Print Friendly, PDF & Email

palermograd

Oriente, Occidente, giammai si incontreranno?

di David Broder

Incontri fra Oriente e Occidente articleimageIl sottotitolo del libro di Losurdo promette un’indagine su “come il marxismo occidentale nacque, come morì, come può rinascere”. Sfogliandone le pagine è tuttavia arduo trovarvi traccia di un qualche annunzio di una “rinascita” del marxismo occidentale. Losurdo preferisce assumere il ruolo del medico che, di fronte ad un paziente sofferente, dice ai parenti preoccupati che è venuto il momento di staccare la spina. Il tono combattivo del saggio non stupirà i lettori dei lavori di Losurdo finora disponibili in inglese. Questi vanno da Heidegger and the Ideology of War (2001) [l’originale italiano è La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Torino 1991 n.d.t.], passando per Hegel and the Freedom of the Moderns (2004) [Hegel e la libertà dei moderni, Roma 1992 e Napoli 2011 n.d.t.], fino a Liberalism: A Counter-History (2011) [Controstoria del liberalismo, Roma-Bari 2005 n.d.t.], War and Revolution: Rethinking the Twentieth Century (2014) [che mette insieme tre differenti testi di Losurdo, n.d.t.] e Non-Violence: A History Beyond the Myth (2017) [La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Roma-Bari 2010 n.d.t.], con Nietzsche: The Aristocratic Rebel [Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Torino 2002 n.d.t.] che dovrebbe uscire all’inizio del 2018. Questi titoli costituiscono soltanto una piccola parte della prodigiosa produzione di Losurdo nella sua lingua madre, che comprende qualcosa come trentacinque libri oltre che numerosi volumi in collaborazione e ne fa uno dei più prolifici pensatori italiani della sua generazione. Titolare di una cattedra di Storia della Filosofia a Urbino, ben pochi possono tenergli testa nel mettere insieme energia ed erudizione.

Nato nel 1941 nei pressi di Bari, Losurdo appartiene alla generazione radicalizzatasi negli anni Sessanta, quando era un giovane militante in quella piccola frazione di sinistra del comunismo italiano allineata sulle posizioni cinesi nella disputa sino-sovietica e che inneggiava alla Rivoluzione Culturale, prima di dividersi in diversi gruppi che sparirono dopo la morte di Mao nel 1976. Negli anni Ottanta collaborò alle pagine dell’Unità, il quotidiano del PCI, e aderì al partito. Allorché quest’ultimo cambiò nome nel 1991, fu tra coloro che lo abbandonarono per creare Rifondazione Comunista, in seguito ridotta al lumicino dopo la sua partecipazione al governo Prodi del 2006-08. Dal 2016 si è impegnato nel tentativo di ricreare un secondo PCI, col vecchio nome, un’organizzazione che al momento dichiara circa 12.000 aderenti.

Il marxismo occidentale offre senz’altro un’impostazione originale del proprio argomento. La mossa chiave di Losurdo è contrapporre sistematicamente al marxismo “occidentale” un marxismo “orientale” presentato come la sua antitesi più producente. La variante occidentale – in ciò Losurdo è d’accordo con altre ricostruzioni – nacque da una reazione contro la carneficina della Prima Guerra Mondiale e dal magnetismo esercitato dalla Rivoluzione Russa. Tuttavia fin dall’inizio il punto di vista dei suoi primi pensatori – Bloch, Lukács, Benjamin – fu impregnato di una serie di tematiche che si ricollegavano all’anarchismo dell’epoca di Bakunin: segnatamente un’ostilità nei confronti della scienza, associata al capitalismo, e dello Stato in qualsiasi guisa, associato alla tirannia. Ad esse si aggiunse una componente di attesa escatologica, ereditata dal passato giudaico-cristiano, che agognava la salvezza dell’umanità nel comunismo, concepito come la venuta prossima di una società senza classi nella quale denaro e stato sarebbero scomparsi. Tali speranze utopiche riposte in una URSS sotto assedio erano destinate ad essere deluse. Il marxismo occidentale che generarono, incapace di venire a patti con la realtà della costruzione di uno stato in grado di fronteggiare le pressioni dell’imperialismo, fu condannato all’impotenza e all’involuzione. La conseguente cecità teorica e politica ebbe radice nella reazione originaria della generazione del 1914 nei confronti della catastrofe della Grande Guerra, che instillò in essa un odio verso il nazionalismo, ritenuto responsabile del massacro reciproco dei popoli dell’Europa, un’avversione nei confronti della tecnologia che aveva reso possibile l’uccisione su scala industriale, e una credenza semplicistica che il cammino verso il socialismo consistesse nella sola lotta di classe.

Il punto di vista di ciò che cristallizzò come marxismo orientale dopo la Rivoluzione d’Ottobre fu totalmente diverso. In Europa, la presa dello sciovinismo sulle masse, il tradimento da parte della socialdemocrazia nel 1914 e la scissione nella Seconda Internazionale portarono i marxisti occidentali a vedere la Rivoluzione Russa come l’antidoto a questo flagello e a sperare che il “socialpatriottismo” venisse ribaltato da una rapida diffusione di rivoluzioni proletarie nel continente. Anche quando ciò mancò di materializzarsi, la sinistra europea rimase pervasa da un forte disprezzo, antimilitarista e – con parola di Losurdo – “anarcoide”, nei confronti della Nazione. In Asia, invece, la Prima Guerra Mondiale non rappresentò lo stesso cataclisma irripetibile che in Europa. Per i rivoluzionari cinesi o vietnamiti, come puntualizzò Ho Chi Minh, lo spargimento di sangue coloniale precedette di molto il 1914; piuttosto, la Grande Guerra aveva allentato la presa degli imperi europei sui popoli dell’Asia. Per essi, il richiamo della Rivoluzione Russa non consistette nell’immagine di una rivolta “anti-guerra” o “anti-nazionale” ma, al contrario, nella sua ispirazione “nazionale” per una lotta anti-imperialista. Nel 1919-21, lo stato a guida bolscevica si era dimostrato in grado con le sue sole risorse di liberarsi dalle potenze imperialiste che tentavano di sottometterlo. Fu questo che permise all’Unione Sovietica e alla nuova Internazionale Comunista di ottenere non soltanto la fedeltà di Ho – il quale spiegava che “in principio a spingermi a credere in Lenin e nella Terza Internazionale era stato il patriottismo, non il comunismo” – ma anche il favore di militanti non marxisti e tuttavia anti-colonialisti come Sun Yat-sen. Quindi, inoltre, per il marxismo orientale era del tutto fuori discussione una ostilità nei confronti della scienza o dello stato. In Asia le lotte di liberazione nazionale avevano estremo bisogno di utilizzare la scienza, allo scopo di costruire tanto un’economia moderna in grado di sottrarre le masse alla miseria quanto uno stato forte capace di difendere l’indipendenza della nazione da attacchi stranieri. I marxisti orientali non si illudevano minimamente che una rivoluzione socialista potesse conseguire tutto ciò da un giorno all’altro. Erano morte molte più persone durante la Rivolta dei Taiping in Cina che su tutti i fronti della Grande Guerra in Europa, inoculando i rivoluzionari contro qualunque messianismo di sorta, e preparandoli in anticipo a decenni di durissime lotte anzitutto per conquistare il potere, e poi per consolidarlo con la creazione di uno stato potente in grado di prevenire la controrivoluzione imperialista.

