Print Friendly, PDF & Email

marxismoggi

Per una critica socialista dello Stato liberale di diritto: note sparse

di Mattia Gambilonghi

Sign for the Trusty Servant geograph.org.uk 10360091. Origini e caratteri essenziali

Principale punto d’approdo di quel filone contrattual-razionalistico che, agli albori della modernità, aveva cominciato a ridisegnare la politica in senso individualistico e antiorganicistico, ponendo al centro del proprio progetto il Soggetto per eccellenza – quello borghese – e definendo i termini di una mediazione razionale tra individui capace di dar vita ad un artificio politico – lo Stato – incaricato di tutelare questi ultimi e i loro diritti naturali, lo Stato liberale di diritto rappresenta la forma di Stato che contrassegnerà lo scenario europeo dalla Rivoluzione francese alla fine della Seconda guerra mondiale.

Il fatto di nascere e svilupparsi da un lato in reazione all’ordinamento cetuale e particolaristico proprio dell’Ancien regime, e dall’altro al fine di razionalizzare politicamente e dare una veste di diritto pubblico ad una società mercantile che vede oramai il motore del proprio sviluppo in quello “scambio di equivalenti” reso possibile dalla reciprocità strutturalmente connessa all’istituto giuridico del contratto – autentico perno delle società proto-liberali e proto-capitalistiche[1] –, fa sì che i caratteri che sin da subito contraddistingueranno lo Stato liberale di diritto siano quelli dell’astrattezza, della generalità e dell’uniformità, veri e propri «punti salienti [del] programma politico-ideologico» della Rivoluzione francese[2]. La modernità giuridica sente infatti in maniera quasi ossessiva la necessità di “semplificare tutto”, riprendendo le parole del giurista di età napoleonica Jean-Étienne-Marie Portalis: non più la molteplicità di corpi, fonti del diritto e regimi giuridici, ma una società (presunta) omogenea composta da individui dotati di una eguale capacità giuridica. È evidente come il carattere dell’astrattezza investa in primo luogo i tratti e le qualità proprie dei soggetti politico-giuridici posti al centro dei nuovi ordinamenti, dei soggetti che idealtipicamente ricalcano una precisa e storicamente determinata figura sociale, quella dell’individuo-proprietario, il bourgeois[3].

Ma questa pari capacità giuridica, quest’eguaglianza formale, tale da concretizzarsi principalmente di fronte alla legge, finisce inevitabilmente per ignorare e passare come una livella sulla pluralità delle condizioni sociali di esistenza, e ciò nonostante la loro essenzialità ai fini di un pieno dispiegamento e concretizzazione di questa stessa eguaglianza formale, che, non caso, porterà a termine solo con molto ritardo il proprio «completamento» sul piano «politico-decisionale»[4]. Il piano, cioè, del suffragio e della sua estensione sotto una pluralità di profili: quello del censo, quello del genere e quello della razza, a riprova insomma della ristrettezza e dell’insufficiente capacità inclusiva dell’idealtipo sopra richiamato – il bourgeois bianco e di sesso maschile – e attorno a cui viene edificato lo Stato liberale di diritto.

 

  1. La concezione liberale della libertà e della democrazia: limiti e aporie

A dispetto dell’universalità rivendicata, il liberalismo ottocentesco e lo Stato di diritto finiscono quindi per assumere la funzione di armatura ideologica del gruppo sociale emergente e dello «Stato monoclasse» al cui interno quest’ultimo si trova a svolgere una funzione politicamente dirigente[5]. Concependo il Soggetto attraverso una lente rigorosamente atomistica e mercantile, homo singulus radicalmente emancipato dal gruppo e dai nessi sociali che questo comporta, e avente come unico obiettivo quello di contrattare «gli spazi della propria autonomia»[6] rispetto allo Stato e agli altri individui, la stessa idea di autogoverno e di “democrazia” connaturata al liberalismo ottocentesco assume una connotazione assolutamente minimale, essendo «l’orizzonte visibile» da quella «altezza» esclusivamente quello «del mercato, della concorrenza e dell’agonismo sociale»[7]. Una concezione della libertà, quella liberale e propria della modernità giuridica, tale da contrapporsi radicalmente a quella espressa in altre epoche, ad esempio, dalla “tradizione repubblicana” ricostruita da studiosi come Skinner, Viroli o Pettit[8]. Laddove infatti la prima si qualificherebbe come negativa e incentrata sull’idea di non-interferenza (dello Stato e di altri individui) nella sfera di autonomia del singolo, la seconda – riproposta e rideclinata in seguito sotto altre forme dall’insieme della tradizione socialista e da quella cristiano-democratica – vedrebbe invece come irrinunciabile il legame sociale, la dimensione della deliberation e la partecipazione alla vita politica, assumendo quindi una connotazione positiva. Se la prima insomma si connota come libertà privata, la seconda può essere definita una libertà politica. Non che nell’edificio teorico liberale non vi sia spazio per quest’ultima: le due libertà, anzi, si implicano a vicenda, essendo l’unificazione politica astratta che si compie nello Stato rappresentativo – e quindi nella dimensione della libertà politica – il rovescio della medaglia di una società reale disgregata e atomizzata – sede, al contrario della privata libertà economica e d’intrapresa[9]. Semplicemente, la libertà politica, come il diritto pubblico più in generale, si trova ad occupare una posizione subordinata rispetto all’altra libertà e alla dimensione del diritto privato, svolgendo cioè rispetto a questi una funzione servente: non a caso, taluni hanno parlato di «approccio privatistico» in relazione all’atteggiamento tenuto in età liberale dal diritto pubblico rispetto allo «Stato-comunità»[10]. In base alla celebre distinzione fra libertà degli antichi e libertà dei moderni operata da Benjamin Costant, «la libertà politica moderna consiste proprio nel farsi rappresentare, nel fruire di una propria autonoma privata o libertà civile che si separa dalla vita pubblica»[11].

