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Perché le critiche del prof. Perotti alla “moneta fiscale” sono sbagliate
di Enrico Grazzini
Gentile prof. Roberto Perotti,
vorrei approfondire la discussione sulla cosiddetta “Moneta Fiscale” che lei ha criticato nel suo scritto “La sirena della moneta fiscale”[1] pubblicato sul sito web lavoce.info, e desidero dimostrare che le sue obiezioni e le sue tesi sono fallaci.
Nel suo articolo spiega che
“La moneta fiscale è essenzialmente un Certificato di Credito Fiscale (CCF), cioè un titolo emesso dallo stato che può essere usato, alla scadenza, per pagare tasse, multe, ed altre obbligazioni finanziarie verso lo stato, per un valore pari al valore facciale del titolo stesso. Il titolo è trasferibile a terzi”. Lei sostiene che la moneta fiscale è un tentativo di “aggirare il monopolio della produzione di moneta da parte della Bce, senza dover uscire dall’euro”.
Ma a suo parere questo tentativo è inefficace e sbagliato perché la moneta fiscale non sarebbe affatto diversa da un normale titolo di debito pubblico, per esempio da un BOT e quindi, come tale, provocherebbe un incremento di deficit pubblico. Ne deriva logicamente che l'emissione di moneta fiscale produrrebbe uno sforamento dei parametri fissati dall'Unione Europea, e che l'aumento del debito pubblico potrebbe perfino portarci fuori dall'euro. Da qui -secondo lei - il sostanziale fallimento della proposta di Moneta Fiscale.
Io vorrei dimostrarle che le sue tesi sono quasi totalmente sbagliate. Le mostrerò che, contrariamente a quanto lei indica nel suo scritto, grazie all'emissione di Titoli di Sconto Fiscale il governo italiano può fare crescere rapidamente e notevolmente l'economia reale senza fare deficit, anzi diminuendo il rapporto debito pubblico/PIL. Tutto questo rispettando necessariamente le (peraltro rigide, antiquate e restrittive) regole dell'eurozona e della UE.
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Come l’helicopter money potrebbe rilanciare l'economia italiana
di Enrico Grazzini
BlackRock e il Financial Times suggeriscono l'helicopter money: anche il ministro dell'economia Gualtieri dovrebbe “mettere soldi direttamente nelle tasche degli italiani”
La Banca Centrale Europea di Mario Draghi, dopo il parziale fallimento del primo Quantitative Easing, ritenta un secondo QE, seppure tra molti contrasti – Germania, Francia e Olanda non vorrebbero questo QE - e parecchie perplessità degli investitori sulla riuscita dell'operazione. Il problema è che con il QE la BCE ha stampato una montagna di moneta solo a favore delle banche (2,6 triliardi) e ha congelato il debito degli stati ma non è riuscito ad aumentare l'inflazione, e soprattutto non ha rilanciato l'economia reale. Le banche dell'eurozona scoppiano di liquidità ma non offrono abbastanza credito a una economia già troppo indebitata. Un mezzo fallimento. Draghi invoca allora un forte aumento degli investimenti pubblici per rilanciare l'eurozona sulla soglia della recessione. Ma è molto difficile che la Germania e i Paesi del nord Europa decidano una forte espansione della spesa pubblica. Così la liquidità monetaria continua a mancare nell'economia reale. La soluzione, come suggeriscono fonti autorevolissime, come BlackRock e il Financial Times, è l'Helicopter Money: con l'HM la BCE dovrebbe offrire soldi direttamente ai cittadini, alle imprese e agli enti pubblici e non più solo alle banche. Il presidente della BCE ha affermato però che “l'ipotesi di Helicopter Money non è stata mai discussa alla Bce” e che l'HM non è necessario. Tuttavia in questo articolo suggerisco che il ministro dell'economia del governo Conte-2 Roberto Gualtieri potrebbe (e dovrebbe) attuare urgentemente l'HM per risollevare l'economia italiana emettendo titoli/moneta per metterli direttamente nelle tasche degli italiani. Tutto questo senza aumentare il deficit pubblico e nel pieno rispetto delle regole dell'eurozona.
