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centroriformastato

Dal ‘Capitale’ al Tecno-capitalismo e alle piattaforme

di Lelio Demichelis

Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme sui media” del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS

Foxconn e1500883515819Premessa

Per metodo intellettuale, ci piace guardare ai processi e alla loro evoluzione nel tempo, più che ai loro effetti. Cercando di capire cioè la genealogia di ciò che oggi ci sembra nuovo, ma che spesso è invece la riproposizione del vecchio capitalismo in forme che sembrano nuove solo perché accompagnate da una nuova tecnologia e dalle retoriche che ne determinano l’accettazione sociale – accettazione che a sua volta è funzionale all’adattamento dell’uomo e della società alle esigenze del capitale.

Anticipando la conclusione della riflessione che segue, diciamo allora che il digitale è sempre rivoluzione industriale/industrialista; che i social media di oggi sono l’evoluzione (o meglio l’involuzione) dei mass media novecenteschi (in particolare della televisione), dell’industria culturale descritta a metà del ‘900 dalla Scuola di Francoforte e della società dello spettacolo debordiana; che le piattaforme sono l’evoluzione della fabbrica fordista e necessarie alla trasformazione dell’intera società in fabbrica. Una società non industriale, ma industrializzata.

Nessun reale cambio di paradigma rispetto a ieri, dunque; nessuna transizione a qualcosa di assolutamente nuovo; nessuna quarta rivoluzione industriale. Credere il contrario – che tutto sia cioè veramente nuovo – significa invece reiterare nuovamente gli errori interpretativi del passato, non vedendo l’evoluzione dei processi industriali e capitalistici: sempre apparentemente rivoluzionari, ma in verità sempre trasformistici, cioè: cambiare tutto per non cambiare nulla nella struttura e nella sovrastruttura dei meccanismi di organizzazione industriale della società e di accumulazione del capitale.

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lantidiplomatico

Elsa Fornero e la logica surreale del contabile neo-liberista

di Thomas Fazi

La logica surreale del contabile neoliberista: «Visto che non ci sono abbastanza giovani lavorativamente attivi per sostenere le pensioni degli anziani, dobbiamo far lavorare gli anziani fino alla morte, impedendo così a un numero crescente di giovani di accedere a un lavoro». In questo articolo spiego perché questa logica - oltre a cadere palesemente in contraddizione con se stessa - non abbia alcun fondamento economico.

720x410c50vcferTra i tanti miti che continuano ad essere propagandati sul funzionamento dell’economia, uno dei più perniciosi riguarda senz’altro la spesa pensionistica e la sua presunta insostenibilità, uno dei mantra della politica italiana da almeno vent’anni. L’idea di fondo è che il “normale” nonché effettivo funzionamento dei sistemi pensionistici, e nella fattispecie di quello italiano, consista nel prelevare una certa percentuale dalla busta paga del lavoratore che poi viene “accantonata” in una sorta di “cassetta” previdenziale a cui lo Stato attingerà una volta che il lavoratore è andato in pensione per finanziare la pensione dello stesso.

A qualcuno che basi la sua concezione dell’economia sulla “saggezza convenzionale” – dunque alla maggior parte dei cittadini, ahinoi –, tale sistema potrebbe parere avere una sua logica. Peccato che questa rappresentazione del funzionamento del nostro sistema pensionistico non solo non abbia alcun senso, ma non corrisponda neanche alla realtà. Non ha senso perché gli Stati, a differenza di noi comuni mortali, non “risparmiano” oggi per aumentare la propria capacità di spesa un domani. La stessa idea che un surplus del bilancio pubblico rappresenti un risparmio nell’accezione tradizionale del termine, cioè una somma che viene “messa da parte” per poter essere spesa un domani, è errata: esso certifica semplicemente che in un dato periodo le entrate dello Stato sono superiori alle uscite, ma quei soldi non vengono accantonati, vengono effettivamente distrutti, tramite una semplice operazione contabile (giacché non paghiamo le tasse con i contanti ma per mezzo di trasferimenti bancari). Da ciò si evince come l’idea che lo Stato “metta da parte” i nostri contributi oggi per poi restituirceli un domani non abbia alcun senso.

