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La sfida strategica sulla moneta digitale: le monete globali dei colossi del web e le Central Bank Digital Currencies
di Enrico Grazzini
La moneta sta conoscendo un cambiamento epocale. A parte qualche eccezione, prima o poi la moneta di carta diventerà un oggetto da collezione. La nuova moneta diventerà completamente digitale, fatta di bit immateriali e intangibili. Già ora i pagamenti per il commercio elettronico vengono effettuati on line in maniera facile e conveniente con smartphone, personal computer, tablet, carte con chip. Sul piano tecnico ed economico le monete digitali offrono numerosi e sostanziali vantaggi: meno costi di produzione e di distribuzione rispetto alle banconote, più facilità e immediatezza d’uso, possibilità di regolare istantaneamente le transazioni, minori costi per commercianti e cittadini, possibilità di tracciare tutte le transazioni (anche se questo solleva immensi problemi di privacy) e quindi di contrastare efficacemente l’evasione fiscale, la criminalità, il riciclaggio e il terrorismo.
Il passaggio inevitabile dalla moneta cartacea a quella digitale modificherà certamente gli scenari competitivi attuali: non si sa se negli anni prevarranno le società globali del web, come Facebook o Alipay, o invece le banche centrali nazionali e i sistemi bancari tradizionali su base nazionale. La competizione potrebbe essere di tutti contro tutti: non solo i grandi oligopolisti della rete contro i sistemi bancari nazionali e gli stati sovrani, ma eventualmente anche le banche centrali nei confronti delle banche commerciali nazionali.
Si apriranno nuovi scenari concorrenziali per aggiudicarsi il potere sulle nuove monete e il potere sui clienti e sui loro dati. Il passaggio dalla moneta cartacea a quella digitale potrebbe fare fare un salto di qualità decisivo verso la privatizzazione del sistema monetario internazionale: o potrebbe al contrario aprire le porte alla moneta pubblica digitale nazionale.
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Patrimoniale: come sbagliare mira con una pistola ad acqua
di Pietro Salemi
Nel dibattito pubblico di questi ultimi giorni ha tenuto banco la proposta di emendamento alla legge di bilancio di introduzione di un’imposta patrimoniale che andrebbe ad incidere su quella platea di contribuenti che detengano un patrimonio immobiliare e mobiliare netto superiore complessivamente ai 500.000 €. La proposta, a firma di alcuni deputati di PD e LeU, prevede 4 diverse aliquote: 0,2% tra i 500.000€ e un milione di €; 0,5% da un milione a 5 milione di €; 1% tra 5 e 50 milioni di €; 2% sopra i 50 milioni di €. A queste aliquote, solo per l’anno 2021, se ne aggiunge un’altra: il 3% sui patrimoni superiori al miliardo di €. La stessa proposta di emendamento all’art. 194 della legge di bilancio disporrebbe la contestuale esenzione per le persone fisiche dall’Imposta Municipale Propria, dall’imposta di bollo sui conti correnti e sui conti di deposito titoli.
L’imposta patrimoniale è da sempre proposta capace di scaldare i cuori della sinistra e gli animi a destra. In linea di principio, è, infatti, misura idonea a perseguire finalità di giustizia sociale in vista di una più equa distribuzione della ricchezza e, in ultima istanza, di una maggiore uguaglianza sostanziale.
La misura viene presentata, se non come una vera e propria panacea, almeno come una misura giusta e necessaria. Giusta, perché ritenuta in grado di operare un’effettiva redistribuzione delle ricchezze e di rimediare alla drammatica crescita delle disuguaglianze socio-economiche. Necessaria, perché ritenuta in grado di reperire preziose risorse per l’Italia al fine di superare la crisi pandemica, nei suoi aspetti sanitari e/o economici.
