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La fine del neoliberismo?
di Cesare Alemanni
Perché la Bidenomics è in perfetta continuità con gli obiettivi statunitensi di rinsaldare il proprio potere
Il 27 aprile scorso, al Brookings Institute di Washington, è stato pronunciato uno dei discorsi più commentati di questi anni. L’oratore non era nessuno di celebre, né un Presidente, né un leader di partito, né un Papa. Il suo nome era – è – Jake Sullivan e nella vita fa “soltanto” parte dello staff dell’amministrazione Biden. Nello specifico il discorso di Sullivan presentava le linee guida della presente e futura politica economica degli Stati Uniti (da alcuni ribattezzata Bidenomics) e tra le altre spiccavano frasi come:
La visione di investimenti pubblici che aveva dato energia al progetto americano negli anni del dopoguerra – e in effetti per gran parte della nostra Storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a una serie di idee che sostenevano il taglio delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione rispetto all’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio fine a sé stessa
E ancora:
Ora nessuno – certamente non io – sta scontando il potere dei mercati. Ma in nome di un’efficienza di mercato eccessivamente semplificata, intere catene di approvvigionamento di beni strategici, insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li hanno realizzati, si sono spostate all’estero. E il postulato che una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, era una promessa non mantenuta
Queste parole hanno spinto numerosi commentatori, anche molto autorevoli, a definire l’intervento di Sullivan come una “pietra tombale” sul neoliberismo, la “dottrina” economica a cui si imputano i problemi di (in)giustizia sociale e ridistribuzione della crescita emersi nei paesi avanzati negli ultimi decenni.
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Come cambia l’industria?
L’ultimo libro di Vincenzo Comito
di Antonio Cantaro
In un agile e documentato saggio (Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne, Roma, Futura editrice, 2023) Vincenzo Comito ci racconta come il nostro modo di produrre, di lavorare, di consumare sta cambiando in tutto il mondo. Da occidente a Oriente. Un libro d’altri tempi, che parla del nostro tempo.
L’industria sta mutando rapidamente, in Italia, in Europa e nel mondo. Le nuove tecnologie trasformano prodotti e sistemi produttivi, le attività si spostano da Occidente a Oriente, il lavoro muta profondamente, sia nella quantità che nella qualità, la questione ambientale assume un ruolo di assoluta centralità, mentre ritornano sulla scena le politiche industriali dei governi. Il volume di Vincenzo Comito analizza tutte queste trasformazioni (e le conseguenze per il nostro Paese) con riferimento all’alta tecnologia dei semiconduttori, alla transizione dell’automobile verso l’elettrico, ad una produzione di carne sempre più industrializzata.
Un libro settoriale e totale
Un libro “settoriale” e agile (una densa e trasversale introduzione, tre asciutti e essenziali capitoli), sorprendentemente “totale”, senza essere mai ideologico, come è nell’inconfondibile storytelling dell’autore, lontano da ogni accademismo e preoccupazione disciplinare. Senza alcuna falsa modestia: «Questo libro – confessa Vincenzo Comito nell’incipit – cerca, con tutte le difficoltà del caso, di analizzare le trasformazioni in atto nel campo industriale, tentando di individuare almeno alcune tra le linee di movimento principali e lo fa guardando in particolare a tre settori oggi tra i più rilevanti».
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La Cancel Culture come uso politico della Storia
di Gerardo Lisco
Secondo la definizione data dalla Treccani per cancel culture deve intendersi un «atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualcosa di offensivo o politicamente scorretto ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento.»1. Partendo dalla definizione del concetto di cancel culture, attraverso alcuni fenomeni di cancellazione culturale operata nel corso della Storia e focalizzando l’attenzione sul dibattito in corso proverò a dimostrare come la cancel culture altro non è che uso politico della Storia in funzione dell’egemonia del capitalismo neoliberale e globalista.
1) Per una recente ricerca sociologica2la cancel culture sarebbe un fenomeno strettamente statunitense legato a movimenti di protesta propri di quel Paese non presenti ad esempio in Italia. Scrive l’autrice della ricerca
«Se l’origine del termine va rintracciata in film e canzoni, la nascita del fenomeno della cultura della cancellazione è invece stata attribuita nel discorso pubblico al cosiddetto Black Twitter, un movimento cresciuto all’interno dell’omonimo social media, con l’obiettivo di dare agli/alle utenti, per lo più afroamericani, una voce collettiva sull’esperienza di essere nero negli Stati Uniti (…) Tramite hashtag #Black Twitter, queste persone si possono sentire parte di una comunità virtuale ( e non) , partecipando e commentando gli avvenimenti in tempo reale, come in una vera e propria piazza pubblica. ( …) Cancellare, allora, in questa accezione è una forma di boicottaggio (…)»3.