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tempofertile

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, III

“I Regimi di Verità – Il politico-impolitico, travestimenti liberali”

di Alessandro Visalli

Pippo Rizzo Treno notturno in corsa 1926. Courtesy Archivio Pippo Rizzo PalermoQuesta è la terza puntata ed ultima della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

- Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,

- Nella seconda parte è stato ricostruita la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,

- In questa terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

In sostanza dalla ricostruzione del liberalesimo nel libro, e riportata nella prima parte, emergono, secondo quanto propone l’autore, due prescrizioni e due idealizzazioni.

La prima prescrizione scaturisce dall'idea di libertà negativa, essenzialmente interpretata come richiesta di non interferenza. La seconda è l'individualismo assiologico, ovvero una concezione per cui il valore si manifesta essenzialmente nell'acquisizione di desideri individuali. “Non interferenza” e “desiderio individuale” come valore sono, quindi, le due prescrizioni definenti la “Ragione liberale”. In loro presenza si sa di essere al cospetto di una versione, delle tante, del liberalesimo.

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tempofertile

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, II

“Critica della Critica – il postmodernismo”

di Alessandro Visalli

Prina 03 bassaQuesta è la seconda puntata di tre della lettura del libro di Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, uscito per l’editore Meltemi nel 2020.

- Nella prima parte è stato trattato il processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici per come emergono dal testo in esame,

- In questa seconda parte proveremo a ricostruire la lettura che il libro compie dei “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,

- Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

Venendo alle tendenze ideologiche che strutturano dall'interno il fenomeno neoliberale e cioè a quelle che Zhok chiama i “Regimi” della ragione liberale, ovvero i “Regimi di libertà” o “Regimi di ragione”, si può provare a dire in questo modo: si tratta di un sistema di motivazione o di giustificazioni, ma capaci di dare forma a pratiche sociali reali. Non si tratta meramente di sovrastrutture. Il liberalismo è, in altre parole, profondamente interconnesso con la linea di sviluppo emersa nel lungo periodo anche nel mutare delle condizioni economiche e di quelli che il marxismo chiama “modi di produzione” (‘schiavista’, ‘feudale’, ‘mercatista’, ‘capitalista’).

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tempofertile

Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, I

di Alessandro Visalli

zhok critica della ragione liberale“La costruzione del liberalesimo – Invarianti e variazioni”

L’importante ed ambizioso libro di Andrea Zhok è uscito nel 2020 per l’editore Meltemi nella collana diretta da Carlo Formenti, “Visioni eretiche”, e di questa collana rappresenta sicuramente una delle pietre miliari. È da lungo tempo che condivido il punto di vista di Andrea e quindi questa lettura che farò, oltre ad essere come sempre influenzata dalle mie idiosincrasie ed orientamenti, ne risentirà. Inoltre, risentirà delle accentuazioni tematiche e delle priorità che reputo (non necessariamente in accordo con l’autore) attuali.

Detto in altre parole, vuole essere, anche qui come sempre, un invito a leggere direttamente il libro e trarne ciò che interessa e non alla sua sostituzione con questo pallido fantasma.

Per la sua complessità ed ampiezza compiremo la lettura di questo testo in tre parti:

  • La prima, questa, tratta del processo di costruzione delle invarianti della ragione liberale e dei suoi caratteri tipici,
  • La seconda, individuerà i “Regimi di ragione” che scaturiscono dalla struttura liberale e neoliberale di pensiero e pratica, quindi della ragione postmodernista,
  • Nella terza parte, i “Regimi di verità” della ragione liberale verranno mostrati nelle loro applicazioni politiche, ovvero nella particolare forma di politico impolitico che è generato dalla ferrea logica liberale (tanto più forte quando non si vede e ci si pensa avversari).

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neronot

Non era depressione, era capitalismo

La solidarietà tra rivoltosi è la cura migliore

di Franco «Bifo» Berardi

bifo chile 3Pochissimo si parla degli eventi cileni, qui in Europa, terra di soldi e di vaccini. Anzi niente.

Ma una scritta comparsa sui muri di Santiago c’è arrivata.