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Strategie di sopravvivenza del sistema finanziario
Verso il nulla che avanza
di Francesco Cappello
Le banche centrali a partire dalla crisi del 2007/08 nel tentativo di stabilizzare il sistema finanziario, in equilibrio intrinsecamente precario, hanno creato e immesso enormi quantità di moneta nei suoi circuiti, al fine di far quadrare bilanci pericolosamente squilibrati. Ad oggi, nel complesso, più di 30 mila miliardi di dollari la moneta a vario titolo creata (1) e immessa nel sistema finanziario, destinata a crescere a ritmi vertiginosi.
La moneta dal 1971 è moneta fiat, non più legata all’oro (fine del gold standard). Essa si crea dal nulla a volontà. Non è “risorsa” scarsa. Non ha quindi valore intrinseco.
Come fare a conferirglielo?
Sorgente e ruolo dell’inflazione finanziaria
Come è noto alle banche centrali di molti paesi inclusi quelli dell’Unione Europea è stata preclusa la possibilità di finanziare direttamente gli Stati; sono perciò le banche private a fare da intermediare comprando i titoli emessi dallo stato. Esse utilizzano allo scopo moneta creata appositamente dalle banche centrali. Nel contesto europeo le banche private fanno da intermediarie tra la BCE e gli Stati.
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Centomila miliardi di asset finanziano 18.500 miliardi di Pil
Il rischio americano è tutto qui
di Maurizio Novelli, Lemanik
Lo stock di azioni e titoli di debito che finanziano l’economia Usa ha raggiunto questa cifra stratosferica. E circa 10-12.000 miliardi di dollari di risparmio estero di Cina, Giappone ed Europa contribuiscono a quel sostegno, sottraendo risorse alle loro economie. Un circolo vizioso da cui si esce con ricette che Wall Street certo non gradisce
Mentre si avvia il cambio di amministrazione negli Stati Uniti, i mercati finanziari sono impegnati nella costruzione della piu’ grande bolla speculativa di sempre, in un contesto economico particolarmente disastrato. I postumi della crisi economica non saranno così facili da superare per le economie occidentali e il danno richiederà molto tempo per essere riparato, anche se la frenesia speculativa dei mercati cerca di far credere che non sarà così.
Le azioni dei policy makers stanno creando due economie tra loro contrapposte, quella della finanza e quella reale, con il rischio che si possano separare pericolosamente tra loro in modo irreversibile, producendo una ripresa economica a forma di K: il 10% più ricco della popolazione si trova sulla linea superiore della K e il rimanente 90% in quella inferiore, fino a creare in prospettiva l’instabilità sociale prodotta dalla disuguaglianza.
Il livello raggiunto dallo stock di asset finanziari detenuti dagli investitori e circolanti nell’economia americana a fine 2019 era pari a 5,6 volte il Pil Usa, ma in considerazione del recente aumento del debito interno per fronteggiare la crisi economica, dovrebbe essere salito a ben oltre 6 volte il PIL (in UE tale livello è inferiore a 3 volte). In sostanza, il Pil USA vale oggi circa 18.500 miliardi di dollari ma le attività finanziarie (azioni, obbligazioni e titoli cartolarizzati di ogni tipo) che lo rappresentano e servono a finanziarlo hanno raggiunto la cifra astronomica di oltre 100.000 miliardi di dollari (derivati esclusi!).
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Alibaba, il fintech e il sistema finanziario
di Vincenzo Comito
Con lo scoppio della pandemia, le attività del settore del fintech hanno fatto un grande balzo in avanti, e il colosso Ant ha aiutato la Cina a diventare il leader globale indiscusso nel settore. Perché Pechino ha bloccato dunque la quotazione in Borsa del colosso di Jack Ma?
La curiosa quotazione in Borsa di Ant Group
L’annuncio della quotazione in Borsa di Ant Group, braccio finanziario di Alibaba, nonchè la successiva sospensione della stessa da parte delle autorità cinesi, ci spingono ad analizzare le molte, importanti, questioni che sono in ballo nella vicenda, dall’avanzamento tecnologico e finanziario cinese e dalla lotta per il predominio con gli Stati Uniti, al problema del controllo pubblico dei giganti dell’economia numerica, al rapporto più generale tra pubblico e privato, al futuro infine delle banche tradizionali, in Cina come nel resto del mondo.