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Verso la guerra delle monete
di Italo Nobile
“Teoria e critica delle politiche economiche e monetarie dello sviluppo” (Roma, 2019, Efesto Edizioni) è il secondo volume del Trattato di Critica delle Politiche per il Governo dell’Economia dove Luciano Vasapollo e Joaquin Arriola (con la collaborazione di Rita Martufi, Pasqualina Curcio e Ramiro Chimuris) adattano ad un quadro in tumultuosa evoluzione le categorie marxiste rielaborate da Luciano Vasapollo nel “Trattato di Critica Dell’Economia Convenzionale”. Nel Prologo Atilio Boron fornisce la cornice in cui questa analisi viene svolta.
Nell’introduzione invece Vasapollo e Arriola dichiarano di voler fornire un punto di vista critico ai principali approcci alla Politica Economica Internazionale (PEI) soprattutto verso gli analisti come Nye e Haas che fanno dipendere questa visione dalla teoria delle Relazioni Internazionali (RI).
Nel primo capitolo “La trasformazione dal capitalismo internazionale” Vasapollo e Arriola esaminano la dinamica di questi duecento anni di capitalismo individuando uno dei fattori di stabilità nel dominio delle relazioni internazionali da parte del mondo anglosassone (prima GB e poi gli Usa) che ha respinto le pretese sia della Francia, sia della Germania. Nel XXI secolo la Cina punta alla costruzione di una nuova leadership globale, sostituendo gli Usa come primo partner commerciale in molti paesi. Il deficit commerciale Usa sia pure leggermente diminuito è in buona parte concentrato rispetto a pochi paesi (Cina, Messico, Germania, Giappone) provocando una fragilità strutturale degli Stati Uniti relativamente alla posizione di dominio globale che essi vogliono mantenere.
Negli anni Novanta il loro predominio militare ha salvaguardato una dominazione economica basata sempre più sulla moneta e sulle finanze. Si tratta di un segno di stagnazione di un ciclo storico di egemonia.
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SottoZero
Scenari controversi: quanto positivi possono essere i tassi negativi?
di Francesco Cappello
Riceviamo da Francesco Cappello, autore del libro "Ricchezza fittizia povertà artificiosa. Paradigmi economici", questo interessante articolo sulla fase economica
Pro e contro il tasso negativo. Un mondo capovolto
Accendere un mutuo a tasso negativo significa che sarai tenuto a rimborsare un pò meno del capitale preso in prestito! Vi sareste mai aspettati che una Banca privata potesse proporre alla propria clientela mutui a 10 anni a tasso fisso negativo come ha cominciato a fare Jyske Bank (- 0,5%) che peraltro non è sola in questa apparente follia. Nordea Bank, ad esempio, vi permette la stipulazione di mutui per acquisto casa a 20 anni, allo 0% e prestiti con tassi negativi fino a 30 anni!
Comprare denaro è diventato assai conveniente. Ti permettono di restituire meno di quanto hai preso in prestito. Sembra un miracolo, non vi pare? (1)
Le banche accettano una piccola perdita rinunciando, apparentemente, alla remunerazione del capitale e quindi del servizio prestato. La ragione ufficiale sarebbe che prestare denaro a tassi elevati è divenuto rischioso, nel senso che i clienti della banca, nel caso in cui non riuscissero a rimborsare il prestito, rischierebbero di infliggerle una perdita maggiore di quella più contenuta nel caso in cui viceversa la banca accetti di praticare tassi sotto lo zero.
Ci si potrebbe chiedere come fa a sopravvivere una banca che non prende interessi ovvero come funziona la contabilità bancaria o quali altri attività remunerano il suo operato? Ecco, il fenomeno in atto, se non bastassero tutte le prove ed evidenze sul funzionamento delle banche e della creazione di moneta scritturale dal nulla, ce ne propone una di grande evidenza empirica, ormai sotto gli occhi di tutti. È il caso di dire che la contabilità bancaria, è venuta ormai allo scoperto… Quando la banca crea moneta scritturale dal nulla, tramite prestiti a interesse positivo, si comporta come un falsario legalizzato con l’aggravante (rispetto al falsario) di aggiungere al reddito monetario, derivante dalla creazione di moneta dal nulla, gli interessi.