A differenza, insomma, del costituzionalismo della tradizione repubblicana – «pre-liberale», nella definizione datane da Barberis[12] –, orientato alla difesa di una libertà individuale concepita come la «produzione della legge da parte di coloro stessi che le devono obbedire»[13], il costituzionalismo liberale supera – a parere di Barberis senza negarla, bensì inglobandola – questa concezione, attribuendo assoluta centralità ad una libertà intesa invece come «insieme dei diritti individuali opponibili alle stesse leggi e allo stesso Stato»[14]. Sviluppandosi del resto in reazione ai soprusi e alle soverchierie dello Stato assolutista, la stessa dimensione della partecipazione politica al potere propria del proto-liberalismo risulta orientata più al controllo e alla prevenzione di abusi che non alla «manifestazione di un diritto all’autogoverno»[15]. Il costituzionalismo liberale può quindi essere definito come una dottrina finalizzata alla limitazione e al contenimento del potere, limitazione che viene realizzata non solo sancendo una sfera di autonomia individuale inviolabile, ma soprattutto organizzando, dividendo ed equilibrando quei poteri – il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – che, qualora fossero soggetti a confusione o commistione, rappresenterebbero una potenziale minaccia per quella sfera di autonomia appena richiamata e per quei diritti “naturali” che in essa sono compresi.

A qualificare poi come minimale la democrazia espressa in questa fase storica dallo Stato di diritto non è solo la sua natura meramente elettorale-rappresentativa o la scarsa ampiezza delle sfere e degli ambiti toccati dal Politico in questa fase – si ricordi che fino alla fine dell’Ottocento, gli affari economici verranno considerati rigorosamente privati e la proprietà sacra e inviolabile –, ma anche, come si è già accennato, il perimetro estremamente ristretto di coloro che sono dotati dei diritti politici e che in virtù di ciò sono chiamati a partecipare alla determinazione delle grandi scelte collettive. Nonostante infatti la “libertà dei moderni” si differenzi da quella degli antichi (e in particolar modo dall’idealtipo ateniese della «libertà eguale di pochi»[16]) per il raggiungimento dell’uguaglianza di fronte alla legge e per la fine della scissione fra liberi e schiavi e di qualsivoglia forma di vincolazione e sottomissione personale, la facoltà di autodeterminarsi e auto-normarsi continua ad incontrare delle rilevanti «clausole di esclusione»[17], finendo per risolversi in una elitaria “democrazia dei proprietari”. Dall’endiadi lockeana di proprietà e libertà, fino alla distinzione kantiana fra cittadini attivi – in quanto proprietari e quindi economicamente indipendenti – e cittadini passivi – in quanto dipendenti economicamente e «dalla volontà degli altri»[18], il costituzionalismo liberale considererà l’indipendenza e l’intrapresa economica fattori indispensabili ai fini di un corretto e consapevole esercizio del suffragio e della partecipazione politica. Avendo stabilito un’equazione tra proprietà e saggezza, le classi popolari e non-proprietarie vengono infatti considerate come irrimediabilmente estranee all’idea di interesse generale e portatrici, al contrario, di interessi estremamente particolari che, qualora arrivassero a permeare il potere politico e le statuizioni che da questo sono generate, finirebbero per corromperne la razionalità. Ed è sempre in Kant e nella sua idea di “volontà pubblica” che possiamo rintracciare la fondazione teorica di questa discriminazione in senso classista. Dovendosi a suo parere concepire la legge come il frutto della Ragione e come un qualcosa che «non deve far torto a nessuno»[19], essa non può quindi essere considerata come la manifestazione della reale volontà di tutti i cittadini, bensì come un elemento da definire e costruire come se tutti – ma in realtà, solo un legislatore illuminato e «santo»[20] – avessero partecipato alla sua produzione. La “volontà pubblica” dello Stato di diritto kantiano – laddove prevale non «la maestà del popolo» ma quella «della legge»[21] – è una volontà che privilegia insomma il contenuto alla fonte. Come del resto era già stata evidenziato da un giurista francese del secolo scorso, la «sovranità del popolo» affermata dal liberalismo e rivendicata come proprio fondamento non sarà mai confusa da quest’ultimo con «l’onnipotenza del numero»[22]. Anche in questo caso, evidentemente, riemerge il carattere sussidiario della libertà politica rispetto a quella privata: la prima non deve cioè estendersi «al di là di quanto potrebbe riuscire pregiudizievole a quello che è il vero valore essenziale, la libertà-autonomia, il rispetto cioè della sfera autonoma dell’iniziativa e della attività individuale»[23].

