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prismo

Facebook e il declino dell’Occidente

di Raffaele Alberto Ventura

Mark Zuckerberg è convinto che l’Occidente sia sull’orlo del fallimento. Ma ha un'arma segreta, è negli scritti di Ibn Khaldun, grande storico arabo del Medioevo

11725064 10153508555287948 810178169 o 1680x840Dall’inizio dell’anno 2015 Mark Zuckerberg ha preso l’abitudine di consigliare dei libri per animare un dibattito sulla pagina A Year of Books, ispirandosi a quello che da qualche tempo già faceva Bill Gates. E bisogna ammettere che i consigli dei miliardari americani sono spesso ottimi: se grazie a Gates il mondo ha conosciuto gli studi dell’esperto di energia Vaclav Smil sul declino della potenza economica americana, Zuckerberg in questi mesi ha promosso saggi non banali di filosofia della scienza, sociologia, antropologia e geopolitica. Tutto sommato è incoraggiante sapere che i potenti della terra fanno buone letture e riflettono sulle loro strategie nel contesto di una visione a lungo termine. Con un pizzico di nostalgia, riporta la nostra mente ai tempi di Adriano Olivetti e delle sue Edizioni di Comunità.

Zuckerberg non ha fama di essere un intellettuale e, se crediamo alla sua incarnazione cinematografica, forse nemmeno di essere particolarmente intelligente: l’immagine che ne abbiamo è di qualcuno capitato un po’ per caso su una grande idea e presto circondato da astuti finanziatori e abili consiglieri. E allora che dire, se non che gli abili consiglieri hanno fatto un ottimo lavoro? Il giovanotto si è dimostrato particolarmente ricettivo. Zuckerberg continua a stupire — e non sto parlando della recente attivazione delle gif animate sul suo social network.

 

Corsi e ricorsi

Il consiglio bibliografico del primo giugno è spiazzante: la Muqaddima di Ibn Khaldun, un trattato sulla Storia universale scritto nel 1377. Secondo il fondatore e grande capo di Facebook, evidentemente, questo libro può aiutarci a capire il presente. Cosa c’è di tanto interessante in questo testo? E come s’inserisce nel dibattito intellettuale contemporaneo? È quello che intendo illustrare. Ibn Khaldun fu probabilmente il primo autore a proporre una “scienza della Storia” centrata sull’idea che le vicende umane seguono cicli regolari — nascita, sviluppo, decadenza — e analizza dettagliatamente le cause che portano alle trasformazioni sociali e alle rivoluzioni culturali. Se il principio dei cicli si trova già presso i greci, notoriamente nelle Storie di Polibio, qui risalta il carattere sistematico della ricerca.

L’idea geniale del filosofo maghrebino fu di applicare ai fenomeni sociali gli studi di Aristotele sulla generazione e corruzione delle forme di vita. Secondo Ibn Khaldun, ogni ciclo storico è composto da una fase di ascesa, caratterizzata dall’accumulazione di ricchezza e dai valori tradizionali, e da una fase di decadenza, caratterizzata dalla perversione dei costumi, da una tassazione sempre più elevata e dal lusso. La generazione ha in sé i semi della degenerazione, la degenerazione ha in sé i semi della successiva generazione. Il punto apicale dello sviluppo coincide con l’inizio della corruzione. In questa fase proliferano le scienze speculative e le arti, finanziate con il surplus accumulato nella fase precedente. Ibn Khaldun era insomma ben consapevole di essere, lui stesso in quanto intellettuale, contemporaneamente un prodotto del boom economico e un segnale della decadenza.

Nel corso dei secoli Ibn Khaldun è stato definito l'inventore della prima “
scienza dell’organizzazione sociale”, “il padre dell’economia” ma anche “padre della
divisione del lavoro”, precursore del marxismo ma anche del neoliberismo reaganiano.

Questo modello vitalistico della Storia si può applicare a diversi fenomeni e livelli, tra loro sovrapposti come gli ingranaggi di un unico meccanismo. Innanzitutto si applica alle civilità e alle dinastie: Ibn Khaldun descrive dettagliatamente le parabole dei califfatti omàyyade e abbàside. All’inizio del Novecento Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente avanzerà conclusioni abbastanza simili. Ma quello che qui più c’interessa, perché interessa a Zuckerberg, è che il modello khalduniano si può applicare all’economia, e ciò su due livelli: quello macroeconomico e quello aziendale.

