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ospite ingrato

Negatività, totalità e nuove forme della critica

di Giorgio Cesarale

Die Brucke e1607710800359Il Novecento ha voluto realizzare l’idea, ha detto Alain Badiou, ma per realizzarla, si potrebbe aggiungere, ha anzitutto provato a cambiarla.1 Esso è stato infatti un secolo rivoluzionario non solo dal punto di vista sociale e politico o da quello artistico e scientifico, ma anche da quello filosofico. Forme, contenuti, risultati dell’impresa filosofica moderna sono rimasti “spiazzati” da un discorso nuovo, caratterizzato dalla radicale ricombinazione dei materiali consegnati dalla tradizione. Se si dà infatti uno sguardo alla costellazione filosofica del Novecento, dall’ermeneutica alla fenomenologia passando per il pragmatismo e la filosofia analitica, ci si accorge che ciascuna di queste correnti ha inteso effettuare una svolta, capace di proiettare la filosofia fuori da una situazione considerata ormai priva di sbocchi, di ogni autonoma possibilità rigeneratrice. Sennonché, dire “filosofia moderna” significa anche dire, come è noto, “critica”. A quale destino si è perciò dovuta sottoporre la critica, tipico manufatto del pensiero europeo sette-ottocentesco, entro il contesto filosofico novecentesco? È una domanda cruciale, per l’insieme delle implicazioni che reca con sé, e non è perciò un caso che attorno a essa si sia venuta componendo una vasta e articolata riflessione. A tal proposito, la nostra convinzione è che, malgrado le sue difficoltà, tale riflessione debba proseguire, sebbene si tratti di volgerla verso margini inesplorati, o non esplorati con sufficiente energia, come sta peraltro accadendo nel dibattito che su questo tema si sta svolgendo sulle colonne dell’«Ospite ingrato». Le notazioni che seguiranno cercheranno di conferire a questa convinzione un profilo più preciso.

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ospite ingrato

Always Totalize!

Perché abbiamo ancora bisogno della totalità (e della dialettica)

di Marco Gatto

Platon et Aristote par Della Robbia détailI.

In uno scritto autobiografico del 1977, Cesare Cases ripercorreva le tappe filosofiche che lo avevano condotto alla Perdita della totali- , al tracollo della fiducia nei confronti di ricostruzioni sistematiche e di narrazioni universali: «crollata questa fede, sono crollate anche le mie presunzioni teoriche»,1 egli confessava. E nello stesso tempo quest’ammissione rappresentava un rilancio, perché, al netto della sconfitta, restava ferma, persino negli scritti più brevi e occasionali, «un’inclinazione al compiuto, al conchiuso, un’inclinazione […] di per sé antiavanguardistica, ma di un antiavanguardismo consapevole dell’impossibilità di fare la cosa chiusa»,2 in larga parte proveniente, si potrebbe aggiungere, dalla lunga frequentazione di Cases con i pensatori novecenteschi dell’Intero, Lukács su tutti.3 La pervasiva e capitalistica «frammentazione della vita», dialetticamente legata alla «nostalgia della totalità»,4 secondo la lezione proveniente dall’autore di Teoria del romanzo (1920),5 rendeva per Cases posticcia, all’altezza degli anni Settanta del secolo scorso, qualsiasi tensione universalizzante, ma poneva forse in rilievo (ancora per poco) la possibilità di tenere avvinti la parte e il tutto, il particolare e il totale, prima che si scivolasse storicamente (e drammaticamente) nella dittatura ideologica del primo polo sul secondo. Cases, quasi da post-lukacsiano, si schierava con Adorno e con la «sua critica allo spirito hegeliano di sistema».6 «Non è che il desiderio di totalità sia in sé malvagio – continuava il grande germanista –, ma è prematuro, poiché in realtà la totalità esiste», ed è quella del capitalismo e delle sue forme sociali, e pertanto «ogni tentativo di tipo hegeliano di irreggimentare il mondo in sistema finisce per consegnarlo all’esistente».7 L’apertura di una breccia nella costrittiva totalità del capitalismo diventava, pertanto, l’obiettivo di una critica che non poteva rischiare di riprodurre, nelle sue movenze totalizzanti, i meccanismi egemonici dell’avversario.