 

  1. Il liberalismo e il rapporto Stato/società

Nel quadro di quella volontà radicalmente semplificatrice e uniformante di cui si è parlato all’inizio, il panorama giuridico così disegnato sembra avere come proprie fondamenta una serie di coppie oppositive e di «relazioni antinomiche» – «fra unità e pluralità, statualità e socialità, autorità e libertà, monismo e pluralismo»[24] –, prima fra tutte quella individuo/Stato, binomio attorno a cui si troverà a ruotare per lungo tempo la politica liberale, esaurendo in questi due poli la complessità sociale proprio a causa della natura riduttiva di questo schema. Questo disconoscimento di una società reale che sfugge ai tratti stilizzati dell’individuo-proprietario dentro cui si vorrebbe forzatamente ricondurre la totalità dei suoi membri, porta il liberalismo teorico a eludere, o comunque a non tenere nella dovuta considerazione, la ricchezza delle dinamiche relazionali che intercorrono fra gli individui, e che non sono in ogni caso riducibili agli scambi regolamentati dai contratti di compravendita. Nel timore, forse, di ricadute in un passato corporativo, lo Stato liberale di diritto faticherà perciò a riconoscere dignità e spazio a quelle interazioni tra singoli che eccedono la sfera mercantile-privatistica, osteggiando a lungo i processi di aggregazione ed organizzazione politico-sindacale «sulla base di interessi particolari»[25] (basti pensare alla legge Le Chapellier del 1791).

Se quindi, come abbiamo detto, tra libertà privata e libertà politica viene ad instaurarsi un rapporto di coessenzialità e di complementarità, e se il binomio individuo/Stato indica i due poli principali della politica liberale, i caratteri di astrattezza, generalità e uniformità già individuati nella soggettività borghese avranno una loro traduzione anche sul versante dello Stato, modellandone forme e funzioni. Ed è principalmente nella funzione garantistica dello Stato di diritto che si può rinvenire la manifestazione di questi caratteri: essendo quello liberale uno “Stato minimo” modellato sull’idea del “guardiano notturno” chiamato a tutelare vita, proprietà e libertà degli individui, questo ruolo di arbitro imparziale trova la sua principale forma di espressione attraverso lo strumento della legge, anch’essa improntata alla generalità e all’impersonalità. In un contesto in cui i soggetti privati entrano in connessione tra loro attraverso lo strumento del contratto di scambio – caratterizzato dalla più assoluta parità (formale) e reciprocità fra i soggetti contraenti –, un contesto segnato cioè dalla prevalenza di forme di «mediazione giuridico-privatistica» che nel mercato e nei suoi automatismi trovano la loro sede principale, l’azione dello Stato si svolge esternamente ai rapporti sociali e secondo una logica prevalentemente astensionistica, occupandosi di definire il quadro e il campo d’azione dei soggetti, di assicurare la loro parificazione e di mantenere perciò le «condizioni esterne di esistenza e di riproduzione del modo di produzione capitalistica»[26]. È evidente come la legge, vista la sua natura astratta e impersonale, sia in quella fase lo strumento più adatto per plasmare i rapporti sociali senza intervenire in maniera diretta e puntuale, limitandosi invece a porre e a definire i paletti entro cui deve svolgersi l’azione economica dei privati ed entro cui questi ultimi possono esercitare la propria autonomia. Da questa sua cura e attenzione estrema nei confronti dei rapporti di mercato e del traffico privato, possiamo trarre la conclusione per cui quello liberale e di diritto sia uno Stato che «tende a tutelare e a garantire piuttosto la statica che la dinamica sociale»[27]. Uno Stato, cioè, che svolge una funzione essenzialmente conservatrice dei rapporti sociali che ha alla sua base[28]. Il che, come sottolineato da Lelio Basso, pone in luce una singolare contraddizione tra la natura dello Stato di diritto e quella dei rapporti economici che gli sono sottesi. Se da un lato infatti

il capitalismo è per sua natura movimento continuo e continua trasformazione di tecniche e di rapporti, […] l’ordinamento politico-giuridico da esso creato e che si definisce liberale, è in sostanza un ordinamento conservatore. Sotto l’apparenza di voler garantire soltanto le possibilità di libero e autonomo sviluppo, esso si sottrae al compito storico di consacrare tutto ciò che nella realtà sociale appare in contrasto con gli interessi delle classi dominanti.[29]

 

  1. La “sottomissione della costituzione” nel costituzionalismo liberale ottocentesco: tra potere costituente e statocentrismo

D’altro canto, la funzione garantistica della tradizione liberalcostituzionalistica avrà per lungo tempo proprio nella legge e nei codici il principale strumento di tutela di quei diritti individuali inalienabili e opponibili, una caratteristica che qualifica lo Stato di diritto come uno Stato prettamente legislativo. Questo primato della legge – quale emanazione della volontà dello Stato, e quindi della Nazione di cui è espressione – sulla costituzione può apparire a prima vista come una vistosa contraddizione della costruzione del costituzionalismo liberale, producendo tra l’altro sia un’elevata flessibilità delle carte costituzionali stesse che un garantismo, nei fatti, molto fragile rispetto alla dimensione dei diritti individuali, specie se paragonato a quello delle democrazie costituzionali novecentesche, segnate al contrario da un primato della costituzione che grazie al principio – di derivazione kelseniana – del controllo giurisdizionale degli atti viene finalmente ad assumere una dimensione non più semplicemente ideologica, ma pienamente normativa. Ma ciò che apparentemente può sembrare una contraddizione trova in realtà la sua spiegazione nella concreta conformazione assunta dal liberalismo sette-ottocentesco e nelle sue linee di evoluzione.

