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I fondamenti filosofici della società virale
Nietzsche e Hayek dal neoliberalismo al Covid-19
di Paolo Ercolani (Università di Urbino)
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
L’emergenza sanitaria, seguita alla comparsa del virus denominato Covid- 19, ha prodotto due effetti sostanziali: il primo concerne l’esperienza traumatica, fondamentalmente a livello psicologico, di un fenomeno che ha scardinato le sicurezze dell’uomo odierno rispetto alla sua capacità di padroneggiare (o perlomeno controllare) quell’ecosistema biologico di cui è ospite e non padrone; il secondo riguarda la vera e propria crisi sociale che, in più contesti, ha rivelato fino in fondo le storture del modello neoliberista, ormai dominante nello scenario internazionale almeno a partire dalla data simbolica del 1989.
Nel primo caso, per esprimersi in termini freudiani, possiamo parlare dell’ennesima «ferita narcisistica» subìta da un soggetto, l’uomo, soventemente invaso da un irrealistico delirio di onnipotenza, che in questa situazione di emergenza sanitaria si è tradotto nell’individuazione di «verità» alternative e nella negazione dell’emergenza stessa, a fronte dell’individuazione «paranoica» di complotti e trame segrete1. Nel secondo caso, che poi è quello che qui ci interessa specificamente, possiamo cogliere l’occasione per ricostruire e al tempo stesso mettere in discussione i fondamenti filosofici su cui si fonda il liberismo. Ossia quella teoria che ha plasmato il sistema sociale e valoriale del nostro tempo, imponendo un «ordine» in cui l’umano e il fisiologico sono ridotti a strumento al servizio di scopi che non possono deragliare dal profitto economico e dal progresso tecnologico.
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Ritorno a Francoforte
di Giorgio Fazio
È recentemente uscito per Castelvecchi “Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica”. Ne pubblichiamo qui l’introduzione per gentile concessione dell’autore e dell’editore, che ringraziamo
La teoria critica della Scuola di Francoforte è oggi al centro di una nuova attenzione. In un passaggio storico che vede il moltiplicarsi di crisi che vanificano aspettative di benessere, provocano sentimenti di disorientamento e di impotenza, generano bisogni di sicurezza che alimentano pulsioni identitarie e autoritarie, si torna a leggere i testi di questa corrente di pensiero novecentesca, trovandovi strumenti per capire la nostra contemporaneità. Si ha l’impressione, anzi, che alcune diagnosi “francofortesi” siano diventate più vere oggi rispetto a qualche decennio fa, quando ancora sembrava potessero perpetuarsi gli equilibri sociali del capitalismo democratico del dopoguerra, prima che prendesse avvio la stagione del neoliberismo.
Quando si parla di teoria critica della Scuola di Francoforte si fa riferimento innanzitutto al gruppo di ricerca interdisciplinare raccoltosi attorno alla figura di Max Horkheimer nei primi anni Trenta del XX secolo. La sede istituzionale di questo circolo fu l’Istituto per la ricerca sociale, l’organo in cui vennero pubblicati i risultati delle sue ricerche la Zeitschrift für Sozialforschung. Entrambi furono luoghi di indagini innovative sulla società, a cui presero parte, in modo diverso, figure del calibro di Theodor Wiesegrund Adorno, Walter Benjamin, Erich Fromm, Otto Kirchheimer, Leo Löwenthal, Herbert Marcuse, Franz Neumann, Friedrich Pollock e altri.
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Losurdo e la sfida di un materialismo storico per il XXI secolo
di Sabato Danzilli
La raccolta di saggi contenuta in Domenico Losurdo tra filosofia, storia e politica, pubblicata da La scuola di Pitagora, a cura di Stefano Giuseppe Azzarà, Paolo Ercolani ed Emanuela Susca, offre una panoramica completa dei principali interessi della ricerca di Domenico Losurdo, con interventi da parte dei suoi collaboratori più stretti e di alcuni colleghi. Il filosofo pugliese, scomparso quasi tre anni fa, è stato tra i più importanti pensatori della sinistra italiana degli ultimi decenni, e la sua influenza si estende sempre più sul piano internazionale.
La sua analisi unisce infatti una grande profondità storica a un forte carattere militante. L’indagine storica dei sistemi filosofici presi in considerazione nelle sue opere, compiuta con rigore, non rimane mai confinata in un ambito strettamente teoretico, ma è sempre sottoposta a un esame attraverso una verifica della declinazione nella pratica politica concreta del pensiero dell’autore considerato. In Losurdo è infatti centrale il ruolo del “giudizio politico” nella comprensione del proprio tempo, che è il compito specifico della filosofia.
