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Capitalismo, tecnologia, ambiente

E.R.

Il marxismo è spesso accusato di cecità in relazione agli effetti devastanti del capitalismo sull'ambiente naturale. Nella maggior parte dei casi, il marxismo è ritratto dai suoi critici e da molti dei suoi sostenitori, con una teoria che sostiene il trattamento e le relazioni che il capitalismo sviluppa con la natura, e anche come una teoria che sostiene l'estensione e la intensificazione crescente di questa distruzione. La crescita sempre maggiore della produzione e lo sviluppo di tecnologie per assicurarlo sono generalmente considerati come fine a se stessi per il marxismo. 
In realtà, questo è vero per le varie varianti del marxismo dominanti durante il XX secolo. Tuttavia, questo non è vero per lo stesso Marx, per cui è possibile sviluppare una forma di marxismo critico che rifiuta questo punto di vista. Questo testo è un contributo a questa forma di critica. Anche se alcuni marxiani hanno voluto approfondite ricerche per dimostrare che Marx era in realtà tutt'altro che cieco all’antagonismo fondamentale tra il capitalismo e la natura (vedi Marx e la Natura (1999) di Paul Burkett e Ecologia di Marx (2000) di John Bellamy Foster), mi limito qui, inizialmente, a due brevi citazioni dagli scritti della maturità di Marx che illustrano chiaramente la sua consapevolezza di questa realtà. 

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consecutio temporum

Strati di tempo

di Cristina Corradi

Nel suo ultimo, corposo saggio (Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book 2011) Massimiliano Tomba ricostruisce l’itinerario marxiano – dalla dissertazione di dottorato sull’atomismo antico all’Ideologia tedesca, dai Grundrisse al confronto con i populisti russi – utilizzando come filo conduttore la maturazione del “materialismo storico”. L’espressione – ci ricorda l’autore – non è di Marx ma di Engels che la usa, congiuntamente alla dizione “socialismo scientifico”, con intenti divulgativi. Obiettivo del libro non è, tuttavia, la ricostruzione filologica del vero materialismo pratico o materialismo comunista di Marx, da contrapporre ai fraintendimenti del marxismo novecentesco. Esso esplora piuttosto la pluralità di significati del materialismo marxiano per ricavare dai testi una concezione della storia che sovverte quella sedimentata nel marxismo della II e della III Internazionale: una concezione più rispondente alla temporalità specifica del conflitto sociale e più consona alle esigenze di un’autonoma politica di classe.

In Italia il materialismo storico non ha mai goduto di buona fama: dal dibattito di fine Ottocento tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel, la tendenza prevalente è stata quella di ridimensionare la concezione materialistica della storia, disconoscendone la portata scientifica, attenuandone il valore metodico o denunciando l’intima contraddittorietà di una teoria che affermi il primato dell’essere sulla coscienza. Nei Quaderni del carcere Gramsci si spinge a sostituire il materialismo storico con una filosofia della prassi che è chiamata a indagare la formazione della soggettività politica di classe.

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31 tesi sulla società della miseria (e oltre)*

                      Message  in a bottle

                                                                                            La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di
                                                                                                 produzione capitalistico si presenta  come una “immane
                                                                                                 raccolta i merci
(Karl Marx Il Capitale)

                                                                                                L’intera esistenza delle  società nelle quali predominano le
                                                                                                moderne condizioni di produzione si presenta come
                                                                                                 un’immensa accumulazione di ‘spettacoli”

                                                                                            (Guy Debord, La Società dello spettacolo)

I. Diversamente da quanto solitamente immaginato, la "politica" non ha mai avuto alcun ruolo rilevante nelle società capitalistiche, specie riguardo l'influenza da essa esercitata sulle fasi del trend economico. Essa ha goduto dei favori della crescita economica un tempo (Golden Age) come è caduta in disgrazia quando si è entrati in una fase di pronunciato declino economico.

II. A partire in specie dal secondo dopoguerra e relativamente ai Paesi industrializzati, il capitalismo ha intrapreso una notevole fase di crescita economica, caratterizzata da consistenti investimenti in capitale fisso ed ampio incremento dell'occupazione in ogni settore dell'economia. La crescita dei primi si è accompagnata - come sempre nella storia di questo sistema sociale - alla crescita della seconda.

                                                                       “Il mio punto di vista … concepisce lo sviluppo della formazione
                                                                                          economica della società come processo di storia naturale”

                                                                                   (K. Marx, Il Capitale)


III. In questa fase il capitalismo sembra aver portato a compimento, in alcune aree del pianeta, la sua più essenziale natura, ossia trasformare la popolazione in una massa di lavoratori salariati. Il sistema capitalistico così non è altro che il sistema del lavoro salariato; è attraverso questa forma del lavoro infatti che si producono beni e servizi, ossia quella parte del reddito monetario costituito da profitti e salari.

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Come può venir realizzato il comunismo?*

di David Harvey


Introduzione al Manifesto del Partito Comunista

Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?

Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”.