Nell’ambito del pensiero e della prassi liberale, è infatti possibile individuare storicamente due diverse forme di “sottomissione della costituzione” quale strumento sovraordinato di garanzia dei diritti e delle libertà, diverse nell’ascendenza teorica e nelle modalità di esplicazione, ma entrambe convergenti nel respingere l’idea di una norma fondamentale in grado di vincolare il potere sovrano. La prima, anche dal punto di vista storico-cronologico, è quella di natura assembleare originata dal filone giusnaturalistico-rivoluzionario; la seconda ha invece un carattere prettamente statualisico, prendendo le mosse dalla dottrina hegeliana e dalla “scuola storica del diritto” di Savigny, per poi svilupparsi pienamente attraverso il positivismo giuridico di Georg Jellinek. Nel primo caso il rifiuto di una carta fondamentale di natura vincolante trova la sua ragion d’essere nell’indisponibilità dell’Assemblea nazionale – che si concepisce quale unica possibile incarnazione del potere costituente, vista l’imprenscindibilità della fictio della rappresentanza politica ai fini di sintetizzare e condensare una “volontà generale” altrimenti dispersa ed atomisticamente frammentata – a lasciarsi “ingabbiare” e limitare da un elemento giudicato irrimediabilmente “costituito”. Fermo restando quel primo abbozzo di divisione tripartita dei poteri che prende forma attraverso le innovazioni istituzionali di quegli anni, il nodo della tutela dei diritti e delle libertà viene però affrontato dal liberalismo di epoca rivoluzionaria guardando, più che alle tecniche e alle procedure attraverso cui garantirle, alla natura e all’origine del legislatore. Il quale, qualora incarni la volontà generale, è impossibilitato a «ledere i diritti individuali» in quanto «necessariamente giusto»[30]. Un garantismo, nei fatti, più politico ed ideologico – tale cioè da rinviare alla sfera dei principi e dei valori propri del liberalismo, come ad esempio il pluralismo e la libertà di espressione – che normativo e sostanziale – in grado, invece, di rendere effettiva la tutela delle libertà personali affermate nelle carte costituzionali attraverso una strumentazione procedurale finalizzata a garantire la conformità della legislazione ordinaria ai principi dell’ordinamento.

Il secondo caso attiene invece alle trasformazioni in senso risolutamente conservatore conosciute dal liberalismo a partire dalla Restaurazione, trasformazioni che condurranno ad un modello destinato ad affermarsi nell’Ottocento su scala continentale e che – nonostante le inevitabili sfumature e specificità nazionali – è riassumibile dal punto di vista teorico nella triade “Jellinek-Carré de Malberg-Orlando”. Successivamente alla stagione rivoluzionaria francese, comincia infatti a porsi il problema della stabilizzazione di un’obbligazione politica che, agli occhi delle nuove classi dirigenti, non può permettersi di essere costantemente rimessa in discussione. Ciò che si produce, tanto a livello di dottrina che a livello di prassi di governo, è dapprima un netto ribaltamento della gerarchia tra potere costituente e potere costituito che aveva originariamente visto il primo in posizione sovraordinata, e in seguito la sua progressiva marginalizzazione e sostituzione con un «fondamento storicistico»[31]. Sarebbe a dire, il tentativo di individuare come principio originante lo Stato non tanto un accordo contrattuale – la tradizionale ipotesi del giusnaturalismo, che vede nel contratto il vettore del passaggio dallo stato di natura alla società politica – impregnato di volontarismo e proprio per questo facilmente contestabile e rescindibile, ma piuttosto un «ordine giuridico di carattere oggettivo»[32], storicamente fondato e con profonde radici nella tradizione e nelle consuetudini. Se il primo, in ragione della sua politicità, è contrassegnato dalla mutevolezza e dalla variabilità, il secondo ha al contrario la giuridicità come tratto principale proprio per via del suo carattere durevole e stabile[33]. I limiti stessi dello Stato, dentro questa nuova visione, sono rappresentati «non più da un vincolo contrattuale o da un nucleo di diritti naturali, ma dal diritto popolare, dal diritto storico, dal diritto etico»[34].

È evidente come in questo secondo caso, concependo la costituzione non come «suprema norma giuridica di garanzia», ma come «principio primo di unità, di ordine politico»[35], non come il prodotto di un artificio volitivo e di una deliberazione politica, ma come il frutto di una lunga sedimentazione storica (e proprio per questo ragionevole), la “sottomissione della costituzione” si realizzi attraverso la sua sussunzione in quella dimensione statale che, in virtù della sua natura etico-universale, può interpretarne al meglio lo spirito. Lo statualismo liberale tedesco è insomma recalcitrante all’idea di piegarsi ad una norma scritta, seppur “fondamentale”, in quanto ciò finirebbe inevitabilmente per evocare lo spettro dirigistico, volontarista e disgregante del potere costituente. Se nel primo caso, quello del giusnaturalismo rivoluzionario, il rifiuto del primato di una costituzione intesa come strumento di garanzia avveniva, quindi, in omaggio e a tutela del potere costituente e della sua sovranità, nel secondo invece questo stesso rifiuto avviene in spregio a quel potere, al fine cioè di contrastarlo e di negarne apertamente la valenza politica e la funzione ordinatrice. Nonostante però la differenza, se non addirittura la natura antitetica del procedimento teorico seguito da questi due filoni, entrambi si trovano paradossalmente a convergere per ciò che attiene al risultato. Quello, cioè, di un soggetto politico – si tratti dell’Assemblea nazionale incarnante la volontà generale dei consociati, come dello Stato-persona espressione del diritto positivo radicato nella comunità – svincolato dal rispetto di norme sovraordinate a garanzia dei singoli, garanzia che trova infatti il suo fondamento o nella natura virtuosa del legislatore, o nel carattere moderato e limitato della comunità di cui lo Stato è espressione e da cui trae legittimazione (una legittimazione di natura, ovviamente, non elettorale-consensuale, ma storico-consuetudinaria).  