In Russia i bolscevichi erano inizialmente infusi di aspettative politiche ancora più grandi, perché ritenevano di non star facendo altro che erigere una testa di ponte per la rivoluzione nelle società industriali avanzate dell’Europa; e nella fase del Comunismo di Guerra arrivarono anche a sperimentare brevemente un’economia di baratto. Ma presto prevalse un orientamento più sobrio, insieme al duro compito di edificare il socialismo in un solo paese, col massimo utilizzo di conoscenza scientifica e tecnologia moderna per sviluppare l’economia e armare lo stato contro l’invasione. Questa fu un’alterazione fondamentale. Ma se l’ago del compasso poté spostarsi di tanto, fu perché Lenin aveva ripetuto lungo tutta la sua carriera – e mai più insistentemente che durante la Prima Guerra Mondiale – che le rivoluzioni di liberazione nazionale nei paesi colonizzati erano inseparabili da quelle contro il capitale nei paesi colonialisti: già nel 1913, scriveva di “Europa arretrata e Asia avanzata”. Quando cominciò la Seconda Guerra Mondiale, e l’Operazione Barbarossa inaugurò lo strenuo tentativo da parte di Hitler di sottomettere i popoli dell’URSS, le battaglie per sconfiggere la Wehrmacht in Russia e l’Esercito imperiale in Cina si conclusero con la vittoria dell’Armata Rossa e dell’Esercito Popolare di Liberazione contro le aggressioni coloniali di Germania e Giappone.

Con questo sviluppo epocale il Marxismo Occidentale, una corrente di pensiero nata dal mancato diffondersi della rivoluzione in Europa dopo il 1917, non venne mai a patti. Le sconfitte in Germania, Italia, Ungheria e Austria non scalfirono il “socialismo in un solo paese”, che continuò a rafforzarsi, bensì le correnti europee adesso staccatesi da qualunque processo reale. L’esperienza sovietica diede inizio ad una rivoluzione anticoloniale in tutto il mondo, mentre le tendenze eurocentriche divennero marginali. Mentre i marxisti dell’Est presero sul serio il problema di costruire stati socialisti e difenderli militarmente, le loro controparti in Occidente riuscirono al più ad apprezzare le esperienze rivoluzionarie con sentimento messianico, sostenendo le rivoluzioni d’Oriente nel loro momento iniziale di presa del potere, e poi trovando di cattivo gusto le decisioni indispensabili per proteggerle dalla sovversione interna e dall’attacco straniero. Giudicando le realizzazioni concrete dell’Unione Sovietica su un metro scorretto che andava oltre le possibilità materiali dell’epoca, mancarono allora di capire che, piuttosto che essere una materializzazione delle loro visioni di una grande risoluzione di tutte le differenze sociali, l’Unione Sovietica era tormentata dalla povertà, dal basso livello culturale delle “masse” e dal difficile compito di stabilizzarsi in presenza di un accerchiamento esterno.

Le speranze utopiche, che non si realizzarono da nessuna parte, presto si volsero in accuse di distopia e “totalitarismo” – testimonianza del divorzio dei marxisti occidentali dai processi storici in corso – e in un compiaciuto crogiolarsi all’idea della superiorità culturale delle società in cui vivevano. Quello che i marxisti occidentali non riuscirono mai a cogliere fu come gli sviluppi oggettivi della storia mondiale avessero giocoforza dato la priorità alle lotte anti-imperialiste rispetto a quelle anticapitaliste, alle contraddizioni nazionali rispetto a quelle di classe, anche se queste si fondevano insieme ovunque i partiti comunisti assumessero un ruolo-guida. In Europa, una sola figura straordinaria capì il significato delle rivoluzioni anticoloniali: Palmiro Togliatti in Italia. Al contrario, il registro del marxismo occidentale diventò quello di una continua ignoranza, indifferenza o rimozione nei confronti delle trasformazioni di gran momento del mondo extraeuropeo, e culminò nel ventunesimo secolo nell’approvazione incondizionata degli interventi imperialisti per riportare indietro l’orologio della storia nel Mediterraneo e in Medio Oriente.

In questa narrazione manichea, c’è un’ovvia debolezza iniziale della impostazione di Losurdo. Il divario tra aspirazione e realtà del quale incolpa il marxismo occidentale emanò direttamente dalle concezioni bolsceviche della Rivoluzione d’Ottobre. La loro presa del potere fu seguita da un profluvio di grandi progetti per una nuova società. I dirigenti bolscevichi fecero sposare l’immaginario razionalizzante alla Edward Bellamy con le più libertarie aspirazioni ad una rivoluzione democratica, culturale, sessuale. È significativo che Lenin vedesse i compiti del nuovo stato attraverso il prisma della Comune di Parigi, e che si affrettasse a promulgare una legislazione sociale progressista per segnare uno spartiacque anche se la rivoluzione avesse dovuto fallire nel giro di qualche mese. Tale impeto fu governato dalla prospettiva europea propria di Lenin: l’intenzione di provocare esplosioni rivoluzionarie in Occidente che avrebbero salvato la giovane repubblica sovietica dall’isolamento. Quando ciò non avvenne, le ambizioni bolsceviche vennero ridefinite. Ma se l’edificazione dello stato e lo sviluppo industriale diventarono la priorità, questo non significò affatto che la nazione venisse ora prima della classe, un’idea impensabile per Lenin. Laddove, dopo la sua morte, tale concezione arrivò a “passare”, condusse notoriamente al disastro allorché Stalin costrinse i comunisti cinesi a subordinarsi ai nazionalisti nel 1926-27, per venire distrutti nel massacro di Shangai, dopo il quale il PCC dovette essere ricostruito su nuove basi da Mao nello Jiangsi. Servendo essenzialmente come termine di paragone attraverso il quale condannare il marxismo occidentale, nell’impostazione di Losurdo il marxismo orientale diventa un blocco indifferenziato in cui tali contraddizioni perdono inevitabilmente ogni rilievo.

Ma quali che siano gli errori nell’impostazione di fondo, essi risultano trascurabili a confronto delle deficienze, per non dir peggio, della sostanza del libro: la sua stessa ricostruzione del marxismo occidentale. Dopo aver aperto con una descrizione di Il dibattito nel marxismo occidentale di Perry Anderson [tit. or. Considerations on Western Marxism, Londra 1976 n.d.t.] come di una celebrazione dell’eccellenza del proprio oggetto, che ad esso promette “una vita nuova e brillante”, Losurdo passa in rassegna Lukács, Bloch, Benjamin, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Sartre, Althusser, Della Volpe, Colletti, Badiou, Žižek e la coppia Hardt-Negri, nonché Foucault e Agamben. La mossa iniziale è un indice dell’accuratezza di ciò che segue. Il libro di Anderson consegnava un giudizio di ammirazione ma “limitativo” sul proprio soggetto, e concludeva che il marxismo occidentale fosse “meno” del marxismo, nella misura in cui era occidentale, ed invocava un suo superamento, con un recupero delle modalità e delle preoccupazioni di un marxismo di stampo più classico. A differenza del suo predecessore, il libro di Losurdo non esamina in dettaglio l’opera di nessuno dei pensatori di cui si occupa, né tenta di rintracciare le comunanze tematiche che li connettono in un canone. Procede invece attraverso l’uso breve e decontestualizzato di singole frasi o periodi, di poche righe al massimo, estratti per imbastire un’accusa generica di idealismo utopistico e di ignaro eurocentrismo. Il risultato è talmente vago che la sua argomentazione poggia, all’inizio dell’esposizione, su estratti da pensatori che non erano marxisti all’epoca in cui scrissero – Bloch e Lukács prima della Rivoluzione d’Ottobre – e, alla fine di essa, da pensatori che non si sono mai considerati marxisti – Arendt e Agamben – o che al marxismo erano perfino, come Foucault, veementemente ostili. Tutti a portare acqua allo stesso mulino. Nessuno di essi è chiamato in causa nella sua specificità, ma semplicemente come illustrazione della stiracchiata costruzione di Losurdo.