Il libro si articola in tre sezioni: “Filosofia classica tedesca, universalismo e liberalismo”, “Crisi del marxismo e ricostruzione del materialismo storico” e “Tradizione conservatrice e ideologie della guerra”.
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Maschere democratiche. La figura dell’ipocrisia tra storia e critica
di Camilla Emmenegger
Per Leonard Mazzone, il quale l'ha argomentato in "Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi", (uscito da poco per Orthotes), la nostra vita politica è affollata di esempi di “ipocrisia democratica”, dal tradimento sistematico dei valori di eguale libertà, pure affermati in generale. Si tratta di una strategia di immunizzazione dal potere della critica.
Tra il 2015 e il 2016 la deregolamentazione del mercato del lavoro prevista dal Jobs Act – che include tra le altre cose l’eliminazione dell’obbligo di reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa – è stata promossa dal governo in carica in nome dei benefici che ne sarebbero derivati per i lavoratori, soprattutto in termini di aumento dell’occupazione. Tra il 2018 e il 2019 il primo governo Conte ha giustificato la politica dei “porti chiusi” sostenendo che le nuove misure avrebbero dissuaso i migranti a partire dalle coste nordafricane, diminuendo così il numero di morti nel mar Mediterraneo. Più recentemente, l’operazione politica che ha portato alla nomina di Mario Draghi a Presidente del Consiglio è stata presentata come l’unica soluzione possibile per far fronte a un’emergenza politica e istituzionale, al punto da ottenere uno dei sostegni più ampi nella storia della Repubblica.
Secondo l’analisi proposta da Leonard Mazzone in Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi, uscito da poco per Orthotes, questi sono tutti esempi di “ipocrisia democratica”.
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Bataille e la Teoria del valore-lavoro
di Leo Essen
I
In primo luogo Bataille si rivolge al valore-uso, e mostra il suo incardinamento nell’economia ristretta. Dunque, mostra come sia vana la proposta, presente, per esempio, in Pasolini e in Marcuse, di rifiuto del valore-scambio e di un ritorno al valore-uso. Il valore-uso non solo è il puntello del valore-scambio, come pensa Marx, ma è esso stesso, in quanto prodotto, momento di quel processo di valorizzazione che si compie (Aufheben) nel ritorno (ROI) dell'investimento.
In secondo luogo, e soprattutto, Bataille si rivolge proprio all’investimento, mostrando come ogni investimento, in quanto passaggio dall’intenzione all’atto, dalla cattiva possibilità all’attualità, è il momento mediano di un processo che lega l’inizio alla fine, che tiene in pugno, o pretende di tenere in pungo, il futuro.
In terzo luogo, Bataille si volge all’utilità e dice che è utile il prodotto che non ha altre possibilità se non quelle computate dall’inizio, e che dunque l’utilità del neo-classicismo pone il mercato, e non viceversa.
L’operaio, dice Bataille, produce un bullone per il momento in cui il bullone servirà a sua volta a montare una macchina di cui qualcun altro godrà sovranamente, nelle sue passeggiate contemplative.
Non bisogna leggere in questa posizione il disprezzo per il lavoro manuale che si trova, per esempio, in Oscar Wilde. Bataille non vuol contrapporre il lavoro manuale al lavoro artistico o intellettuale e dire che il lavoro manuale è servile mentre il lavoro artistico o il lavoro di ingegno è libero (sovrano). Non vuole nemmeno dire che il lavoro manuale è asservito alla direzione di un altro, del padrone, mentre il lavoro artistico è autonomo.
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An-archē e Indifferenza: Tra Giorgio Agamben e Reiner Schürmann
di Malte Fabian Rauch
Il saggio di Malte Fabian Rauch An-archē and Indifference: Between Giorgio Agamben and Reiner Schürmann sarà pubblicato dalla, e consultabile sulla, rivista Philosophy Today, 65:3 (Summer 2021). Questo saggio pionieristico di Rauch tocca uno degli assi di ricerca più fecondi e cari al Laboratorio di Archeologia Filosofica — la relazione tra il pensiero di Giorgio Agamben e quello di Reiner Schürmann — tentando di esortare chi legge al confronto nonché alla rielaborazione (in) comune di questo nesso cruciale e, tuttavia, ancora largamente inesplorato. Di seguito, in anteprima, la traduzione annotata a cura di F. Della Sala e F. Guercio.