Da Burke a Jellinek, passando per Savigny e la sua scuola, l’assillo che nel corso dell’Ottocento accomuna gli esponenti del liberalismo conservatore europeo è rappresentato, percio, dalla ricerca di un fondamento della statualità dotato di una maggiore solidità rispetto all’artificio teorico contrattuale. Come sottolineato da Fioravanti, siamo in presenza del primo germe delle successive dottrine «della Costituzione in senso materiale»[36]. E non è un caso che – come vedremo più avanti – queste dottrine rappresentino sul piano teorico uno tra i principali fattori di frana dell’edificio dello Stato di diritto, e, al tempo stesso, un punto di snodo fondamentale nel percorso che condurrà alla genesi del costituzionalismo democratico-sociale del secondo dopoguerra.

Possiamo quindi affermare che attraverso la duplice operazione teorico-politica sopra richiamata – sottomissione del potere costituente al potere costituito e sostituzione del contratto con la storicità e la tradizione – il liberalcostituzionalismo abbandoni la sua iniziale propensione statofobica e realizzi progressivamente, al contrario, una torsione in senso statocentrico, assegnando non più alla costituzione, ma allo Stato – «sia pur sotto forma di Stato costituzionale, limitato, neutro o immaginario»[37] – e alla legge quale espressione della volontà del primo, una assoluta centralità ai fini della garanzia e tutela delle libertà individuali[38]. Libertà, va sottolineato, che nella teoria del Rechtsstaat e nella tradizione del positivismo giuridico non vedono più la loro origine – come nel giusnaturalismo rivoluzionario – nello stato di natura, ma in un’azione di autolimitazione dello Stato stesso, uno Stato che viene sempre più assumendo le sembianze di uno Stato-persona, «espressione storica ed organica del popolo come soggetto unitario e ordinato»[39]. Se il movimento storico incarnato dallo Stato liberale di diritto aveva conosciuto sin dalle sue origini un’oscillazione costante tra il momento della libertà e quello dell’autorità, risulta evidente come nel cuore dell’Ottocento questo pendolo sia nettamente «sbilanciato[…] in favore dell’autorità»[40] e della difesa poliziesca delle libertà economiche e dei diritti proprietari che ad esse si riconnettono.

La diffidenza verso le potenzialità centrifughe di una società politicamente attiva aveva portato la dottrina, nel corso dell’Ottocento, a spostare la sovranità dalla nazione allo Stato, la fonte del diritto dal legislatore come espressione della volontà generale alla legge come espressione del potere neutrale dello Stato, la garanzia delle libertà dello stato di natura al diritto dello Stato[41].

Va notato poi come questa trasformazione interna allo Stato di diritto, che conduce alla teoria – dal sapore organicistico – dello Stato-persona, non comporti in alcun modo l’acquisizione ed il passaggio ad una visione della società più realistica e attenta alle sue articolazioni e differenziazioni interne. La polarità a cui si è accennato sopra, tra individuo e Stato, non viene alterata in nessuna maniera: a prodursi è solo uno slittamento del baricentro del binomio dal primo al secondo termine. La società continuerà ad essere vista come un corpo socialmente omogeneo, ma soprattutto come un «aggregato di monadi»[42] e di individui isolati e irrelati.

Nonostante questa tendenza statalistica e statolatra del liberalismo cominci a manifestarsi pienamente in seguito all’esaurimento della stagione rivoluzionaria francese, ciò non va però interpretato nel senso di un cambio radicale di paradigma, bensì come la definitiva emersione di alcuni tratti che sin dalle sue origini avevano attraversato sotterraneamente il «proteiforme universo liberale»[43], e che, sotto forme e declinazioni di volta in volta ovviamente differenti, lo caratterizzeranno per un lungo ciclo evolutivo: «da Kant a Kelsen»[44], per risolverlo con una battuta. Del resto, la sottomissione della volontà popolare al Legislatore, la sussunzione del popolo nello «ordinamento giuridico dello Stato»[45] e la sua riduzione a semplice sfera di quest’ultimo, sono tutti elementi perfettamente desumibili dalla concezione kantiana della volontà pubblica precedentemente esposta. Tutta la filosofia politica del pensatore di Königsberg è infatti segnata e attraversata dalla costante ed estrema sacralizzazione del potere costituito, in alcun modo contestabile e resistibile e che proprio in ragione di ciò finirà, una volta esauritasi la stagione del giusnaturalismo rivoluzionario, per considerarsi come una «Autorità autoconsolidata»[46] e per ricercare il proprio fondamento nella storia e nella tradizione (e, quindi, al di fuori della dimensione del popolo sovrano).