Dice: No era depresión era capitalismo

È una frase densa di implicazioni: dice che la solidarietà tra rivoltosi è la cura migliore (insieme all’innamoramento e alla poesia) contro la depressione.

Ma dice anche un’altra cosa: che il capitalismo contemporaneo produce depressione.

Ai tempi di Freud, il capitalismo borghese e austero produceva nevrosi.

Ai tempi di Guattari, il capitalismo globale liberista e biopolitico (che Guattari e Deleuze cartografano in anticipo, come Foucault ne La naissance de la biopolitique) era destinato a produrre psicosi schizofrenica, e panico. Così è andata, in effetti: l’accelerazione dell’Infosfera ha prodotto un’intensificazione spasmodica della psicosfera: l’ansia panica è divenuta endemica, e la depressione è dilagata nella mente collettiva.

Ma oggi, ai tempi della pandemia e del collasso ecosistemico, oggi che cosa accade? Da un paio di decenni la depressione ha dilagato nella psicosfera giovanile. Il ciclo di precarietà, competizione, emulazione, umiliazione, l’invasione del tempo mentale da parte di un’eccitazione senza gioia ha agito come moltiplicatore della depressione.

Con depressione intendiamo l’effetto di un prolungato protendersi del desiderio verso un oggetto che sfugge, la caduta del desiderio, l’affievolirsi e lo spegnersi della tensione che dà senso all’esistenza.

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machina

Appunti per un neoliberalismo dai margini

di Luca Villaggi

0e99dc cd37f8e9652d479aa4b2ef4c8f29947bmv2Utilizzando in particolare le analisi di Quinn Slobodian e Melinda Cooper, Luca Villaggi riflette sulla natura del progetto neoliberale. Lo fa riattraversando criticamente la riflessione di Karl Polanyi, i rischi di un certo conservatorismo o nostalgia a cui possono condurre: infatti, se mercato e capitale sono concepiti come forze essenzialmente disgreganti della vita sociale, la resistenza viene immaginata in termini di restaurazione, o al massimo di rinnovamento, di quelle proprietà e di quelle solidarietà sociali che il capitalismo tende a distruggere. Secondo l’autore, approfondire i modi con i quali il neoliberalismo ha cercato di «disciplinare i margini» e di ricostruire una società profondamente diseguale, differenziata e gerarchica, rappresenta un compito imprescindibile per la riflessione critica. 

* * * * 

Le riflessioni che seguono sono state sollecitate da Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism di Quinn Slobodian e Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism di Melinda Cooper, dei quali si è tentato di individuare una chiave di lettura comune. Da un lato abbiamo un volume che si propone di enfatizzare la natura antidemocratica e neocoloniale del progetto neoliberale, dall’altro lato abbiamo un testo che sottolinea la perturbante affinità elettiva del pensiero neoliberale con il neoconservatorismo sociale. Da una parte, vi è la rigorosa ricostruzione della prospettiva globale che il neoliberalismo dell’Europa centrale e continentale assume fin dalla propria origine, e dall’altra parte incontriamo un’analisi della convergenza che unisce i neoliberali statunitensi con una variegata costellazione di conservatori sociali nel tentativo di risolvere la crisi della famiglia fordista. 

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comuneinfo

Il potere del Grande Altro

di Giorgio Salerno

big brother 4623073 1280Viviamo un tempo segnato da un enorme potere antidemocratico e predatorio, è un potere in grado di compiere strumentalizzazioni di una portata senza precedenti e di impossessarsi dell’esperienza umana come materia prima per trasformarla in dati comportamentali. Il capitalismo della sorveglianza è il nome che il fortunato libro di Shoshana Zuboff usa per raccontare l’ennesima trasformazione di un sistema che plasma il modo di vita delle società organizzate per garantire il dominio dell’accumulazione sulla vita. Approfondendo il processo di estrazione di dati dalle stesse esistenze, il capitalismo della sorveglianza è sbarcato da tempo sul grande continente dei nostri dark data: motivazioni, desideri, umori, emozioni, ecc., da “renderizzare” in piccolissimi pezzetti di comportamento, per addestrare sempre meglio le macchine di intelligenza artificiale. Se la civiltà industriale ha prosperato a spese della natura e ora minaccia la biosfera e la nostra esistenza, afferma la Zuboff, la civiltà dell’informazione dominata dal capitalismo della sorveglianza può prosperare solo a spese della natura umana, minacciando la nostra stessa umanità. Una lettura analitica del suo libro invita a non rassegnarsi alla retorica dell’inevitabile e a lottare contro l’esproprio del nostro futuro.