Ibn Khaldun, da molti studiosi considerato come inventore della prima “scienza dell’organizzazione sociale”, “padre dell’economia” o addirittura “padre della divisione del lavoro”, precursore del marxismo ma anche del neoliberismo reaganiano, propone soprattutto un primo abbozzo di teoria dei cicli economici. Lo schema ascesa-decadenza di Khaldun non è molto distante dalla teoria degli stadi di sviluppo di Walt Whitman Rostow, uno dei modelli più praticati dagli economisti. Si articola in cinque fasi, dalla società tradizionale all’epoca del consumo di massa.

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Sempre più su, per piacere.

In questo antico testo Mark Zuckerberg insomma cerca degli strumenti interpretativi per capire fenomeni molto concreti come il declino e l’innovazione. Le riflessioni di uno storico arabo del 1300 possono aiutarlo a pilotare con maggiore efficacia la sua azienda in un contesto globale in radicale trasformazione. Ma le domande che pone ci riguardano tutti: come riconoscere i segni di una crisi quando emergono? È possibile sostenere uno sviluppo economico senza limiti? Come evitare di finire come sono finiti gli Omàyyadi e gli Abbàsidi? Il caso della Grecia, che si è autodivorata in una spirale di consumi improduttivi (prima) e d’interessi sul debito (poi), sembra uscito da quella pagine.

Rispettando rigorosamente i precetti del Corano secondo Khaldun sarebbe in teoria possibile evitare il declino, ma in pratica nessuna dinastia è mai riuscita a resistere alla corruzione dei costumi. Il meccanismo descritto nella Muqaddima ha qualcosa d’inesorabile: l’etica coranica — come in Max Weber, sei secoli più tardi, quella protestante — permette di produrre ricchezza, ma l’eccesso di ricchezza necessariamente erode i valori tradizionali, retroagendo sulle condizioni necessarie della produzione. Nella fase di urbanizzazione, i fattori produttivi vengono mobilitati sempre più massicciamente per alimentare un “sistema del prestigio” (jâh) ovvero una costosissima competizione per l’accaparramento del potere e quindi delle risorse. Per assurdo, si sprecano più risorse per sottrarre risorse a chi le produce che per produrle direttamente. E la competizione diventa tanto più agguerrita quanto diventano rare le risorse da spartirsi, poiché “Quando l’anima si abitua a qualche cosa, questa cosa entra nella sua costituzione e diventa parte della sua natura”. Ai greci fischieranno pure le orecchie, ma il mio consiglio è di concentrarmi sul fischio nelle nostre.

Secondo Ibn Khaldun è perlomeno possibile riconoscere se stiamo vivendo una fase di ascesa oppure di decadenza: il principale indicatore è lo squilibrio tra produzione e consumo. Ai suoi tempi, poiché l’economia era essenzialmente agricola, l’equilibrio era definito dal rapporto tra campagna (produttori) e città (consumatori). Ma per aggiornare la sua analisi ai nostri odierni assilli è sicuramente necessario includere l’industria tra i settori produttivi. In questo modo ci accorgeremo che nel modello khalduniano possono confluire le idee del già citato Vaclav Smil sulla crisi del settore manifatturiero americano: una società che cessa di produrre beni materiali è destinata a collassare.

 

La fine del secolo americano

Un fil rouge collega le riflessioni della classe dirigente USA, da Gates a Zuckerberg, tutti consapevoli di operare in un contesto di declino: è la fine del secolo americano, baby, l’inizio della stagnazione secolare delle economie avanzate come proclamato dall’ex segretario al tesoro Larry Summers. Senza dubbio, come già notava il politologo conservatore Samuel P. Huntington, la percezione del declino è una costante nella Storia degli Stati Uniti (e non solo).  Alle fine degli anni Ottanta, lo storico Paul Kennedy aveva lanciato la pietra nel suo Ascesa e declino delle grandi potenze, ulteriore fortunato esercizio di storia ciclica. Ma questa persistenza del declinismo non basta a liquidare come inconsistente l’ipotesi in sé, a fronte di un trend pluridecennale di decelerazione della crescita del PIL dei paesi OCSE. Lo diceva anche Stalin: “Solo perché sei paranoico non vuol dire che tu abbia torto”.