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Autonomia e organizzazione

“La conoscenza teorica del fatto che il capitalismo dovrà crollare a causa delle sue contraddizioni, non impegna a sostenere che il vero crollo sarà un processo automatico, indipendente dagli uomini, senza gli uomini non esiste nemmeno l’economia” P.Mattick                  

La crisi

La parola crisi è ormai sulla bocca di tutti, crisi che al di là del suo elemento fenomenologico, l’aspetto finanziario, è in realtà crisi complessiva degli attuali assetti capitalistici.

Investe cioè aspetti legati alla produzione e alla dimensione geografica del capitale stesso, che si riversano sul tempo e lo spazio di vita (cfr. Generalizzazione della precarietà e dimensione metropolitana su www.connessioni-connessioni.blogspot.com).

La crisi ha accelerato i meccanismi di una accumulazione flessibile che per sopravvivere deve accrescere i margini di sfruttamento sulla forza lavoro, precarietà contrattuale e flessibilità produttiva sono oggi un binomio indissolubile. Questo porta con sé continue metamorfosi sul piano dello spazio, ovvero della dimensione geografica del capitalismo, rappresentata oggi dalla metropoli, nuovo paesaggio del pianeta.

La modificazione dello spazio in generale, e l’urbanizzazione in particolare, sono per il capitalismo un aspetto fondamentale, grazie al quale può essere assorbita l’eccedenza di capitale. Le crisi di sovra-produzione accelerano questi processi. Una grossa porzione della forza lavoro globale complessiva è impiegata nell’edificazione e nella manutenzione dell’ambiente costruito. Il processo di sviluppo urbano mette in moto capitali di importo ingente, solitamente mobilizzati sotto forma di prestiti a lungo termine. Gli investimenti alimentanti dal credito spesso diventano epicentro di una crisi.

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La vita rivoluzionaria di Frederick Engels

di Franco Romanò

Hunt ci offre* la biografia intellettuale di Engels, le trasformazioni del suo pensiero a contatto con la rivoluzione industriale. Engels politico, organizzatore, antropologo, ma specialmente fondatore della Spd e curatore delle opere di Marx

1) “Byron e Shelley, erano letti solo dalla classe operaia perché in casa di un borghese erano disdicevoli.” Questa affermazione di Engels, citata da Hunt in questa biografia ci dà subito la cifra del libro: una meticolosa ricognizione della formazione del pensiero di Engels e delle sue osservazioni ‘sul campo’ o sarebbe meglio dire sui diversi campi (da manager dell’azienda di famiglia, a soldato e stratega durante la sollevazione prussiana, all’apprezzamento, da vero intenditore del vino di Provenza, fino all’organizzatore che porterà alla nascita del Partito socialdemocratico tedesco), sembrano costituire un unico modo di procedere da parte di una personalità che faceva dell’esperienza diretta il suo vero campo d'azione. In questo senso, dal libro emerge quello che già si sapeva ma che trova verifiche puntuali e meticolose: la sua complementarietà con Marx, diversissimo da lui, l'accettazione senza invidia (solo con qualche sofferenza durante il periodo ‘manageriale’ della sua vita che Engels subì per mantenere economicamente l'amico), del ruolo di spalla, sottolineata da una frase che ricorre più volte nel libro: "… Marx era un genio, noi altri al massimo avevamo talento…”.

Tornando all'affermazione citata, l’ho trovata sorprendente di primo acchito, eppure se si pensa alla cura che nelle sezioni del partito comunista (parlo anche di quello italiano) aveva la parte letteraria dell’educazione di massa (sarebbe davvero interessante, una ricerca specifica sulle biblioteche delle sezioni), non può stupire più di tanto, se non per il fatto che si parli di poesia, mentre era certamente maggiore l’attenzione dedicata alla narrativa perché fisiologicamente più didattica. Il quadro che emerge dal libro, comunque è quello di un movimento operaio inglese già fortemente organizzato nelle società di mutuo soccorso, in tutto l’arcipelago di organizzazioni oweniane, che Engels a detta di Hunt non disprezzava per nulla. Con Owen, infatti, mantenne un rapporto durante tutta la vita anche quando il marxismo si fece scientifico da utopistico che era.

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Eric Hobsbawn, How to Change the World*

di Laura Cantelmo

Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica desecolo ne  rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e  il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica  e delle sue crisi.

Il “racconto” dell'evoluzione della teoria marxiana e l'individuazione dell'umanesimo insito in essa. La sua attualità è dimostrata dall'attenzione ad essa rivolta dagli economisti di scuola liberista. Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non  portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica del XX secolo ne rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica e delle sue crisi.

Marx: un fantasma che si aggira per il mondo e di cui il mondo non riesce a liberarsi. In tempi di anti-comunismo, di demonizzazione indiscriminata di quanto il comunismo reale ha prodotto, potrà  forse sorprendere che le opere marxiane non siano mai veramente finite “in soffitta”, come polemicamente affermava Bordiga. 

Il lavoro di Hobsbawn vuole essere un racconto più che una trattazione accademica o un manuale operativo per militanti.

Un racconto inevitabilmente serio, ma dal tono discorsivo, che ripercorre  lo sviluppo della teoria marxiana e poi del marxismo documentando a partire dagli scritti giovanili la pervasività del pensatore Marx in tutta la cultura, la letteratura, le scienze umane.

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comunismo e comunità

Comunismo fra Idea e Storia

Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa

di Costanzo Preve

1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l'identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l'idea e la pratica del comunismo.