Dunque, nell’ottobre del 2020 il gruppo Alibaba annuncia che la sua controllata Ant Group sarà quotata alle borse di Shanghai e di Hong Kong attraverso l’emissione di titoli azionari per un valore di circa 37 miliardi di dollari; tutta Ant viene a questo punto valutata 313 miliardi di dollari, un valore superiore a quello di tutte le grandi banche internazionali, compresa, sia pure di poco, a quello del più grande gruppo finanziario occidentale, la JPMorgan Chase.
Se la quotazione fosse stata portata avanti, si sarebbe trattato del più grande collocamento in Borsa della storia. L’emissione è stata in linea di principio un grandissimo successo: sono arrivate richieste di sottoscrizione pari a circa 800 volte il valore dei titoli immessi sul mercato.
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La moneta digitale cinese cambierà la finanza
di Giacomo Marchetti
In calce un articolo di China Daily sull'argomento
Diana Choyleva, economista-capo di Enodo Economics, in un articolo sul Financial Times dal titolo illuminante – “Il Renmimbi si rafforza mentre la Cina si rafforza” – afferma che:
«la Cina spera particolarmente nell’adozione di una nuova valuta digitale, ora in fase di sperimentazione avanzata, da parte di altri paesi. Mantenere alta la fiducia nel renminbi “analogico” sarà fondamentale per ottenere molti ‘convertiti’ al suo gemello digitale».
La sfida di Pechino è parte integrante di una strategia a tutto tondo per affermare un nuovo benchmark anche in quella terra di mezzo tra il massimo grado di sviluppo tecnologico e le tecniche finanziarie, continuando ad attrarre porzioni crescenti di capitale internazionale – tra cui i big di Wall Street -, tutto però sotto il ferreo controllo politico della direzione economica complessiva.
Si tratta di vincere la guerra digitale e quella monetaria, in uno scontro a tre tra titani, con Pechino che però sta ora disponendo di un differenziale strategico notevole grazie alla maggiore capacità dimostrata nella gestione dell’emergenza pandemica.
Come ha platealmente mostrato la “sospensione” della più grande IPO della storia finanziaria (prevista per il 5 novembre, ma stoppata pochi giorni prima) per la Ant, il più grande operatore privato di pagamenti digitali al mondo, che il miliardario Jack Ma sognava nelle borse cinesi (Shangai e Hong Kong).
Pechino non intende correre rischi e mostra che mentre il mondo economico naviga a vista in un mare in tempesta, lei tiene saldamente il timone ed segue la rotta che verrà formalizzata nel 14° Piano Quinquennale.
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Il capitale ha riconquistato piena padronanza del sistema bancario
di Ascanio Bernardeschi
Le politiche liberiste europee, passivamente subite dall’Italia, hanno determinato lo scompaginamento del sistema bancario togliendo allo Stato la leva della politica monetaria e creditizia e ponendolo alle dipendenze della finanza. Le regole europee e le misure anti-covid non consentono di esercitare un controllo pubblico dell’economia. Lo Stato dovrebbe riappropriarsi del sistema bancario per poter indirizzare le risorse finanziarie verso obiettivi economici e sociali pianificati. Inizia con questo articolo un servizio sul sistema bancario italiano nel contesto della crisi economica
Cominciamo con Marx. Nel caso del denaro dato a prestito, la forma della metamorfosi del capitale è D-D’ con D’ maggiore di D. Cioè viene messo in circolazione denaro e se ne ritrae di più di quello immesso. La valorizzazione avviene attraverso il puro movimento del denaro, senza che intervenga non solo la produzione, ma neppure la stessa circolazione delle merci. Si crea l’illusione che il denaro possa sgorgare da sé stesso e moltiplicarsi alla stregua dei pani e dei pesci di evangelica memoria. A chi si ferma a questa manifestazione fenomenica diviene invisibile la circostanza che il guadagno del capitalista finanziario è solo una quota del plusvalore complessivo, cioè lavoro non pagato, estratto nei settori produttivi e ripartito fra tutti i capitalisti, compresi quelli operanti nei settori non produttivi. Si raggiunge quindi con questa forma il culmine del feticismo del denaro.