Il convitato di pietra in questo dibattito è naturalmente la Cina, nazione in ascesa secondo lo schema di Ibn Khaldun, ovvero nazione che produce più di quanto consuma, nazione agricola e manifatturiera, nazione ancora animata da una forte etica del lavoro. Anche su questo, le scelte personali di Zuckerberg risultano altamente simboliche: dopo avere sposato una ragazza di origine cinese nel 2012, lo si è visto due anni dopo a un seminario a Pechino parlare in mandarino. All’ascesa della Cina è dedicato uno dei libri presenti nella lista del fondatore di Facebook: Dealing with China di un altro segretario al tesoro americano, Hank Paulson.

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Il ciclo dinastico

Si suppone che presto Zuckerberg vanterà la straordinaria ricchezza del pensiero economico cinese classico e la teoria dei cicli dinastici, ma per ora restiamo nel Mediterraneo. Il recente revival di Ibn Khaldun in Occidente, dopo un prima riscoperta a metà dell’Ottocento, ha almeno due padri. Il primo è Abdesselam Cheddadi, che ha curato la nuova edizione delle sue opere pubblicata tra il 2002 e il 2012 nella prestigiosa biblioteca della Pléiade e dedicato allo storico maghrebino un corposo volume sempre per Gallimard. Sicuramente più influente, il secondo padre della voga neo-khalduniana è Peter Turchin, biologo russo-americano che studia l’evoluzione culturale. Il suo libro War and Peace and War: The Rise and Fall of Empires, pubblicato nel 2007, ha animato il dibattito intellettuale negli USA proponendo un metodo storico-quantitativo fortemente influenzato da Ibn Khaldun.

Siamo al secondo revival di Ibn Khaldun in Occidente, dopo quello di metà
Ottocento. Gallimard gli ha dedicato un libro, il biologo Peter Turchin si
ispira a lui e ora tocca a Mr. Facebook

Con qualche sensazionalismo, Wired ha definito Turchin “lo storico che predice il futuro ricorrendo ai dati del passato”. Ancora più esagerato, il New Scientist ha parlato dei “calcoli che dimostrano che gli Stati Uniti stanno per fallire”. In un articolo su Bloomberg Turchin individuava al cuore dello squilibrio economico il problema della “sovrapproduzione di élites sovra-educate”: secondo Turchin, in ogni società fin dai tempi antichi l’aumento della popolazione provoca un surplus relativo di offerta di lavoro sul mercato e quindi un’erosione dei salari, così spingendo gli individui a investire sempre di più e competere in maniera aggressiva pur di accedere alle migliori posizioni. Questo solitamente porta anche a una regolazione demografica, come nel caso della classe media occidentale che tampona con la denatalità il suo impoverimento relativo.

Studiare costa sempre di più, ma i posti disponibili sono sempre meno. Per la società la somma crescente degli investimenti costituisce una perdita netta, poiché nella maggior parte dei casi l’investimento non ripaga il suo costo. In questo modo cresce la quota di ricchezza consumata sul totale accumulato: il che nella Muqaddima, come abbiamo visto, è indice che ci si trova in una fase di decadenza. Confrontando vari casi di studio, Turchin conclude che gli Stati Uniti stanno finendo come l’impero romano e che il più vivido indicatore quantitativo della crisi sia… l’abbondanza di avvocati. Proprio come nei nostri moderni parlamenti. Proprio come al Cairo nel Quattordicesimo secolo, trasformata secondo Ibn Khaldun in una giungla di fatwa contraddittorie da un esercito di magistrati ignoranti e di muftì corrotti.

