza Stato che ha la forza e i mezzi per condurle! La guerra e le guerre non sono delle realtà esterne, ma costitutive del rapporto di capitale, anche se da molto tempo sembra che ce ne siamo dimenticati. Nel capitalismo le guerre non scoppiano perché ci sono gli autocrati brutti e cattivi contro i democratici belli e buoni.

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scenari

La risata del filosofo. Foucault contro Marcuse, uno scontro sotterraneo

di Ludovico Cantisani

Marcuse vs Foucault 1160x480Herbert Marcuse, Michel Foucault: tanto vicini, quanto distanti, vicini per tematiche e risonanza culturale, distanti per metodo, impostazione, direzione.

Quello tra Marcuse e Foucault è un confronto tra metodi diversi, che si consuma anche attraverso differenti lessici. Civiltà vs. società: è tra queste due prospettive che, in partenza, si consuma il loro “scontro” e si misura la reciproca distanza. L’ideale, che diventa anche imperativo utopico, è il modo di procedere per Marcuse, di cui non si contano i richiami quasi platonici a concetti come Eros, Thanatos e a un mito freudiano quale era il principio di piacere. La messa in chiaro di strutture, di luoghi fisici che sono anche dispositivi sociali come la prigione o il manicomio è invece il metodo entro cui si esplica il procedimento a un tempo storico e filosofico adottato da Foucault, impegnato a definire le ambivalenze del rapporto tra sapere e potere.

“Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto, ha la possibilità reale di fare tutto; là dove invece è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa”

Pier Paolo Pasolini, 1975

Il più sessantottino dei libri di Marcuse è Eros e Civiltà, un’esplicita reprise in chiave utopica e rivoluzionaria del Freud del Disagio della civiltà. Eros e Civiltà esce nel 1955, ma solo negli anni Sessanta raggiunge il grande pubblico. Il libro seppe infatti conquistare le schiere di hippies e manifestanti che affollavano le università americane al tempo della Contestazione e delle proteste contro la Guerra nel Vietnam.

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machina

Movimento e tempo in Aristotele (III parte)

La critica di Aristotele alla reificazione del tempo

di Franco Piperno

0e99dc f78e5f83193448c988a8b1f54204cce0mv2Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico (Qui prima e seconda parte).

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1. L’«ora» come istante indivisibile e l’«ora» come presente

Il resoconto aristotelico del tempo come «numero del mutamento» non include la relazione temporale di simultaneità. D’altro canto un modo per venire al significato di «istante indivisibile» è tramite il concetto e l’annessa definizione di simultaneità; inversamente, data la nozione d’«istante», il «simultaneo» è ciò che accade allo stesso istante.

Anche in questo caso, soccorre l’analogia tra il punto e il segmento di retta – il punto geometrico, in se stesso indivisibile, di lunghezza nulla, non è un elemento ma piuttosto il limite del segmento; analogamente si possono individuare i concetti temporali corrispondenti. Tuttavia sarà bene avvertire che l’analogia va agita con prudenza; infatti, mentre la lunghezza di un segmento si presenta tutta intera alla volta, simultaneamente, l’intervallo temporale comporta che il suo inizio e la sua fine non siano simultaneamente presenti.

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machina

Movimento e tempo in Aristotele

di Franco Piperno

Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico

0e99dc 46f806eaeccc43b2947eef0c73f291b7mv2Premessa

Il tempo, l’idea del tempo, è spesso la qualità fondatrice di una concezione comune del mondo. Il tempo, il tempo comune, il tempo pubblicamente misurabile ordina le azioni sociali secondo il «prima» ed il «dopo». Il tempo rende, così, intelligibile il movimento. Ma, come ogni concetto fondatore, il tempo, spesso, diviene cosa; e ci appare come realmente esistente. Anzi ci appare talvolta, paradossalmente, più reale che le cose. Le idee comuni, le idee costitutive del senso comune, trovano la loro sostanza nell’accordo sociale; questo significa che un concetto fondante del senso comune è reale solo perché è condiviso da una moltitudine di individui. Un’idea totalitaria, poi, cioè un’idea unanimemente accettata, fa nido nello spirito dell’individuo, diviene così un concetto irriflesso, quasi un istinto – in modo che l’idea appaia meno come un mezzo di dare ordine al mondo che un frammento del mondo, il più vero forse.

Il tempo come la causa, il numero o la libertà, è un’idea, anche se si tratta di un’idea-paradigma. Ma un’idea di questa natura appare all’individuo come cosa del mondo malgrado si tratti di un simbolo per ordinare le cose del mondo. E come le cose del mondo si sottrae alla riflessione critica e all’interrogazione: perché quel che esiste è ovviamente considerato ragionevole. Infatti i paradigmi concettuali non si aprono alla critica che durante le crisi sociali. Una crisi sociale è prima di tutto una crisi della comune concezione del tempo.