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La moneta mondiale privata
di Riccardo Petrella*
L’annuncio della creazione di una moneta mondiale digitale privata il Libra, da parte di Facebook e 27 altre maggiori imprese multinazionali (statunitensi) (1) non ha fatto bomba. Nel comunicato ufficiale della Facebook si legge «Tramite Calibra, si permetterà di rispamiare, inviare e pagare con Libra. (…) Calibra permetterà di trasferire dei Libra a qualunque persona dotata di uno smartphone in maniera altrettanto facile e istantanea che inviare un sms , a basso costo, gratuitamente. Nei tempi consentiti, speriamo offrire dei servizi supplementari ai particolari e alle imprese, come pagare delle fatture premendo solo su un bottone, comprare un caffé o utilizzare i trasporti pubblici senza denaro e senza biglietto».
Non ha suscitato nessun scalpore, nè reazione di massa, né dibattiti nazionali e internazionali al di fuori dei circoli degli addetti al lavoro. Le reazioni non sono mancate, ma è come se si fosse trattato di un fatto di cronaca. L’assenza di sorpresa da parte della gente non meraviglia. Le reazioni delle autorità pubbliche e monetarie sollevano molti interrogativi.
Un fatto normale ?
A proposito di « moneta mondiale » è evidente che dopo più di quarantanni di bombardamento mediatico e politico sulla nuova grande era della globalizzazione dell’economia , del commercio, dei trasporti, dell’informazione e comunicazione, delle imprese e della finanza, la crezione di una moneta mondiale (per il momento, mezzo di pagamento e di trasferimento di denaro) non costituisce una novità, ma è percepita come la concretizzazione di una necessità, di un’evoluzione naturale dell’economia di mercato globalizzata. Le economie nazionali hanno dato la nascita alle monete nazionali, l’economia mondiale crea la moneta mondiale.(2)
La stessa osservazione di « normalità » vale per la « moneta digitale ». Tutto sta diventando digitalizzato, specie nel mondo dell’informazione e della comunicazione, in tutti i campi della realtà , beninteso virtuale compresa. Da anni, la moneta metallica ed ora quella cartacea è in via di abbandono.
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Clamoroso: la Germania ha fatto default, ma non è successo niente
di coniarerivolta
Da oltre vent’anni a questa parte, il dibattito politico è costretto a muoversi negli angusti spazi del pareggio di bilancio: qualsiasi opzione politica deve confrontarsi con il paradigma della scarsità delle risorse che, secondo i paladini dell’austerità, caratterizzerebbe il funzionamento di un’economia sana. Ci viene spiegato ogni giorno che quel paradigma non ce lo impone l’Europa, con i suoi vincoli al deficit e al debito pubblico, ma deriva dalla razionalità dei mercati: se ti indebiti troppo perdi la credibilità dei mercati e nessuno è più disposto a finanziare il tuo debito pubblico. È lo spettro del default, agitato in ogni discussione politica per tenere a bada le istanze di progresso sociale: non possiamo aumentare le pensioni, non possiamo costruire nuovi ospedali, non possiamo garantire la piena occupazione perché non ci sono i soldi, e se non tieni i conti in ordine ti ritrovi – questa la minaccia ricorrente – in bancarotta. L’incubo degli statisti di ogni colore politico sarebbe dunque quello di scatenare l’ira dei mercati, e cioè di ritrovarsi senza più nessuno disposto a prestare i soldi allo Stato. L’austerità, in questa narrazione, è la medicina amara ma necessaria: tagliare diritti, salari e stato sociale non piace a nessuno, ma dobbiamo farlo per evitare un baratro di nome default.
Nel disinteresse generale, pochi giorni (esattamente, il 10 luglio 2019) fa si è verificato un piccolo ma significativo fatto, una curiosa circostanza che dimostra plasticamente l’infondatezza di tutto questo terrorismo sul debito pubblico. Ironia della sorte, lo spettro del default – o, per dirla più semplicemente, del fallimento, della bancarotta – è apparso dove meno te lo aspetti: un’asta di titoli del debito pubblico della virtuosa Germania ha registrato una domanda di bund (così sono chiamati i titoli di Stato tedeschi) inferiore alla quantità offerta dal Governo. A fronte di 4 miliardi di euro di titoli di Stato tedeschi offerti al mercato, sono pervenute domande per 3,9 miliardi. Il risultato? Come avrete notato, non è successo assolutamente nulla. Capire perché un’asta scoperta non produce alcun default può aiutarci a sfatare alcuni miti sul debito pubblico e, soprattutto, a ricollocare tutti questi fenomeni economici nella dimensione politica che gli è propria, l’unica entro cui possono essere compresi. Ma andiamo con ordine.