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Stiamo vivendo una de-dollarizzazione?
di Di Justin Podur* - Globetrotter
La de-dollarizzazione sembra arrivata, “che ci piaccia o no“, come afferma un video del maggio 2023 del Quincy Institute for Responsible Statecraft, un think tank orientato alla pace, con sede a Washington.
Il Quincy non è l’unico a parlare di de-dollarizzazione: gli economisti politici Radhika Desai e Michael Hudson ne hanno illustrato i meccanismi in quattro trasmissioni tra febbraio e aprile 2023 nel loro programma quindicinale su YouTube, “Geopolitical Economy Hour“.
L’economista Richard Wolff ha fornito una spiegazione di nove minuti su questo argomento sul canale Democracy at Work. Dall’altra parte, media come Business Insider hanno assicurato ai lettori che il dominio del dollaro non è destinato a scomparire.
Il giornalista Ben Norton ha riferito di un’audizione bipartisan di due ore tenutasi al Congresso il 7 giugno: “Dollar Dominance: Preserving the U.S. Dollar’s Status as the Global Reserve Currency“, sulla difesa della valuta statunitense dalla de-dollarizzazione. Durante l’audizione, i membri del Congresso hanno espresso sia ottimismo che ansia per il futuro del ruolo supremo del dollaro. Ma cosa ha spinto questo dibattito?
Fino a poco tempo fa, l’economia globale accettava il dollaro come valuta di riserva mondiale e valuta delle transazioni internazionali. Le banche centrali di Europa e Asia avevano un appetito insaziabile per i titoli del Tesoro americano denominati in dollari, che a loro volta conferivano a Washington la capacità di spendere denaro e finanziare il proprio debito a volontà.
Se un Paese avesse sgarrato politicamente o militarmente, Washington poteva sanzionarlo, escludendolo dal sistema di commercio globale denominato in dollari del resto del mondo.
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La “Modern supply-side economics” e il “New Washington consensus”
di Michael Roberts*
Il mese scorso, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, ha illustrato la politica economica internazionale dell’amministrazione statunitense. Si è trattato di un discorso cruciale, perché Sullivan ha spiegato quello che viene definito il “New Washington consensus” sulla politica estera degli Stati Uniti.
Il Washington Consensus originale era un insieme di dieci prescrizioni di politica economica considerate come il pacchetto di riforme “standard” promosso per i Paesi in via di sviluppo in crisi da istituzioni con sede a Washington, come il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale e il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti.
Il termine è stato usato per la prima volta nel 1989 dall’economista inglese John Williamson.
Le prescrizioni comprendevano politiche di promozione del libero mercato, come la “liberalizzazione” del commercio e della finanza e la privatizzazione dei beni statali. Comportavano anche politiche fiscali e monetarie volte a ridurre al minimo i deficit fiscali e la spesa pubblica.
Si trattava del modello politico neoclassico applicato al mondo e imposto ai Paesi poveri dall’imperialismo statunitense e dalle istituzioni ad esso alleate.
La chiave era il “libero commercio” senza dazi e altre barriere, il libero flusso di capitali e regolamentazioni minime – un modello che andava specificamente a vantaggio della posizione egemonica degli Stati Uniti.
Ma le cose sono cambiate dagli anni ’90, con l’ascesa della Cina come potenza economica rivale a livello globale e il fallimento del modello economico internazionale neoliberista e neoclassico nel garantire la crescita economica e ridurre le disuguaglianze sia tra le nazioni che al loro interno.