In ciò, è Bloch ad avere il posto d’onore, guadagnandosi più riferimenti di ogni altro autore. Ma poiché essi provengono in gran parte dalla prima edizione di Spirito dell’utopia, pubblicata nel 1918 prima della sua conversione al marxismo – citata tre volte di più che dalla seconda, che uscì successivamente ad essa nel 1923 – non sono particolarmente probanti rispetto all’argomentazione di Losurdo. Che Bloch si sia sempre considerato come un pensatore dell’utopia, sebbene successivamente anche un materialista, non è certo un segreto. Ma dopo il 1923 non fu affatto antisovietico, in realtà tutto il contrario: talmente favorevole all’edificazione di uno stato socialista che negli anni Trenta difese i processi di Mosca e dopo il 1945 scelse la Germania dell’Est anziché quella Ovest per il suo ritorno dall’esilio. Lukács, del quale Losurdo seleziona un testo del 1914 per dimostrarne la credenza fichtiana di vivere nell’“epoca della compiuta peccaminosità” e un altro del 1915 per mostrare come ritenesse che ogni stato fosse una “tubercolosi organizzata”, diventò un rivoluzionario marxista talmente convinto che già nel 1924 – come Losurdo successivamente ammette a denti stretti – fu il primo al mondo a produrre una lucida sintesi del pensiero di Lenin – enfatizzando l’orientamento di tale pensiero sulle rivoluzioni anticoloniali in Asia – e per il resto della sua vita rimase un comunista leale, prima a Mosca e poi a Budapest. Benjamin, presentato troppo largamente attraverso frammenti del periodo premarxista, fu negli anni Venti un affascinato visitatore di Mosca, attratto dalla moderna sperimentazione urbano-industriale del primo decennio dopo la rivoluzione, e un interlocutore ed amico di Brecht, il quale come Bloch attribuiva un tale valore alla costruzione del socialismo da tornare nella Germania Est dopo la guerra. Un altro amico di Brecht negli anni Trenta, Karl Korsch – generalmente considerato una figura chiave nella formazione di un marxismo distintamente “occidentale” – corrisponde talmente poco all’identikit diramato da Losurdo da essere del tutto omesso dal libro.

La Scuola di Francoforte, priva di legami con il movimento comunista, offre materiale più promettente per la requisitoria di Losurdo. Horkheimer in particolare, tornando nella Germania Ovest dopo la guerra, espresse sovente disprezzo e paura nei confronti delle rivoluzioni anticoloniali, e un’avversione da Guerra Fredda nei confronti dell’Unione Sovietica, che Losurdo ascrive al marxismo occidentale nel suo complesso. Ma con mossa tipica, il nostro, ignorando la traiettoria temporale di tutti i pensatori dei quali tratta, mette assieme un testo di Horkheimer del 1942 che notava il fatto ovvio che in Russia lo stato non fosse scomparso con un altro del 1967 che lamentava come il marxismo venisse usato come ideologia nei paesi dell’Est per recuperare il vantaggio industriale dell’Occidente – trattando il primo come un’espressione di rammarico che “Hitler avrebbe a suo modo condiviso!”, e il secondo come complicità con una guerra in Vietnam che Horkheimer per poco non sostenne. Una decina d’anni prima, tuttavia, Horkheimer stava discutendo con Adorno la produzione di un testo che Adorno chiamava “un manifesto strettamente leninista”, che prospettava la possibilità che “sotto la bandiera del marxismo, l’Oriente potesse superare la civiltà occidentale”, segnando “un cambiamento totale nelle dinamiche della storia del mondo” e aggiungendo: “Non possiamo invocare la difesa dell’Occidente”. Quanto a Marcuse, lungi dal disprezzare il marxismo sovietico, ci scrisse sopra un libro rispettoso, e ancora più lontano dal sottovalutare le rivoluzioni anticoloniali, le celebrò, sostenendo in particolare la lotta dei vietnamiti contro l’aggressione imperialista americana. Losurdo è pertanto costretto a lamentarsi del fatto che Marcuse dubitasse se il tipo di società che i vietcong potevano costruire avrebbe offerto una alternativa plausibile a quella offerta dai paesi ricchi dell’Occidente; e che né Bloch né i francofortesi avessero condannato la guerra lampo israeliana del 1967; e a un certo punto mette sullo stesso piano la posizione di Adorno negli anni Cinquanta con quella di Anthony Eden in merito alla spedizione di Suez.

Deciso a trovare colpe anche quando i sospetti non corrispondono neppure col più grande sforzo dell’immaginazione alla sua descrizione del marxismo occidentale, come si comporta Losurdo con i due pensatori che condivisero il suo antico attaccamento alla Rivoluzione Cinese e al marxismo orientale di Mao Zedong? Althusser, concede Losurdo, può aver guardato alla Rivoluzione Culturale come ispirazione, ma criticando l’Umanesimo egli minò i valori di universalità dai quali dipendeva la rivolta dei popoli colonizzati contro l’oppressione e la discriminazione da parte dell’Occidente razzista. Anche Badiou, nonostante abbia correttamente denunciato gli eventi del 1989-91 come una Seconda Restaurazione, è caduto nell’errore di accettare una separazione tra il valore della libertà e quello della giustizia, e ha semplicemente invertito l’ordine attribuito loro da Isaiah Berlin. Timpanaro e Sartre potrebbero anche essere immuni dall’accusa di non aver sostenuto le rivoluzioni anticoloniali, ma il primo non ha minimamente capito la Nazione, né l’esigenza di aggiustamenti tattici nella costruzione di un’economia post-capitalista, mentre il secondo – nonostante la sua appassionata presentazione di Fanon – concepiva le lotte di liberazione nazionale in stile soggettivo-idealistico, soltanto in termini di azione politica, trascurando l’indispensabile azione economica per costruire uno stato indipendente – un compito che non poteva essere svolto dai “gruppi in fusione” insurrezionali della Critica della ragione dialettica. David Harvey, d’altro canto, nella prima metà del Novecento ha visto soltanto conflitti inter-imperialisti e una loro rinascita all’inizio del ventunesimo secolo, senza alcuna considerazione delle rivolte contro l’imperialismo che ne erano il contrassegno più significativo.