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sinistra

Le radici della disuguaglianza”. L’emergere dell’Individualismo proprietario

di Gerardo Lisco

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Hobbes, Rousseau.

Il lavoro si ripromette di indagare il tema a partire da il libro “ Le radici della disuguaglianza del filosofo della politica Antonio Martone. Il saggio individua le “radici della disuguaglianza” nel pensiero moderno, attraverso l’analisi di alcuni autori che per ciò che hanno scritto e sostenuto sono da considerare come una sorta di ideal-tipo della “modernità”.

Gli autori presi a riferimento abbracciano un arco di tempo che va dagli inizi del 600 alla fine dell’800: T. Hobbes, J.J. Rousseau, A. de Tocqueville, M. Stirner e F. Nietzsche. Passiamo dall’Assolutismo di Hobbes all’idea Democratica di Rousseau, dall’analisi critica della nascente Liberal-Democrazia americana di Tocqueville per concludere con Stirner e Nietzsche, i quali analizzano in profondità categorie quali Democrazia, Socialismo, Liberalismo e ne mettono a nudo le contraddizioni creando i presupposti per la critica alle ideologie e aprendo la strada al post-modernismo e all’egemonia dell’individualismo e del totalitarismo liberal-capitalista contemporaneo. In modo particolare questi ultimi due autori, con le loro potenti critiche, sono riusciti a produrre l’effetto contrario rafforzando ciò che intendevano combattere.

Ragionare sulle origini della disuguaglianza attraverso l’analisi delle riflessioni degli autori presi a riferimento non può prescindere dal contesto storico nel quale ciascuno di essi è vissuto e nel quale ha operato. T. Hobbes è il primo ad essere messo sotto osservazione. Riferendosi ad Hobbes e al concetto di uguaglianza proprio della trattazione del filosofo inglese, Martone parla di un’“uguaglianza omicida” ossia l’idea che l’homo homini lupus non sia altro che l’uguaglianza nell’essere potenzialmente omicida dell’altro uomo, motivata dalla naturale spinta alla sopravvivenza. L’uguaglianza è un dato naturale per cui tutti gli uomini sono uguali.

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ospite ingrato

Critica, capitale e totalità

di Roberto Finelli

2021.12.20. NUMERO 10Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un puris- simo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.

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quieora

«Per un catechismo rivoluzionario»

Su La communion qui vient (Paris, ed.Seuil 2021).

di Marcello Tarì

Pentecoste Di Stasio 965x1200No, non è al catechismo di Necaev, il manifesto russo del nichilismo rivoluzionario, che gli autori de La communion qui vient [La comunione che viene] si riferiscono, quando viene evocato a mo’ di slogan in un punto cruciale del testo. Per capirlo è sufficiente guardare al sottotitolo del libro: Carnets politiques d’une jeunesse catholique [Quaderni politici di una gioventù cattolica]. Invece è certo che il titolo gioca sul richiamo a un altro testo, pubblicato sempre in Francia quindici anni fa e che divenne anch’esso una specie di catechismo rivoluzionario per le giovani generazioni. Sto parlando ovviamente di quello a firma del Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene.

La sua diffusione andò infatti oltre l’interesse strettamente politico-culturale, fu piuttosto un fenomeno di costume che influenzò un certo modo di pensare la vita e la politica nel contesto del presente ordine del mondo e credo sia esattamente questo il motivo del libro appena uscito, cioè mettere in discussione i modi di vita e le politiche attuali proponendo qualcos’altro. Anzi, in questo caso qualcosa di veramente Altro. La communion qui vient è però anche una citazione di un altro importante piccolo volume uscito nella sua prima edizione nel lontano 1990, cioè La comunità che viene di Giorgio Agamben, nel senso che uno degli argomenti principali affrontati dal libro è la critica politica del concetto di comunità al quale viene preferito, appunto, quello di comunione.

L’obiettivo di questo testo non è diverso da quello che animava quello del Comitato Invisibile, cioè dare una forte scossa a un ambiente, in questo caso quello cattolico, mentre nel caso precedente si trattava di quello della sinistra radicale, ma entrambi hanno l’ambizione di rivolgersi a tutta la società indicando alcune piste teoriche e organizzative.