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La Libra di Facebook, il monopolio bancario sulla moneta e le controproposte di riforma
di Enrico Grazzini
Facebook, il social network con 2,5 miliardi di persone connesse, ha recentemente annunciato di volere emettere nel 2020 una nuova moneta privata globale, la Libra.[1] Si tratta di un ulteriore e forse decisivo passo in avanti verso una moneta completamente privatizzata, denazionalizzata, liberalizzata in mano a Facebook o ad un altro dei colossi digitali, come Amazon, Apple, Google e Microsoft.
Ovviamente il sistema attuale difende tenacemente le sue prerogative e i suoi privilegi. Da Donald Trump, passando per il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney fino alla Banca Centrale Europea c'è stata una levata di scudi. "È fuori discussione permettere loro di svilupparsi nel vuoto normativo, perché è semplicemente troppo pericoloso “ha affermato Benoit Coeure dell'Executive Board della BCE” Progetti come quello di Facebook sono però un utile campanello d'allarme per i regolatori e le autorità pubbliche. Dobbiamo muoverci più rapidamente di quanto abbiamo fatto finora". Anche il ministro francese delle finanze Bruno Le Maire ha precedentemente affermato che "è fuori questione" che la Libra sia autorizzata "a diventare una moneta sovrana. Non può e non deve accadere".
In effetti le monete globali potrebbero diffondersi molto più velocemente di quanto a prima vista uno si aspetterebbe. Basti pensare che Facebook si è quotata in borsa solo nel maggio 2012 e oggi raggiunge già 2 miliardi e mezzo di persone. Il dilemma è se il sistema monetario attualmente dominante tenterà di fronteggiare gli sviluppi della moneta digitale arroccandosi in difesa dei suoi privilegi, o se invece l'assetto monetario attuale – che provoca costantemente crisi e che dà alle banche commerciali il privilegio esclusivo di stampare moneta – sarà capace di riformarsi come bene pubblico a favore della società, della democrazia e dell'eguaglianza sociale.
Per ora comunque Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha già respinto una proposta di riforma della BCE stessa con l'introduzione della moneta digitale. Il Parlamentare europeo Jonás Fernández (del gruppo dell'Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici, S&D) ha infatti chiesto se la BCE ritiene valido di introdurre la moneta digitale aprendo ai privati la possibilità di avere dei conti correnti direttamente presso la BCE stessa.
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Libra, Trump, Facebook e il resto
di Vincenzo Comito
Zuckerberg e soci vogliono lanciare la loro moneta elettronica nel 2020 facilitando scambi online e accesso al credito. In Cina Alibaba e Tencent da anni forniscono servizi simili, ma per il gigante Libra si dovrà aspettare: non si può autorizzare una rete di pagamenti internazionale privata senza contrappesi
I due tempi del progetto
L’annuncio fatto recentemente da parte di Facebook, insieme ad un certo numero di altri soci quasi tutti statunitensi (tra i quali citiamo soltanto Uber, Lyft, Visa, Mastercard, eBay), relativo al prossimo lancio di una moneta elettronica, la Libra, da un certo punto di vista e per quanto riguarda almeno i suoi primi passi annunciati non apporta apparentemente quasi niente di nuovo.
Ma bisogna distinguere in realtà un primo e un secondo tempo ideali nell’iniziativa, anche se dal punto di vista pratico non si riscontra una separazione netta tra i due momenti.