 

  1. Liberalismo e fascismo: rottura o continuità?

Tutti aspetti, insomma, che unitamente all’ispirazione organicistica della pur sempre liberale concezione dello Stato-persona, gettano diversi ponti verso quella modernissima reazione alla modernità e alla società di massa rappresentata dal fascismo. “Modernissimo”, viste le forme e le modalità attraverso cui si espliciterà: quanto di più distante dalla semplice riedizione o riproposizione del corporativismo cetuale dell’Ancién regime tipica delle destre legittimiste, il fascismo riesce ad esprimere al contrario una profonda comprensione e padronanza – oltre che ad operare una loro deformazione in senso plebiscitario – degli aspetti maggiormente caratterizzanti le società massificate e in marcia verso la democrazia. Non si vuole qui affermare la tesi di un rapporto meccanicamente evolutivo tra liberalismo e fascismo – vista la traiettoria di segno opposto seguita da altri filoni del mondo liberale, a riprova insomma della pluralità dei tratti rintracciabili nel suo DNA –, ma, semmai, individuare i binari tracciati da quest’anima autoritaria ed elitaria dello Stato di diritto e lungo i quali si svilupperà e germoglierà l’esperienza fascista[47].

Il rapporto che quest’ultima intrattiene con la tradizione liberale, è infatti caratterizzato da una esasperata duplicità, ai limiti della vera e propria contraddizione. Una contraddittorietà che conferma però la sua natura di fenomeno storico altamente complesso, incomprensibile attraverso schemi e griglie analitiche eccessivamente riduttive e monocausali: si pensi, ad esempio, alle letture in voga nel movimento comunista negli anni Venti e nella prima metà dei Trenta, tutte tese ad esaltare e sovradimensionare la strumentalità del fascismo rispetto agli interessi del capitale, tralasciando così sia quei fattori che gli permisero di assumere una dimensione ed un radicamento di massa, sia le caratteristiche concrete – e le relative frizioni interne – del blocco sociale dominante nei paesi in cui i fascismi riescono ad operare un vero e proprio sfondamento. Da un lato è oramai comune leggere l’esperienza fascista come reazione e come risposta alla crisi conosciuta dagli Stati liberali di fronte alla sfida posta dalla società di massa e dall’integrazione al loro interno delle classi popolari. Una lettura che mette cioè l’accento sull’alterità e sull’alternatività dell’organicismo autoritario e della rappresentanza corporativa degli interessi rispetto all’atomismo e all’astrattezza della rappresentanza politica liberale, e che, va detto, ha il merito di andare oltre la tesi del fascismo come semplice “braccio armato del capitale”, tesi orientata ad una spiegazione tutta militare delle ragioni della sua vittoria e proprio per questo incapace di comprendere sia le ragioni della sua capacità egemonica che la natura patologica del fascismo quale prodotto delle contraddizioni politiche interne al liberalismo. Ma dall’altro lato, ferma restando la profonda validità di questo schema esplicativo, esso va affiancato ed integrato con una lettura volta invece ad evidenziare, più che gli elementi di rottura con il liberalismo, quelli di continuità con esso, configurando così il fascismo come un originale impasto fra questi due momenti e queste due logiche. Se infatti il fascismo è una reazione alla crisi di rappresentatività del liberalismo, dall’altro è al tempo stesso una reazione – in quanto prodotto delle contraddizioni di quest’ultimo – alla crescente avanzata di quella tendenza egualitaria che attraverso le masse democratiche e socialiste punta a risolvere e a porre fine alla natura solo formale-giuridica dell’eguaglianza proclamata dai liberali. Mira insomma a perpetrare, sotto forme inedite, la natura elitaria, gerarchica e separata dello Stato che il liberalismo è oramai incapace di assicurare, non solo proseguendo lungo la strada di quella sovranità statale – che con declinazioni diverse accomuna sia la linea Kant-Kelsen che quella Hegel-Savigny-Jellinek – chiamata a sussumere il popolo come sua semplice articolazione, ma approfondendola e radicalizzandolo. Nel realizzare però questo fine, all’esasperazione di questa tendenza gerarchica e verticale-discendente (eliminazione del principio della rappresentatività del potere politico e della sua investitura dal basso) il fascismo unisce un nuovo modo di rapportarsi a quelle masse non più ignorabili e anzi indispensabili ai fini della legittimazione e del funzionamento dei sistemi politici. Un rapporto con le masse, cioè, che consapevole della loro imprenscindibilità, ma ugualmente timoroso se non addirittura sprezzante nei loro confronti, opera nel senso di un loro inglobamento e di una loro integrazione nello Stato in posizione subordinata, secondo la logica di una mobilitazione passiva e depoliticizzata che riduce il popolo a semplice oggetto[48].

Una tesi, questa della parziale continuità tra liberalismo autoritario e fascismo, condivisa anche da uno storico come Candeloro, che parlando del duplice «rapporto di continuità e rottura» intrattenuto dal fascismo con la storia italiana precedente, annovera tra le altre cose proprio il fatto che questi avrebbe ereditato dall’Italia liberale «un sistema e una prassi di governo essenzialmente autoritari, che esso ha poi fortemente accentuato»[49]. Chiaramente, si tratta di una tesi dotata di una sua validità solo nella misura in cui non si tenti di stabilire una sorta di identità tra le due correnti politiche, e non si concepisca il loro rapporto nei termini di un semplice incremento quantitativo di alcuni aspetti del primo da parte del secondo. Laddove, invece, bisognerebbe comunque essere consapevoli del salto qualitativo compiuto dal fascismo, che sul tronco del verticalismo autoritario caratteristico di una delle correnti della tradizione liberale innesterà l’elemento dell’irreggimentazione totalitaria delle masse – una forma, quest’ultima, estremamente raffinata di quella “integrazione negativa” delle classi popolari che sin dai tempi della legislazione sociale bismarckiana il liberalismo autoritario aveva praticato[50].