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materialismostorico

György Lukács, Dialettica e irrazionalismo

Recensione di Sabato Danzilli

György Lukács, Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano pp. 200, € 18, ISBN 9788883512537

147229 mdQuesta raccolta di saggi di György Lukács curata da Antonino Infranca ha il merito di riunire testi poco noti e finora difficilmente reperibili dedicati a uno dei temi fondamentali del pensiero lukacsiano: la contrapposizione tra pensiero dialettico e filosofia irrazionalistica. Com’è noto, Lukács dedica nel 1954 all’argomento un’opera quale La distruzione della ragione. Qui il filosofo ungherese combatte le tendenze della filosofia borghese post-hegeliana che fanno del movimento storico oggettivo una categoria secondaria e subordinata rispetto alla coscienza soggettiva. Si tratta di una descrizione necessariamente generica, che racchiude però il moto di pensiero che sta alla base dell’opera e della stessa categoria di «irrazionalismo» nelle sue declinazioni storiche.

Il testo curato da Infranca è composto da nove saggi, tutti precedenti l’ampio volume del 1954, con l’eccezione dell’ultimo. Il motivo di questa collocazione cronologica non è casuale ed è spiegato bene dalla prefazione del curatore: se nel periodo giovanile di Lukács l’affermazione del carattere progressivo della dialettica, contrapposta, come in Storia e coscienza di classe, alle «antinomie del pensiero borghese», riguarda essenzialmente il problema dell’attualità della rivoluzione, gli scritti degli anni ’30-’40 sono inseriti nel contesto completamente mutato della resistenza all’avanzata nazifascista. Infranca pone l’accento sul carattere politico ed etico di questa lotta, che viene intesa come una vera e propria battaglia per il futuro dell’umanità. La rivendicazione del carattere progressivo della filosofia dialettica assume il significato di una difesa di tutte le conquiste sociali e culturali del movimento che si richiama a questa grande tradizione.

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overleft

La speranza possibile: riflessioni rapsodiche sulle Tesi di Benjamin

di Franco Romanò

oipLe tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano: il biennio 1939-40 offrì al filosofo l’occasione propizia per renderle pubbliche. Perché riprenderle oggi? Anche noi ci troviamo in un passaggio epocale e da questa considerazione è nata l’idea di una riflessione su di esse, cercando di leggerle per così dire contropelo, cioè dal lato che sembra più improbabile per uno scritto così estremo e disperato: il lato della speranza1.

Benjamin parte da una critica radicale dello storicismo.

Dalla Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medioevo era il fondamento della tristezza. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. … L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno … Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominato ridi oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato … Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei.

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materialismostorico

Introduzione alledizione in lingua inglese di Nietzsche: il ribelle aristocratico, di Domenico Losurdo*

di Harrison Fluss (St. John’s University and Manhattan College)

nietzscheDopo aver descritto la lunga ricezione di Nietzsche da Emma Goldman a Stanley Cavell, Jennifer Ratner-Rosenhagen conclude il suo American Nietzsche in sintonia con una lettura pragmatica dell’opera del filosofo: non esiste un’unica comprensione corretta di Nietzsche, non più di quanto vi sia un autentico approccio filosofico. Ciò che definisce Nietzsche – se mai qualcosa può definirlo – è la fondamentale «indeterminatezza, il prospettivismo e l’eterogeneità» che sono al centro della sua filosofia e che lo rendono decisamente congeniale alle tradizioni americane del liberalismo e del pluralismo1. Nietzsche, quindi, sarebbe americano quanto la apple pie.