Nel primo e più immediato passo, che dovrebbe decollare nel 2020, Facebook pensa alla creazione di una nuova struttura, denominata Calibra. Si tratta in sostanza di un’app, che consiste in un sistema di pagamenti inserito nei suoi servizi di messaggistica, in modo tale che gli utilizzatori possano facilmente e con poco costo inviare del denaro a parenti e amici in patria e all’estero, o anche fare acquisti; inoltre, secondo le dichiarazioni dei promotori, si aprirebbe la possibilità di offrire dei servizi finanziari di base a quei 1,7 miliardi di persone nel mondo che non dispongono di alcun conto bancario.
Ma lo sbocco finale del progetto, il suo ideale secondo tempo, consisterebbe in ben altro, nell’affermazione cioè di una moneta elettronica privata a livello mondiale, mentre la nuova iniziativa diventerebbe anche la più grande organizzazione finanziaria del mondo.
L’organizzazione che gestirà il progetto afferma in effetti che “il mondo ha bisogno di una moneta globale, digitale, che metta insieme le caratteristiche delle monete migliori: stabilità, bassa inflazione, larga accettazione a livello mondiale, flessibilità”.
La Libra potrebbe alla fine, così, tendere a scavalcare le banche centrali, i regolatori del settore finanziario nonché gli attuali sistemi monetari dei vari paesi (Stoller, 2019). Si tratterebbe di un progetto molto audace, ma d’altro canto di un’enorme e intollerabile concentrazione di potere; quello che può meravigliare è che si sia avuto l’ardire di proporlo alla luce del giorno, basandosi probabilmente sulla grande forza di mercato e sullo sperato potere di lobbying del gruppo proponente, che almeno sino mad oggi hanno fatto sì che i grandi gruppi dell’economia numerica statunitense abbiano goduto di una sostanziale impunità.
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Minibot, debito pubblico e monete complementari: di che cosa stiamo parlando?
di Andrea Fumagalli
La discussione che si è aperta sui cosiddetti Minibot può consentire di fare un minimo di chiarezza sui due temi sempre più spesso all’ordine del giorno: il finanziamento del debito pubblico e i ruoli che la moneta può svolgere oltre a quelli tradizionali di mezzo di scambio e di unità di conto.
Il finanziamento del debito pubblico, prima dell’avvento delle teorie monetariste e del monopolio di emissione della moneta da parte della Banca Centrale Europea (BCE), poteva contare su due strumenti, fra loro complementari: il ricorso ai mercati finanziari tramite la vendita di titoli di Stato (di diversa natura e durata) per rifinanziare i titoli venuti a cadenza e/o finanziare nuovo deficit e le Operazioni di Mercato Aperto, ovvero il finanziamento diretto da parte della Banca Centrale. Lo Stato italiano era l’unico soggetto economico che poteva, infatti, disporre di un conto corrente presso la Banca Centrale (definito Conto Corrente di Tesoreria), a cui attingere nei casi di necessità senza ricorrere ai mercati finanziari. Tale possibilità implicava la creazione di nuova moneta pari all’ammontare del debito creato.
Alla fine degli anni Settanta, in seguito ai diktat delle teorie monetariste che predicavano l’esistenza di un nesso diretto di causa ed effetto, tra creazione di moneta e dinamica inflazionistica, e quindi dopo il noto divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro (come si chiamava allora l’odierno Ministero dell’Economia), la possibilità di un finanziamento del debito da parte della Banca Centrale viene meno, sino a scomparire del tutto con l’introduzione dell’Euro e con la costituzione della BCE.
Come ci ricorda Massimo Amato in un recente articolo pubblicato su Valori.it, l’attuazione di politiche di Quantitative Easing adottate dalla BCE ha creato un elevato aumento di creazione di moneta: “La crisi di liquidità del 2008 è stata curata con iniezioni di liquiditàsenza precedenti. La quantità di moneta è pressoché triplicata in Europa, eppure il target dell’inflazione del 2% non è stato ancora raggiunto”.
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Moneta fiscale: perchè tocca ai governi attuare misure non convenzionali per rilanciare lo sviluppo
di Enrico Grazzini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo sulla controversa proposta di moneta fiscale, con l’auspicio che possa contribuire al dibattito pubblico
L’eurozona è ancora una volta in crisi e ha urgente bisogno di nuovo ossigeno monetario per fare ripartire la domanda aggregata, e quindi la produzione e l’occupazione. La BCE per bocca di Mario Draghi ha annunciato una nuova serie di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (T-LTRO 3) per le banche a partire da settembre 2019 fino a marzo 2021 con scadenza biennale. L’obiettivo proclamato è di rifornire le banche a costo (quasi) zero della liquidità necessaria per alimentare i prestiti all’economia reale.
