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sinistra

Il neoliberismo non è una teoria economica

Seconda parte* (Qui la prima parte)

di Luca Benedini

Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE

hayek 1160x653Sulla mancanza di effettive giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità antipopolare previsti da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la sostanziale assenza di concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o addirittura del tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare vantaggi economici a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.

Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).

E tanto meglio se a quell’autentico approccio keynesiano si fossero aggiunti anche più recenti sviluppi operativi nel campo delle politiche economiche, come il microcredito, l’approfondimento della nozione di “beni comuni”, la green economy – cioè, in pratica, l’economia ecologicamente sostenibile – e la globalizzazione non solo dell’economia in senso stretto ma anche di ulteriori aspetti quali, innanzi tutto, i diritti e le retribuzioni dei lavoratori (come sostenuto p.es. da un organismo collegato alle Nazioni Unite come l’Organizzazione internazionale del lavoro), una fiscalità ispirata a criteri di progressività col crescere del reddito personale (criteri previsti p.es. dall’art. 53 della Costituzione italiana) e appunto la sostenibilità ambientale (sostenuta a sua volta anche da agenzie dell’Onu come specialmente lo United Nations Environmental Programme). Più in generale, le prospettive a questo proposito dovrebbero essere quelle di arrivare a un coordinamento internazionale delle iniziative pubbliche o comunitarie miranti a occuparsi efficacemente di ciascuno dei vari “fallimenti del mercato”.

Oltre tutto, nella posizione dei sostenitori dell’austerità vi sono anche delle profondissime contraddizioni specifiche, in aggiunta a quelle già citate riguardanti in generale l’orientamento neoliberista.

 

1. Tra finanzieri e lavoratori

Una prima colossale contraddizione specifica appare avere come sua manifestazione più emblematica proprio le vicende irlandesi, greche, spagnole e portoghesi, oltre a quelle di un altro paese dell’UE come Cipro [18]: mentre i vertici di UE e Fmi tengono costantemente nel loro mirino la spesa pubblica rivolta direttamente o indirettamente ai ceti bassi e medio-bassi, in tali vicende quei vertici hanno praticamente costretto i governi dei paesi in questione a espandere nettamente la spesa pubblica (giungendo anche a dei deficit di bilancio colossali) per coprire una serie di incauti “investimenti a rischio” attuati da degli istituti bancari e finanziari. Come ha riassunto p.es. Antonio Foglia in Quelle Banche in Germania salvate da noi Europei (Corriere della Sera, 12 gennaio 2014), «il sistema bancario tedesco, a furia di erogare [all’estero, N.d.R.] credito che andava a finanziare anche le bolle immobiliari in Spagna e Irlanda (ma anche in Usa, tanto che la prima banca saltata nella crisi dei Subprime fu la tedesca Ikb nel 2007) si ritrovò nel 2008 esposto per più di 900 miliardi di euro verso i Paesi della periferia dell’eurozona. Cifra pari a oltre due volte e mezzo il capitale totale delle banche tedesche» [19]. Diretta all’epoca da Jean-Claude Trichet, «la Banca centrale europea (Bce) fece imporre a Paesi come l’Irlanda, che avevano finanze pubbliche perfettamente sane, di rovinarle per salvare il proprio sistema bancario. A vantaggio anche delle banche estere creditrici che poterono rientrare dai crediti facili erogati» (erano banche soprattutto tedesche, per l’appunto, ma anche di altri paesi come principalmente la Francia). E «anche gli altri Paesi dovettero garantire i propri sistemi bancari, peggiorando il proprio merito di credito sovrano e quindi indebolendo ulteriormente il loro sistema bancario carico di obbligazioni dello stesso Stato».