* * * *
Nelle ultime pagine de L’uso dei corpi di Giorgio Agamben, il concetto di ‘vera anarchia’ si rivela come il punto di fuga politico dell’intero progetto Homo sacer[1]. Reiner Schürmann, il quale era sembrato finora solo un riferimento molto occasionale, appare qui improvvisamente come uno degli interlocutori decisivi di Agamben. Alcuni dei lettori più attenti di quest’ultimo, Jean-Luc Nancy ed Étienne Balibar, hanno sottolineato l’importanza di questo riferimento[2]. E tuttavia nella trattazione generale dell’opera di Agamben tale connessione ha ricevuto per lo più scarsa attenzione. Prova ne è che, per avvicinarsi alla nozione agambeniana di anarchia, seppur l’opera di Schürmann è stata utilizzata, non si è però fatta menzione della sua discussione esplicita[3]. Questo saggio è un tentativo di chiarire l’importanza di questo rapporto – sia per l’effetto che ha avuto sul lavoro di Agamben, sia per la leggibilità del lavoro di Schürmann nel presente.
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Finitudine ed escatologia nell’era del presente esteso
di Roberto Paura
Un mondo a venire dopo la vita? Le risposte di Bart Ehrman, Brunetto Salvarani e Telmo Pievani
Se dovessimo svolgere un sondaggio su quale sia considerato oggi il modo migliore di morire, scopriremmo che le risposte sono quasi unanimi: all’improvviso, meglio se nel sonno, senza nemmeno accorgersene. Chiudere gli occhi e non svegliarsi più. Eppure, nel passato poche cose avrebbero atterrito più di questa. Morire improvvisamente senza la possibilità di ottenere il conforto dei sacramenti e della remissione dei peccati avrebbe potuto compromettere ogni speranza di salvezza nell’aldilà. Il trapasso, dopotutto, può ben essere doloroso, ma ha una durata limitata; l’eternità, invece, è davvero lunga, e nessuno vorrebbe trascorrerla tra i tormenti. Così scriveva ad esempio il teologo bizantino Giovanni Crisostomo nella sua Omelia sul Vangelo di Giovanni: “Se dovesse accadere (Dio non voglia!) che per una morte improvvisa dovessimo lasciare questa terra non battezzati, anche se saremo ricolmi di ogni virtù, il nostro destino non potrà che essere l’inferno e il verme velenoso e il fuoco inestinguibile e catene indissolubili” (cit. in Ehrman, 2020).
All’apogeo di quella grande costruzione sociale occidentale che fu la Cristianità, nemmeno la morte assicurava la fine di ogni preoccupazione per il “caro estinto”. In virtù della “comunione dei santi” – lo stretto legame che, secondo la teologia cattolica, esiste tra i vivi e i morti – la preghiera per chiedere l’intercessione dei santi a favore delle anime dei defunti, spesso attraverso messe in suffragio, serviva ad abbreviare il periodo di penitenza nel Purgatorio, dove si riteneva che finisse la maggior parte delle anime (i dannati, va da sé, finiscono all’inferno, soprattutto se sono morti senza essersi potuti pentire, da cui la paura di una morte improvvisa; i santi, che finiscono direttamente in paradiso, sono obiettivamente pochi).
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Una teoria della storia come macchina del tempo
di McKenzie Wark
Pubblichiamo un estratto dal nostro prossimo libro, Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire di McKenzie Wark
Non sappiamo più cosa sia il socialismo, o come ottenerlo,
eppure resta il nostro obiettivo.
Deng Xiaoping
Mettiamo che hai una macchina del tempo. Diciamo che la fai viaggiare fino a tornare alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Una volta a destinazione, ne esci fuori e vai alla ricerca delle persone che, a quei tempi, erano importanti. Spieghi loro alcune cose di quanto sta succedendo nel XXI secolo. Alcune delle storie che racconti per alcune di queste persone hanno senso, altre sembrano del tutto folli.
Per esempio, mettiamo che la macchina del tempo ti abbia portato nella Cina della metà degli anni Settanta, e ti trovi a spiegare che, entro la fine del secondo decennio del secolo successivo, il destino dei mercati globali sarà nelle mani del Partito Comunista Cinese. Suonerebbe abbastanza folle. Tra la metà e la fine degli anni Settanta, la Cina ha visto la caduta della Banda dei Quattro, il maoismo all’acqua di rose di Hua Guogeng e, infine, l’ascesa al potere di Deng Xiaoping. Ma persino allora la Cina attuale sarebbe stata inimmaginabile per chiunque – tranne che per Deng Xiaoping.