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Critica sociale e teoria di classe
Sulla necessità di riformulare la nostra concezione di lotta sociale
di Julian Beuwirth
In questi ultimi anni, la categoria di «classe» è tornata ad assumere grande importanza nelle discussioni circa la direzione della critica sociale emancipatrice, e sull'orientamento delle lotte sociali. La rinascita della politica di classe viene vista come se fosse una grande opportunità per riuscire a dare una definizione più precisa di quelli che sono i meccanismi di dominazione sociale, e al fine di una radicalizzazione delle lotte sociali. Tuttavia, a un esame più attento, il termine sembra poco adatto a questi due aspetti. E per poter svolgere i necessari dibattiti, nel contesto del Capitalocene, si rende pertanto necessario un altro paradigma
La classe e la critica del capitalismo
L'importanza che il concetto di classe riveste nell'attuale fase della teoria e della prassi della sinistra ha, per gli attori, un significato socio-psicologico che non deve essere sottovalutato. Da un lato, esso indica la (presunta) subordinazione alle condizioni sociali. È chiaro che noi non siamo semplicemente degli esseri umani (come pretende l'ideologia liberale), ma piuttosto degli «esseri umani sottomessi». E lo siamo in base al principio di «classe», che ogni individuo interpreta e intende in maniera diversa. Il termine serve a cercare di rendere comprensibile la sofferenza causata dalla società; eppure allo stesso tempo non riesce a spiegare molto (dal momento che con tale termine ciascuno intende qualcos'altro). Però, allo stesso tempo, il principio di «classe» contiene simultaneamente anche un principio e un motore che guida l'azione. Infatti, dato che in realtà l'assoggettamento non ci riguarda come individui, ma piuttosto in quanto membri di un gruppo assai ampio (la «classe»), ecco che da questo ne possiamo trarre una capacità di azione collettiva.
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Emergenzialismo, fase suprema del tecno-capitalismo
di Salvatore Bianco
“Solo se ciò che c’è si lascia pensare come trasformabile, allora ciò che c’è non è tutto”
T.W. Adorno, Dialettica negativa
Tra gli esiti più rilevanti della interminabile pandemia c’è sicuramente quello di aver normalizzato nelle società occidentali lo stato di emergenza, interiorizzato dai più come abitudine e senso comune.
E’ infatti accaduto che una condizione per definizione temporanea quale per l’appunto lo stato di emergenza, in ragione di un evento improvviso da fronteggiare in un tempo delimitato, per effetto della continua reiterazione giustificata dal persistere dell’urgenza in gioco, ha prodotto via via un governo dell’emergenza. Nella sua orbita, la certezza del diritto ha lasciato il posto ad una congerie di provvedimenti di urgenza e misure amministrative, con forza di legge, in continua fluttuazione. Si è andata componendo via via un’alterazione strutturale dell’ordinamento in senso discrezionale ed amministrativo, con un definitivo sbilanciamento a favore dell’esecutivo e di poteri estranei all’architettura istituzionale, con la figura sempre più ricorrente del Commissario straordinario, a scapito del legislativo e dunque in ultima istanza della sovranità democratica quale suo fondamento[1].
Ora, la tesi che si intende argomentare è che l’emergenzialismo nel frattempo riconfermatosi con la guerra in Ucraina, lungi dall’essere una traiettoria accidentale, sia la perversa contromisura, in ambito politico, posta in essere da un tardo capitalismo sempre più contraddittorio.
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Fordismo, postfordismo, digitalizzazione: l'orizzonte strategico del capitalismo
Antonio Alia intervista Enzo Rullani
Quando si tratta di comprendere le trasformazioni del capitalismo, non si può fare a meno della ricerca e dello sguardo teorico di Enzo Rullani. Economista e Senior Researcher alla Ca' Foscari, autore di molti e importanti volumi, è stato tra i primi e tra i più acuti studiosi ad afferrare i nodi sociali, economici e politici del passaggio, a cavallo degli anni Ottanta, dal paradigma fordista a quello postfordista. In questa intervista, che ci ha gentilmente concesso e che va collocata all'interno della ricerca sui decenni perduti inaugurata da Machina, Enzo Rullani ripercorre quella transizione che, per le organizzazioni rivoluzionarie dell'epoca, rappresentò un problema irrisolto con cui ancora oggi abbiamo la necessità di confrontarci. Per quali ragioni il capitale riuscì a integrare, a loro discapito, quegli stessi operai che fino a poco tempo prima avevano dato vita al più importante ciclo di lotta di classe del Novecento in Europa, ed espresso tra le più radicali forme di rifiuto del lavoro? Perché il protagonismo rispetto al proprio destino, da rifiuto di classe del destino capitalistico, si è trasformato in sua entusiastica accettazione individualistica? Una pista che può valere la pena di seguire è quella che Enzo Rullani indica con il concetto di «ri-personalizzazione delle imprese e del lavoro», un processo che segna ancora oggi il rapporto con il lavoro di una fetta consistente della composizione sociale. La ricerca di una risposta a queste domande non va però intesa come un semplice esercizio storiografico, bensì come la condizione per uscire, oggi, dall'impasse politica in cui ci troviamo, pur con la consapevolezza che altre trasformazioni (come la digitalizzazione), nel frattempo, sono sopraggiunte. Di fronte a esse, la ricostruzione della loro genealogia e l'individuazione di un orizzonte strategico sono le due condizioni per evitare il rischio del «presentismo», come viene sapientemente chiamato nell'intervista, e per rovesciare le tendenze dello sviluppo che, come scrive ancora Rullani, non hanno nulla di necessario.