In quegli anni lo Stato irlandese, su richiesta della direzione della Bce e in seguito anche della Commissione europea (che comunque approvò sempre ognuna delle scelte delle pubbliche istituzioni irlandesi sulla questione), investì soldi pubblici per un ammontare complessivo di almeno 350 miliardi di euro per coprire sostanzialmente i buchi di bilancio delle banche del paese, e ciò principalmente allo scopo di evitare che banche di altri paesi soffrissero per i propri incauti prestiti alle banche irlandesi: secondo i dati ufficiali dell’UE, 65 miliardi furono usati per ricapitalizzare le banche e/o per acquistare da loro a un prezzo loro favorevole titoli di credito deteriorati, mentre almeno 285 miliardi vennero impegnati per fornire garanzie alle loro obbligazioni, ai depositi bancari e ad altre loro forme di debito. Un tale ammontare – mobilitato dal governo irlandese nell’arco di circa tre anni – corrisponde a circa il 224% del prodotto interno lordo (Pil) irlandese del 2011...! Ne conseguì ovviamente, da parte del governo irlandese, la richiesta di un grosso prestito, rivolta a UE e Fmi. Su una scala minore, fatti analoghi sono successi in Spagna e a Cipro, Stati che come l’Irlanda hanno finito col dover chiedere prestiti a UE e Fmi per riuscire a salvare con soldi pubblici – in base alle indicazioni della Commissione europea e della Bce – alcune banche del proprio paese (o meglio, i loro più ricchi correntisti, i solitamente ricchi detentori di loro obbligazioni non garantite e/o i loro eventuali fornitori di crediti interbancari...). E ogni volta questi prestiti sono stati anche utilizzati dai vertici dell’UE e del Fmi per imporre a questi paesi condizioni-capestro estremamente antipopolari, impostate su pesanti forme di austerità, di svuotamento dello “Stato sociale” e di riduzione dei diritti dei lavoratori, accompagnate poi di fatto sistematicamente da un netto aumento nazionale della povertà e della disoccupazione. Cose non dissimili sono avvenute anche in Grecia e in Portogallo, dove delle combinazione di malgoverno, crisi bancarie e pressioni speculative internazionali hanno innescato difficoltà finanziarie statali che UE e Fmi hanno analogamente pilotato verso prestiti accompagnati da austerità, svuotamento dello “Stato sociale”, ecc.. Specialmente in Grecia, di fianco a tutto questo sono state imposte anche delle privatizzazioni forzate e un’ampia svendita di beni pubblici: provvedimenti estremamente graditi alla grande finanza internazionale, che ha avuto così la possibilità di accaparrarsi a prezzi praticamente stracciati varie attività e proprietà precedentemente pubbliche....

La più complessa di queste situazioni è stata sicuramente quella greca, che ha raggiunto punte di disagio sociale e di effettiva e prolungata miseria particolarmente drammatiche e diffuse e che richiede qualche ulteriore approfondimento perché si possa giungere a un’effettiva analisi di massima. Come ha mostrato un accurato studio realizzato su dati ufficiali e pubblicato nel 2016 dalla “European School of Management and Technology” di Berlino (Where did the Greek bailout money go?, di Jörg Rocholl e Alex Stahmer), i due programmi di aiuto europeo concretizzatisi nei prestiti del 2010 e del 2012 alla Grecia sono serviti quasi esclusivamente per ripagare debiti statali (soprattutto titoli di Stato giunti a scadenza e cedole su titoli ancora in corso), per ricapitalizzare alcune banche greche in crisi e per incentivare delle banche estere ad accettare una ristrutturazione di titoli di Stato greci da esse acquisiti in passato: del prestito complessivo di circa 216 miliardi di euro, solo una decina di miliardi (cioè meno del 5% del totale) sono finiti nel bilancio dello Stato greco per le spese correnti.... E la medesima tendenza era confermata anche dai prospetti di utilizzazione previsti per il terzo programma, concretizzatosi nel prestito del 2015. In altre parole, i cosiddetti “programmi di aiuto” sono serviti quasi solo per saldare debiti statali del passato (evitando così che venissero toccati in modo più intenso, con una ristrutturazione ancora più acuta, i detentori di titoli di Stato greci), non certo ad aiutare fattivamente il paese a rialzarsi: si può così comprendere che lo scopo preciso di tali programmi non era affatto far ripartire l’economia greca e salvare la popolazione del paese da una crescente crisi, ma salvaguardare il più possibile sia le banche greche sia soprattutto i “grandi ricchi” esteri che avevano investito in tale economia (specialmente banche francesi e tedesche) [20]. E i costi di tutto questo sono stati riversati sulla popolazione greca stessa in una prospettiva di decenni, benché nella gravissima crisi economico-finanziaria del paese la responsabilità di gran lunga maggiore non fosse affatto di tale popolazione ma dei vertici delle banche in questione e soprattutto dei due corrotti partiti di governo del decennio precedente (appartenenti l’uno alla cosiddetta “destra moderata” e l’altro alla cosiddetta “sinistra moderata”), durante il quale a un certo punto il governo greco è giunto addirittura a inviare all’UE bilanci statali annui pesantemente falsificati. Poiché praticamente da sempre nelle istituzioni dell’UE dominano proprio i partiti delle cosiddette “destra moderata” e “sinistra moderata”, non si può evitare di notare che la popolazione greca è stata clamorosamente fregata non una ma ben due volte da queste due aree politiche: prima dalla loro versione nazionale greca, poi dalla loro versione europea....