La temporalità, cioè il modo d’apprendere il cambiamento, è un’esperienza necessariamente collettiva, essa caratterizza non solamente una società ma perfino una comunità.

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machina

Filosofia e politica

Marco Mazzeo intervista Paolo Virno

0e99dc 54be262549b7412fbb1e58ef777d444bmv2Dal tuo primo libro, Convenzione e materialismo, che risale al 1986 (riedito poi da DeriveApprodi nella nuova edizione del 2011), e anche dai tuoi primi scritti più politici negli anni Settanta, fino a quest’ultimi libri, Dell’impotenza (Bollati Boringhieri 2021) e ora Negli anni del nostro scontento (pubblicato in questi giorni da DeriveApprodi) è stata percorsa una lunga strada. Potresti ricordarne le tappe principali? (cosa che equivale a raccontare la storia della tua vita in un modo o nell’altro).

Ho cominciato a occuparmi sistematicamente di filosofia in seguito a una sconfitta politica. Parlo della sconfitta dei movimenti rivoluzionari che gremirono la sfera pubblica in Occidente tra la morte di John Kennedy e quella di John Lennon, dunque dall’inizio degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo. Quei movimenti, che provarono orrore per il socialismo reale e si augurarono fin dal principio lo scioglimento del Pcus, avevano utilizzato Marx al di fuori e contro la tradizione marxista, mettendolo in contatto diretto con le lotte di fabbrica e la vita quotidiana delle società pienamente sviluppate. Un Marx letto insieme a Nietzsche e a Heidegger, posto a confronto con Weber e Keynes. Tuttavia, nel momento della sconfitta, quando l’intero panorama sociale fu sconvolto dall’iniziativa capitalistica, ci sembrò naturale saggiare i limiti, e mettere a nudo le omissioni, di questo nostro Marx. Ecco, per me il vagabondaggio filosofico è iniziato chiedendomi: quale teoria della conoscenza, quale etica, quale filosofia del linguaggio si possono desumere da Marx, senza che però egli le abbia mai sviluppate?

Il mio primo libro, Convenzione e materialismo, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio.

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losguardo

Logiche Relazioni

Lucia Olivieri e Osvaldo Ottaviani dialogano con Massimo Mugnai

DiderotMassimo Mugnai è professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha insegnato Filosofia e Storia della logica dal 2002, dopo aver insegnato nelle Università di Bari e Firenze. Nella sua lunga attività di ricerca si è occupato di storia della logica, del rapporto tra logica e metafisica e della filosofia di Leibniz, del quale è considerato uno dei massimi esperti a livello internazionale. Tra i suoi lavori sull’argomento, ricordiamo i volumi: Leibniz e la logica simbolica (1973), Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz (1976), Leibnizs Theory of Relations (1992), Introduzione alla filosofia di Leibniz (2001). Insieme a Enrico Pasini, ha curato e tradotto la più ampia silloge di scritti leibniziani attualmente disponibile in italiano (Scritti filosofici, 3 voll., 2003). È membro della “Leibniz Gesellschaft” di Hannover e fa parte del comitato scientifico di Studia Leibnitiana e The Leibniz Review. Tra le sue pubblicazioni più recenti, vanno menzionati i volumi Possibile/Necessario (2013), Il mondo capovolto. Il metodo scientifico nel “Capitale” di Marx (2021), e la curatela dei testi leibniziani: Dissertation on Combinatorial Art (2020, con Han van Ruler e Martin Wilson) e General Inquiries on the Analysis of Notions and Truths (2021). Per una discussione recente dei lavori leibniziani di Mugnai si rimanda anche all’articolo di Richard T. W. Arthur, Massimo Mugnai and the Study of Leibniz («The Leibniz Review», 23, 2013).

* ** *

In un contributo di qualche anno fa1 hai parlato di Leibniz come di un “logico del Novecento”. È soltanto un modo paradossale di dire che la riscoperta della logica lei- bniziana data dai lavori di Louis Couturat ai primi del Novecento o c’è qualcosa di più, nel senso che nei suoi scritti di logica Leibniz ha effettivamente anticipato temi e soluzioni della logica moderna (da Boole a Gödel)?

“Logico del Novecento” è una caratterizzazione che intende cogliere entrambi gli aspetti che avete menzionato. È un dato di fatto che soltanto col libro di Couturat (La logique de Leibniz, 1901) e con la pubblicazione degli Opuscules et fragments inédits (1903), sempre a cura di Couturat, è sorto l’interesse per la logica di Leibniz.