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Neoliberismo, Pil e gli stereotipi dell’informazione
di Giovanni Dursi
«L’economia britannica è ora come l’Italia e la Grecia in termini di rischio per gli investitori, e i politici non sono stati onesti rispetto ai problemi che la nazione deve affrontare», denunciava il conservatore Daily Mail, giudizio immediatamente rilanciato, 18 Ottobre 2022, e commentato da Ugo Tramballi su Il Sole 24ore [1].
Nell’incipit, l’analista tra l’altro riferiva: «Narendra Modi aveva annunciato che l’India era diventata la quinta potenza economica mondiale. Come dato statistico assoluto, non per Pil pro capite. Ma, aveva annunciato il premier, la cosa più importante era che l’India avesse superato la Gran Bretagna.[…]».
Come è facile constatare, in Europa ed altrove nel mondo, l’ansia per le convulsioni economico-finanziarie, presunte o reali, è generata quotidianamente dai media preposti, old and new, al presidio informativo quotidiano con ricorrenti riferimenti che immaginano d’essere chiari e persuasivi, ma che di fatto sono utili stereotipi [2].
Perché questo accade è presto detto: il “mondo” è caratterizzato da una sempre più imprescindibile interdipendenza economica dagli Stati nazionali la cui governance risiede in una sostanziale “regia” delle grandi imprese multinazionali, in grado di “radicarsi nei territori”, grazie anche alle “delocalizzazioni”, con minori costi generali e con possibilità tecniche e finanziarie di presidiare tutto l’andamento produttivo e distributivo prevalentemente “da remoto”.
L’inerente informazione è strategicamente indispensabile a quel “presidio” rendendolo accettabile, è essenziale all’affermazione delle forme di “globalizzazione economica” in corso, come ha efficacemente impostato, pioneristicamente, la disamina in merito al funzionamento ed alle finalità della corrente “produzione politica delle menzogne” e dettagliatamente esplorato Vladimiro Giacché [3].
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«In Francia, il neoliberalismo diventa violento e autocratico»
Mathieu Dejean e Romaric Godin intervistano David Harvey
Intervista al geografo ed economista David Harvey, uno dei marxisti più influenti della nostra epoca, sullo stato del capitalismo, la sinistra francese e l’importanza del pensiero di Karl Marx
Harvey è una delle figure più importanti del marxismo contemporaneo. Di passaggio a Parigi, ha incontrato, il 12 aprile, su invito dell’Institut La Boétie, Jean-Luc Mélenchon. Grande critico del capitalismo, instancabile portatore del pensiero di Karl Marx, geografo pensatore degli effetti concreti del capitale sullo spazio, questo britannico di 88 anni è da sempre un attento osservatore della realtà economica, sociale e geografica.
A margine di questo incontro e di una serie di altri interventi in Francia, David Harvey ha accettato di rispondere alle domande di Mediapart sullo stato attuale del capitalismo, il suo rapporto con l’ex candidato de La France insoumise (LFI) alle elezioni presidenziali, e di Marx.
* * * *
Mediapart: La tua riflessione sul capitalismo include un’importante teoria delle crisi. Dal 2020 sembra aprirsi una nuova crisi, che ha appena vissuto un nuovo episodio con quella bancaria. Cosa pensi rispetto allo stato attuale del capitalismo?
David Harvey: Vorrei isolare alcuni fatti per rispondere a questa domanda. Il primo è che è molto difficile immaginare oggi quale potrebbe essere il futuro del capitalismo perché non è chiara la direzione che prenderà la Cina, che è un attore cruciale. La mia visione è che la Cina abbia consentito al capitalismo, nel 2007-2008, di evitare una depressione paragonabile a quella degli anni 30. Da allora e prima dell’arrivo del Covid, la Cina ha rappresentato circa un terzo della crescita globale, che è più del Regno Unito Stati ed Europa messi insieme. Quindi è impossibile, nelle attuali circostanze, prevedere la direzione che prenderà il capitalismo senza conoscere la direzione che prenderà la Cina.