Nel complesso – come si trova riconosciuto ufficialmente p.es. in un comunicato-stampa emesso dalla Commissione europea il 6 giugno 2012, Gestione delle crisi: nuove misure per evitare di dover ricorrere al salvataggio delle banche – nell’UE con «la crisi finanziaria [...] i governi hanno dovuto iniettare denaro pubblico nel sistema bancario ed emettere garanzie in uno sforzo senza precedenti: tra ottobre 2008 e ottobre 2011 la Commissione europea ha approvato aiuti di Stato a favore degli enti finanziari pari a 4.500 miliardi di euro (equivalenti al 37% del Pil dell’UE). Ciò ha evitato fallimenti bancari e perturbazioni economiche su ampia scala, ma ha fatto ricadere sui contribuenti il costo del deterioramento delle finanze pubbliche» [21].... Dopo quegli anni, a partire appunto dal 2012, l’UE ha cercato di cambiare il sistema di aiuti alle banche in difficoltà, passando in gran parte – come si è già accennato nel paragrafo precedente – da dei diretti impegni statali nella forma di fondi o garanzie a dei prestiti estremamente ampi della Bce a tasso agevolatissimo. Da questa tendenza al cambiamento sono rimasti comunque esclusi soprattutto i fondi per le ricapitalizzazioni bancarie, i quali rimangono ancora tipicamente tra le incombenze che l’UE richiede agli Stati (che in cambio ottengono comunemente azioni delle banche implicate). Anche con queste “nuove” procedure, in ogni caso rimane il fatto che le attenzioni e le premure che vengono rivolte dall’UE – e dai governi che in pratica la dirigono – ai “grandi ricchi” coinvolti nella gestione delle banche e degli istituti finanziari sono infinitamente maggiori di quelle rivolte alle classi lavoratrici e alla qualità della loro vita.... Anzi, queste ultime in pratica vengono sistematicamente vessate, non certo trattate con attenzioni e premure....

Secondo recenti dati ufficiali dell’UE, della cifra complessiva approvata fino a fine 2017 per degli aiuti di Stato agli istituti bancari e finanziari – cifra giunta intorno ai 5.120 miliardi – erano stati concretamente impegnati alla stessa data circa 1.960 miliardi (nei pressi del 16% del Pil dell’UE del 2011), mentre per un altro simile importo si può ipotizzare una sorta di uso indiretto [22]. Ma – anche se più di metà dell’ammontare approvato non è stata poi effettivamente mobilitata in senso stretto, cioè non ha determinato alcuna forma di esborso vero e proprio – non si dimentichi che le due già citate aree politiche che predominano nell’UE, e che in questo decennio sono state tipicamente così avversarie della parte sociale della spesa pubblica (come hanno vissuto drammaticamente le classi popolari dei numerosi paesi dell’UE i cui bilanci pubblici sono stati messi nel mirino dalla Commissione europea), hanno appunto deliberato in via ufficiale attraverso la Commissione stessa nel medesimo periodo la possibilità di più di 5.000 miliardi di uscite pubbliche nazionali pro-finanza, cioè una cifra dell’ordine del 40% del Pil dell’intera Unione. E ciò spesso in paesi già in difficoltà finanziarie oppure precipitati in tali difficoltà proprio a seguito di questi aiuti pubblici al settore finanziario....