Se viaggiassi con la macchina del tempo fino all’Unione Sovietica della metà degli anni Settanta, le reazioni sarebbero più diverse. Leonid Brežnev è al potere da più di dieci anni, e sembra che lo sarà per sempre. Le guerre per procura non vanno poi così male, visti i buoni risultati in Angola e la vittoria schiacciante in Vietnam, almeno fino all’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979.
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Recensione a Per un nuovo materialismo di Roberto Finelli
di Nicolò Galasso
Roberto Finelli: Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici, Rosenberg & Sellier 2018
Il percorso teorico «delle pagine che seguono prova a ricongiungere vita e politica» (p. 9). Così, nella Premessa, Roberto Finelli presenta il suo ultimo lavoro. Il tentativo, tanto ambizioso quanto accurato e rigoroso, è quello di elaborare una nuova antropologia, di orientamento materialista ma non prigioniera del riduzionismo meccanicistico ottocentesco, con cui pensare una nuova forma di politica, coerente con le esigenze dell’oggi e, allo stesso tempo, non immemore della vis emancipativa della migliore tradizione marxista. Vita e politica da non intendere, pertanto, nell’accezione inflazionata di biopolitica, bensì focalizzando l’attenzione sul nesso strutturale che le lega, essendo la seconda la condizione di possibilità e di fioritura della prima: la politica quindi non ridotta a tecnica di funzionamento delle istituzioni, bensì pensata nel suo valore trascendentale di condizione di possibilità sia dell’agone politico sia dell’individuo che vi partecipa. Una volta sgombrato il campo dai possibili equivoci terminologici, risulta chiara la valorizzazione della psicoanalisi di matrice freudiana che Finelli propone come base del suo discorso.
I primi due capitoli del libro sono, infatti, dedicati a Freud. Nel primo si ripercorre, con acribia e singolare sensibilità critica, il percorso intellettuale del medico austriaco da L’interpretazione delle afasie (1891) a il Progetto di una psicologia (1895). L’interesse che questo periodo della ricerca di Freud suscita in Finelli non si giustifica solamente con la costatazione che questi sono gli anni decisivi per la svolta psicoanalitica la quale, infatti, si manifesterà di lì a poco.
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Re-istituire la soggettività. Il Basaglia che rimuoviamo
di Andrea Muni
Quale soggettività restituire? Basaglia e Foucault
Restituire la soggettività significa restituire uno spazio vuoto. Uno spazio fisico, sociale e istituzionale, dove sia finalmente possibile intessere relazioni non alienate e (pre)normate; uno spazio reale dove costruire un’esperienza di sé e degli altri appena un po’ meno progettuale e calcolabile di quella oggi forzosamente inoculata nei corpi umani dalle varie discipline “dolci” del neo-liberalismo. Ma non solo, in un senso più teorico la “soggettività” e la “restituzione” che ci interessano chiamano anche in causa lo spazio, il vuoto, prodotti dall’oscillazione di due operazioni reciproche e fondamentali:
1) Un certo qual masochismo – che Basaglia stesso menziona esplicitamente nelle Conferenze brasiliane – di cui le istituzioni e coloro che le incarnano dovrebbero imparare a riscoprire il gusto. Uno spazio di restituzione della soggettività che interessa quella che potremmo chiamare – con un’espressione a effetto – l’autodistruttività dell’istituizione.
DOMANDA: Io vorrei che lei approfondisse il problema del ruolo dello psichiatra e dello spazio che egli deve dare alla sua autodistruzione, dato che la distruzione della situazione significa rompere con la struttura borghese e con il potere che questa ha sul controllo della salute.
BASAGLIA: Il problema che lei pone mi sembra molto giusto perché il problema della distruzione del manicomio non può avvenire che attraverso gli operatori che lavorano nel campo della salute, e quindi è una situazione effettivamente un po’ masochista, autodistruttrice. […] I movimenti, i partiti e i sindacati che vogliono la trasformazione di una società non possono sopportare che il proletariato e il sottoproletariato siano trattati in questo modo nelle istituzioni dello Stato.
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La classe impossibile secondo Nietzsche – e secondo Marx
di Sebastiano Isaia
La “dignità del lavoro” è uno dei più stolti
vaneggiamenti moderni. È un sogno di schiavi.
E questa necessità sfibrante della vita, che si
chiama lavoro, dovrebbe essere “dignitosa”?
(F. Nietzsche).