Non va meglio ai pensatori italiani. Della Volpe, e sulla sua scia il Colletti degli anni del PCI, hanno contrapposto erroneamente la libertas maior delle libertà socio-economiche portate dal socialismo alla libertas minor delle libertà civili proclamate dal liberalismo – come se queste ultime fossero veramente tali, piuttosto che inficiate da una lunga storia di schiavitù e oppressione coloniale (a proposito delle rivolte contro le quali nessuno dei due ha mai speso una parola), invece di insistere, come Togliatti, sul fatto che le libertà politiche formali, negate alla maggior parte dell’umanità da una barbara discriminazione, fossero parte integrante del socialismo stesso. Per quanto riguarda le tradizioni indigene dell’Operaismo, Tronti si vantava di essere vaccinato contro ogni terzomondismo ed esaltava la soppressione del lavoro, mentre Negri e il suo discepolo Hardt hanno condannato la formazione di qualsiasi stato-nazione indipendente come il frutto avvelenato della lotta anticoloniale, negato l’esistenza di qualunque imperialismo contemporaneo, e hanno presentato un’immagine talmente idilliaca della Rivoluzione Americana che perfino un Samuel Huntington risulterebbe più realistico in merito. Agli oppressi hanno prospettato, invece di una dura, sobria battaglia per l’emancipazione, una moderna apocatastasi nella forma di un mondo futuro di “amore e innocenza”. Non potrebbe darsi immagine più plastica della patologia della sinistra contemporanea, della sua incapacità di affrontare seriamente la questione del potere. Vedere il potere dappertutto à la Foucault, “trasformare il potere in amore” o “cambiare il mondo senza prendere il potere” (John Holloway) sarebbero formulazioni oziose: sintomi dell’escatologia del futuro caratteristica del marxismo occidentale più che di un impegno nel presente.

Il saggio di Losurdo, che presenta il marxismo occidentale come un’abbuffata di utopismo a scapito degli sforzi costruttivi per edificare il socialismo, assembla un catalogo di arrogante, daltonico eurocentrismo incapace di riconoscere i risultati di portata storico-universale del marxismo orientale. Storicamente, poche o nessuna delle figure fermate e messe in fila per essere identificate – con la possibile eccezione dell’ultimo Negri – corrispondono all’identikit (anche se per altri versi un modaiolo come Foucault potrebbe meritare misure restrittive). Due degli esempi più notevoli del perché la retata non funziona hanno proprio a che vedere con le preoccupazioni che muovono Losurdo. Nella sinistra europea che si radicalizzò a causa di essa, la Prima Guerra Mondiale ispirò l’idea che non ci fossero più fasi intermedie nel percorso verso una nuova società che superasse il capitale, e anche Lenin riteneva che la guerra avesse segnato la fine dell’imperialismo come “fase suprema” del capitalismo. Tuttavia durante la guerra, influenzato non da ultimo dalla Rivolta di Pasqua in Irlanda, Lenin giunse a dare sempre più enfasi ai fronti specificamente anticoloniali della lotta mondiale contro la borghesia occidentale, polemizzando sulla possibilità di una “rivoluzione sociale pura” che opponesse l’una contro l’altra due rappresentazioni non mediate di rivoluzione e controrivoluzione. Qualsiasi rivoluzione reale sarebbe inevitabilmente stata più ibrida di così, nelle sue cause e componenti. Losurdo richiama correttamente l’attenzione su questo cambiamento di visione, che dopo l’Ottobre prese forma programmatica al Congresso dei popoli dell’Oriente, mentre “cominciava a farsi strada la consapevolezza che la lotta di classe non è solo quella dei proletari nella metropoli capitalista, ma anche quella condotta dai popoli oppressi nelle colonie e semicolonie”. Il motto “Proletari di tutti i paesi, e popoli oppressi del mondo intero, unitevi!” esprimeva il riconoscimento della questione coloniale da parte dello stato sovietico e le nuove alleanze che dovevano essere strette attorno ad essa. Ciò che Losurdo non prende in considerazione, tuttavia, è che fu uno dei suoi bersagli polemici a cogliere pienamente per primo l’effetto dell’intuizione di Lenin, e a renderla in un principio teorico di applicazione politica generale, a Est come a Ovest: Althusser nel famoso saggio sulla “Contraddizione e surdeterminazione”, che tra le altre cose prese le mosse anche dagli scritti di Mao.

Un caso egualmente se non maggiormente cospicuo è quello del pensatore del quale Althusser finì per rappresentare l’antitesi, Jean-Paul Sartre. Losurdo gli concede le credenziali di anticolonialista, ma le minimizza confinandole alla prefazione al libro di Fanon, e asserendo che Sartre era interessato soltanto al rovesciamento del governo coloniale, e non alla costruzione di un ordine postcoloniale. In realtà, il regesto di solidarietà teorica e pratica di Sartre con le lotte anti-imperialiste fu senza pari nelle file del marxismo occidentale – andando ben al di là della prefazione a Fanon – con testi sull’Indocina, l’Algeria, il Congo e Cuba, e non si limitò affatto al momento del rovesciamento, come dimostrerebbe un’occhiata a ciò che scrisse su Cuba. E la sua attenzione alla problematica che preme a Losurdo non fu nemmeno ristretta al Terzo Mondo. Dal saggio del 1956 su “Il fantasma di Stalin” al secondo volume della Critica della ragione dialettica, i compiti e le tensioni relativi alla costruzione del “socialismo in un solo paese” in un contesto di povertà furono una preoccupazione centrale del suo pensiero come marxista. Suggerire che Togliatti gli fu superiore nell’intuizione anticoloniale, o nella comprensione delle basi sociologiche del “culto della personalità”, è il massimo dell’assurdo. È sufficiente confrontare le bolse riflessioni di Togliatti su quest’ultimo tema nell’intervista del 1956 su Nuovi Argomenti con la diagnosi di Sartre dello stesso anno per vedere la differenza tra i due. Quanto all’anticolonialismo, la somma totale delle citazioni da Togliatti che Losurdo può vantare consiste in una singola frase in uno scambio con Bobbio del 1954, che è costretto a ripetere tre volte nel libro in mancanza di qualcosa di più significativo. Come accade, il registro di Togliatti in questo campo non era proprio immacolato. Nel 1935, sotto la sua leadership, il giornale del PCI in esilio aveva spiegato che la guerra di Mussolini in Abissinia era un errore perché i “legittimi interessi territoriali” dell’Italia risiedevano nei Balcani anziché in Africa. Il fatto che dopo il 1945 all’Italia furono tolte le colonie risparmiò al partito la stessa performance dei comunisti francesi. Ma sarebbe arduo sostenere che le lotte contro l’imperialismo nel Mediterraneo o da qualunque altra parte siano mai state tra le sue priorità. I dicta togliattiani non reggono il confronto con gli scritti di Sartre sull’argomento.

Il modo sprezzante con cui Losurdo maneggia gli scritti di così tanti esponenti del marxismo occidentale in merito alla rivolta delle colonie e alla costruzione dello stato postcoloniale ad Est costituisce la sua debolezza più visibile. Al di là di essa, tuttavia, ve n’è una più grande. Da nessuna parte nel libro si trova un riconoscimento di quanto il marxismo occidentale abbia costituito un tentativo di riflettere sulle mediazioni culturali e politiche proprie della democrazia borghese e su come confrontarsi con essa, il che continua ad essere di immediata rilevanza. Ma è evidente che l’idea che la strategia socialista nelle democrazie capitaliste dovesse assumere forme diverse da quelle che aveva preso in autocrazie feudali o in stati semicoloniali come la Russia nel 1917 o la Cina nel 1949 non implicava alcuna ripulsa della prassi politica. Salta dunque agli occhi l’assenza, dalle pagine de Il marxismo occidentale, di Gramsci, che cercò sistematicamente di riflettere su tali differenze, e la vicinanza dei cui assunti politici e intellettuali con Lukács e Korsch è ben attestata. L’ombra delle questioni sollevate dal comunista sardo si proietta tuttavia sul libro, ma in un modo che indica le contraddizioni entro la visione propria di Losurdo.