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Il neoliberismo espropriativo della morte e della vita
di Elisabetta Teghil
Lì si era rivelato un sistema di classe così perfettamente a punto che era restato per lungo tempo invisibile.
Colette Guillaumin
Si fa un gran parlare della GPA, la così detta gravidanza per altri, come se fosse un problema a sé stante e viene affrontato dal punto di vista morale, etico, religioso, politicamente corretto, o dal punto di vista dello sfruttamento di classe e di quello neocoloniale…c’è chi si batte in maniera agguerrita per la famiglia tradizionale e chi per le famiglie arcobaleno, chi tira in ballo la sacralità della maternità, chi lo vuole affrontare dal punto di vista giuridico e creare una legislazione ad hoc per tutelare la donna che porta avanti la gravidanza e/o i diritti del nascituro e/o per definire contratti che tutelino quelle che vengono chiamate parti in causa…
Ma ci si dimentica sempre che la questione è politica e come tale va affrontata e quindi bisogna andare qualche anno indietro.
Il sistema di potere si è appropriato ormai da tempo della morte con la così detta morte cerebrale, una morte dichiarata a tavolino, dallo Stato, per Legge.
Il concetto di morte cerebrale è stato introdotto nel mondo scientifico in contemporanea ai primi espianti-trapianti di organi nella storia della medicina. Chiaramente travestito come da copione da eccellenti motivazioni, per salvare vite umane, per il bene comune. La maggior parte degli organi non può essere prelevata da cadavere, per cui i criteri di accertamento della morte non consentivano questo tipo di interventi. L’introduzione del concetto di morte cerebrale forniva una legittimazione scientifica per poter effettuare i trapianti.
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Elon Musk e l’Appello del capitalismo contro la scienza e contro la Cina
di Fosco Giannini
Nel marzo 2023 il “Future of Life Institute” lancia un Appello attraverso il quale oltre mille accademici, intellettuali, tecnici e imprenditori delle tecnologie digitali, in buona parte nordamericani, denunciano, per ciò che specificatamente riguarda l’Intelligenza Artificiale (Ai), “seri rischi per l’umanità”.
Innanzitutto: che cos’è il “Future of Life Institute”? È “un’associazione di volontariato impegnata a ridurre i rischi esistenziali che minacciano l’umanità, in particolare quelli che possono essere prodotti dall’Intelligenza Artificiale”. Un’associazione molto americana e con sede a Boston, e la doppia notazione potrà essere utile in sede di analisi dell’Appello che lo stesso “Future of Life Institute” ha lanciato.
L’Appello, all’interno della propria denuncia generale, chiede una moratoria di sei mesi per ciò che riguarda la ricerca relativa al sistema di Ai denominato Gpt4, un sistema ancor più sofisticato e potente rispetto al già rivoluzionario sistema ChatGpt. Quest’ultimo, acronimo di Generative Pretrained Transformer, è sinteticamente definito, dagli scienziati, come “uno strumento di elaborazione del linguaggio naturale che utilizza algoritmi avanzati di apprendimento automatico per generare risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso”. Nell’essenza: il ChatGpt è definibile come un mezzo tecnologico dell’Ai volto alla costruzione di una relazione più attiva tra macchina ed essere umano. Mentre il nuovo Gpt4 è definito sinteticamente dalla letteratura scientifica come “un modello linguistico multimodale di grandi dimensioni, un modello di quarta generazione della serie GPT-n”. Un modello creato da OpenAi, un laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale con sede a San Francisco, con Elon Musk come co-fondatore.
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Dominio e ricatto del capitalismo finanziario
Antonio Minaldi intervista Andrea Fumagalli
Dominio e sfruttamento nel capitalismo del XXI° secolo è un volume pubblicato da poco di cui consigliamo la lettura. Curato da Antonio Minaldi e Toni Casano (Ed. Multimage, 2023), il testo raccoglie i contributi di studiosi e militanti politici ad un ciclo di dibattiti su cinque grandi questioni: antropocene e capitalocene; il capitalismo della sorveglianza; il capitalismo della produzione immateriale; dominio e ricatto del capitalismo finanziario; imperi, guerra e destini del mondo. Pubblichiamo di seguito l’importante intervista sul capitalismo finanziario che Antonio Minaldi ha condotto con Andrea Fumagalli.