 

  1. Società di massa e declino dello Stato liberale di diritto

Al declino e alla crisi di questa forma di Stato contribuiranno le diverse aporie enucleate fin qui. Nonostante infatti il meritorio contributo fornito dallo Stato liberale di diritto da un lato all’emancipazione civile e alla liberazione dell’individuo dall’insieme di vincoli personalistici e corporativi a cui era stato incatenato fino a quel momento, dall’altro allo sviluppo di nuovi e più efficienti rapporti economici, le pietre angolari della sua costruzione finiscono – come abbiamo visto – per farne un ordine politico astratto, conservatore e fin troppo classisticamente connotato, rendendolo così incapace di far fronte non solo alla questione sociale emergente nel corso del XIX° secolo in concomitanza coi processi di industrializzazione, ma più complessivamente a quel processo di progressiva articolazione, organizzazione e politicizzazione della società e soprattutto delle classi subalterne escluse dalla partecipazione ai meccanismi decisionali e di formazione della volontà collettiva. Se la gestazione e lo sviluppo dello Stato di diritto era avvenuta all’insegna dell’uniformità, dell’atomismo e di un dualismo individuo/Stato che non lasciava alcuno spazio alle differenti sfumature connesse alla società reale e al suo pluralismo congenito, sarebbe stato lo stesso sviluppo capitalistico a favorire la fioritura del fenomeno associazionistico, sia attraverso una complicazione della struttura organizzativa delle attività produttive e commerciali – e delle rispettive forme giuridiche – che rendeva oramai obsoleto e non più funzionale «l’individualistico ed unilineare diritto di proprietà»[51], sia in ragione delle diverse forme di aggregazione e coagulazione a cui gli interessi particolari maggiormente toccati dalla dinamica capitalistica – soprattutto il variegato mondo del lavoro operaio e subordinato – davano vita al fine di compensare l’asimmetria di potere sociale e di capacità contrattuale con i loro interlocutori. L’affacciarsi sulla scena di classi e di gruppi che, attraverso le loro domande e i loro bisogni, mettono a nudo l’inadeguatezza di uno Stato-arbitro chiamato semplicemente a delimitare il campo da gioco per poi abbandonare i soggetti sociali e le dinamiche intercorrenti fra loro ad una pura autoregolamentazione, determina in primo luogo una profonda trasformazione della “forma della legge”[52], uno slittamento che la conduce dall’astrattezza, la generalità e impersonalità tipiche dei Codici, alla specificità e alla particolarità che contrassegneranno le legislazioni speciali. Il processo che si produrrà attraverso l’affermazione di un crescente interventismo statale, vedrà insomma il ribaltamento del rapporto tra la funzione tecnico-legislativa dello Stato – fino a quel momento in posizione preminente – e quella burocratico-amministrativa, a differenza della prima votata non alla generalità, bensì alla definizione e al perseguimento di finalità e di obiettivi precisi[53].

Più in generale, venendo meno il rapporto di radicale alterità e contrapposizione fra Stato e società che aveva caratterizzato lo Stato di diritto delle origini – e producendosi, anzi, una sempre maggior compenetrazione reciproca fra i due elementi – a realizzarsi è

il riconoscimento di fonti del diritto innervate nel tessuto sociale, come la consuetudine, la dottrina e la giurisprudenza. Il giuridico si spostava dallo Stato alla società, dall’unità politica alla pluralità sociale, dalla legge al fatto, dal legislatore alla giurisprudenza pratica e teorica […].[54]

È evidente che l’inarrestabile diversificazione della società e la sua organizzazione in senso frazionale e conflittuale, intaccando l’unità mitica di quel popolo compatto, omogeneo e ben ordinato presupposto fino a quel momento dalle varie forme di liberalismo – soprattutto da quel positivismo giuridico che della natura ordinata del “popolo” aveva fatto il fondamento solido e stabile della statualità –, metterà definitivamente in crisi lo Stato liberale di diritto, inaugurando così la stagione delle “dottrine della Costituzione in senso materiale” che all’indomani del secondo conflitto mondiale contribuiranno in maniera rilevante a ridisegnare in senso democratico il costituzionalismo e a portarlo fuori dalle secche del formalismo giuridico[55].