Costantemente posta in contrasto con il marxismo occidentale si trova la figura iconica di Togliatti, un dirigente comunista allo stesso tempo convintamente leale alla costruzione del socialismo in Unione Sovietica e stratega di una via nazionale al socialismo, del quale Losurdo implica trattarsi di un luminare del marxismo orientale all’interno dello stesso capitalismo avanzato. La pietra angolare di tale costruzione è la “Svolta di Salerno” del marzo-aprile 1944. Nell’ordinare a Togliatti di far entrare il PCI nel governo Badoglio, formatosi dopo la fuga da Roma del re e dei ministri per rifugiarsi presso le forze angloamericane nel Mezzogiorno, Stalin sottolineò l’intenzione anti-imperialista dietro tale mossa: col paese che stava cadendo nella sfera d’influenza occidentale, una “Italia forte con un forte esercito” sarebbe stata una spina nel fianco degli americani. All’interno del partito la mossa fu in parte giustificata in questo modo. L’unità degli italiani non era una concessione alla destra, e nemmeno soltanto una mossa per rafforzare la lotta contro la Germania nazista: era anche un tentativo di sottrarre l’Italia al blocco occidentale che si stava formando.

Tale strategia calza a pennello con l’impostazione di Losurdo, data l’accezione estremamente ampia che il nostro dà alla parola “colonialismo”. Riferendosi a un’osservazione di Lenin del 1916 per cui la Grande Guerra poteva concludersi con una “sottomissione in stile napoleonico” dell’Europa da parte della Germania, Losurdo argomenta che anche i paesi più industrializzati avrebbero potuto diventare delle (semi) colonie, e che ciò fu in effetti quanto accadde alla Francia nel 1940 e all’Italia dopo il 1943: nazioni nelle quali le lezioni della lotta anticoloniale d’Oriente potevano ora essere applicate. La Germania nazista aveva attinto alla lunga storia europea di colonizzazione e l’aveva portata sul continente stesso; i movimenti di Resistenza in quei paesi erano dunque, a modo loro, parte di quella lotta anticoloniale tanto importante per qualunque comprensione del ventesimo secolo. Dopo l’espulsione degli occupanti tedeschi dal centro-nord d’Italia, il compito del PCI era di tenere a bada il predominio anglo-americano. Questo modo di vedere fa assurgere a principio-guida del PCI una centralità del confronto dei blocchi poco sottolineata dalla tradizione apologetica del partito. Non c’è dubbio, tuttavia, che la Svolta di Salerno fu in buona parte governata dall’imminente divisione della Guerra Fredda dell’Europa, e che tale considerazione rese più semplice la sua accettazione nelle file del PCI.

Più che semplicemente “compatibile” con la politica estera sovietica, la strategia di Togliatti fu dunque pesantemente subordinata ad essa. Sempre considerando l’URSS e in seguito le democrazie popolari come società socialiste, dalla adesione alla linea “classe contro classe” del Terzo Periodo dell’Internazionale fino al frontismo popolare della Svolta di Salerno, Togliatti non si oppose mai a Stalin finché questi fu in vita, né sviluppò la sua “via italiana al socialismo” in contrapposizione frontale al “modello sovietico”, o come una critica approfondita dello stesso. Epperò il suo approccio politico portò chiaramente in sé una certa concezione critica dell’esperienza sovietica e della sua non applicabilità in Italia. La svolta iniziale può essere stata diretta da Stalin, ma la politica “nazionale” del PCI si espanse anche in una concezione ben più ampia di come un socialismo italiano potesse realizzarsi. Fu questo il contributo specifico di Togliatti al marxismo, e il centro della sua prassi politica. Egli insistette affinché il partito italiano non seguisse il modello del 1917, proponendo invece un graduale avanzamento di “democrazia progressiva”, affidandosi ad ampie alleanze con altre classi sociali, e – nella misura in cui ciò fosse anche stato possibile – un indebolimento delle dinamiche della Guerra Fredda in Italia.

Nell’impianto de Il marxismo occidentale, tale elemento del pensiero togliattiano non è preso in considerazione. Benché Losurdo attribuisca a Togliatti il merito di aver posto attenzione alla libertas minor in generale, la venerazione che nel complesso gli tributa riposa sull’enfatizzazione da parte di Togliatti della questione nazionale, staccata da qualsiasi approfondimento sulla democrazia o sulla “diversità” italiana. Come si spiega tale discrepanza? Con ogni probabilità la risposta sta nella difficoltà che l’eredità togliattiana pone a Losurdo e a quanti gli stanno intorno. Che cosa fu del PCI e della sua strategia negli anni successivi alla sua morte? Sotto la guida di Berlinguer il partito si allineò alla NATO – mentre Togliatti si era battuto perché l’Italia se ne tenesse fuori – asserendo di sentirsi più sicuro all’interno di essa, e dichiarò esaurita l’eredità della Rivoluzione d’Ottobre, per rimpiazzarla con i più freschi principi dell’Eurocomunismo. Come tratta di ciò Losurdo? Comincia il suo quarto capitolo su ‘Trionfo e morte del marxismo occidentale’ presentando l’Eurocomunismo come il suo punto di arrivo, la “maturazione” di un lungo processo che era iniziato con la ripulsa della Rivoluzione Russa da parte di riformisti come Turati. Culmine del marxismo occidentale, l’Eurocomunismo fu una pura affermazione della “religione dell’Occidente: Ex Occidente lux et salus!” Dopo questa liquidazione sommaria, un verdetto che apparentemente segna il coup de grâce per l’intero canone del marxismo occidentale, Losurdo improvvisamente cambia discorso. Notando brevemente che una lunga storia di costituzionalismo distingueva i paesi dell’Europa occidentale dalla Russia zarista o dalle semi-colonie in Asia, passa rapidamente ad altre accuse di orientalismo nei confronti di Horkheimer, Kautsky, Žižek e altri, senza un solo riferimento ulteriore all’Eurocomunismo nel resto del libro.

Tale silenzio è segno di un imbarazzo comprensibile, perché l’odierno “secondo” PCI al quale Losurdo appartiene si richiama esplicitamente sia a Togliatti sia a Berlinguer, lamentando la dissoluzione del partito comunista del primo in un’organizzazione spudoratamente neoliberista di entusiasti degli Stati Uniti, epperò incapace di ripudiare il secondo, visto come l’ultimo grande segretario del partito, nonostante i suoi sforzi per allontanarlo dall’URSS spingessero il PCI verso il definitivo collasso. Per Losurdo, L’Eurocomunismo è l’epitome dell’eurocentrismo. Ma come separarlo chiaramente dalla “via italiana al socialismo” di Togliatti, che i suoi esponenti di regola invocavano come proprio antecedente? Del resto, il Compromesso Storico di Berlinguer non era forse coerente con la consacrazione da parte di Togliatti dei Patti Lateranensi? E, per citare un casus ancor più rilevante, come considerare l’aspra polemica dei cinesi con Togliatti, messo alla gogna per aver sostituito “la lotta di classe con la collaborazione di classe” nella lettera aperta del PCC del 1963: la voce autorevole del marxismo orientale che lo trattava non meglio di come Losurdo tratta il marxismo occidentale? Domande imbarazzanti sulle quali è meglio sorvolare rapidamente.