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BOOOOM

Se anche Zuckerberg e i suoi consiglieri non hanno in mente War and Peace and War di Turchin, hanno forse letto il post del seguitissimo premio Nobel Paul Krugman che nel 2013 dichiarava di avere scoperto l’importanza di Ibn Khaldun proprio leggendo Turchin. Nel post di Krugman risalta un aspetto del pensiero khalduniano che abbiamo finora lasciato in ombra ma sicuramente fondamentale per Zuckerberg: si tratta del tema dell’innovazione. E con questo si passa dalla dimensione macroeconomica a quella aziendale. Secondo gli studi di Robert Wiggins, solo il 5% delle aziende americane è cresciuta per un periodo continuativo di 10 anni. E secondo i dati riportati da Chris Zook, la vita media di un’impresa nel 2007 era di 12 anni mentre nel 1990 era il doppio. I cicli di generazione e corruzione si accavallano a un ritmo sempre più frenetico: innovare, in questo contesto, significa riuscire a gabbare il ciclo: sostituire in corsa un’azienda declinante con un’azienda performante.

 

Il ruolo degli outsider

La fase di decadenza nel ciclo è caratterizzata da una tendenza all’innovazione sempre meno forte, fino alla paralisi totale. Citando l’esempio di Microsoft, Krugman usava l’espressione “losing the edge”, passare di moda, perdere il tocco magico. In fondo è pressapoco quello che successe ai poveri Omàyyadi e a tutte le dinastie arabe che nel Medioevo cercarono di formare uno stato esteso e centralizzato. Arrivate all’apice del loro sviluppo, queste società persero però l’elemento che ne aveva fino ad allora decretato il successo, la “asabiyya”, la capacità di auto-organizzarsi, di operare collettivamente, di cooperare invece di bruciare ingenti risorse nella lotta per il prestigio. Al tema della cooperazione, questa volta dal punto di vista delle teoria dei giochi, è dedicato un altro libro tra quelli della lista di Zuckerberg: Rational Ritual. Culture, Coordination, and Common Knowledge di Michael Chwe, già originale interprete dei romanzi di Jane Austen.

L’insegnamento di Ibn Khaldun resta valido oggi perché i problemi delle grandi aziende assomigliano in maniera sorprendente a quelli degli antichi stati. Quando si esaurisce la asabiyya i governanti tendono a isolarsi dal resto della popolazione, proprio come nelle grandi aziende che moltiplicano i livelli e gli step decisionali. A questo punto le innovazioni, nota Khaldun, possono soltanto venire dall’esterno, dalle periferie, dai “barbari”, ovvero dai rappresentanti di un nuovo gruppo sociale in fase di ascesa.

Se lo stesso Ibn Khaldun ha potuto produrre un’opera tanto originale e disruptive, come si dice nel gergo della Silicon Valley, è perché lui stesso era un outsider, un erudito autodidatta con una formazione accademica incompleta. Anche questo è un pattern ricorrente: nel mondo cristiano, all’inizio della Modernità, le nuove generazioni d’intellettuali venivano da filiere formative brevi, secondarie, di minor prestigio: Lefèvre d’Etaples non ebbe mai il suo dottorato, Erasmo ne ottenne uno di poco valore all’università di Torino e Thomas Hobbes conseguì la sua molto a fatica…

L’aristotelismo medievale implose così, sotto gli attacchi impietosi d’intellettuali
“di serie B” ma più adatti alle sfide del tempo. Perché quello di cui una società
ha bisogno non sono idee geniali bensì soluzioni semplici e applicabili

Con in mente l’esempio di Galileo, negli anni ’60 lo storico della scienza Thomas Kuhn attirò l’attenzione sul ruolo fondamentale degli outsider nella ricerca della conoscenza. E non è dunque un caso se il suo testo sulla Struttura delle rivoluzioni scientifiche fa anch’esso parte dei libri consigliati da Zuckerberg qualche mese fa. Kuhn analizza come avvengono i “cambi di paradigma”, ovvero i mutamenti radicali e imprevedibili con i quali si conclude un ciclo e se ne riapre un altro. Il ciclo si esaurisce quando la classe, la nazione, la dinastia o la casta di funzionari dominante non riesce più a produrre valore ed esaurisce tutte le risorse accumulate.

L’aristotelismo medievale implose così, sotto gli attacchi impietosi d’intellettuali “di serie B” ma più adatti alle sfide del tempo. Esempio più recente, secondo il fisico Lee Smolin la fisica teorica ha perso il tocco magico quando si è impelagata in quel modello altamente complesso e astratto conosciuto come “teoria delle stringhe”, che da vari decenni occupa migliaia di scienziati e ingenti finanziamenti senza produrre alcun risultato rilevante – utile o verificabile. Ma come ci ricordano i moderni manuali di management, quello di cui una società ha bisogno non sono idee geniali bensì soluzioni semplici e applicabili.