Ciò che Ratner-Rosenhagen ignora, tuttavia, sono le altre dimensioni del pensiero di Nietzsche; dimensioni piuttosto rilevanti per la storia di un Nietzsche americano. I giudizi del filosofo tedesco sulla razza, la schiavitù e l’abolizionismo non sono tenuti in considerazione, dal momento che anche l’americanismo che Ratner-Rosenhagen ci presenta risulta completamente decontestualizzato. Si tratta di un americanismo dal quale sono state espunte tutte le incongruenze e i paradossi più evidenti e che è incarnato, ad esempio, dal precursore americano di Nietzsche, il liberale Ralph Waldo Emerson. RatnerRosenhagen inizia la sua narrazione proprio con l’amore di Nietzsche per Emerson ma a questo proposito andrebbe notato come Nietzsche non leggesse soltanto l’Emerson individualista ma anche l’Emerson elitista e adoratore degli eroi2. Nietzsche si definiva a volte «un liberale» ma era anche un teorico che promuoveva la gerarchia e l’ordine castale [rank-ordering]3. Come possono convivere, allora, i valori in apparenza progressisti del liberalismo e del pluralismo con la politica elitista promossa da Nietzsche? In effetti, come possono questi valori autoritari essere ritenuti compatibili con quell’immagine di un Nietzsche anti-fondazionalista che conclude il libro di Ratner-Rosenhagen?

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linterferenza

Sull’ indeterminismo in natura e nella conoscenza della natura

di Giulio Maria Bonali

Pierre Simon LaplaceIl recente conferimento del premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi per risultati conseguiti nei suoi studi sui sistemi complessi o non lineari ha stimolato, soprattutto da parte di ricercatori scientifici, considerazioni filosofiche antideterministiche peraltro ormai da vari decenni largamente prevalenti fra i ricercatori e fra i filosofi della scienza, ma anche sulla stampa non scientifica o filosofica e in particolare su riviste e siti internet politico-culturali di sinistra.

In particolare in questi giorni si leggono frequentemente solenni rivendicazioni di “originalità” e di pretese “grandi scoperte”, nell’ ambito del dominante paradigma (indeterministico) della complessità e da parte dei suoi cultori, circa l’ impossibilità di conoscere e prevedere per filo e per segno il divenire di moltissimi fenomeni naturali, di contro a pretese di “onniscienza” attribuite (ma indebitamente) al determinismo filosofico e scientifico “classico”, che la moderna scienza fisica e la moderna filosofia della scienza avrebbero definitivamente superato.

Inoltre, contro la asserita indebita e irrealizzabile pretesa di conoscere l’ evoluzione certa, dettagliata, precisa e a lungo termine dei sistemi fisici complessi (la stragrande maggioranza in natura, essendo il caso di quelli semplici, come il sistema solare, una sorta di “eccezione che conferma la regola”), se ne encomia spesso lo studio probabilistico, facendo oggetto di grande ammirazione chi l’ha proposto e praticato: dal per me ottimo Boltzmann a cavallo del XIX e XX secolo, al per me pessimo Prigogine a fine ‘900 e ai suoi epigoni di oggi.

Peccato che l’ autentico pioniere di questo approccio alla ricerca scientifica nel caso dei sistemi fisici complessi (e di quelli biologici, ad essi riducibili), ben prima ancora dell’ottimo Boltzmann (quest’ ultimo particolarmente in riferimento alla termodinamica e alla meccanica statistica), sia stato un certo …Pier Simon de Laplace, vituperatissimo da grandissima parte se non da tutti i propugnatori “del paradigma della complessità”, in particolare nel suo famosissimo Saggio filosofico sulle probabilità.

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carmilla

Per una critica della società dell’Apocalisse permanente

di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

apocalisse e sopravvivenza santiniCostoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.

Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

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consecutiorerum

Fortuna e sfortuna dell’ideologia: una breve storia

Parte prima

di Roberto Finelli

198hgyd46gi9u1. Una nascita moderna nel tardo Illuminismo francese

Ideologia è un termine polivalente che nella storia della cultura moderna rimanda a una molteplicità di significati opposti al significato proprio dei termini greci antichi, come ιδεολογία e ιδιολωγέω (opinione del singolo, discorso privato). Sia che la si assumi come a) sinonimo di falsa coscienza sociale, o b) di sistema di idee non legate a un interesse per la verità e il confronto scientifico ma al prevalere di passioni e desideri, o c) invece come visione del mondo che dà senso alla vita e all’agire di gruppi e individui, ideologia è termine, nella modernità, sempre legato, a una dimensione di sapere e di agire collettivi e come tale è termine che appartiene sia alle scienze sociali, alla sociologia in primo luogo, che alla filosofia sociale e politica.