Nello scansare le questioni poste ai marxisti dall’esigenza di una strategia in occidente, per rimproverarli invece di indifferenza verso i problemi dell’Est, Losurdo evita anche la domanda su come avrebbero dovuto comportarsi i partiti comunisti dei paesi europei. Con le sue parole, la divisione fra il marxismo “occidentale” e quello “orientale” fu una lotta per il riconoscimento tra due soggetti che sfidavano entrambi il capitalismo-imperialismo: la classe operaia, o intere nazioni in guerra contro il colonialismo. La loro unità era possibile, ma non poteva mai essere data per scontata. Nel ventesimo secolo, come fu realizzata? Una cosa è suggerire che i suoi critici occidentali non avessero argomenti validi per disprezzare i grandi e difficili sforzi di trasformazione compiuti dal socialismo orientale. Ma se i marxisti in Europa o negli Stati Uniti avessero riconosciuto la rivolta anticoloniale come il più grande evento del ventesimo secolo, in che modo ciò avrebbe influenzato la loro concezione del socialismo? Quegli stati rappresentavano dei modelli per la loro attività? Oggi cubani e palestinesi non sono gli unici orfani dell’esperienza sovietica. Il tentativo di definire una politica comunista fu sempre più facile quando c’era l’Unione Sovietica: i marxisti potevano o identificarsi con essa, oppure definirsi per contrasto con il suo fallimento, o ancora riconoscerne i successi capendo al tempo stesso che non si trattava di un modello da riprodurre. Dopo il suo collasso, questa terza opzione sembra quella più verosimilmente adatta per imparare qualche cosa dalla storia. Questo fu ciò che Togliatti quantomeno tentò di fare, comunque si giudichi il risultato della sua attività.

Che a questi temi Losurdo sia più sensibile di quanto non faccia pensare una lettura de Il marxismo occidentale, lo si può vedere dall’intero corpus dei suoi scritti. Spiccano due testi notevoli degli anni Novanta, che rendono un quadro più efficace e plastico della sua visione di quell’epoca. All’inizio del 1992, dopo che il PCI si era sciolto e coloro che uscirono dalla sua sinistra avevano creato Rifondazione Comunista, Losurdo e due suoi colleghi a Urbino organizzarono un convegno su ‘Gramsci e l’Italia’. Lì il Nostro sostenne che Gramsci fu un dirigente e un pensatore la cui vita si svolse durante una tragica sconfitta del movimento operaio e che morì quando il fascismo ancora trionfava su di esso. Costretto ad abbandonare ogni speranza in una rapida palingenesi rivoluzionaria, in prigione si dedicò a una più profonda analisi storica delle trasformazioni sociali e politiche in corso dal punto di vista della longue durée. Benché condividesse la rivolta contro il positivismo che contrassegnò la generazione rivoluzionaria del 1914-18, fu libero da ogni traccia di ostilità verso la scienza e da ogni visione messianica, avendo introiettato molto meglio di Lukács, Bloch o chiunque altro della sua generazione il concetto dialettico marxiano di modernità: il capitalismo come, indivisibilmente, motore del progresso e dello sfruttamento, la borghesia ad un tempo portatrice di lumi e agente di distruzione. Dall’inizio, come Marx e Engels avevano capito, la modernità richiedeva dunque un equilibrio tra il riconoscimento della sua legittimità e la necessità di una sua critica. La Prima Guerra Mondiale aveva messo tale comprensione di fronte ad una verifica ben più crudele di qualsiasi cosa i fondatori del marxismo fossero stati testimoni. Reagendo contro di essa, la critica inorridita divenne prevalente in Lukács e Bloch, in una tendenza che contrassegnò soprattutto la Germania, dove la Grande Guerra assunse l’aspetto di una ripetizione della catastrofe della Guerra dei Trent’Anni. Per costoro, fu solo allorché giunse la salvezza con la Rivoluzione d’Ottobre che la modernità fu redenta. Vent’anni dopo, nella Dialettica dell’illuminismo di Hokheimer e Adorno, la modernità fu condannata più radicalmente: anche l’Unione Sovietica diventava una delle manifestazioni della catastrofe da essa portata, insieme alla ragione stessa. Né tale mancanza di equilibrio riguardò soltanto intellettuali occidentali come questi. Anche i bolscevichi soffrirono di tale malattia, trasmessa loro dal secondo Lukács. In essi prese la forma della convinzione che il capitalismo come sistema economico, insieme alla cultura borghese in generale, fosse giunto al punto d’arrivo nel 1918, quando Lenin lo dichiarò incapace di una ulteriore crescita nelle forze produttive. Questa concezione venne ripetuta da Stalin ancora negli anni Cinquanta, e scarsamente modificata dalla nozione di “tardo” capitalismo propagata nella DDR e altrove. Le due parole chiave di tale tradizione furono “decadenza” e “decadimento”: un sistema che marciva dal suo interno, la sua cultura in un declino irreversibile, che Lukács fa risalire direttamente al 1848.

Gramsci respinse tutto ciò. La sua situazione oggettiva era diversa, dacché l’Italia non si trovava al centro della Prima Guerra Mondiale quanto Germania e Russia, e a differenza di quelle il paese aveva una tradizione di pensiero liberale che si misurava attivamente con l’opera di Marx. Per lui la modernità era un risultato fondamentale del capitalismo, del quale il comunismo sarebbe stato non la liquidazione ma il compimento. La sua più alta espressione intellettuale era stata la filosofia di Hegel, che era compito del materialismo storico riformare e sviluppare. Ciò significava integrare e rimpiazzare, più che gettar via, le eredità più avanzate della borghesia, facendo diventare l’intero spettro dei diritti del liberalismo il programma minimo del socialismo. La Grande Guerra e la vittoria del fascismo erano dei terribili passi indietro per l’umanità. Ma non giustificavano conclusioni di alcuna irrimediabile decadenza o decadimento dell’ordine costituito. In Francia, il potere politico borghese era rimasto stabile per sessant’anni dopo la Comune; in America la dinamica economica e sociale del fordismo era lungi dall’esaurirsi; in Italia la filosofia di Croce era ben viva. I marxisti dovevano misurarsi con tutto ciò, non mettere la testa sotto la sabbia nella speranza che la Grande Depressione ponesse velocemente fine alla civiltà del capitale, il cui superamento poteva invece richiedere secoli. Come dice memorabilmente Losurdo, Gramsci rifiutò di “leggere la storia come un trattato di teratologia”: essa aveva creato dei mostri, ma non poteva essere ridotta ad essi. Il reale era razionale, come aveva sostenuto Hegel. Il compito di ‘ereditare’ restava tale. Ed era così che i marxisti – di fronte a una nuova e disastrosa sconfitta: l’estinzione dell’URSS – dovevano per Losurdo guardare all’esperienza del “socialismo realmente esistente”, nonostante “gli errori, le colossali mistificazioni e gli orrori” che lo avevano attraversato. Gramsci aveva insistito sulla necessità di preservare e sviluppare i punti alti della Rivoluzione Francese. L’eredità della Rivoluzione d’Ottobre doveva essere recepita nello stesso spirito.