La sezione finanziaria del capitale è anche quella che meglio di tutte rappresenta la pulsione del capitalista all’autoaccrescimento della ricchezza astratta, a prescindere dai modi con cui tale valorizzazione si realizza. Perciò non è sorprendente se nelle formazioni economiche in cui predomina il modo di produzione capitalistico, cioè nella maggior parte del globo, tutto si sacrifica agli interessi del capitale finanziario, compresi, il debito “sovrano”, che sovrano non è, trascinato fino ai limiti dell’ingovernabilità (e talvolta anche oltre), e le stesse istituzioni democratiche, regolarmente soggiogate alle sue esigenze.
Non va dimenticato però che le banche hanno oggettivamente un ruolo di primissimo piano nel sistema economico in virtù della loro capacità di determinare l’allocazione delle risorse finanziarie fra i vari rami economici e le varie imprese, attraverso le loro decisioni di finanziamento.
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Derivati di Stato: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari
di Thomas Fazi
Mario Draghi, nel suo recente e molto discusso intervento al Meeting di Rimini (che abbiamo già trattato qui), ha ribaltato una delle architravi della narrazione euro-austeritaria dell’ultima decennio (avallata dallo stesso Draghi), quella dell’imperativo assoluto della riduzione del debito pubblico, costi quel che costi in termini economici e sociali (per maggiori informazioni citofonare alla Grecia), sostenendo che l’attuale fase storica «sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo». Insomma, contrordine compagni: il debito pubblico non è più il male assoluto, ma anzi l’aumento degli stock di debito è una necessità impellente per evitare «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, [che] sarebbe ancora più dannosa per l’economia», come ha dichiarato qualche mese addietro in un’altra occasione.
Allo stesso tempo, però, Draghi si è affrettato a specificare che bisogna distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, laddove il primo è quello “produttivo”, quello cioè, se decodifichiamo il gergo draghiano, che piace ai mercati finanziari, ovverosia che genera ritorni economici al capitale privato nel breve periodo, mentre il secondo è quello cosiddetto “improduttivo”, ovverosia quello che, nella migliore delle ipotesi, pur generando rendimenti sociali di lungo periodo potenzialmente molto benefici per la società nel complesso – laddove venisse utilizzato, poniamo, per aumentare le assunzioni e le retribuzioni di medici e insegnanti –, non offre rendimenti economici nel breve termine. Insomma, non siamo di fronte a nessuna conversione sulla via di Damasco, come hanno sostenuto alcuni; più banalmente, cambiano gattopardescamente le parole (“debito” al posto di “austerità”) affinché non cambi nulla: la visione del mondo e della società che sottende le parole di Draghi, e gli interessi che quest’ultimo rappresenta, sono gli stessi di sempre.
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Il labirinto del debito pubblico e privato in Italia
di Roberto Artoni
Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, l’Italia ha un forte debito pubblico, ma poco debito privato: nell’insieme ha una posizione più solida di altri paesi europei. Una mappa per non perdersi nel labirinto del debito, della finanza pubblica, delle politiche di bilancio
Nelle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco sul 2019, un passo è dedicato al confronto fra la situazione debitoria del nostro Paese e quella di altri Paesi dell’area euro. In particolare, nelle parole del governatore, “la posizione netta sull’estero dell’Italia ha raggiunto un sostanziale equilibrio”. “La ricchezza netta, reale e finanziaria delle famiglie italiani è elevata. Il debito delle famiglie è basso nel confronto internazionale ed è concentrato presso i nuclei con una maggiore capacità di sopportarne gli oneri“. “Nel complesso il debito era pari al 110 cento del Pil, oltre 50 punti in meno del valore medio dell’area dell’euro”.