Ciò che qui interessa al fondatore di Facebook è come proteggere la sua azienda dal rischio di diventare, presto o tardi, un “peso morto” sul mercato. Ibn Khaldun attirava l’attenzione sulle conseguenze dello sviluppo ipertrofico delle strutture amministrative che divorano la ricchezza prelevata nelle campagne. Una società non può rinunciare a espandersi ma rischia sempre di espandersi troppo, ovvero di diventare sempre più pesante, più costosa, più fragile e meno antifragile, meno produttiva, meno flessibile.

Soprattutto rischia di perdere la sua asabiyya, la capacità di mettere efficacemente tutti i suoi mezzi e le sue risorse al servizio di un unico fine. Secondo lo psicologo delle organizzazioni J. Richard Hackman, i gruppi umani troppo grossi tendono a essere disfunzionali perché con l’aumento di scala aumenta in maniera esponenziale il costo di gestione dei legami sociali (“managing the links”) tra ogni individuo nel gruppo. Ma soprattutto, le grosse strutture e le grosse squadre operative tendono a scoraggiare la capacità di prendere quei rischi che sono tuttavia necessari per tentare d’invertire le tendenze degenerative. Ed è la ragione per cui l’azienda Facebook è intenzionalmente strutturata attorno a piccoli team di lavoro, nella speranza di non farsi sopraffare dalle tare caratteristiche delle grosse aziende.

 

Fino a qui, tutto bene

La decadenza non è necessariamente un destino al quale si possa scampare, ma forse Zuckerberg — se continuerà con le buone letture e se le buone letture servono a qualcosa — saprà evitare qualche errore e resistere un po’ più a lungo. Che dire di noi invece? Coincidenza suggestiva, Ibn Khaldun definiva la durata del ciclo di vita di uno Stato entro i 120 anni, ovvero tre generazioni di una durata di quarant’anni ciascuna: una durata che pressapoco potrebbe equivalere a quella del Secolo Americano, a seconda di dove ne situiamo l’inizio e soprattutto la fine.

Quando parla delle conseguenze della liberazione sessuale nelle grandi
città del Maghreb, scopriamo che evidentemente persino gli arabi del
Medioevo hanno avuto il loro Sessantotto

Fantasie numerologiche a parte, è interessante perché la tripartizione khalduniana corrisponde effettivamente alla Storia dell’ultimo secolo, perlomeno nella forma allegorica nella quale siamo soliti rappresentarcela: una prima fase legata ai valori della produzione e dell’accumulazione (il tempo dei nostri nonni); una seconda fase di equilibrio e coesistenza tra gli antichi valori e quelli nuovi (il tempo dei nostri genitori); e infine una terza fase all’insegna del consumo e di un’aspirazione al lusso sempre più difficile da finanziare (il nostro tempo).

A questa classe agiata in rovina, “classe disagiata” per gli amici, Ibn Khaldun dedica lunghe riflessioni spesso sorprendenti per la loro attualità: quando ci parla delle conseguenze della liberazione sessuale nelle grandi città del Maghreb, scopriamo che evidentemente persino gli arabi del Medioevo hanno avuto il loro Sessantotto! E a questo punto, con l’ultimo sorprendente anacronismo che abbiamo voluto prestargli, il teorico dei corsi e ricorsi storici dovrebbe averci convinto della validità della sua teoria.

Non ci aiuterà a prevedere il giorno e l’ora della fine — in queste faccende solitamente il decorso tende ad essere lungo, fastidioso, imprevedibile e scoordinato —  ma ci fornisce qualche indizio per riconoscerne i segni quando ci siamo dentro fino al collo.

 


Raffaele Alberto Ventura è nato a Milano nel 1983 e vive attualmente a Parigi, dove si occupa di marketing per un grande editore europeo. Ha fondato il blog Eschaton e l'Opificio di Teologia Potenziale, scrive per Internazionale e Minima & Moralia, e il suo ultimo ebook si chiama "Teoria della Classe Disagiata"

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