Alle soglie del nuovo secolo, Losurdo fece il suo bilancio di quello che si stava concludendo in un breve libro significativamente intitolato Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia (1999). All’epoca abiure stridenti erano comuni in Italia: ex dirigenti e intellettuali del PCI dichiaravano la più grande ammirazione per Clinton e tutto ciò che si faceva negli USA. Anche tra coloro che si definivano ancora comunisti, sia dentro sia al di fuori di Rifondazione, non pochi si stracciavano le vesti e ripudiavano interamente un passato del quale avevano fatto parte. “Al narcisismo trionfante dei vincitori” corrispondeva ora una “autoflagellazione dei vinti”. Ma l’odio di sé, che può condurre soltanto alla capitolazione su tutta la linea, era l’antitesi dell’autocritica, e la lotta contro di esso sarebbe stata tanto più efficace, quanto più fosse stato fatto in modo radicalmente e disinibitamente critico il bilancio dell’esperienza storica avviata dalla Rivoluzione d’Ottobre. Ciò non sarebbe risultato più semplice invocando, come sempre più spesso accadeva a sinistra, un “ritorno a Marx”, del quale Marx per primo si sarebbe fatto beffe, come aveva deriso quanti ai suoi tempi invocavano il ritorno a Kant o ad Aristotele. Per il materialismo storico, la teoria emerge dai processi materiali della storia. “Marx stesso non esitò a riconoscere il suo debito teorico con la breve esperienza della Comune di Parigi. Ma oggi, decennio dopo decennio di un periodo della storia straordinariamente intenso, che si estende dalla Rivoluzione Russa a quelle Cinese e Cubana, esse vengono dichiarate prive di significato o rilevanza a confronto con il ‘vero’ messaggio di salvezza stabilito una volta per tutte in testi sacri che hanno soltanto bisogno di essere riscoperti per una rimeditazione religiosa!” Nello stesso spirito, si tributava riverenza a Gramsci o Guevara, non come a combattenti e pensatori che mai s’erano fatto scrupolo di rovesciare certi assunti marxiani, ma come a vittime in un culto dei martiri.

La riflessione sull’esperienza dell’Unione Sovietica non doveva aver nulla a che fare con simili autoindulgenze. Il termine che veniva adesso usato convenzionalmente per spiegarne il crollo era il blando eufemismo “implosione”, che poneva tutte le cause di esso nella società creata dopo il 1917. Questo, ovviamente, era un mito: allo stesso modo si sarebbe potuto affermare che in Nicaragua i sandinisti fossero caduti per implosione interna, come se i Contras non fossero mai esistiti. Ma ciò non significava che il PCUS non portasse alcuna responsabilità del collasso dell’URSS. Al contrario, la causa principale del crollo era stata la teoria fantastica proclamata da Kruscev per cui il paese era prossimo a superare gli USA e a fare il proprio ingresso nel comunismo come Marx e Engels l’avevano concepito ne L’ideologia tedesca: una società in cui vi sarebbe stata tale abbondanza che lo stato si sarebbe estinto e la divisione del lavoro sarebbe venuta a cadere; un Valhalla che richiedeva uno sviluppo prodigioso delle forze produttive, dal quale l’URSS del dopoguerra era lontana anni luce. La reboante vuotezza di quella dichiarazione privò di ogni legittimità il “socialismo realmente esistente”, sotto una nomenklatura che divenne sempre più autocratica e corrotta, e il cui governo era spogliato di ogni sembiante di democrazia e sovranità popolare, la legittimità universale dell’epoca. Sotto di essa, il mondo dei campi di lavoro era diventato anche più intollerabile per una società civile che era maturata attraverso l’istruzione di massa, la diffusione della cultura e una sicurezza sociale garantita, mentre la razionalizzazione dell’economia per far risalire il tasso di crescita fu rifiutata come restaurazione del capitalismo. In assenza di qualunque teoria rivoluzionaria su come costruire una società socialista dopo l’abbattimento del capitalismo, l’esperienza sovietica era condannata a morte.

In Cina, Mao tentò di evitare l’impasse in cui era caduta l’URSS mobilitando le masse per strapparsi di dosso la camicia di forza del governo burocratico, prima con il Grande Balzo in Avanti e poi con la Rivoluzione Culturale. Entrambi furono dei fallimenti, che generarono regressione democratica, sciovinismo etnico e un ordine politico ridotto al rapporto tra un capo carismatico e delle masse fanatizzate. L’autosacrificio e l’entusiasmo permanenti erano impossibili, poiché non prendevano in considerazione l’inevitabilità della secolarizzazione popolare. Prima di morire, Mao probabilmente si rese conto che era necessario un cambiamento, e Deng lo avviò senza demonizzare il suo predecessore come aveva invece fatto Kruscev, ma situandolo nel processo storico che lo aveva prodotto e così preservando la legittimità del potere rivoluzionario, laddove Kruscev lo aveva invece minato. Ciò che l’Era delle Riforme da lui promossa sarebbe diventata fu una NEP gigantesca, senza precedenti: l’unica strada possibile, una volta che l’URSS era finita. La Repubblica Popolare doveva integrarsi nel mercato mondiale, se la Cina non voleva restare povera e debole. Ma si trattava di una NEP decisa a mantenere l’indipendenza politica e a conseguire l’autonomia tecnologica del paese, per permettere alla Cina di progredire verso una società socialista e alterare l’equilibrio del potere mondiale. Centinaia di milioni di persone erano state sottratte alla povertà da essa. Erano state create anche delle disuguaglianze, come nel caso della NEP sovietica, e queste richiedevano attenzione se non si voleva che portassero a polarizzazione sociale e instabilità politica. V’era anche l’esigenza di vigilare contro i tentativi dei nuovi ricchi di trasformare tali ricchezze in potere. Ma sul risultato complessivo non potevano esserci dubbi. Su scala planetaria, l’età inaugurata da Colombo nella quale l’Occidente ha imposto un dominio spietato sul resto del mondo, creando un enorme divario fra la propria prosperità e la miseria di quelli che ha soggiogato, era arrivata alla fine, come Adam Smith aveva previsto dovesse accadere. Questo era il fatto più importante dell’epoca, accanto al quale l’importanza di tutti gli altri sbiadiva.