Nella figura qui sotto è rappresentato il debito pubblico e privato in percentuale del prodotto interno di vari Paesi. Il debito pubblico italiano è pari al 130 % del Pil, contro poco meno del 100 % di Francia e Spagna; è invece sensibilmente inferiore in Olanda e Germania (intorno al 50 %). Il quadro è radicalmente diverso se si esaminano i debiti finanziari delle famiglie e delle imprese. In Olanda si raggiunge lo straordinario livello del 250 %, in Francia il 200 %, il 150 % in Spagna; infine, Italia e Germania si collocano intorno al 100%.
Questi dati devono essere ulteriormente elaborati se si vuole ottenere una descrizione più precisa della situazione finanziaria dei diversi Paesi, e individuare le opzioni di politica economica e istituzionale appropriate.
E’ mia opinione, infatti, che le analisi correnti tutte concentrate sul rapporto debito pubblico prodotto interno non rappresentino in modo compiuto la situazione finanziaria o le prospettive economiche e finanziarie che possono derivarne.
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E allora, viva, viva il debito!
di Raffaele Picarelli
Dopo decenni di dogmi, in tempo di crisi cade la maschera: il denaro di chi paga le tasse serve per socializzare le perdite dei profittatori privati. Ma una volta sanata l’azienda, lo Stato si levi di mezzo
Il grido di dolore
Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! tuona Mario Draghi al “Financial Times” il 25 marzo scorso. Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! gli fa eco il 29 aprile scorso il governatore della Fed Jerome Powell. Ma come? Per circa quarant’anni essi e i loro predecessori ci hanno martellato sulla necessità inderogabile di tenere i conti pubblici in equilibrio! Allora era tutto uno scherzo? No, era semplicemente lotta di classe: il liberismo e il monetarismo degli ultimi quarant’anni è stato il volto feroce del dominio capitalista nel mondo.
Il ‘rigore’ dei conti è stato il totem ideologico da cui è partito un poderoso attacco per lo sfruttamento planetario e senza limiti dei subalterni; per la massiccia riduzione (spesso scomparsa) di diritti, salari, servizi sociali; per l’estrazione massiccia di plusvalore e per l’appropriazione capitalistica della massa dei profitti. Ora, al tempo della Pandemia, dello sconvolgimento della società capitalistica, serve il denaro pubblico, il denaro di chi paga le tasse (ben sappiamo chi è), per salvare il sistema. E non solo il denaro pubblico di ora, ma dei prossimi anni (almeno 12 a leggere il DEF governativo approvato nei giorni scorsi dalle Camere).
E allora, viva, viva il debito! Soldi e capitali pubblici subito! Lo dicono tutti: imprese, governi, istituzioni economiche nazionali e internazionali. In tanti gridano spaventati che la base produttiva e fiscale potrebbe saltare, la società entrare in dinamiche fuori controllo, la riproduzione capitalistica avviarsi verso una crisi ingovernabile. Per queste ragioni, gridano fra i molti Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, è ineludibile una rapida e mastodontica socializzazione delle perdite private.
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Monetizzazione del debito: niente panico
di Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry
In un articolo su VoxEU inusitatamente chiaro, Olivier Blanchard (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale) e Jean Pisany-Ferry (già consigliere del governo francese) spiegano la monetizzazione del debito. L’emissione di moneta da parte di uno Stato è uno strumento assolutamente naturale per fronteggiare determinate circostanze, ed è già stato esplicitamente dichiarato da Gran Bretagna e Stati Uniti. Anche l’eventualità (assolutamente remota al momento) di un episodio inflattivo potrebbe essere considerata accettabile per la riduzione del peso del debito. Questo articolo contribuisce (confermando quello che nel dibattito in Italia abbiamo sentito in modo forte e coerente solo da Borghi e da Bagnai) a distruggere molti dogmi sulla moneta, il debito e il finanziamento pubblico, e apre anche a una monetizzazione del debito nell’Eurozona, caratterizzata dalla condivisione del rischio sui diversi titoli sovrani, sulla quale tuttavia, dicono i due economisti, non ci dovrebbero essere motivi di panico
Le operazioni straordinarie che sono in atto nella gran parte dei paesi in risposta allo shock da COVID-19 hanno fatto sorgere il timore che una monetizzazione del debito su ampia scala finisca per innescare un grande episodio inflattivo. Questo articolo sostiene che, fino a ora, non ci sia evidenza che le banche centrali abbiano rinunciato o si accingano a rinunciare al loro mandato sulla stabilità dei prezzi. Sebbene ovviamente sia il caso di prestare attenzione, le banche centrali stanno facendo la cosa giusta e gli autori di questo articolo non vedono alcuna ragione di panico.