La dignità dell’uomo e la dignità del lavoro, sono
i miseri prodotti di una schiavitù che vuole
nascondersi a sé stessa (F. Nietzsche).
L’aforisma 206 di Aurora, il saggio pubblicato da Friedrich Nietzsche nel 1881, ha per titolo La classe impossibile. A quale classe sociale si riferisce l’autore, e perché la considera impossibile? Per avere una prima risposta non dobbiamo fare altro che leggere i suggestivi passi che seguono: «Povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo! – anche queste sono possibili, – e agli operai, della schiavitù della fabbrica, non saprei dire niente di meglio, posto che essi non avvertano in generale come un’infamia, il venir adoperati in tal modo, ed è quel che accade, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come tappabuchi dell’umana arte dell’invenzione!» (1). La classe impossibile di cui parla Nietzsche è dunque quella operaia, e, per essere ancor più precisi, si tratta della classe operaia del Vecchio Continente: «Gli operai in Europa d’ora innanzi dovrebbero dichiararsi come classe un’impossibilità umana». E come singoliindividui? Il tema non è sviluppato dall’autore e certamente non intende approfondirlo chi scrive, ma semplicemente sfiorarlo. Tra poco vedremo che la specificazione geosociale della nietzschiana “questione operaia” ha un preciso significato – e d’altra parte allora solo l’Europa vantava una forte, moderna e politicamente organizzata classe operaia.
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Sull’universalismo comunista
di Antiper
Anche se per molti versi il comunismo moderno si distingue profondamente dai vari “comunismi” precedenti è pur vero che, per altri versi, ne costituisce lo sviluppo.
Ad esempio, l’abolizione della proprietà privata è certamente un elemento distintivo e permanente di una concezione “comunista” [1]; come si potrebbe infatti pensare una società comunista che preservasse la possibilità della proprietà privata [2]? D’altra parte il modo in cui questa richiesta viene avanzata – ad esempio, “abolizione per tutti” o “abolizione solo per una parte” – cambia, e di molto, la situazione.
Quella che la proprietà privata sia uno straordinario elemento di disarmonia e di conflitto sociale costituisce una delle più geniali intuizioni filosofiche di Platone; un’intuizione geniale e precoce in quanto operata in una società ancora molto primitiva dal punto di vista della proprietà.
“Chi segue la strada in discesa si trova di fronte al compito di mostrare a uomini (antropologicamente?) interessati al denaro e al potere che la giustizia è preferibile all’ingiustizia, e che la filosofia ha una utilità politica, in quanto solo i filosofi – con alcuni accorgimenti istituzionali quali l’abolizione della famiglia e della proprietà privata – possono essere i governanti immuni da conflitto di interessi di cui la città ha bisogno” [3]
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Era digitale, era provinciale
di Eleonora Zeper
La verità è che la verità cambia
Friedrich Nietzsche
Ho sempre deprecato il proliferare del lessico filosofico nel corso dei secoli, mi è sempre sembrato che la storia della filosofia fosse una storia di incomprensioni lessicali: sarebbe dunque onesto dichiarare, all’inizio di ogni nostro discorso, l’inaffidabilità dello strumento di cui ci serviamo.
Nell’ultimo anno molte delle parole e delle categorie che usavamo per definire la nostra realtà sociale hanno perso ogni consistenza. Ce ne sono state offerte prontamente delle altre quali distanziamento sociale, didattica a distanza, assembramento… Chiedo scusa dunque se quest’articolo procede a tentoni: a me mancano ancora le parole per descrivere tutto questo.
*
Un mio collega e amico si è dichiarato favorevole alla chiusura totale nel periodo natalizio: il problema sono gli ospedali e un “paese civile” non può far morire la gente. L’ha detto con convinzione e io, come con lui mi capita spesso, non ho saputo ribattere in alcun modo.
Qualche giorno fa un altro mio caro amico mi ha detto che non sarebbe passato a casa mia per chiacchierare delle nostre rispettive vite e stare un po’ assieme, così come avevamo concordato da qualche giorno. Mi scrive per dirmi che il giorno di Natale intende vedere i suoi genitori e che dunque, nei giorni precedenti, preferisce evitare ogni rischio di contagio e vedersi all’aperto. Ero dispiaciuta e un po’ irritata.
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Prolegomeni a un capitalismo francescano
di Fabio Vighi (Università di Cardiff)
1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 1. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’
La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato.
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Filosofia prêt à porter
Un pensiero che non vuole più essere inattuale
di Carlo Formenti
«Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose» recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio.
In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": «non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”».
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