Qui, esposta in modo più chiaro che in Il marxismo occidentale, c’è la visione complessiva di Losurdo: per un secolo la lotta fra le nazioni era stata, per dirla con le parole di Mao, la contraddizione principale del sistema capitalista globale; la lotta fra le classi una contraddizione secondaria. Si tratta di una posizione coerente, alla quale le ricerche sull’ineguaglianza globale di Goran Therborn e Branko Milanović forniscono prove statistiche: la diseguaglianza fra le nazioni è diminuita, con la Cina che in tale abbassamento fa la parte del leone, mentre la diseguaglianza all’interno delle nazioni è aumentata. Dal punto di vista della storia globale, Losurdo poggia su basi solide nell’insistere sull’importanza strutturale di tale cambiamento. Questa argomentazione non richiede caricature del marxismo occidentale che la danneggiano piuttosto che rafforzarla. Se fosse stato più attento, avrebbe potuto notare che c’erano importanti marxisti “occidentali”, secondo la sua stessa classificazione, che non solo condividevano la sua visione dell’epoca, ma che ne hanno presentato una versione empiricamente e teoricamente più sviluppata, primo fra tutti il suo connazionale Giovanni Arrighi, ignorato ne Il marxismo occidentale insieme ad altre confutazioni viventi della dicotomia proposta nel libro, quali Immanuel Wallerstein o Fredric Jameson. Anche nella sua parte più convincente, è chiaro, e senza i suoi innecessari ammennicoli, la posizione di Losurdo può essere messa in discussione. Fino a che punto può reggere un paragone fra l’Era delle Riforme di Deng e la NEP? Si possono immaginare sotto Lenin quegli sbalorditivi livelli di speculazione immobiliare finanziata dal debito, di accumulazione illegale di miliardi, di sfruttamento spietato del lavoro migrante? La corruzione a tutti i livelli dello stato e del partito non ha ormai superato quella del PCUS sotto Brezhnev, e se è così, che cosa potrebbe mai evitare un analogo dénouement?

​Dietro tali questioni c’è quella più cruciale di tutte. Costante attraverso l’opera di Losurdo è il suo rifiuto di qualsiasi discorso sulla scomparsa dello stato, che si tratti della sua abolizione immediata come nella tradizione anarchica che discende da Bakunin, o della sua estinzione finale, come in Marx. Nella tradizione marxista, sostiene Losurdo nel modo più chiaro ed eloquente in Fuga dalla storia?, quest’idea ha portato a trascurare le norme legali essenziali per regolare gli inevitabili conflitti all’interno di qualunque società. In una società di classi, lo stato non è soltanto uno strumento per il dominio della classe dominante: è anche una forma di “garanzia reciproca” di trattamento corretto per gli individui all’interno della classe dominante. Perché allora, in una società in cui la lotta fra le classi fosse scomparsa, le garanzie reciproche fra gli individui di una comunità unificata dovrebbero diventare inutili? Le libertà formali, codificate giuridicamente, sono per Hegel le fondamenta dello stato moderno, da complementare ma non rimpiazzare con l’esigenza di libertà materiali rispetto alle quali Hegel era pure attento. L’argomentazione è condotta con chiarezza ed energia. Ma dove sono le libertà formali oggi nella Repubblica Popolare Cinese? Losurdo può soltanto fare un debole riferimento alle elezioni a livello locale, proprio come Hegel si accontentò del sistema rappresentativo prussiano. Se politicamente Losurdo è sempre stato un militante di sinistra senza compromessi, intellettualmente è un filosofo della destra hegeliana. Lo stato deve continuare a esistere, in quanto tegumento istituzionale della libertà umana, e il corso reale della storia, per quanto fra disastri e divagazioni apparenti, è razionale.


[traduzione di Gabriele Savoja]

La versione originale di questo articolo è uscita sulla New Left Review n.107, sept/oct 2017

Comments

Search Reset
0
Mario Galati
Tuesday, 13 March 2018 21:31
L'autore dell'interessante recensione, a confutazione della tesi di Losurdo circa un Togliatti anticolonialista più profondo e coerente di altri marxisti "occidentali", scrive:

"Nel 1935, sotto la sua leadership, il giornale del PCI in esilio aveva spiegato che la guerra di Mussolini in Abissinia era un errore perché i “legittimi interessi territoriali” dell’Italia risiedevano nei Balcani anziché in Africa".
Inoltre, sostiene che Losurdo non può portare a favore della sua tesi più che una striminzita citazione, più volte ripetuta.

Si confronti con quanto scrive Losurdo in questo suo articolo su Togliatti dell'anno scorso.

"Concentrare tutte le forze" contro «il nemico principale»
di Domenico Losurdo, su MARX XXI 08 marzo 2017

"A partire dal 1935 Togliatti era chiamato a fronteggiare l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia (o Abissinia). Mussolini dichiarava di voler contribuire alla diffusione della civiltà europea: era necessario farla finita con una «schiavitù millenaria» e con lo «pseudo Stato barbarico e negriero», cioè schiavista, diretto dal «Negus dei negrieri», dal leader degli schiavisti (Mussolini 1979, pp. 292-96). La propaganda del regime non si stancava di insistere: non potevano più essere tollerati gli «orrori della schiavitù»; a Milano il cardinale Schuster benediceva e consacrava l'impresa che «a prezzo di sangue apre le porte d'Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana», e, abolendo «la schiavitù, rischiara le tenebre della barbarie» (Salvatorelli, Mira, 1972, vol. 2, pp. 254 e 294). Nonostante fosse condotta mediante l'impiego massiccio di iprite e gas asfissianti e il massacro su larga scala della popolazione civile, la guerra era celebrata come un’operazione civilizzatrice e umanitaria e non priva di elementi democratici, dato che aboliva la schiavitù. Siamo portati a pensare alle sedicenti operazioni umanitarie dei giorni nostri.
Come reagiva Togliatti a tale campagna? Nell’agosto 1935, nel suo Rapporto (La lotta contro la guerra) al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, egli osservava:
«Per intieri decenni, gli indigeni dell’Africa sono stati sottomessi a un regime non soltanto di sfruttamento e di schiavitù, ma di vero e proprio sterminio fisico. Gli anni di crisi hanno accresciuto gli orrori del regime coloniale instaurato dagli europei nell’immenso continente nero. D’altra parte, i fascisti, nella guerra condotta in Libia dal 1924 al 1929, hanno mostrato in modo non equivoco quali sono i metodi fascisti di colonizzazione. Anche in questo campo, il fascismo ha dimostrato di essere la forma più barbara di dominio della borghesia. La guerra dell’Italia in Libia è stata condotta, dal principio alla fine, come una guerra di sterminio delle popolazioni indigene» (TO, 3.2; 760).
Da sempre tendenzialmente genocide, anche quando sono scatenate da paesi a ordinamento liberale e democratico, le guerre coloniali diventano con il fascismo compiutamente e consapevolmente genocide.
Per un altro verso, Togliatti riconosceva che «l’Abissinia è un paese economicamente e politicamente arretrato». È vero, «non vi si ritrova ancora nessuna traccia di un movimento nazionale rivoluzionario e neppure di un semplice movimento democratico»; era ancora largamente presente il «regime feudale». Occorreva allora appoggiare o per lo meno non contrastare il sedicente intervento civilizzatore e umanitario? Nulla di tutto questo. Al contrario Togliatti si dichiarava «pronto a sostenere la lotta di liberazione del popolo abissino contro i briganti fascisti» (TO, 3.2; 761-2); e ciò in considerazione non solo delle infamie proprie dell’espansionismo e del dominio coloniale ma anche del fatto che la lotta anticolonialista, anche se condotta da paesi e popoli ancora al di qua della modernità, è comunque parte integrante del processo rivoluzionario mondiale che mette in crisi l’imperialismo (e il capitalismo)".
Se le altre critiche al libro di Losurdo, a Losurdo stesso, alle "bolse" analisi di Togliatti, hanno la stessa leggerezza (rimproverata, invece, a Losurdo), allora sono da prendere con le molle.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit