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dinamopress

Gli economisti non sanno più contare

B.Quattrocchi e V.Bilancetti intervistano Christian Marazzi

Dietro la modesta ripresa economica interrotta dal susseguirsi di flash crash dei mercati finanziari, si nasconde l’incapacità dei modelli economici dominanti di leggere la realtà. Sullo sfondo, la svolta autoritaria del neoliberismo

f draghi a 20170428 870x523Dopo un lungo periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari a inizio febbraio si sono manifestate delle nuove turbolenze. Sono state fornite diverse spiegazioni contrastanti sull’origine di questo flash crash. I più pessimisti parlano dell’inizio di una nuova ondata di crisi, altri dicono che è il risultato di una ‘eccessiva autonomia’ degli algoritmi che controllano oltre il 60% delle transazioni nelle borse mondiali e sono capaci di determinare vere e proprie profezie auto-avveranti, altri analisti invece – e questo è il dato più interessante – spiegano la volatilità dei mercati con la ripresa dei salari in Usa e con l’accordo salariale che l’IG Metal ha raggiunto in Germania. Ne abbiamo parlato con Christian Marazzi, economista, docente presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana.

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Partiamo da questi dati sui salari americani, che hanno non poco contribuito a far precipitare le borse, anche se in modo circoscritto. Questi dati si riferiscono solo all’ultimo trimestre, quello precedente a febbraio, eppure questa informazione è stata trascurata nel dibattito. Leggendo questi dati sull’innalzamento dei salari bisogna tenere in considerazione che nei mesi invernali i lavoratori a bassi salari non lavorano o lavorano meno. Basti pensare al settore dell’edilizia, l’indice è salito, perché è aumentata la parte dei salari medio alti. Gli algoritmi sono scattati sulla base di questo dato distorto, una sorta di fake news, che però ha fatto partire una serie di reazioni a catena “come se” i salari americani fossero veramente aumentati.

C’è stato, dunque, un problema di interpretazioni dei dati sull’aumento dei salari. Se si fossero calcolati i salari sugli ultimi dodici mesi, e non solo sugli ultimi tre, non ci sarebbe stata nessuna “paura sui mercati”, perché in realtà i salari sono rimasti stagnanti e non c’è alcun rischio di inflazione.

C’è però un problema più ampio su come calcolare l’inflazione. Questo dei salari invernali è un esempio che ci fa rendere conto del fatto che gli economisti non sono più in grado di calcolare l’inflazione. Questo perché ci sono una serie di scambi “gratuiti” che non riescono a rientrare nel calcolo dell’inflazione. Facciamo l’esempio dello scambio dei dati online, uno scambio che avviene in modo completamente “gratuito e consensuale”, su cui però le imprese sono in grado di capitalizzare e trarne profitti. Lo stesso vale per la questione del lavoro gratuito, che si è molto espanso, rendendo da un lato difficoltoso il calcolo della produttività, e dall’altro il calcolo dell’indice dei prezzi, cioè l’inflazione. Questo significa che non siamo in grado di calcolare una parte di produzione del valore perché non è riconosciuta monetariamente.

Questo problema del calcolo, ci porterà ad avere ulteriori flash crash, oltre quello del 5 febbraio, mini crisi borsistiche, che hanno delle conseguenze importanti, in primo luogo proprio sul piano dei salari. Infatti, chi perde in borsa si rifà esattamente sui salari dei propri dipendenti: una sorta di riflessività al contrario.

Lo stesso vale per l’accodo dell’IG Metal in Germania, se questo è un accordo che lascia fuori tutti i lavoratori precari o interinali, non stiamo parlando di un innalzamento dei salari, ma di un ulteriore strumento di divisione della classe operaia, in una parte più garantita e una parte senza tutele.

Quindi, rimane oggi irrisolto il rapporto tra salari e inflazione, occupazione e disoccupazione. Oggi, più diminuisce la disoccupazione più diminuiscono i prezzi, c’è un’inversione della curva di Phillips in corso. Però i programmi che si utilizzano per gli investimenti sono basati su questi modelli, come la curva di Phillips, che al momento non sono in grado di leggere la realtà.

 

Si è probabilmente alle soglie di un cambiamento nel regime di politica monetaria, dopo che le principali banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità. La FED ha chiuso con il QE iniziando a rialzare i tassi di interesse, la BCE “rallenta” i suoi programmi espansivi. A questo si aggiungono i cambi al vertice delle due banche centrali: negli Usa Jerome Powell è recentemente subentrato a Janet Yellen, mentre a novembre del prossimo anno scadrà anche il mandato di Draghi alla BCE.  Quali scenari si aprono?

Le politiche monetarie si stanno restringendo in maniera molto graduale, questo era in qualche modo inevitabile dopo dieci anni, però con un precedente molto importante, quello del 2013, quando si era annunciata la restrizione delle politiche monetarie e tutto ha rischiato nuovamente di crollare. Questa lentissima restrizione delle politiche monetarie insieme ai flash crash rappresentano bene la fragilità dei mercati finanziari. Si vogliono restringere le politiche monetarie ma sulla base di indicatori poco fondati, come quello dei salari, come abbiamo visto. In realtà, le banche centrali rimangono pronte a ritornare a politiche espansive di fronte alla fragilità e volatilità dei mercati finanziari.

Sembra che all’interno del mainstream si parli sempre più di rado di “stagnazione secolare”. L’ordine del discorso appare mutato. Adesso l’attenzione si è spostata su questi contraddittori e fragili segnali di crescita. Come si spiega?

In passato abbiamo anche noi affrontato il discorso sulla stagnazione secolare, perché ci sembrava che caratterizzasse bene la situazione segnata da calo della domanda globale, o meglio, dalla contraddizione tra una elevata deflazione sul piano dell’economia reale e una altrettanto forte inflazione finanziaria.

L’orizzonte è probabilmente cambiato da quando nel 2012, si è iniziato a registrare un nuovo aumento dell’indebitamento privato, principalmente delle imprese, poi estesosi ai consumatori americani. I bassi tassi di interesse, da una parte, hanno favorito l’indebitamento delle imprese, dall’altra, hanno reso possibile impiegare i profitti realizzati e la liquidità in eccesso per compiere operazioni di buy-back, ossia ricomprare le proprie azioni sul mercato finanziario allo scopo di spartirsi i dividendi. La stessa riforma fiscale di Trump ha finito per favorire questo genere di condotta da parte delle imprese, non a caso, secondo alcune stime, più del 25% degli sgravi fiscali sarà utilizzato nel riacquisto dei propri titoli azionari.

In questo nuovo quadro il concetto di stagnazione secolare, come dite voi, è stato accantonato, perché al momento sono concentrati su quello che appare come una ripresa. Anche se io sostengo che si tratti comunque di una ripresa fragile, basata sull’indebitamento privato, nonostante il fatto che non siamo ancora ai livelli pre-crisi. Il che mi fa pensare che questo capitalismo è strutturalmente fondato sulla logica dell’indebitamento.

Oltre a quelle che ci hai appena descritto, quali sono le altre fragilità che si celano dietro questa debole ripresa economica?

Da circa due mesi ci si aspettava una rivalutazione del dollaro. La riforma fiscale di Trump, basata sull’idea di rimpatriare i profitti, avrebbe dovuto comportare una rivalutazione della moneta americana. Il punto è che questo effetto non c’è stato.

Tenete conto che una rivalutazione del dollaro sarebbe un serio problema principalmente per i Paesi emergenti, per i quali più dell’80% del debito delle imprese e degli Stati è espresso in dollari.

Le ragioni di questa mancata rivalutazione sono ancora poco chiare. Intanto, mi è parso di cogliere che i profitti delle imprese americane sono già in dollari e dunque, un afflusso di capitali dall’estero comporta una ridotta pressione sul cambio del dollaro. C’è poi una seconda spiegazione, che attiene alla diminuzione del peso del dollaro nel paniere delle valute di riserva. Fino ad un paio di anni fa il peso del dollaro sul totale del paniere, si aggirava intorno al 62%. Si tratta di un calo considerevole se si considera che venti anni fa, questo stesso dato si aggirava intorno all’85%. Adesso, non sarei sorpreso se questo indice fosse sceso anche al di sotto del 60%. Il che ci aiuterebbe a spiegare questa più bassa correlazione tra tassi di interesse americani e valore del dollaro.

Dopo un primo ciclo di lotte anti-austerity, stiamo assistendo all’affermazione di quello che su Dinamo press abbiamo definito un ciclo reazionario globale e che nella politica economica degli Stati sta assumendo da un lato una retorica protezionista e nazionalista, e dall’altro si manifesta con il sostegno a politiche fiscali inique o persino regressive e con l’applicazione di un welfare sempre più autoritario. Prima di tutto volevamo chiedere: è veramente così, cioè, questa svolta protezionista esiste veramente o al momento è principalmente una retorica? E quindi, come si delinea da un punto di vista delle politiche economiche la svolta autoritaria della governance neoliberale?

La svolta protezionista degli Usa, con la recente firma di Trump a favore di dazi tariffari per acciaio e alluminio, prima ancora di avere una rilevanza sul piano reale, rappresenta evidentemente una svolta sul piano retorico. Si va affermando un nuovo orizzonte linguistico che è parte integrante del cambiamento a cui assistiamo.

Sul piano reale, al momento, questi dazi all’importazione di tipo selettivo introdotti da Trump, stanno spaventando soprattutto le istituzioni sovranazionali. Retoricamente nascono come politiche volte a proteggere le produzioni nazionali contro l’importazione cinese, ma paradossalmente a guadagnarci saranno propri i cinesi, che rafforzeranno i loro legami commerciali con l’Europa. In realtà è dal 2003 in poi, dalla guerra in Iraq, per non parlare del 2008, che gli Usa hanno messo in campo politiche che hanno finito per avvantaggiare la Cina. In tutto questo vedo un serio pericolo di balcanizzazione dell’economia mondiale. È vero che noi siamo sempre stati critici della globalizzazione, ma questa è un de-globalizzazione da destra, anche perché francamente non so bene come ci possa essere una de-globalizzazione da sinistra. Di sicuro questa di Trump è un’operazione che va totalmente nella direzione sovranista.

Come si coniuga la de-globalizzazione di questi settori con l’economia finanziaria?

Quello che si è visto dopo la firma a queste misure, a parte qualche piccolo crollo, nei mercati finanziari rientra tutto in modo estremamente rapido. Ad esempio, mi ha molto colpito la posizione espressa da un analista del Financial Times, secondo il quale l’unico modo per mitigare questa de-globalizzazione trumpiana, sarebbe quello di auspicare una più pronunciata crisi finanziaria. È come se l’economia finanziaria fosse così globalizzata da poter sopportare una de-globalizzazione della cosiddetta economia reale.

L’ipotesi del ciclo reazionario globale, sembra essere confermata anche dai risultati delle elezioni italiane, cosa ne pensi al riguardo?

Guardiamo al risultato del M5S e alla loro proposta di “reddito di cittadinanza”. Mentre, da un lato, affermano la necessità di una maggiore spesa pubblica e di politiche redistributive, dall’altro, ipotizzano la formazione di uno stato maggiormente autoritario. Leggevo che il M5S ha raccolto diversi voti proprio tra i funzionari dell’amministrazione pubblica. Non è un dato da sottovalutare, perché se così è, ci sarebbe un consenso dall’interno dello Stato a questo rafforzamento in senso autoritario delle istituzioni del welfare. Noi in questi anni abbiamo discusso del reddito di base non come un veicolo di disciplina della forza lavoro, ma al contrario come strumento per la liberazione da uno sfruttamento che oggi è insopportabile. Quando all’inizio dell’intervista abbiamo affrontato i problemi legati al concetto di inflazione o costo del lavoro, questi stessi problemi vanno riletti alla luce di un altro elemento, che è la centralità della gratuità. C’è una quantità sterminata di attività svolte nella sfera della riproduzione che sono produttive di valore ma che non vengono riconosciute.

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