In risposta alla crisi sanitaria, in molti paesi sono in atto operazioni straordinarie (Baldwin e Welder di Mauro, 2020). Sono stati avviati programmi di sostegno fiscale di portata eccezionale, e spesso a tempo indeterminato, e vengono accompagnati da acquisti altrettanto eccezionali di titoli di stato. Nel Regno Unito, il Tesoro e la Bank of England, hanno annunciato la riattivazione temporanea di un programma che rende possibile il finanziamento diretto della spesa pubblica da parte della banca centrale.
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Moneta a debito o NON a debito?
di Francesco Cappello
Uno scudo a protezione del risparmio privato e del Paese
Perché chiedere pericolosissimi prestiti internazionali se in casa nostra abbiamo risorse sufficienti ad affrontare la crisi sistemica in atto ed organizzare la rinascita del paese? Per chi non lo sapesse, noi italiani, abbiamo un risparmio privato pari a quasi il doppio del debito pubblico! 4200 miliardi da impiegare virtuosamente, proteggendoli allo stesso tempo, ed efficacemente, da instabilità finanziarie e dalla normativa bail-in introdotta dall’unione bancaria europea. Esiste un preciso piano di attacco al risparmio italiano da parte di certa finanza a cui è necessario non prestare il fianco. Esso va protetto e valorizzato secondo i dettami della Costituzione che al primo comma dell’art. 47 afferma: la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Lo si può fare tramite l’emissione di titoli di Stato: “buoni di solidarietà e protezione“ riservati al risparmio nazionale secondo la proposta originale di G. Grossi. Non farlo nelle condizioni attuali del paese sarebbe una scelta criminale.
Moneta nazionale o economia di puro debito?
Come dice l’ex Presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan: uno Stato che emette la propria valuta, ha zero possibilità di fallire.
Oggi, alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali.
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Monete complementari: una critica
di Leonardo Mazzei
Commentando un mio articolo sui CCF (Certificati di Credito Fiscale), un nostro lettore — Dianade — così scriveva il 6 gennaio scorso:
«Lo so che c'é tanta informazione in rete su minibot e CCF, però che io sappia non c'é nessuno studio che faccia dei raffronti e spieghi le differenze tra l'uno e l'altro e tutte le implicazioni.
E non solo tra questi due, c'é anche la proposta di Mazzei dei BTP famiglia, c'é quella di Conditi, di Zibordi, la moneta parallela, etc. Io non mi ci raccapezzo. Credo che anche molti altri».
Senza nessuna pretesa di completezza, tantomeno dal punto di vista tecnico, proverò a dare una risposta a questa giusta domanda di Dianade.
Prima di entrare nel merito voglio però ricordare due cose. In primo luogo, la mia critica ai sostenitori dei CCF nasce dalla loro recente, ma rivelatrice proposta di mandare Mario Draghi a Palazzo Chigi, incoronandolo come Re Salvatore del Paese. In secondo luogo, chi scrive non è affatto contrario all'idea di una moneta complementare, ma non pensa proprio che la si possa realizzare senza infrangere le regole europee e senza scontrarsi con l'oligarchia eurista al gran completo. Rimando dunque a quanto ho scritto nell'articolo della settimana scorsa:
«Senza dubbio — non entrando qui nel merito delle sue possibili forme — essa (la moneta complementare) potrebbe rivelarsi utile e per certi aspetti addirittura necessaria. Ma utile e necessaria solo nel quadro di un percorso che ci porti alla vera sovranità monetaria, cioè all'uscita dall'euro».