L’annuncio dello T-LTRO III segue solamente di pochi mesi la fine (evidentemente prematura) della più importante manovra monetaria anticonvenzionale portata a termine nella storia dell’eurozona e dell’Europa: il Quantitative Easing. Grazie al piano di espansione monetaria la BCE dal marzo 2015 al dicembre 2018 ha fornito 2600 miliardi di euro al sistema bancario in cambio di titoli di stato (comprati dalle banche) e altri titoli. 2600 miliardi sono una cifra enorme, pari a circa il 20% del PIL europeo. Eppure anche il QE non ha ottenuto l’effetto sperato: per molti aspetti è stato un fallimento. L’eurozona è ferma, la domanda aggregata nell’economia reale langue, investimenti e consumi non ripartono, l’inflazione non cresce e la disoccupazione resta elevata. In realtà l’eurozona non è mai uscita dalla crisi, nonostante l’enorme quantità di moneta creata dalla BCE a favore (soprattutto) delle banche in ragione di migliaia di miliardi di euro.
Se i soldi creati dalla BCE fossero stati assegnati non alle banche ma direttamente agli stati, alle famiglie e alle imprese la domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica) e l’inflazione si sarebbero riprese subito e avrebbero trascinato immediatamente al rialzo la produzione e l’occupazione. Basta fare due semplici calcoli: 2,6 triliardi distribuiti ai 340 milioni di abitanti dell’eurozona (neonati e ultraottantenni compresi) avrebbero comportato che ogni abitante poteva percepire oltre 7650 euro, cioè circa 160 euro al mese per i 46 mesi del QE.
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Il tabu del debito pubblico nasconde chi ci guadagna
di Claudio Conti
Il debito pubblico, spiegava Marx, è l’unica cosa davvero comune a tutta la popolazione in una società divisa in classi. Come per ogni “bene comune”, però – per quanto “negativo” come il debito – c’è sempre una modo per avvantaggiare alcuni a scapito di altri.
Fuori da ogni disputa ideologica – che è “falsa coscienza”, ovvero “narrazione” fasulla per coprire il reale – occorre guardare a questo debito con occhi decisamente diversi da quelli totalmente strabici di un Cottarelli, Giannini, Alesina, Giavazzi, Monti e via cantando sulle note dell’austerità.
Un editoriale di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza aiuta – come spesso ci accade – a chiarire alcuni dettagli che svuotano di senso quella narrazione, illuminando su altre soluzioni. Quelle proposte da Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e riprese da questo editoriale, non sono ovviamente le nostre. Ma mostrano quasi fisicamente che si possono seguire altre strade anche restando in ambito totalmente capitalistico.
Ma, se si possono seguire altre persino garantendo al mondo del business di continuare a far soldi, allora sono possibili anche starde che portano da tutt’altra parte. In entrambi i casi – ed è questo l’interessante – viene distrutta la narrazione per cui “non c’è alternativa”. Un’autentica tortura mediatica (pensiamo solo alla quantità di volte che Carlo Cottarelli viene invitato da Fabio Fazio o Paolo Floris…) che ha anestetizzato le capacità critiche soprattutto della cosiddtta “sinistra”, incapace oggi persino di articolare un pensiero senzato di fronte alla più devastante delle domande: “ma dove si trovano i soldi?”.
