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intrasformazione

Post-verità

di Salvo Vaccaro

 media rokgalleryChi rinuncia a monopolizzare la verità
rinuncia a comandare.
Fernando Savater

1. Il potere della post-verità

Nel novembre del 2016, Oxford Dictionaries ha eletto parola dell’anno Post-verità. Il lemma esprime una «relazione con o una connotazione di eventi in cui i fatti oggettivi sono meno decisivi per formare una opinione pubblica, rispetto al ricorso ad emozioni e credenze personali» (Relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief)1. Si era appena usciti dalla sorpresa generale dell’esito referendario sulla Brexit nel Regno Unito, nonché dalla sorpresa ancora più imprevista, e a dispetto di tutti i sondaggi, della vittoria di Donald Trump alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America. Due fatti di natura prettamente politica che fanno immediatamente evocare una Post-Truth Politics, ossia una nuova era politica segnata dalla post-verità. Ad onor del vero, questo lemma circolava almeno da una decina d’anni in letteratura, a partire per esempio da un (solitario) libro di Ralph Keys uscito negli Usa nel 2004, The Post-Truth Era, oppure da una parola simile usata l’anno successivo dallo scrittore americano Stephen Colbert, Truthiness, nel I episodio del suo programma di satira politica The Colbert Report, che significava sempre per Oxford Dictionaries «la caratteristica di apparire o di considerarsi essere ritenuta vera, anche se non necessariamente vera» (the quality of seeming or being felt to be true, even if not necessarily true)2. Nell’arco di una dozzina d’anni, il termine post-verità esorbita da una dimensione occasionale o marginale alla pubblica discussione, per piombare prepotentemente nel cuore dell’opinione pubblica, del dibattito politico contemporaneo.

La tensione tra verità e post-verità in politica diventa addirittura acuta e stridente, per non dire paradossale e surreale, a metà gennaio del 2017, in occasione dell’insediamento di Trump a Washington. L’indomani, sui media americani, si apre un dibattito sulla quantità di persone radunatesi nella capitale per assistere giubilanti al giuramento del miliardario americano, specialmente in riferimento alla quantità di gente presente quattro e otto anni prima in occasione dell’inaugurazione dei due mandati dell’ex presidente Barack Obama. Ovviamente la discussione si accende in modo fazioso e partigiano, i conteggi come al solito sono ondivaghi, con numeri ampiamente oscillanti, e le immagini portate a dimostrazione di una alta o di una bassa numerosità, in comparazione con il passato, sono beninteso condizionate dal taglio fotografico o televisivo adottato a monte. Sembrerebbe che nulla di nuovo si registri in tale occasione, vale sempre per ogni manifestazione pubblicamente politica in cui la quantità fa premio sui contenuti della dimostrazione stessa, quasi che la sua bontà qualitativa dipenda al numero di consensi sulla piazza. Tuttavia, e qui si consuma lo scarto, commentando nello studio NBC, nell’ambito della trasmissione televisiva Meet The Press, il dibattito sulle immagini proposte ieri e oggi, Kellyanne Conway, una consulente dell’ufficio-stampa del neopresidente Trump così commentava e dichiarava quanto enunciato da Sean Spicer, allora portavoce-capo dell’amministrazione, mentre contestava i dati di affluenza offerti come inferiori alle volte precedenti, rivendicando invece dati di una affluenza senza precedenti nella storia degli Stati Uniti: «Lei dice che sono falsi, ma Sean Spicer sta fornendo fatti alternativi». E il giornalista in studio Chuck Todd prontamente replicava: «I fatti alternativi non sono fatti, sono falsità» (You're saying it's a falsehood. And they're giving – Sean Spicer, our press secretary, gave alternative facts, she said. Todd responded: Alternative facts aren't facts, they are falsehoods)3.