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Derivati finanziari: salvare il sistema per non cambiarlo
di Giovanna Cracco
Derivati finanziari. Li abbiamo conosciuti nel 2007, non come la miccia che ha innescato la crisi dei subprime ma la benzina che ha trasformato l'esplosione di una bolla in un enorme incendio, poiché erano il liquido su cui galleggiava il sistema finanziario mondiale. Per qualche tempo sono stati sulle pagine dei quotidiani, economici ma non solo, nel tentativo di capire cosa fosse accaduto, dopodiché sono tornati nell'ombra nella quale vivono e proliferano. Hanno di nuovo fatto una fugace comparsa l'estate scorsa, quando Deutsche Bank ha presentato il piano di ristrutturazione per non fallire - creazione di una bad bank dove scaricare i titoli spazzatura e licenziamento di 18.000 persone sugli attuali 91.700 dipendenti - con un numero che è difficile afferrare perché sfugge alle scale di grandezza a cui riusciamo a dare un significato: 48.000 miliardi di euro è il valore nominale dei derivati oggi detenuti dalla banca tedesca (1). Per inserire la cifra in un discorso di senso, il Pil italiano nel 2018 è stato di 1.753 miliardi, pari dunque al 3,65% dell'ammontare dei derivati della Deutsche Bank. Una sola banca possiede titoli finanziari per un valore nominale equivalente a più di 27 volte il prodotto interno lordo di un Paese di 60 milioni di abitanti, la settima potenza manifatturiera al mondo. E questo all'alba di una recessione economica e in una fase di bolle sui mercati (2). Significa che dal 2007 nulla è cambiato? Qual è oggi la situazione nell'universo parallelo dei derivati finanziari?
Future e opzioni sono esistiti fin dalla seconda metà deN'800: al Chicago Board of Trade si scambiavano quelli sul grano per tutelarsi dalle variazioni di prezzo dovute alla ciclicità della produzione e per un secolo furono legati solo alle commodities
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Verso la moneta digitale pubblica
L’audacia di Christine Lagarde e la prudenza di Mario Draghi
di Enrico Grazzini*
Christine Lagarde, attuale direttore del Fondo Monetario Internazionale e prossimo Presidente della Banca Centrale Europea, vorrebbe che le banche centrali adottassero rapidamente sistemi di emissione di monete digitali aperte al pubblico, ai cittadini e alle aziende, mentre Mario Draghi, l’attuale presidente della BCE, è assai più prudente e afferma che la BCE non ritiene ancora opportuno sviluppare progetti sulla moneta digitale aperta a tutti.
Sarà interessante capire se Lagarde alla BCE avanzerà concretamente nella direzione che lei stessa ha indicato nella veste di direttore del FMI. Se procederà nella rotta che ha tracciato muteranno radicalmente non solo le funzioni della BCE ma anche tutto il sistema bancario e finanziario. Si verificherà una vera e propria rivoluzione monetaria.
Finora praticamente solo le banche possono detenere conti presso la Banca Centrale che, appunto, viene chiamata “banca delle banche”. La politica monetaria delle BC passa quindi solo per il canale bancario e la nuova moneta viene quindi emessa e distribuita al pubblico principalmente come “moneta bancaria”, ovvero come moneta-debito per chi la riceve in prestito con l’impegno di restituirla con gli interessi. Le banche commerciali possono “creare moneta dal nulla” concedendo prestiti, come ha spiegato chiaramente la Bank of England[1], e il 90% circa della moneta totale in circolazione è moneta bancaria. Anche le banconote – che sono l’unica moneta legale e l’unica moneta che la BC emette per il pubblico – vengono distribuite dalle banche solo a chi ha già un conto corrente bancario. In pratica sono le banche commerciali a dominare il circuito e la circolazione della moneta nell’economia. Le BC possono condizionare l’attività bancaria soprattutto grazie alla fissazione del tasso di interesse principale, cioè del prezzo imposto dalla BC sulla moneta di riserva delle banche.
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