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archeologiafil

Valore-lavoro e il lavoro come valore

di Temps Critiques

Il saggio Sur la valeur-travail et le travail comme valeur è stato originariamente pubblicato su Temps critiques, 15 Novembre 2021 ed è consultabile su Sur la valeur-travail et le travail comme valeur. Successivamente è stato ripubblicato su Lundimatin #313 e in versione inglese in Ill Will, 29 Dicembre 2021, consultabile su Labor Value and Labor as Value. Di seguito la traduzione a cura di J. Cantalini.

6872c3893ac5058b505224cac9dd8089 XL«Questo sono io» Il discorso performativo del Potere

Con i suoi attacchi contro assistenzialismo e reddito garantito, il discorso pronunciato da Macron il 9 novembre 2021 sul valore-lavoro (o sul lavoro “come valore”) è stato, in prima battuta, poco più di un revival di ciò che Jospin[1] aveva già detto nel 1998 durante il mouvement des chômeurs (movimento dei disoccupati), conclusosi nel 2001 con la creazione di un bonus assunzioni, che si sarebbe gradualmente trasformato in premio di produzione dopo il 2006; e poi, una replica di quello di Sarzoky sul «lavorare di più, guadagnare di più», pronunciato a proposito dell’introduzione di straordinari esentasse. Ciononostante, le misure adottate o proposte oggi (premi di produzione, “indennità inflazione”) contraddicono quanto dichiarato inizialmente da Macron, in quanto investono sull’individuo-consumatore bisognoso piuttosto che sull’individuo produttivo e creativo. In altre parole, non è il valore del lavoro e il conseguente salario («il potere del lavoro» secondo la dichiarazione rilasciata a Le Monde l’11 novembre da Aurélien Purière, direttore della Sécurité sociale) che il governo sta tentando di migliorare, ma il potere d’acquisto stesso, senza che intervenga il minimo cambiamento nel rapporto di potere tra capitale e lavoro. È da questo che dipende l’assenza di pressioni sul capitale e di aumento dello SMIC[2], mentre compaiono solo calcoli sofisticati, a quanto pare troppo complessi persino per il ministro del Lavoro Bruno Le Maire, cosa che il Presidente intende chiarire[3]. A livello più generale, è la stessa logica che è stata applicata durante il movimento dei Gilet jaunes, ossia la previsione di un bonus suppletivo al premio di produzione e un bonus concesso a titolo eccezionale dal governo Macron.

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asimmetrie

È la contraddizione che muove il mondo

di Vladimiro Giacché

Testo della lectio al convegno Euro, mercati, democrazia e… conformismo EMD 2020, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020

EgaIkRrWkAIkliw.jpg large1. Una fine e un inizio

«La fine di qualcosa»: così il grande pianista canadese Glenn Gould, rivolgendosi al pubblico prima dell’inizio di uno dei suoi più straordinari concerti, definì la musica di Bach. Il pensiero di Hegel rappresenta l’ultimo grande tentativo sistematico della storia della filosofia, un’ambizione che già la generazione di filosofi successiva abbandonò. Da questo punto di vista la filosofia hegeliana è davvero anch’essa «la fine di qualcosa». Ma d’altra parte è innegabile che il pensiero di Hegel abbia esercitato un’enorme influenza sui filosofi successivi. Alcuni aspetti della sua filosofia hanno esercitato un potente influsso sulla storia – non soltanto del pensiero – sino ai giorni nostri. La filosofia di Hegel è quindi sia una fine che un inizio. Per questo motivo, e per un motivo più importante: perché, come vedremo più avanti, nel suo pensiero la fedeltà alla tradizione filosofica, la continuità rispetto a essa, si unisce a un forte elemento di rottura, nientemeno che rispetto a un principio cardine della tradizione filosofica quale quello di identità.

Il pensiero di Hegel, al pari di quello di tutti i grandi pensatori, fa parte del patrimonio culturale dell’umanità. Allo stesso modo di un monumento storico, di un dipinto, di un brano musicale. In quanto tale, fa parte di una storia. Ma il suo significato non si esaurisce in essa, eccede ogni interpretazione – e proprio per questo è in grado di parlare a generazioni diverse, di divenire alimento di un nuovo pensiero. Il pensiero di Hegel fa parte anche di noi, perché è inserito nella tradizione culturale in cui noi stessi pensiamo. Talvolta ridotto a frammenti, a singoli concetti, a frasi isolate, ma comunque già presente in noi inconsapevolmente anche prima dell’inizio di ogni lavoro interpretativo.