Qui troviamo in azione non solo un tipico esempio di post-verità, ossia di indifferenza a quantità oggettivamente misurabili, sia pure con qualche difficoltà, ma oltrepassiamo il dato opinabile di un dissidio senza compromessi, tatticamente teso ad aggirare la mediazione mediatica per instaurare un canale di comunicazione diretto tra leader e massa, per entrare nell’era dei fatti alternativi: un curioso rovesciamento della nota sentenza di Nietzsche, secondo il quale, ingenuamente verrebbe da dire adesso, “non esistono fatti, solo interpretazioni”. Invece, i fatti esistono ma non nella loro univocità obiettiva, bensì in una doppiezza reciprocamente alternativa il cui arbitrato non è deducibile da una posizione neutra che garantisce oggettività, e nemmeno disponibile alla narrazione ermeneutica più o meno convincente, bensì alla posizione di potere da cui si enuncia quel “fatto alternativo” ritenuto vero. Come sosteneva Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie,

Quando io uso una parola – disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante - essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi… né più né meno.

Qui sta il problema – disse Alice – se voi potete fare sì che le parole significhino cose differenti.

Il problema è – disse Humpty Dumpty – chi deve essere il padrone, ecco tutto4.

 

2. Nulla di nuovo sotto il sole?

Potremmo ridimensionare la battuta della consulente e del portavoce di Trump, peraltro poi entrambi licenziati dalla Casa Bianca, come infelice gaffe in un momento di euforia sotto ennesimo attacco da parte dei media mainstream americani, che male avevano digerito la loro sconfitta nella pretesa di orientare il corpo elettorale, evidentemente non più sintonizzato su di essi, tanto per la presa populista diretta tra il candidato presidente e la massa dei potenziali elettori capace di bypassare il filtro mediatico ufficiale, quanto per il declino di certi media tradizionali soverchiati dal ritmo incalzante e accelerato dei social i cui contenuti diventano sempre meno controllabili dai professionisti (più o meno imparziali) dell’informazione (fact-checking).

Tuttavia la trincea dell’alt-facts, coerente con l’ideologia dell’alt-right che ha fortemente voluto Trump alla presidenza americana, non va a mio avviso sottovalutata, specie in tempi di populismo montante. Il fattore cruciale è però quello di individuare correttamente il nesso tra verità e politica, non più sotto il segno della verità, come appunto evoca il prefisso post-, bensì sotto il segno del potere, come appunto richiama Humpty-Dumpty.

Antico è infatti il rapporto della politica con la verità, sia sotto il profilo teorico che con quello empirico, pratico. Il conflitto tra Platone e i sofisti è incentrato proprio sul rilievo della verità negli affari della polis; solo chi è in grado di accedere alla verità può governare il bene comune, e proprio a tal fine solo ai governanti (e ai medici) è lecito mentire (organized lying, rileva Arendt), mentre i sofisti irridono la verità perché negano il fondo epistemico dell’agire politico, tutto connesso invece al mero esercizio di potere per la cui funzione il verosimile va più che bene5. Più che liquidare la verità, la rendono superflua, attraverso l’eloquio retorico le cui operazioni linguistiche ne dimostrano l’irrilevanza. E come dimenticare poi l’appello di Cicerone contro la retorica di Catilina i cui sofismi abusavano della pazienza e della sapienza! Molti secoli dopo, Hobbes rovesciava l’impianto classico - peraltro indebolito da Machiavelli nell’ibridazione di ragione e calcolo razionale in un fascio d’agire affatto ridondante – attribuendo il carattere di verità non alle cose, come affermava Platone nel mito della caverna, bensì al discorso, alle parole e a chi le enuncia6.

Hannah Arendt, in effetti, sottolinea il carattere politico della verità come forza coercitiva che chiude ogni discussione, sovrastando la parola tanto del politico quanto dell’opinione pubblica, ma proprio per questo rilevando, nella forza coercitiva stessa, la sua fragilità dettata dalla costitutiva contraddittorietà del suo statuto. Ogni verità di fatto, che non raggiunge la dimensione di assioma indiscutibile, pur dotato di resilienza in una memoria collettiva che non sia immemore o che non voglia essere smemorata per sudditanza all’oblio del tempo, si espone alla sua strumentalizzazione politica giacché proprio l’evento, con la sua narrazione necessariamente discorsiva anche se praticata dal testimone oculare del quale sono noti gli abbagli illusori, si espone alla contingenza del suo poter- essere-altrimenti, che definisce la libertà della modernità. Il pluralismo ontologico della filosofia politica di Arendt confina la verità scientifica negli ambiti tutelati e presidiati da un impianto epistemologico che trova al proprio interno correttivi idonei a falsificare e quindi modificare verità accertate e riconosciute, muovendo il terreno sotto ai suoi piedi e sollevandola da una stabilità perenne tipica del dogma teologico o della narrazione mitica. Così la verità scientifica, chiudendo l’infinito dialogo pubblico, si erge come dispositivo dispotico, ossia antipolitico, affidata ad un dibattito esclusivo cui fidarsi e affidarsi in vista delle applicazioni tecnologiche che però, a loro volta, non solo incidono su rappresentazioni e percezioni, ma modificano il campo epistemologico e persino politico ove si formano tali rappresentazioni e percezioni in grado di orientare il processo politico stesso7.