* * * *

Un testo di straordinaria attualità e acutezza di analisi, quello di Shoshana Zuboff. Studia la più recente evoluzione del capitalismo, il quale si appropria dell’esperienza umana e la trasforma (renderizzazione) in dati; di questi, una piccola parte serve a migliorare prodotti o servizi, ma tutto il resto è surplus comportamentale, che le macchine di “intelligenza artificiale” (I.A.) trasformano in prodotti predittivi, merce da scambiare nel nuovo mercato dei comportamenti futuri.

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illatocattivo

...e non avete ancora visto niente!

Nota semiseria su «Great Reset» e dintorni

di Il Lato Cattivo

imagesou864«Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio” Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna…»

(Apocalisse di Giovanni, XVI, 1-2)

Si è fatto un gran parlare, anche in ambienti a noi contigui, del presunto progetto di «Great Reset» (grande riaggiustamento), che facendo strumentalmente leva sulla pandemia da Covid-19, mirerebbe a una profonda riconfigurazione dell’economia mondiale. Come è ormai noto, The Great Reset è anche il titolo di un libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, considerato da alcuni come una conferma dell'esistenza del suddetto progetto. Cosicché siamo andati a vedere cosa c'è nel libro, convinti di trovarvi sostanziose indicazioni, ancorché business friendly, sulla ristrutturazione possibile del modo di produzione capitalistico (MPC). Abbiamo allargato le nostre ricerche ad altri testi della stessa risma. Risultato: una grande delusione. Pubblicazioni come quella di Schwab e Malleret testimoniano della situazione di stallo delle frazioni attualmente dominanti della classe capitalista, più che della loro dinamicità. Farne un manuale della ristrutturazione ad uso del grande capitale, non solo è far troppo onore a suoi autori; è soprattutto non comprendere cosa spinga il MPC a rivoluzionare se stesso. Lo vedremo meglio nella seconda parte di questa breve nota. Ma andiamo con ordine.

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finimondo

Propaganda

di Finimondo

propa 0«Quando tutti pensano
alla stessa maniera,
nessuno pensa molto»
Walter Lippmann

Per cominciare, sgombriamo subito il campo da un equivoco che puntualmente si viene a creare. Cosa si intende per propaganda? Secondo una definizione risalente ai primi anni 50, più volte ripresa in virtù della sua sostanziale precisione, la propaganda è «una tecnica di pressione sociale che mira alla formazione di gruppi psicologici o sociali a struttura unificata, attraverso l’omogeneità degli stati affettivi e mentali degli individui presi in considerazione».

Occorre perciò tenere bene in mente che la propaganda costituisce una tecnica di omologazione, se si vuole comprendere quanto sia errata e fuorviante la consolidata abitudine di considerarla una sorta di diffusione organizzata di idee. Se si limitasse a ciò, ad essere criticabile sarebbe solo la forma che essa può talvolta assumere, ma di per sé sarebbe ritenuta comunque giustificata poiché corrispondente ad un bisogno reale ineludibile. Nessuno può infatti negare che ogni pensiero degno di questo nome tende a trovare una propria espressione pratica, e chiunque desideri realizzare un progetto che vada oltre se stesso non può esimersi dall’affrontare il problema di come comunicare al maggior numero di persone ciò che reputa vero, giusto, utile.

Ma non è di questo che qui si tratta, e pazienza se nel 1793, in piena Rivoluzione francese, venne formata in Alsazia una associazione che prese ufficialmente il nome di Propaganda, il cui compito era quello di diffondere le idee rivoluzionarie nelle città e nei villaggi.