Note
[1]Si vedano in proposito: K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Editori riuniti, 2016; P. Barcellona, Stato e mercato. Fra monopolio e democrazia, De Donato, 1976
[2]F. Mazzarella, Una crisi annunciata. Aporie e incrinature dello Stato liberale di diritto, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 2012, n. 41, p. 330; M. Fioravanti, La crisi dello Stato liberale di diritto, «Ars interpretandi», 2011, n. 1, p. 82
[3]U. Cerroni, Verso un nuovo pensiero politico, in G. Bosetti (a cura di), Socialismo liberale. Il dialogo con Norberto Bobbio, supplemento a l’Unità del 9 novembre 1989, p. 108
[4]Ivi, p. 107
[5]S. Gambino, Dai diritti naturali ai diritti sociali. Un approccio storico-costituzionale nella prospettiva comparatistica, «Diritto pubblico comparato ed europeo», 2002, n.1, p. 112
[6]M. Prospero, Il costituzionalismo e il lavoro, Democrazia e diritto, 2008, n.2, p. 134
[7]U. Cerroni, Verso un nuovo pensiero politico cit., p. 108
[8]Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, Einaudi, 2001; P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, 2000; M Viroli, Repubblicanesimo. Una nuova utopia della libertà, Laterza, 1999
[9]K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico cit.; U. Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori riuniti, 1972, pp. 194- 285; Id., La libertà dei moderni, De Donato, 1973, pp. 72-83, 165-171.
[10]A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, 2013, p. 4
[11]U. Cerroni, La libertà dei moderni cit., p. 79
[12]M. Barberis, Liberalismo, costituzionalismo, pluralismo, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2006, n. 1
[13]Ivi, p. 84
[14]Ivi, p. 82
[15]L. Basso, Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Feltrinelli, 1958, p. 24
[16]U. Cerroni, Marx e il diritto moderno cit., p. 236
[17]D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005
[18]I. Kant, Scritti politici, p. 501
[19]Ivi, p. 259
[20]Ivi, p. 525
[21]U. Cerroni, La libertà dei moderni cit., p. 169
[22]G. Burdeau, Traité de science politique, vol. V, Libraire générale de droit et de jurisprudence, 1953, p. 457
[23]L. Basso, Il principe senza scettro cit., p. 26. Su questo stesso argomento, risulta particolarmente efficace e significativo questo passaggio, tratto da uno degli scritti di Cerroni: «La visione liberale della libertà moderna comporta insomma la riduzione della democrazia a semplice costituzionalismo, sanziona non già l’attivazione politica di tutto il popolo bensì il garantismo individualistico di pochi: un moderno privilegio. Sottende dunque anch’essa uno status come suo supporto necessario: uno status sostanzialmente aristocratico.» (U. Cerroni, La libertà dei moderni cit., p. 171)
[24]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., pp. 335-336
[25]S. Gambino, Dai diritti naturali ai diritti sociali cit., p. 111
[26]P. Barcellona, Stato e mercato cit., p. 18
[27]U. Cerroni, Verso un nuovo pensiero politico cit., p 108
[28]S. Gambino, Dai diritti naturali ai diritti sociali cit., pp. 110-111
[29]L. Basso, Il principe senza scettro cit., p 32
[30]M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, Giappichelli, 1995, p. 71
[31]M. Fioravanti, La crisi dello Stato liberale di diritto cit., p. 84
[32]Ibid.
[33]Ivi, p. 86
[34]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 340
[35]M. Fioravanti, Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, 1993, p. 187
[36]M. Fioravanti, La crisi dello Stato liberale di diritto cit., p. 86
[37]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 337
[38]Si esprime così, a questo riguardo, Fioravanti: «[…] ed il limite alla esplicazione dei poteri pubblici è finalmente trovato nella stessa legge dello Stato, dunque senza più mettere continuamente in discussione le prerogative dell’autorità politica, senza più opporre a quest’ultima la pericolosa ragione ‘esterna’ del diritto naturale.» E ancora: «[…] la ‘nazione’, priva ormai di ogni connotazione di ‘soggetto’ originario […] correva il rischio di esistere solo attraverso la volontà del legislatore, che poteva così divenire il vero sovrano[….]. Ma questo era il prezzo da pagare per l’acquisita stabilità […]; e corrispondeva comunque a quella tradizione legicentrica dello Stato di diritto europeo-continentale nella quale così difficilmente si sarebbe introdotto il sindacato di costituzionalità.» (M. Fioravanti, Stato e costituzione cit., pp. 176-177). Sul legame tra la dottrina del positivismo giuridico e la natura legislativa dello Stato di diritto, si veda anche G. Pino, Il positivismo giuridico di fronte allo Stato costituzionale, in P. Comanducci- R. Guastini, Analisi e diritto 1998. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, 1999.
[39]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 347
[40]A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni cit., p. 5
[41]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 347
[42]G. della Volpe, Rousseau e Marx, Editori riuniti, 199, p. 20
[43]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 335
[44]U. Cerroni, Teoria politica e socialismo, Editori riuniti, 1973, p. 196
[45]H. Kelsen, I fondamenti della democrazia e altri saggi, Il Mulino, 1966, p. 21
[46]U. Cerroni, Verso un nuovo pensiero politico cit., p. 108
[47]U. Cerroni, Teoria politica e socialismo cit., pp. 192-200
[48]U. Cerroni, Per una ridefinizione del fascismo, in Id., Teoria della società di massa, Editori riuniti
[49]G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. IX, Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli, 1981, citato in E. Collotti, Fascismo, fascismi, Sansoni, 2004, p. 44
[50]G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, Il Mulino, 1971
[51]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 350
[52]Per questo concetto, rinvio a P. Barcellona, Stato e mercato cit.
[53]Ibid.
[54]F. Mazzarella, Una crisi annunciata cit., p. 353
[55]M. Fioravanti, La crisi dello Stato liberale di diritto cit., pp. 86-93

Add comment

Submit