Per Arendt, sempre nella cornice di immanente pluralità della condizione umana, i fatti possono diventare veri secondo un complessa strategia discorsiva in grado di orientare l’accertamento e il riconoscimento da parte dell’opinione pubblica, peraltro condizionata dagli strumenti di comunicazione e di persuasione di massa, a loro volta non esenti da condizionamenti interessati legati a assetti di proprietà (privata o pubblica occupata da elite in senso appropriativo) o a finalità funzionali di segno tattico. Poiché il gioco discorsivo è illimitato e vulnerabile proprio perché attraversabile da rappresentazioni capaci di sovvertire la percezione dei fatti e non solo delle opinioni sui fatti, il potere politico usa a piene mani forme di de-fattualizzazione mediante strategie produttive di bugie, di oblio, di cancellazione, di censura, di inganni e di auto-inganni, sempre parziali e mai totali, ma pur sempre dotate di efficacia nel tempo, con l’effetto non secondario di intorbidire le acque e depistare le attenzioni tese alla ricerca legittimata istituzionalmente di una verità di fatto. Il risultato finale potrebbe sfociare in un cinismo letteralmente scriteriato che distorce un sano scetticismo di fronte alle verità interessate, veicolate dal potere, in direzione di una incredulità totale e permanente che impedisce ogni giudizio all’opinione pubblica, specie nei momenti topici di esercizio della sovranità decisionale. E tale incredulità si offre indifesa alla permeabilità e porosità della struttura dell’immaginario sociale del pubblico alla mercé del potere di turno che si pone con una «mentalità da raison d’état»8.

Insomma, i fatti sono sempre stati contestati, e la politica si alimenta di menzogne e fake news sin da tempi immemori, ma con altre denominazioni. Certo, oggi sottolineare la perdita di senso della verità in direzione della post-verità alluderebbe con cattiva prospettiva ad un’epoca in cui politica e verità si coniugavano correttamente, in una sorta di eden della politica. Mai avvenuto, invero. E però occorre anche rilevare come il progressivo disfacimento delle basi della comunità, dei legami societari ad opera di una governamentalità neoliberale più che sospinta faccia venire meno un ethos collettivo e solidale sul quale attivare un agire critico e una intellettualità critica del presente. Da qui la ricerca solipsistica di verifica delle ondate informative che si scatenano dalla moltiplicazione accelerata dei mass media usuali e virtuali, nell’era post-Mac Luhan, che orienta il singolo individuo a rintracciare conferme senza sorprese ai propri pre-giudizi, piuttosto che avventurarsi privo di filtri critici in territori che lo destabilizzano culturalmente, essendo già precarizzato nelle proprie certezze dal terremoto sociale in cui si trova immerso9. Indubbiamente, la spettacolarizzazione della politica la rende omogenea all’infotainment, la sua estetica è omologa al marketing diffuso in cui la retorica praticata dagli antichi sofisti, nella scarto di finzione pur esistente tra parola e corpo, denudato dai parresiasti cinici, oggi si estende come forma di vita in cui la singolarità plurale di ciascuno di noi viene tutta assorbita dal simulacro dell’individuo, scisso in sé e separato dalle sue istanze collettive. E del resto, non viviamo la depoliticizzazione quotidiana come costo per l’illusione di una libertà individuale, di una sicurezza personale? Senza accorgercene, la governance neoliberale annuncia l’ingresso in una era post-politica in cui la rigidità amministrativa regolamenta il conflitto delle volontà politiche neutralizzandolo talmente in anticipo da assoggettarci all’anonimato delle autorità prive di imputazione di responsabilità, già degradata a semplice accountability.