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poliscritture

Un mondo di mondi

La storia globale e i problemi del nostro tempo

Intervista di Alberto Deambrogio a Giorgio Riolo

Riolo Copertina UN MONDO DI MONDIIl libro che tu e Massimiliano Lepratti avete scritto si può per molti versi considerare “inattuale”. In un tempo come il nostro, caratterizzato da forti tensioni populiste, sovraniste e per altri versi piegato a un presente eterno da gestire tecnocraticamente, voi fate una scelta nettamente eccentrica, che si annuncia fin dal doppio esergo affidato ad Edgar Morin e Fernand Braudel: sguardo critico, globale, sistemico, attento alla complessità degli intrecci. Vuoi spiegarci perché è utile oggi ripercorrere la storia dell’umanità attraverso una precisa scelta metodologica e storiografica, che riprenda il lascito di intellettuali come appunto Braudel o Wallerstein, Arrighi, Frank, Amin, Wolf?

Questo libro nasce dal desiderio di dare un contributo alla cultura critica e alternativa al corso dominante nel mondo contemporaneo. Tanto più necessaria oggi. Nella buona divulgazione della storia, in primo luogo, e, in secondo luogo, nel contrastare le concezioni dominanti nel nostro tempo. Essendo culture e subculture fortemente impegnate a mostrare che questo è “il migliore dei mondi possibili”, che “c’è stata storia, ma ora non più” (Marx). Il presente come ultimo stadio dell’evoluzione umana e pertanto reso eterno. Insomma, un libro che mira a contrastare la filosofia complessiva del neoliberismo e della globalizzazione capitalistica.

È un tentativo nella direzione della critica radicale dell’eurocentrismo, dell’occidentalocentrismo, del pregiudizio della “superiorità bianca”, anche a sinistra, dell’economicismo e del determinismo.

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dialetticaefilosofia

Il virus dell'Occidente

Recensione di Elena Fabrizio

Stefano G. Azzarà, Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione, Mimesis 2020, pp. 425 - ISBN 978-88-5757-155-3

 IMG 5916 1024x724Dopo più di un anno dalla diffusione della pandemia del Covid-19, e dopo aver preso atto delle modalità con le quali l’Occidente ha reagito alla situazione di emergenza, il dibattito mediatico e politico continua a ripetere che niente sarà più come prima; se nell’immediatezza questo riferimento reattivo al passato era ben lontano dal rappresentare una presa di coscienza dei problemi strutturali della democrazia liberale e capitalistica, a tutt’oggi, a fronte della pesante crisi economica e sociale, quei problemi continuano ad essere ignorati dall’agenda politica. Scritto a ridosso della prima fase della crisi pandemica, con questo libro Azzarà riflette sulla questione filosofica fondamentale che essa ha inevitabilmente posto per offrire una chiave di lettura capace di decifrare, in quel richiamo ad un passato che non deve ritornare, la realtà di un’egemonia liberale che rilancia se stessa affinché «non cambi nulla nell’essenziale».

La questione filosofica è molto ben sintetizzata dalla metafora che dà titolo al libro, e con la quale si indica l’operazione di mistificazione e arrogante presunzione che intellettuali, politici, filosofi, politologi hanno messo immediatamente in scena nella costruzione di un nemico virale che cercherebbe di contaminare un organismo che presenta se stesso nella sua astratta purezza (la democrazia liberale e la centralità del mercato) per esimerlo da ogni forma di autocritica. Invece di cogliere l’occasione per prendere coscienza dei problemi della società capitalistica e delle ragioni della aggressività con cui la pandemia si è diffusa, di guardare all’esperienza cinese che è riuscita a reagire all’emergenza grazie ad uno Stato capace di governare l’economia e la produzione per il benessere generale, di provare a immaginare un modello sociale alternativo, l’Occidente è rimasto congelato nella fase storica di regressione fondamentalista riapertasi dopo la fine della Guerra fredda.

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ist onoratodamen

Il capitalismo della sorveglianza

di Antonio Noviello

Dalla rivista D-M-D' N°16

eyeAbstract: in questo breve saggio parleremo del libro Il capitalismo della sorveglianza della professoressa Shoshana Zuboff[2], ricercatrice alla Harward Business School. Il libro presenta il sottotitolo: il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. La scrittrice si pone l’obiettivo di indagare in profondità lo scenario del nuovo ordine economico, derivante dallo sfruttamento dei dati prodotti consapevolmente e inconsapevolmente dalle pratiche umane associate alle nuove tecnologie. In effetti, nonostante l’enfasi nel definire un nuovo ordine economico del capitalismo, osserveremo come nelle pratiche di produzione e di sfruttamento massivo della tecnologia e dei dati e delle indubbie diseguaglianze e concentrazioni di potere, otterremo nient’altro che il capitalismo di sempre, ossia quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’atomizzazione dell’individuo e della appropriazione e concentrazione massima di plusvalore prodotto.