In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L' idea di comunismo, Derive e Approdi, d'ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l'orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d'ora in poi GLG) concerne invece solo l'ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent'anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.


2. E' bene partire dai “fondamentali” per non perderci in due tipi di chiacchericcio, il solo che trova spazio nei giornaletti di “estrema sinistra” (Manifesto, Liberazione, eccetera), sedimentati dall'onda lunga della risacca del Sessantotto (da non confondere con l'anno solare 1968). Il Sessantotto vede in Europa Occidentale l'affermarsi incontrastato dell'incorporazione post-moderna del ceto intellettuale nelle strutture flessibili di un nuovo capitalismo “speculativo”, post-borghese, post-proletario e nello stesso tempo ultra-capitalistico, ed il pensare che l'idea di comunismo possa essere rilanciata all'interno di questa cultura di “sinistra” è forse l'impedimento più grande allo sviluppo di questo progetto.

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L'utopia perduta del web 2.0

Enzo Modugno

Un dialogo a distanza con Carlo Formenti e Franco Bifo Berardi, autori di «Eclissi» per Manni editore

Un dialogo che ha l'aria di un'assemblea di movimento, di quelle intensissime che vanno avanti fino a tardi. Il punto di partenza è il volume Eclissi di Carlo Formenti e Franco Bifo Berardi (manni editore). È già intervenuto Benedetto Vecchi (il manifesto del 30 settembre) che ha sottolineato la questione più importante, la netta presa di posizione dei due autori che negano le capacità liberatorie delle nuove tecnologie. Scardinando così una convinzione troppo a lungo vagheggiata dagli utopisti del web 2.0 che hanno rinnovato, a guardar bene, le illusioni del marxismo positivistico di Kautsky e Plechanov. Sull'onda di Comte e Saint-Simon, contagiarono i partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. Oggi hanno creduto nelle nuove tecnologie proprio come allora credettero nelle tecnologie industriali. Eppure persino John Stuart Mill dubitò subito che le invenzioni meccaniche potessero alleviare le condizioni di un qualsiasi essere umano.

Formenti è intervenuto a fondo su questo argomento. E se Bifo parla della ambiguità/duplicità delle dinamiche di rete, questa va intesa nel senso che è pur vero che i mezzi di comunicazione - che già nella prima rivoluzione industriale permisero ai proletari di realizzare in pochi anni quelle unioni che i cittadini dei borghi medievali impiegavano secoli a realizzare - permettono oggi ai nuovi lavoratori di realizzarle in pochi giorni. Però è innanzitutto vero che, come sempre, sono mezzi che servono ai capitalisti per i loro scopi e contribuiscono a deprimere quasi ovunque il salario a uno stesso basso livello (Marx, 1848), e a introdurre dappertutto la legge del mercato (Dan Schiller, 1999).

Ma, stabilito questo sulle nuove tecnologie, sarebbe necessario trarne tutte le conseguenze.

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consecutio temporum

Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia

di Oscar Oddi

Quanto mai opportuna appare la scelta di riproporre al pubblico, sei anni dopo la prima uscita, questa nuova edizione del libro di Cristina Corradi Storia dei Marxismi in Italia (Manifestolibri, 2011, pp. 376, € 35,00). Un libro importante, che ha suscitato una vasta eco, riuscendo nell’impresa di rianimare un dibattito che ormai languiva sia negli asfittici particolarismi accademici che negli ambienti politici-culturali che ancora in qualche modo ritengono di ispirarsi alla lezione (e tradizione) del marxismo in Italia.

Si può infatti dire di trovarsi di fronte ad un lavoro “militante” (nel senso più nobile della parola), nato dall’esigenza di fornire uno strumento storico-teorico capace, nella ricostruzione della nascita e degli sviluppi della riflessione su Marx nel nostro paese, di indicare percorsi e proposte di ricerca attuali che si pongono ancora tenacemente l’obiettivo di una radicale trasformazione dello stato di cose presenti, senza che questo incida sul rigore dell’analisi e dell’esposizione. Va anzi sottolineato come la Corradi non si sia limitata a una mera riproposizione della vecchia edizione, ma abbia continuato a lavorare sul testo, integrandolo e rendendolo più compatto e meno ridondante.

Il volume è diviso in tre parti: nella prima – Da Labriola a Gramsci (1895-1937) – in modo succinto ma esaustivo si descrive e si analizza l’origine della riflessione marxiana italiana a partire dalla sistematizzazione di  Labriola per il quale “il materialismo storico non è sinonimo di visione empirica della storia, che smarrisce ogni sintesi nella considerazione di una molteplicità di fattori, e (…) l’affermazione del primato delle pratiche sociali del lavoro è alternativa sia ad una concezione positivistica sia ad una concezione speculativo-spiritualistica (…). Il nesso struttura-sovrastruttura non va (…) inteso come se il diritto, le istituzioni politiche e le produzioni culturali fossero un semplice riflesso della riproduzione materiale, occorre piuttosto ricostruire una catena di mediazioni per risalire, secondo un metodo morfologico-genetico, dal condizionato alla condizione”.

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Verifica delle parole: libertà e comunismo

di Emanuele Zinato

Negli ultimi due decenni in Italia ha governato il partito delle libertà mentre, tra i più letti all’opposizione, spicca un giornale che fu l’alfiere della modernizzazione ai tempi di Craxi e che molti oggi dicono “comunista” La Repubblica. Non vi è dubbio, allora, che si rendano indispensabili delle verifiche dei nomi, mediante il cortocircuito tra passato e presente.

Scriveva nel 1936 Simone Weil, la straordinaria autrice di La Condition ouvrière, durante la guerra di Spagna:


Oggi darò uno shock a molti bravi compagni. So che provocherò scandalo. Ma quando si fa appello alla libertà, si deve avere il coraggio di dire    ciò che si pensa, anche se così non si fa piacere a nessuno. Tutti noi seguiamo giorno per giorno, col fiato sospeso, la lotta che si svolge al di là dei Pirenei. Cerchiamo di recare aiuto alla nostra parte. Ma ciò non ci assolve dal dovere di trarre insegnamenti da un’esperienza che tanti operai e contadini pagano là con il loro sangue.  Un’esperienza di questa specie è stata  già fatta una volta in Europa: quella russa. Anch’essa costò molto sangue. Lenin esigette allora, in faccia a tutto il mondo, uno stato in cui non dovessero esservi più né esercito, né polizia, né burocrazia, che si distinguessero dalla popolazione stessa. Quando egli e i suoi furono giunti al potere, costruirono, nel corso di una guerra civile lunga e dolorosa, la più opprimente macchina burocratica, militare e poliziesca sotto cui  mai abbia sofferto un popolo infelice […]. In ogni modo era evidente che tra gli scopi proclamati da Lenin e la struttura del suo partito esistesse una contraddizione. Le necessità della guerra civile e la sua atmosfera prendono il sopravvento sulle idealità per la cui realizzazione è stata iniziata la guerra civile.[1]


Si tratta di una diagnosi implacabile, che avrebbe dovuto esser studiata e discussa a fondo all’indomani del 1989.  Anziché limitarsi a mutare in fretta  nomi e simboli per adottare le bandiere e le  parole dell’avversario, sarebbe stato più opportuno interrogarsi senza riserve sulla “condizione umana” ossia sui modi in cui la socializzazione delle ricchezze  può assumere (o meno) le forme  di uno stato di polizia. Una risposta è nascosta tra gli appunti di Simone Weil, un’altra nelle pagine del romanzo Vita e destino di Grossman. Né l’una né l’altro,  con la loro forza di verità e la loro verticale, irriducibile lucidità, possono essere arruolati tra gli antesignani di Forza Italia…

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Dietro e oltre la crisi1

Guglielmo Carchedi*

La crisi finanziaria del 2007-2010 ha riacceso la discussione sulle crisi, sulla loro origine e sui loro possibili rimedi.2 Oggigiorno, la tesi più influente nella sinistra identifica le cause della crisi da una prospettiva sottoconsumista e raccomanda politiche redistributive e politiche di investimento Keynesiane come soluzioni. Questo articolo sostiene che la giusta prospettiva per capire la crisi dovrebbe essere la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto medio (TPM) di Marx, in breve la legge. La sua caratteristica è che il progresso tecnologico diminuisce il TMP piuttosto che aumentarlo, come si pensa comunemente. Vediamo perché.


I. La legge in poche parole
.

le seguenti sono le caratteristiche essenziali della legge.

1. I capitalisti competono tra di loro attraverso l’introduzione di nuovi mezzi di produzione che incorporano nuove tecnologie. Questo non è l’unica forma di competizione ma è di gran lunga la più importante per capire le dinamiche della crisi.3

2. I nuovi mezzi di produzione aumentano l’efficienza (l’output di valori d’uso per unità di capitale investito) dei leader tecnologici nei settori produttivi.

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Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità

Massimo Bontempelli

Immagine 804I. Sussunzione formale e sussunzione reale.

Le categorie con le quali Marx ha concettualizzato il modo capitalistico di produzione un secolo e mezzo fa, lungi dall’essere state mostrate erronee, o comunque rese inadeguate, dal tempo trascorso, hanno una straordinaria capacità interpretativa proprio riguardo al nostro presente storico. In particolare, la coppia categoriale di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale consente di comprendere davvero a fondo temi cruciali come la tecnicizzazione della vita, il tramonto della centralità operaia, l’adattamento di massa al capitalismo persino in contraddizione con precisi interessi materiali, la trasformazione antropologica prodotta dallo sviluppo economico. In questa sede viene discusso quest’ultimo tema, con le sue importanti implicazioni sociali e politiche.

La coppia categoriale di cui si parla è esposta da Marx, come è noto, non nel libro del Capitale da lui pubblicato nel 1867, ma nel suo cosiddetto Capitolo VI inedito, pubblicato postumo soltanto nel 1933. Si tratta di un quaderno manoscritto di cinquantaquattro pagine, pensato, nel progetto originario del libro primo del Capitale, per essere collocato dopo il suo quinto capitolo sul plusvalore assoluto e relativo, con il titolo Risultati del processo di produzione immediato. Poi l’intero impianto dell’opera è stato modificato al momento della pubblicazione nel 1867, ed ulteriormente modificato con la seconda edizione del 1873, lasciando fuori, non si è ancora capito esattamente per quale ragione, il quaderno sul processo di produzione immediato. Nella sistemazione definitiva, molti temi del quaderno hanno trovato posto nel capitolo quinto sul processo lavorativo e processo di valorizzazione, ma, essendo stati spostati in avanti i capitoli sul plusvalore assoluto e sul plusvalore relativo, è necessariamente rimasto fuori da capitolo quinto il tema della doppia sussunzione al capitale, strettamente connesso alla doppia genesi del plusvalore.

Nel Capitolo VI inedito Marx introduce la categoria di sussunzione al capitale sdoppiata in sussunzione formale e sussunzione reale.

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consecutio temporum

Antonio Gramsci. La rifondazione di un marxismo senza corpo

di Roberto Finelli

1. Un nuovo soggetto della storia.

Quando Antonio Gramsci comincia a deporre i suoi appunti in quelli che saranno poi i Quaderni del carcere, il suo sguardo teorico è profondamente mutato rispetto ai suoi precedenti anni di vita e di militanza politica. Imprigionato nell’Italia dove ormai s’è consolidato il regime fascista, consapevole dell’esaurimento e della sconfitta dei moti sociali e rivoluzionari nell’Europa occidentale postbellica, profondamente isolato non solo dai compagni del carcere ma, verosimilmente, anche da una parte del gruppo dirigente del Pcd’I, almeno quanto al giudizio sull’Unione Sovietica[1], il militante politico sardo riesce, malgrado tutto ciò, nel capovaloro della sua vita: nel tradurre cioè genialmente quella sospensione forzata dalla prassi e quella solitudine così radicale, che nasce non solo dai nemici ma anche dagli amici, nell’accensione di una visione teorica organica e sistematica che potesse far da contenitore, non solo da un punto di vista psicologico alle terribili forze disgregative dell’esperienza carceraria (per un corpo già provato come quello di Gramsci), ma soprattutto all’esigenza di ripensare, dopo la sconfitta, categorie e modi originali di una rinnovata rivoluzione comunista nell’Occidente[2].

Per tale duplice ordine di motivazioni, individuali e politiche, il Gramsci del carcere è un pensatore che si sottrae sia all’ottica del frammento e del work in progress, in cui molti frequentatori del pensiero debole e del postmoderno hanno voluto recentemente collocarlo, sia all’ottica della democrazia, anziché del socialismo, in cui, in modo parimenti forzato, il suo pensiero è stato, anche qui più volte e soprattutto negli ultimi anni, collegato e iscritto. Laddove il Gramsci dei Quaderni, al di là dell’oggettiva frammentazione dei suoi appunti carcerari e della intensa rielaborazione cui l’autore li ha sottoposti, è un pensatore, almeno a parere di chi scrive, dal pensiero forte, il quale, a muovere da alcuni teoremi e filosofemi fondamentali, offre una nuova sistematica del marxismo: a tal punto da presentarsi, nella complessità delle luci e delle ombre della sua figura teorica, come tra i pensatori più organicamente innovativi e originali del marxismo del ‘900.

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politica e classe

La questione del metodo: materialismo storico-dialettico e attualita' del marxismo

di Emilio Quadrelli * 

“Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall'assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l'idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d'arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per “questo anno”. (K. Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica)

  La posta in palio

Il tema della precarietà, della flessibilità e via dicendo ha conquistato, da tempo, un ruolo predominante dell’attuale scena politica, economica e sociale. La condizione di lavoro precario, inizialmente percepita come semplice “rito di passaggio” per segmenti particolari della forza lavoro salariata, è diventata la condizione di esistenza per lo più abituale per cospicue quote del lavoro subordinato. Da ambito di “nicchia” e per di più estemporanea, così come era stata presentata inizialmente, si è repentinamente imposta come la condizione permanente per quote sempre più ampie di popolazione. Ciò che è stato sbandierato come “stato d’eccezione temporaneo” si è velocemente trasformato in uno “stato d’eccezione permanente”. Questo fatto è sotto agli occhi di tutti. A fronte di ciò, e non poteva essere altrimenti, si è assistito a un graduale ma costante ritiro dello Stato dagli ambiti deputati, attraverso le politiche sociali, a garantire l’inclusione sociale delle masse subalterne. Il Welfare State, la forma statuale messa in forma nel corso del Novecento nel mondo occidentale e soprattutto nella Vecchia Europa, si è pressoché eclissato. Non si tratta di un fatto accidentale poiché la relazione tra la forma “concreta” che assume il lavoro salariato e il modello statuale entro il quale si esplica ha un legame oggettivo che non può essere scisso.

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Pubblichiamo qui di seguito la risposta di Loris Campetti (Bocciate un irregolare) e di Guido Viale (Non solo lotta di classe) all'intervento di Bellofiore, Halevi, Tomba e Vertova "La classe non è acqua", seguita dalla replica (Questioni accademiche) di questi ultimi.

 




BOCCIATE UN IRREGOLARE

Loris Campetti

Non so se sarei in grado di superare un esame di marxismo al cospetto di una commissione giudicante preparata e severa composta da Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova (il manifesto, 13 luglio).

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La crisi economica: realtà e finzione

Intervista a Paul Mattick

L’ultimo libro di Paul Mattick jr “Business as Usual: The Economic Crisis and the Future of Capitalism” (Affari come al solito: la crisi economica e il futuro del capitalismo), è stato pubblicato dalla Reaktion Books. L’autore si è incontrato con John Clegg e Aaron Benanav del periodico “Endnotes”

RAIL: Notizie recenti lasciano intendere che l’economia è nuovamente in crescita. Il tasso di disoccupazione si sta stabilizzando e perfino riducendo e l’indice Dow Jones tende verso l’alto. Allora la crisi è stata davvero così grave ? Cosa ti fa pensare che non siamo ancora in vista della sua fine ?

PAUL MATTICK: Solo alcune osservazioni. La prima concerne le attuali difficoltà che il mondo nella sua totalità incontra riguardo la finanza pubblica e la disoccupazione. E’ un errore concentrare l’attenzione solo sugli Stati Uniti. Il problema è globale. In Europa si sono verificate una serie di crisi fiscali: in Portogallo e in una certa misura in Spagna. Il tentativo di padroneggiare la crisi ha prodotto in Gran Bretagna e in Grecia un peggioramento delle cause della depressione. Essa ha coinvolto anche la Cina, dove evidentemente alti tassi di crescita determinano analoga mente tassi di inflazione preoccupanti, esattamente come accadde nella falsa crescita degli anni 70, che produsse in occidente alti tassi di inflazione. Anche riguardo gli Stati Uniti non sarei così impressionato da provvedimenti che determinano oscillazioni nell’occupazione. In una certa misura ciò riflette il fatto che vi sono persone che escono dal mercato del lavoro. Ovviamente di mese in mese vi sono minime variazioni nel numero di persone che trovano lavoro. Ma nel complesso la situazione rimane estremamente precaria.

Inoltre è importante ricordare che il tasso di crescita dal PIL è un parametro artificiale.

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Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano*

Cristina Corradi

Neomarxismo, pensiero operaio, insubordinazione sociale: tre distinti paradigmi dell’operaismo italiano

L’operaismo è una corrente del marxismo italiano che nasce in risposta alla crisi interna e internazionale del movimento operaio esplosa nel ’56. Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri sono i teorici più noti della corrente che, formatasi negli anni Sessanta intorno alle riviste “Quaderni rossi” e “Classe operaia”, contribuisce in misura rilevante alla formazione di una nuova sinistra, protagonista della lunga stagione di lotte operaie e studentesche che si susseguono dal secondo biennio rosso ’68-’69 al movimento del ’77 1. L’analisi della composizione di classe, l’uso dell’inchiesta operaia e della conricerca come strumenti di lavoro politico, la lettura della critica dell’economia politica come scienza dell’antagonismo di classe, una storiografia innovativa delle lotte operaie sono considerati i suoi contributi più significativi2

Interpretato unitariamente come tentativo di riattivare una strategia rivoluzionaria nell’Europa occidentale, come ricerca di un’alternativa al socialismo di Stato sovietico e alla via italiana al socialismo, l’operaismo costituisce un capitolo della storia del marxismo europeo che, dopo la stagione creativa degli anni Venti, vive negli anni Sessanta una ripresa teorica al di fuori delle politiche culturali di partito3 . Nel quadro della storia nazionale, l’operaismo è un episodio della ricerca di un rapporto diretto tra intellettuali e classe operaia e rappresenta il fenomeno di rottura più vistoso con la politica culturale del Partito Comunista Italiano che fa perno sul nazional-popolare e sulla linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci e adotta una problematica democratica, antifascista e populista in luogo di una problematica socialista, marxista e operaia. Lo storicismo umanistico e progressista del partito di Togliatti, estraneo alla critica marxiana dell’economia politica e diffidente nei confronti delle più vivaci correnti del marxismo europeo, è solidale con un orientamento politico moderato che si giustifica con la storica arretratezza italiana e la conseguente necessità di completare la rivoluzione democratica.

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Gramsci e la nonviolenza

Alberto L'Abate

Una premessa

Parlare attualmente di Gramsci e di socialismo sembra andare del tutto controcorrente, dato il crollo dei paesi cosiddetti socialisti, e quella che è stata definita “la fine della storia”[1], e cioè la presunta vittoria del sistema capitalista a livello mondiale. Ma questo pone un problema importante al quale si può riallacciare il pensiero e la figura di Gramsci. E’ fallito il socialismo come modello di società, oppure sono fallite le due strade finora intraprese per raggiungerlo, e cioè, da una parte, la rivoluzione armata, violenta, utilizzata in Russia da Lenin, ed il riformismo, utilizzato invece nei paesi occidentali?

L'ipotesi che sia vera questa seconda ipotesi, e che sia ancora aperta e da sperimentare la strada della rivoluzione nonviolenta dal basso, è stata sostenuta, con molte valide argomentazioni, da Giuliano Pontara[2], un obbiettore di coscienza italiano al servizio militare che ha preferito l’esilio in Svezia (dove è diventato esimio docente di filosofia morale) al carcere, allora previsto, in Italia, per coloro che rifiutavano di esercitarsi a fare la guerra. Pontara è uno dei più profondi studiosi italiani del pensiero gandhiano, ed autore di molti importanti libri su tematiche nonviolente. La tesi di Pontara, presentata ad uno dei due dibattiti organizzati dal Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini, su “Marxismo e Nonviolenza nella transizione al socialismo” (cui hanno partecipato importanti politici e studiosi del nostro paese) era quella che tra il voto ed il fucile ci fosse una terza via al socialismo, rivoluzionaria nonviolenta (che lui definisce di “nonviolenza specifica”) che avrebbe potuto, e potrebbe forse ancora, portare il nostro paese ad un socialismo dal volto umano. Secondo Pontara, infatti, la via rivoluzionaria armata era contro-produttiva perché tendeva a de-umanizzare ed a brutalizzare i valori del socialismo, ed ad insediare nei posti dirigenziali persone e gruppi autoritari che avrebbero mantenuto il potere attraverso la soppressione delle informazioni, la segretezza, l’irreggimentazione, l’eliminazione totale dell’autogestione del popolo; la via riformista, quella del voto, era per lui insufficiente perché costringeva la classe operaia ad annacquare notevolmente il programma socialista per allearsi con il ceto medio necessario a vincere le elezioni. Il ceto medio, a sua volta, avrebbe potuto poi allearsi con le forze di destra per bloccare e distruggere quanto già fatto, senza che la classe operaia fosse preparata ad una resistenza nonviolenta di fronte a questa restaurazione.

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Il comunismo come verità e seduzione

L’idea di comunismo

Enrico Donaggio

Tutto è / tremendo ma non ancora irrimediabile
Franco Fortini

Democratici sinceri o perplessi, guardiani della rivoluzione di destra e sinistra, grandi e piccoli inquisitori paiono avere tutti in tasca la medesima foto di famiglia della tribù occidentale: la perturbante stilizzazione del nostro gusto di vivere profetizzata da Tocqueville quasi due secoli orsono. L’homo democraticus come «ultimo uomo», la meschinità piccolo-borghese come tratto antropologico globale. Nulla di grande per cui lottare e morire, piaceri volgari da consumare ad libitum. Con i dannati della terra che, invece di far saltare il banco, cercano in ogni modo un’inclusione entro i confini blindati di un regime di apartheid planetario. Fine della storia sazia e felice, dove ogni anelito di riconoscimento, giustizia e uguaglianza si perverte in umiliante omologazione di massa.

Di fronte alla diagnosi del presente oggi più in voga, la nostra reazione non è molto diversa da quella su cui il dottor Bernard Mandeville esercitò l’arte del paradosso. Il quadro indigna l’amor proprio e la sensibilità morale, ma l’applicazione intransigente dei princìpi virtuosi che animano il nostro sdegno comporterebbe la fine di una condizione a cui, in fondo, non siamo disposti a rinunciare. È il circolo vizioso del benessere capitalistico: ne godiamo, lo accresciamo con i nostri comportamenti quotidiani, sognando al contempo quel mondo più giusto che ne decreterebbe il tracollo. «Vivere nell’agio senza grandi vizi, è un’inutile utopia nella nostra testa», sentenzia l’autore della Favola delle api, un trattato di schizofrenia sociale che ha fatto scuola tra critici e apologeti del modo oggi dominante di esistere e produrre.

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L’esigenza comunista. Nota sul concetto di «classe»

Andrea Cavalletti

Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem:

«Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».

Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.

Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.

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Perchè Marx

Antonio Negri

Perché Marx? Perché il dialogo con Marx è essenziale per coloro che sviluppano lotta di classe al centro e/o nelle condizioni subalterne dell’impero capitalista e si propongono oggi una prospettiva comunista. L’insegnamento di e la discussione con Marx sono decisivi per tre ragioni.

La prima è politica. Il materialismo marxiano permette di demistificare ogni concezione progressiva e consensuale dello sviluppo capitalistico e, di contro, di affermarne il carattere antagonistico. Il capitale costituisce un rapporto sociale antagonista; la politica sovversiva si colloca “dentro” questo rapporto e vi immerge in ugual misura il proletario, il militante, il filosofo. Il Kampfplatz è “dentro e contro” il capitale.

La seconda ragione per la quale non possiamo rinunciare a Marx è critica. Marx situa  la critica nell’ontologia storica, costruita e sempre attraversata dalla lotta di classe. La critica è dunque il “punto di vista” della classe oppressa in movimento e permette di seguire il ciclo capitalista, di coglierne la crisi e, di contro, di descrivere la “composizione tecnica” della classe oppressa ed, eventualmente, di organizzarne la “composizione politica” nella prospettiva della rivoluzione. L’autonomia del “punto di vista di classe” sta al centro della critica.

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Possiamo, quindi dobbiamo

Alain Badiou

[Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi.  Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento]

L’operazione «Idea del comunismo» richiede tre componenti originarie: una componente politica, una componente storica e una componente soggettiva. Cominciamo dalla componente politica. Ovvero da quel che chiamo una verità, una verità politica. A proposito della mia analisi della Rivoluzione culturale (verità politica per eccellenza), un commentatore del giornale britannico «The Observer», si è sentito in diritto di affermare che, alla sola constatazione del mio rapporto positivo con un simile episodio della storia cinese (che per lui, naturalmente, non è stato altro che un caos sinistro e omicida), c’era da congratularsi del fatto che la tradizione empirista inglese avesse «vaccinato [i lettori dell’“Observer”] contro ogni indulgenza verso il dispotismo dell’ideocrazia». Si congratulava, insomma, del fatto che l’imperativo dominante nel mondo odierno fosse «Vivi senza Idea». Per fargli piacere, comincerò quindi col dire che, dopotutto, si può descrivere in modo puramente empirico una verità politica: come una sequenza concreta e databile in cui sorgono, esistono e svaniscono una nuova pratica e un nuovo pensiero dell’emancipazione collettiva. Se ne possono anche fornire alcuni esempi: la Rivoluzione francese tra il 1792 e il 1794, la guerra popolare in Cina tra 1927 e il 1949, il bolscevismo in Russia tra il 1902 e il 1917 e – purtroppo per l’«Observer», anche se non credo che gli altri esempi gli risultino più graditi – la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, almeno tra il 1965 e il 1968. Ciò detto, dal punto di vista formale, cioè filosofico, stiamo parlando in questo caso di procedure di verità, nel senso che ho conferito a questo termine fin da L’essere e l’evento. Tornerò sull’argomento tra poco. Si noti per il momento che ogni procedura di verità prescrive un Soggetto di questa verità, un Soggetto che, anche dal punto di vista empirico, non è riducibile a un individuo.

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Il lavoro come rapporto sociale in Marx

Paolo Vinci

«Da Wiesegrund la fantasmagoria vienedefinita un bene di consumo nel quale nulla più deverammentare come esso è sorto. Tale bene vienereso magico, dal momento che il lavoro in essoaccumulato appare come sovrannaturalee sacro nell’istante medesimo in cuiesso non si dà più a conoscere come lavoro».
(W. Benjamin, Das Passagen-Werk)

La distinzione fra agire strumentale e agire comunicativo, che è al centro del pensiero di Jürgen Habermas, ha il suo luogo di nascita e una delle sue applicazioni più significative nel confronto con la visione dell’attività lavorativa che ci offre Karl Marx, sia nei suoi scritti giovanili che nelle opere economiche della maturità1. L’elemento decisivo della differenziazione critica habermasiana sta nell’esplicita volontà di spezzare il nesso, considerato troppo diretto, fra i modi di produzione e le forme di coscienza. Abbiamo dunque il riproporsi di un pregiudizio deterministico verso la concezione materialistica della storia che avrebbe come suo esito inevitabile un’equiparazione fra la teoria della società e la scienza della natura2.

Conseguentemente a una “svolta linguistica” che coinvolge l’impianto di fondo della sua filosofia Habermas ritiene di dover ricondurre le configurazioni di potere che fissano la ripartizione degli strumenti di produzione e le modalità delle loro forme di proprietà, all’istituzionalizzarsi di interazioni mediate simbolicamente. Il rapporto fra gli uomini non può, quindi, essere assimilato a quello fra l’uomo e la natura, in quanto quest’ultimo appare caratterizzato da un’ineliminabile istanza di appropriazione e di dominio. Habermas è, invece, mosso dall’auspicio della creazione di norme che favoriscano relazioni umane improntate alla reciprocità e alla libertà. Si comprende, allora, come il suo bidimensionalismo nasca da una reazione di difesa nei confronti dei rischi di un’enfasi eccessiva sulle “forze produttive”, che renderebbe disarmati davanti al pericolo maggiore che sembra correre la realtà contemporanea, quello di una totalizzazione della tecnica, che finirebbe per colonizzare tutti gli ambiti vitali della società. Solo il terreno delle relazioni intersoggettive può vedere emergere quelle pretese normative dotate di requisiti razionali che Habermas considera il solo sviluppo auspicabile dell’istanza trasformativa del pensiero di Marx3.

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Il rapporto di produzione capitalistico

Valerio Bertello

Carattere duale del rapporto

Nel modo di produzione capitalistico il rapporto di produzione si presenta in due forme: una volta nella sfera della circolazione come scambio, una seconda volta in quella della produzione come dispotismo(1). Questa forma duplice è tanto più singolare in quanto si tratta di rapporti tra loro antitetici. Il primo, che ha come presupposti sociali la proprietà privata e la libertà dei soggetti, implica la divisione sociale del lavoro, ed è derivato da formazioni sociali precedenti. Il secondo è fondato sulla volontà dispotica del capitalista, che domina completamente il processo produttivo conferendogli una forma caratteristica, creazione specificamente capitalistica, quella della divisione manifatturiera del lavoro. Rapporto questo che si pone come negazione del precedente sia in relazione alla libertà del lavoratore, in quanto esso è sottoposto al dominio del capitale, sia in relazione al lavoratore come proprietario, in quanto esso viene spogliato totalmente del prodotto del proprio lavoro. Quindi assenza di libertà nel processo di lavoro ed espropriazione del risultato: questo l’esito del passaggio dal primo rapporto al secondo. Nel passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione si verifica cioè una negazione radicale del primo rapporto da parte del secondo.

Perché questa duplicazione di quello che in realtà è uno stesso rapporto, cioè un rapporto di produzione, e perché in due forme che sono una la negazione dell’altra?