 

3. Nostalgia della verità

L’emergenza di una politica (organizzata) della post-verità da parte di autorità al potere viene ricondotta all’indebolimento della matrice scientifica della verità da parte di quella corrente articolata e differenziata che viene etichettata come post-modernità (nell’accezione che ne diede Habermas, ad esempio) o più in particolare nelle università americane come French Theory. A forza di sentirsi ripetere che la verità non si nutre di una procedura di segno scientifico, né ha alcun legame ontologico con cose reali, bensì è il nodo esitato da una trama conflittuale di strategia di potere-sapere che tesse a livello culturale per produrne una consonante e funzionale al proprio esercizio, possibilmente indisturbato, non c’è da meravigliarsi se spuntano come funghi verità molteplici e fatti alternativi tutti degni del medesimo status di accettabilità. Insomma, da Nietzsche a Lyotard, appoggiandosi a Feyerabend e Rorty e tirando per i capelli Foucault, si è imposta la linea “falsa” di un pensiero post-1968 che, per non voler essere autoritario o instaurare gerarchie di pensabilità legittime, si è indebolito a tal punto da farsi catturare da qualsiasi autorità politica che manipola verità senza pagare alcun dazio, tanto anything goes!

In effetti, ai pensatori post-moderni, tipicamente presi come una unica formazione auto- identificatasi come tale, e pertanto al di là delle innegabili differenze di strategie e tattiche analitiche e teoriche, vengono imputati di volta in volta la destituzione di una narrazione generale sovra-storica che coniuga ordine del pensiero e verità di senso, la rottura del marchio ontologico che identifica l’essere con ciò che è senza poter essere altrimenti, l’aporia costitutiva al fondo di ogni posizionamento di pratica di pensiero e quindi di agire che si spalanca non tanto sul nulla, come vorrebbe Heidegger, quanto sulla contingenza provvisoria di date condizioni di emergenza della contingenza e dei suoi effetti plurali, quasi mai tracciabili in anticipo dalla teoria. Tali capi di imputazione di rottura dell’ordine costituito dal sapere occidentale lungo i secoli si articolano su alcune tattiche esercitate che provano a ridimensionare la cattura teorica del sapere istituito e istituente nonché dei modi di pensare, ai fini di rovesciarle nel loro opposto: la postura ironica che cerca di smontare con sano scetticismo ogni pretesa di verità viene accusata di relativismo o indifferenzialismo; il pluralismo ontologico che contrappone il divenire all’essere prelude ad un caos teorico e pratico che alimenterebbe la sfiducia nelle regole della democrazia aprendo la via al populismo; la critica alla critica scientifica spalanca le porte ad una epistemologia improvvisata fai-da-te che si diffonde viralmente sulle autostrade incustodite del web; l’uso innovativo di alcuni topoi quale il nesso sapere-potere, ad esempio, favorisce la scorciatoia per la quale il pensiero post-moderno, legittimando il potere quale fonte di tutto, si consegna «all’assolutismo della ragione del più forte», facendosi strumentalizzare da destra ciò che in buona fede aspirava a esiti a sinistra; la coincidenza casuale della svolta conservatrice all’indomani del ’68, ossia negli anni di diffusione (più che di elaborazione) delle critiche post-moderne, conferma la cifra conservatrice del pensiero sin nelle attitudini analitiche e teoriche; a forza di confrontarsi con autori controversi quali Nietzsche e Heidegger, il post-moderno di sinistra si è lasciato soggiogare dal fascino perverso della destra; infine, criticando la modernità, denunciando i limiti o gli eccessi (risalenti alla Dialettica dell’illuminismo, ad esempio), si è minata alla base la democrazia, le sue regole del primato convenzionale della maggioranza nonché le istituzioni dello stato di diritto.

Non è questa la sede per affrontare la vastità delle accuse, per testarne la loro bontà a fronte di una attitudine razionale non certo frutto di un ampio complotto teoretico e intellettuale, condotto per alcuni decenni da personalità accomunate da uno spirito critico che tuttavia si è esplicitato in contesti e quadri di sapere diversi gli uni dagli altri, persino per coloro indebitamente raggruppati in una French Theory per il solo fatto di esprimersi in francese! Peraltro, la dialettica tra accusa e difesa non faciliterebbe la reciproca comprensione dei rispettivi punti di vista e di prospettiva, a fronte di una condizione umana che nel frattempo ha fatto passi di gigante per la cui analisi quel dibattito probabilmente sconta l’usura del tempo trascorso. In ultima analisi, però, ancora oggi mirare a decostruire la «solidarietà trascendentale tra unum e verum» – reale obiettivo di ciò che possiamo definire la critica post-moderna – risulta un intento difficile per alcuni e indigeribile per altri.

La rottura di simmetria tra ontologia e epistemologia nella ricerca della verità o nell’abilitazione della post-verità nella discussione odierna, induce Maurizio Ferraris a sottolineare con vigore l’ingresso, nel campo del sapere-potere, della tecnica di produzione del virtuale – la «viralità del web» in grado di intossicare un rigore analitico di distinzione così come di offuscare per iper-abbondanza, potenzialmente infinita, di dati una capacità, selettiva e limitata, di ricostruzione di senso. La tecnologia, nella sua forza di iscrizione degli oggetti e delle interpretazioni in supporti documediali, di documentazione e di veicolazione mediale insieme, si pone come una terza dimensione accanto alle sfere dell’ontologia e dell’epistemologia, al tal punto da comprendere l’emergenza del pericolo reale della post-verità agganciata non più sulla negazione di fatti o sul gioco delle interpretazioni epistemicamente illimitate, bensì sulla precessione di codici produttivi di oggetti sociali che mobilitano totalmente non più il lavoro quanto i dati a disposizione per leggere la realtà, realizzando così l’antica profezia faustiana che intendeva l’umano quale protesi delle nuove tecnologie. Viralità, persistenza, mistificazione, frammentazione, opacità delle fonti, la post-verità sembra essere, in un calembour linguistico, la «verità che si posta», il virtuale è la vera realtà disordinata del datum omnium contra omnes, in una contingenza postpolitica in cui la governamentalità neoliberale ha compiutamente fatto interiorizzare la sovranità del singolo individuo sul corpo collettivo che è stato costretto all’esilio dalla terra per trascendersi nella forza anonima del web10.


Note
1 OxfordDictionaries.com, 16 novembre 2016.
2 Ralph Keyes, The Post-Truth Era, St. Martin Press, New York, 2004; Stephen Colbert, The Colbert Report, primo episodio sul canale Comedy Central della Viacom, 17 ottobre 2005. Per il Collins, «the quality of being considered to be true because of what the believer wishes or feels, regardless of the facts», mentre per Dictionary.com, «the quality of seeming to be true according to one's intuition, opinion, or perception without regard to logic, factual evidence».
3 Eric Bradner, Conway: Trump White House Offered “Alternative Facts” on Crowd Size, CNN.com, 23 gennaio 2017. Cfr. Susan I. Strong, Alternative Facts and the Post-Truth Society: Meeting the Challenge, University of Missouri, School of Law, Legal Studies Research Paper Series, R.P. No. 2017-04, http://ssrn.com/abstract=2918456.
4 Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Garzanti, Milano, 1975, p. 221.
5 Cfr. Adriana Cavarero, La “post-verità”, “Corriere della sera”, 18 giugno 2017.
6 Cfr. Lelio Demichelis, Dalle fake news alle fake tech, “Alfabeta2”, 8 aprile 2017; Giorgio Mascitelli, Postverità e postpolitica, “AlfaDomenica”, 7 maggio 2017.
7 Cfr. Hannah Arendt, La menzogna in politica, Marietti 1820, Genova, 2006.
8 Hannah Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 66.
9 Cfr. Franco Berardi Bifo, Verità, simulazione e mente critica, “Alfabeta2”, 4 settembre 2017.
10 Cfr., per l’intero paragrafo, Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna, 2017; per le locuzioni citate, rispettivamente, p. 11, p. 126, p. 156, p. 115.

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