* * * *

Benvenuto alla macchina

Benvenuto figliolo
Benvenuto alla macchina
Dove sei stato?
Va tutto bene sappiamo dove sei stato
Sei stato nella conduttura, riempiendola in tempo
Fornito di giocattoli ed “esplorazioni per ragazzi”

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idiavoli

Riconoscere il dominio, riprendersi la vita

di I Diavoli

p9h975fu6d“Dominio”, l’ultimo libro di Marco D’Eramo, racconta di come la nuova guerra di classe – quella dichiarata dai ricchi contro i poveri, e vinta dai ricchi contro i poveri – sia stata una guerra combattuta sul piano dell’ideologia, volta a imporre la ragione neoliberale sul mondo e nella mente di ognuno di noi, lasciandoci credere all’impossibilità di un’alternativa.

Quello che dobbiamo fare, se vogliamo riprenderci una minima parte di quello che i padroni ci hanno tolto in questi anni, è comprendere come e perché siamo stati noi a darglielo. E come siamo stati pure contenti di farlo, regalando loro diritti e tutele faticosamente conquistate nel passato.

Simili agli indigeni che salutavano lo sbarco dell’uomo bianco come epifania della divinità, e a lui offrivano i migliori doni e frutti della propria terra, prima di farsela espropriare e di farsi trucidare, così noi, esseri liberi del mondo occidentale, da quando il capitalismo estrattivo ha cominciato a ricavare valore da sentimenti, emozioni e desideri, diventate lavoro tout court, abbiamo offerto noi stessi in sacrificio alle divinità neoliberali.

Ma come è potuto succedere tutto questo? «Una spiegazione», scrive Marco D’Eramo, «ce la fornisce Wendy Brown. Detta brutalmente: la vittoria della controffensiva ideologica dell’ultimo mezzo secolo, della counter-intellighentsia, non ha privatizzato solo ferrovie, scuole, sanità, eserciti, polizia, autostrade, ma ci ha privatizzato il cervello».

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exit

Il gatto, il topo, la cultura e l'economia

di Anselm Jappe

zibechi libroUna delle favole dei fratelli Grimm – immagino che siano conosciute anche in Messico – si chiama “Il gatto e il topo in società”. Un gatto convince un topo dell’amicizia che ha per lui; mettono su casa insieme, e in previsione dell’inverno comprano un vasetto di grasso che nascondono in una chiesa. Ma con il pretesto di dover andare a un battesimo, il gatto esce diverse volte e si mangia man mano tutto il grasso, divertendosi poi a dare risposte ambigue al topo su quanto ha fatto. Quando finalmente vanno insieme alla chiesa per mangiare il vasetto di grasso, il topo scopre l’inganno, e il gatto per tutta risposta mangia il topo. L’ultima frase della favola annuncia la morale: “Così va il mondo”.

Direi che il rapporto tra la cultura e l’economia rischia fortemente di assomigliare a questa favola, e vi lascio indovinare chi, tra la cultura e l’economia, svolge il ruolo del topo e chi quello del gatto. Soprattutto oggi, nell’epoca del capitalismo pienamente sviluppato, globalizzato e neoliberale. Le questioni che vuole affrontare questo “foro de arte publico”, e che vertono tra l’altro sulla questione chi deve finanziare le istituzioni culturali e quali aspettative, e di quale pubblico, deve soddisfare un museo, rientrano in una problematica più generale: quale è il posto della cultura nella società capitalistica odierna? Per tentare di rispondere, io prenderò dunque le cose un po’ più alla larga.

A parte la produzione – materiale e immateriale – con cui ogni società deve soddisfare i bisogni vitali e fisici dei suoi membri, essa crea ugualmente una serie di costruzioni simboliche.