Ma proprio per la complessa varietà dei suoi significati ritengo che sia opportuno presentare un resumè della storia delle idee di questo termine, per poter svolgere, con maggiore adeguatezza, delle riflessioni sulla funzione e sulla costellazione attuale di senso che l’ideologia ricopre nel nostro presente.

Il termine ideologia è stato coniato per la prima volta, con un significato prettamente positivo, nell’Illuminismo francese. Destutt de Tracy pubblica nel 1801 Projet d’elèments d’idéologie e definisce l’ideologia come la scienza della formazione delle idee. Le idee, secondo un’ispirazione empiristica alla Locke, derivano dalle percezioni sensibili. La sensazione è il principio di ogni conoscenza, sia del mondo esterno che di ogni esperienza interiore. Per cui anche le forme più elevate del sapere derivano sempre dalle sensazioni. La ideologia è la scienza, “qui traite des idées ou perceptions, et de la faculté de penser ou percevoir” e “qui résulte de l’analyse des sensations”1.

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chefare

La trasformazione silenziosa: il pensiero occidentale e quello cinese

di François Jullien*

Pubblichiamo in collaborazione con Feltrinelli editore un estratto da Essere o vivere di François Jullien

Schermata del 2021 09 02 14 36 19Chiamerò trasformazione silenziosa una trasformazione che avviene senza rumore, della quale dunque non si parla. Silenziosa in due sensi: avviene senza preavviso, non si pensa nemmeno di parlarne. La sua impercettibilità non rientra nell’ordine dell’invisibile, al contrario si produce in modo manifesto, sotto i nostri occhi, a poco a poco. Però non si nota, per due ragioni connesse: perché è contemporaneamente globale e continua, non si distingue mai a sufficienza, in un punto o in un altro, o da un momento all’altro, per poter introdurre una rottura che possa fissare la nostra attenzione.

Oserei dire che non si distingue mai abbastanza per poterla distinguere. Visto che tutto vi si trova coinvolto e che essa si produce nella durata, non c’è nulla che assuma un rilievo sufficiente per farla emergere. Quando infine emerge, la si coglie e se ne parla come di un risultato.

Perciò questa trasformazione sarà definita non invisibile, ma “silenziosa”: non è isolabile, non è localizzabile e si confonde con il suo svolgimento. La vista è il senso del discontinuo e del locale: le palpebre si aprono e si chiudono come una tenda che si alza e si abbassa; l’udito è il senso della continuità. Si dice “tapparsi le orecchie”, ma non si può chiudere un orecchio: non si ascolta più, ma si intende ancora. Analogamente, si guarda necessariamente da una parte e dall’altra, si guarda un aspetto o un altro, sempre parzialmente e localmente, ma si ascolta globalmente; mentre la vista, proiettandosi al di fuori, si porta momentaneamente su un punto o su un altro, l’orecchio è quell’imbuto o cornetta che raccoglie costantemente da tutte le parti.

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sinistra

Sul privilegio

Note critiche su Agamben-Cacciari

di Roberto Finelli e Tania Toffanin

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Abbiamo inteso di scrivere qualche riflessione insieme su quanto Giorgio Agamben e Massimo Cacciari hanno pubblicato il 26 luglio sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (A proposito del decreto sul “green pass”), perché ci sembra utile fare un poco di chiarezza sullo spirito del tempo, sul Zeitgeist, di cui i due autori citati ci appaiono essere solo l’epifenomeno più vistoso e accreditato.

Vogliamo provare brevemente a comprendere cosa ci sia dietro una tale rivendicazione di libertà individuale, sottratta ad ogni condizionamento e mediazione con la libertà collettiva, in un richiedere verosimilmente assai dimentico della definizione data, ormai tempo addietro, da Franco Fortini, secondo cui “la mia libertà inizia, non dove finisce, ma dove inizia la libertà dell’altro”. E dunque comprendere perché il nostro tempo, storico e culturale, si sia connotato, sempre più, per una moltiplicazione e ipertrofia dei diritti individuali del singolo, di contro ai diritti comuni e sociali.