* * * *
Abbiamo il piacere di ospitare il professor Andrea Fumagalli. Con lui parleremo di economia. Tema ostico per molti, ma di cui dobbiamo necessariamente occuparci, perché da questioni come finanza, inflazione, debito pubblico dipende in gran parte la nostra vita. Il primo punto di cui ci occuperemo è quasi obbligato, e riguarda la guerra. Chiederei al prof. Fumagalli, anzi direi al compagno Andrea, di spiegarci che cos’è che sta cambiando, e cosa cambierà nel medio lungo periodo, con la guerra in Ucraina e col passaggio da un mondo unipolare a un mondo bipolare o più probabilmente multipolare. Ricordiamo che globalizzazione, crisi dello Stato nazione e libera circolazione delle merci e dei capitali per noi sono stati, in questi anni, cose quasi scontate. Ma forse non è più così!
Iniziamo con una doverosa premessa. Il capitalismo attuale è caratterizzato dal susseguirsi di crisi sistemiche, sia che si tratti di crisi indotte dall’instabilità finanziaria oppure da tensioni geopolitiche o da eventi sindemici.
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Capitalismo senile e demolizione controllata
di Fabio Vighi
Su quali principi si regge il capitalismo senile? Ne elencherò cinque in modo sommario, per poi discuterne gli intrecci:
1. Debito. L’unica strada verso il futuro del capitalismo continua a essere lastricata di programmi di creazione di liquidità. Creare denaro dal nulla, per metterlo in moto come credito, è l’unica strategia monetaria che ci permette di ignorare l’abisso che già si spalanca sotto i nostri piedi – come per il personaggio dei cartoni animati che, finito oltre il precipizio, continua a correre a mezz’aria sfidando la gravità. Tuttavia, come dimostra l’attuale violenta ondata inflazionaria – ancora in doppia cifra in Europa – l’attrazione gravitazionale è ormai irresistibile.
2. Bolle. Le bolle speculative, alimentate dal moto perpetuo del credito, costituiscono l’unico significativo meccanismo di produzione di ricchezza. Per questo motivo, la sola preoccupazione dei gestori del “capitalismo di crisi” è impedire la deflagrazione della mega-bolla. Ma mentre l’ultra-finanza distrugge la “società del lavoro”, la vita umana diventa eccedenza inutilizzabile, enorme surplus non-produttivo da amministrare creativamente.
3. Demolizione controllata. Dumping salariale e concorrenza al ribasso per posti di lavoro devastati dall’automazione tecnologica sono l’altro lato del paradigma di bolla. Affinché i mercati speculativi possano continuare a levitare, la società fondata sul lavoro (articolo 1 della Costituzione italiana) dev’essere gradualmente ma radicalmente ridimensionata, poiché l’attuale ipertrofia finanziaria richiede la demolizione della domanda reale. Detto diversamente, il “capitalismo dei consumi” si ricicla nel “capitalismo della gestione della miseria collettiva”, con annesso cambio di narrazione ideologica.
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Gli squilibri che affossano un mondo “in transizione”
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
Il neoliberismo – come teoria economica, ma soprattutto come modello strutturale di funzionamento del capitalismo euro-atlantico (il principale dei “capitalismi” esistenti) – è in crisi radicale. Ma sopravvive nella “narrazione mediatica” perché ha ancora un’utilità residuale: consente di mantenere ai minimi la dinamica salariale dei lavoratori dipendenti e di demolire anche gli ultimi residui di welfare (la sanità, in primo luogo).
Fuori da questo ambito ristretto, ai piani alti della governance transatlantica è stato soppresso silenziosamente: si fa in altri modi, si raccontano le stesse sciocchezze.
Detto altrimenti, non è più tabù l’”intervento pubblico nell’economia”. Anzi è richiestissimo. Che questo intervento sia agito da uno Stato imperiale come gli Usa, oppure da un insieme di Stati uniti da trattati vincolanti ma sempre più minati da “eccezioni” presentate come “temporanee” (l’Unione Europea, insomma), non fa moltissima differenza.
Anche questa non è una novità. Quando i mitici “mercati finanziari” rischiarono il tracollo, tra il 2007 e il 2009, l’intervento pubblico fu colossale, inducendo addirittura l’ex presidente della Banca Mondiale, Joseph Stiglitz, a parlare di “socialismo per ricchi”.
Quello schema sembra ora confermato di fronte alle necessità della cosiddetta “transizione ecologica”, che induce anche i governi meno propensi a “programmare” interventi economici o produttivi a farsi promotori di finanziamenti consistenti per orientare le scelte delle imprese più grandi (le “locomotive” che dovrebbero poi trascinare intere filiere produttive verso una produzione ambientalmente più sostenibile).
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata

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Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

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