La strada dell’a.d. di Banca Intesa, per esempio, rivela che non solo “i soldi ci sono”, e in misura persino eccessiva rispetto allo scopo di abbattere il debito pubblico, ma soprattutto che quella domanda retorica da talk show nasconde gli interessi reali che hanno guadagnato ricchezze colossali:
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Unicredit e il destino delle banche europee
di Vincenzo Comito
Il destino di Unicredit si lega alla crisi delle tedesche Commerzbank e Deutsche Bank e alla possibile fusione con Société Générale. La punta dell’iceberg del riassetto del sistema bancario europeo e mondiale
Unicredit al centro dell’attenzione
Non capita di frequente che delle banche italiane si parli con molto rilievo nella stampa internazionale, se non in occasione di possibili crisi delle stesse. Ma in queste settimane le vicende di Unicredit sono state al centro dell’attenzione del mondo politico e finanziario europeo ed oltre; e questo, oltre che per la pesante multa comminata dagli Stati Uniti alla banca (alcune delle cui filiali, in particolare quella tedesca, avrebbero infranto le sanzioni all’Iran e ad altri Paesi),anche per il suo interesse all’acquisizione della tedesca Commerzbank e/o (non è chiaro) per una possibile fusione con la francese Société Générale, nonché infine per una possibile multa che potrebbe essere comminata all’istituto dalla Commissione Europea per una supposta violazione delle norme antitrust, sempre da parte della filiale tedesca (la violazione avrebbe peraltro interessato anche altre sette banche del nostro continente).
Partendo in particolare dalle citate ipotesi di fusione, si può cercare di sviluppare qualche ragionamento più ampio intorno allo Stato e alle prospettive delle grandi banche del nostro continente.
L’ipotesi di acquisizione
L’Unicredit, come del resto più in generale il sistema bancario italiano, sono usciti da poco da una grave crisi. A suo tempo l’istituto aveva avviato una strategia di grande espansione all’estero, in Europa e nel resto del mondo, che era arrivata a toccare anche le lontane steppe dell’Asia centrale; tali sviluppi (insieme alla crisi economica del nostro Paese, con i conseguenti grandi strascichi di crediti inesigibili),avevano condotto dei gravi guasti nei bilanci aziendali, mentre l’istituto, solo da poco, è tornato alla normalità attraverso un durissimo piano di ristrutturazione ed un fortissimo aumento di capitale.
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Crisi del dollaro?
di Giacomo Gabellini
Il Dollaro con gli aspetti che non vengono raccontati, la crisi attuale, la vicenda dello sganciamento dall’oro (e l’aggancio all’oro nero) e molto altro in un articolo di Giacomo Gabellini
In appena un anno, la Banca Centrale russa si è liberata dei circa 90 miliardi di dollari di Treasury Bond (T-Bond) statunitensi di cui era in possesso per incrementare le riserve in yuan da 0 a qualcosa come il 15% del totale. Percentuale sbalorditiva, che supera di molto la media – prossima al 5% – delle riserve in yuan di cui dispongono i 55 Paesi interessati dal mega-progetto della Belt and Road Initiative (Bri), ma che potrebbe essere eguagliata da un numero ben più consistente di Paesi in un futuro non troppo remoto. Lo suggeriscono i dati relativi alla composizione delle riserve valutarie detenute dalle Banche Centrali di tutto il mondo pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), da cui emerge che nel quarto trimestre del 2018 lo yuan è arrivato a rappresentare l’1,89% del totale, pari a 202,79 miliardi di dollari. Di per sé, la quota può apparire insignificante, se raffrontata a quella del dollaro (61,69%, pari a 6.617,84 miliardi di dollari), dell’euro (20,69%, pari a 2.219,34 miliardi di dollari), dello yen (5,20%, pari a 558,36 miliardi di dollari) e della sterlina (4,43%,pari a 475,45 miliardi di dollari). Il discorso cambia però radicalmente se si considera che la moneta cinese ha registrato aumenti della propria quota in cinque degli ultimi sei trimestri e che, nel quarto trimestre del 2016, le Banche Centrali di tutto il mondo detenevano yuan per appena 84,51 miliardi di dollari: un incremento di 2,5 volte nell’arco di un biennio. Il tutto a spese del dollaro, che pur mantenendo saldamente il primato, nel quarto trimestre del 2018 ha conosciuto un calo di ben 14,31 miliardi di dollari. E lo stesso fatto di rappresentare il 61,69% delle riserve valutarie globali assume un significato assai meno rassicurante se raffrontato alla situazione del 2000, quando qualcosa come il 72% delle scorte monetarie in possesso delle Banche Centrali era costituito da dollari.