Il dibattito che l’obbligatorietà della certificazione verde ha aperto si situa, peraltro, all’interno di uno scenario internazionale che impone alcune riflessioni. Pensiamo infatti che tale dibattito sia fondamentalmente centrato sui diritti individuali, all’interno di un contesto nel quale le libertà individuali sono pienamente garantite. Per contro, quanto sta succedendo in Afghanistan ci impone di riflettere, a partire proprio dalle libertà individuali, in termini meno eurocentrici. Sforzo questo che pensiamo sia necessario per uscire dal provincialismo del dibattito italiano ed europeo in tema di diritti fondamentali e libertà personali.

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perunsocialismodelXXI

Glosse al "Principio Speranza" di Ernst Bloch

di Carlo Formenti

27280 bloch 1Con questo post completo la trilogia iniziata con le Glosse all'ontologia dell'essere sociale di Gyorgy Lukacs e proseguita con la recensione alla "Filosofia imperfetta" di Costanzo Preve. Si tratta di tre testi che rappresentano la prima stesura di un libro di prossima pubblicazione il cui tema principale sarà la distinzione fra i tre regimi discorsivi che convivono nell'opera di Marx - grande-narrativo, deterministico-naturalistico e ontologico-sociale - e la necessità di liberarsi dell'eredità (storicamente datata) dei primi due e rivendicare l'assoluta attualità del terzo nella prospettiva di una rinnovata progettualità di trasformazione socialista del mondo.

 

1. Sogno, desiderio, speranza. Una ontologia del non ancora.

Lukacs, pone il lavoro al centro della sua Ontologia(1) ponendolo come modello di ogni prassi sociale, e definendolo “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. Nel primo volume del Principio speranza Ernst Bloch sembrerebbe incamminarsi nella stessa direzione. Cita il passaggio del primo libro del Capitale in cui Marx afferma che a distinguere il peggior architetto dalla miglior ape è il fatto che nella mente del primo il risultato dell’opera è già presente prima della sua esecuzione, commentando che “l’animale si riferisce allo scopo nei modi delle sue successive brame, l’uomo invece oltre a ciò se lo raffigura” (vol. I, p. 56). Indica nel lavoro il modello di quelle attività finalistiche che plasmano la realtà in quanto storia del soddisfacimento dei bisogni umani.

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archeologiafil

Come interrompere una dialettica

Benjamin, Jesi e la rivolta contro il tempo

di James Martel - Emanuele E. Pelilli

Introduzione

emanu.001La categoria di dialettica è allo stesso tempo quasi invisibile e profondamente pervasiva[1]. Mentre comunemente viene considerata come proveniente da sinistra, essendo associata alla teoria dell’hegelismo di sinistra e poi al marxismo, allo stesso modo è stata utilizzata anche dall’hegelismo di destra e conservatore. La teoria dialettica è soprattutto una modalità di abitare il tempo, una specie di struttura costruita per il progresso del tempo che, pur non portando sempre a istanze teleologiche (a seconda di come viene concettualizzata), permette attraverso un certo grado di presupposizione, di influenzare ciò che viene dopo. È, in un certo senso, un modo di proiettare il presente, o almeno parte del presente, nel futuro (o a volte anche nel passato), un modo di spiegare il futuro con termini che sono attualmente disponibili e di costruire, soprattutto, una forte relazione tra causa ed effetto che in un certo senso garantisce che almeno alcuni aspetti del presente saranno conservati nei – e attraverso – i processi distruttivi che il pensiero dialettico tende a concettualizzare e produrre.

Ci sono svariate ragioni per apprezzare il pensiero dialettico per il modo in cui funziona da narrazione del tempo più ricca e profonda di un vuoto progressismo liberale, che afferma semplicemente che il passaggio omogeneo del tempo stesso è tutto ciò che è necessario perché la storia proceda. La teoria dialettica riconosce cioè la natura antagonista del tempo storico. È anche in sintonia con il modo in cui la materialità e l’oggettività – almeno in certa versione, particolarmente quella marxista – gioca un ruolo in questo antagonismo, aggiungendo un elemento che non dipende interamente dagli attori umani che sono coinvolti nei suoi ritmi.