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Banca d’Italia e debito pubblico: un matrimonio che non s’ha da fare
di coniarerivolta
La Banca d’Italia ha recentemente comunicato che trasferirà al Tesoro circa 6 miliardi di euro derivanti dai suoi utili maturati nel 2018. In un periodo caratterizzato da una cronica scarsità di fondi pubblici, con i governi in perenne affanno nel trovare le risorse e far quadrare i conti, è davvero curioso che questa notizia sia passata in sordina: per una volta che i soldi cadono dal cielo – perché non c’è alcun italiano che abbia dovuto sborsarli, quei 6 miliardi, che provengono freschi freschi dal conio della banca centrale – nessuno sembra volersene occupare. Nemmeno un Cottarelli di turno che si prenda la briga di spiegarci bene da dove arrivino queste risorse aggiuntive disponibili per la realizzazione di scuole, ospedali, infrastrutture. Eppure, benché relativamente banale dal punto di vista tecnico, la questione, come vedremo, è carica di conseguenze politiche.
Indebitarsi costa. Lo Stato si indebita emettendo titoli del debito pubblico (principalmente Buoni del Tesoro Poliennali, BTP) che fruttano ai sottoscrittori (ossia i detentori di quei titoli) un certo tasso di interesse: quel tasso è il costo del debito. Se ci indebitiamo per 300 miliardi di euro ad un tasso del 2%, dovremo pagare ai nostri creditori 6 miliardi di euro ogni anno per il servizio del debito. Considerato che l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.300 miliardi di euro, possiamo capire subito per quale ragione ogni anno lo Stato è costretto a pagare circa 65 miliardi di euro di interessi su quel debito. Per cogliere appieno l’ordine di grandezza, è sufficiente riflettere sul fatto che provvedimenti quali il Reddito di Cittadinanza e Quota 100 – le due principali misure economiche varate da questo governo che tanto hanno scandalizzato i puristi del pareggio del bilancio – hanno avuto un costo complessivo per il 2019 di circa 15 miliardi di euro, meno di un quarto delle risorse pagate dallo Stato ai suoi creditori.
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La crisi economica e le banche centrali
di Eric Toussaint
Gli elementi di una nuova crisi finanziaria internazionale sono tutti presenti; non si sa quando essa scoppierà ma quando accadrà il suo effetto su tutto il pianeta sarà importante.
I principali fattori di crisi sono da una parte l’aumento ingente dei debiti privati delle imprese, dall’altra la bolla speculativa sui prezzi degli attivi finanziari: borse valori, prezzi dei titoli del debito, e, in certi paesi (Stati Uniti, Cina …), di nuovo il settore immobiliare. I due fattori sono strettamente interconnessi. Anche le imprese che hanno un’enorme liquidità a loro disposizione come Apple si indebitano massicciamente perché approfittano dei bassi tassi di interesse per prestare ad altre il denaro che esse prendono a prestito. Apple e numerose altre imprese prendono a prestito per prestare a loro volta e non per investire nella produzione. Apple prende a prestito anche per riacquistare le proprie azioni in borsa. Ho spiegato questo in un articolo intitolato «» , pubblicato il 9 novembre del 1917.
Banche centrali e bolla in arrivo
Le bolle speculative ora citate sono il risultato delle politiche condotte dalle grandi banche centrali (Federal Rèserve degli Stati Uniti, BCE7, Banca d’Inghilterra, da 10 anni, e dalla Banca del Giappone dallo scoppio della bolla immobiliare negli anni 1990) che hanno iniettato migliaia di miliardi di dollari, euro, sterline, yen nelle banche private per mantenerle a galla. Queste politiche sono state chiamate Quantitative easing o allentamento monetario quantitativo. I mezzi finanziari che le banche centrali hanno distribuito a profusione non sono stati utilizzati dalle banche e dalle grandi imprese capitaliste degli altri settori per l’investimento produttivo. Essi sono serviti a acquistare attivi finanziari: azioni di borsa, obbligazioni di debiti delle imprese, titoli di Stato sovrani, prodotti strutturati e derivati… Questo ha generato una bolla speculativa sul mercato borsistico, sul mercato obbligazionario (vale a dire le obbligazioni dei debiti) e, in alcuni paesi, nel settore immobiliare. Tutte le grandi imprese sono sovra-indebitate.
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