Più in particolare – secondo quei dati recenti – i paesi per cui sono state approvate maggiori quantità di tali aiuti, misurati come percentuale del rispettivo Pil nazionale (del 2011), sono stati Irlanda (363%), Danimarca (252%), Belgio (94%), Grecia (75%), Slovenia (57%), Olanda (54%), Cipro (53%), Spagna (50%), Portogallo (46%), G. Bretagna (44%), Lettonia (42%) e Svezia (42%), mentre in termini assoluti gli importi più elevati hanno riguardato G. Bretagna (767 miliardi), Germania (655), Danimarca (602), Irlanda (567), Spagna (544), Francia (362), Belgio (348), Olanda (323) e Italia (226) [23]. Tra l’altro, una grandissima parte di questi aiuti è stata approvata e utilizzata non con modalità spalmate sull’intero decennio, ma nel giro di pochi anni: solitamente da due a quattro. Il che significa che durante gli anni in questione l’impatto di tali aiuti sui bilanci pubblici nazionali ha spesso raggiunto – con piena tranquillità dell’UE e, anzi, con una sua completa corresponsabilità – livelli finanziariamente molto pesanti, o addirittura devastanti come nel caso irlandese. Altri due di questi paesi, infatti, si sono ritrovati costretti a ricorrere come l’Irlanda a prestiti della stessa UE e del Fmi per evitare una bancarotta nazionale dovuta in pratica solo agli aiuti alle banche, mentre ulteriori due hanno fatto lo stesso ma in un contesto in cui il prestito aveva molteplici cause.

Se si pensa a come durante il medesimo decennio, nel caso di questi cinque paesi e di altri paesi dell’UE con considerevoli deficit pubblici di bilancio, la Commissione europea abbia mostrato normalmente l’abitudine di prendere ferocemente e inflessibilmente posizione su percentuali del Pil anche dell’1% o meno, minacciando pesanti sanzioni agli Stati che non intendevano uniformarsi alle sue richieste tipicamente incentrate sul tagliare vari aspetti della spesa pubblica di tipo sociale [24], si comprende ancor meglio come non siano affatto i finanzieri a sembrare dei comuni cittadini sudditi dell’UE, ma siano i vertici dell’UE a manifestarsi come palesemente e pressoché totalmente sudditi della grande finanza....

In sintesi – come dimostrano in modo inequivocabile la gestione internazionale della “crisi dei mutui” e in particolare le vicende di paesi come Irlanda, Grecia, ecc. – non è affatto vero che un considerevole deficit pubblico è un mostro orribile per UE e Fmi: lo è solo quando cerca di migliorare la qualità della vita delle classi lavoratrici, mentre diventa invece un sacro e santo dovere se si tratta di evitare grosse perdite finanziarie a dei “grandi ricchi” (in primo luogo gli istituti bancari e finanziari e i loro eventuali grandi creditori), immersi solitamente nella finanza speculativa.... E tutto questo vale, ovviamente, anche per i molti governi nazionali che di fatto hanno concorso negli anni scorsi agli orientamenti espressi da entità sovranazionali come appunto l’UE e il Fmi.

 

2. Fisco e classi sociali

Una seconda contraddizione estrema ha a che fare con la pretesa neoliberista secondo cui il modo di governare più efficace per la società nel suo insieme passa in pratica per il mantenere sui ceti ad alto reddito una tassazione complessiva – tenuto conto delle imposte dirette e di quelle indirette, delle imposte sulle persone fisiche e di quelle sulle società, ecc. – percentualmente simile (o addirittura minore) della tassazione attuata sulle classi lavoratrici e, nel contempo, per l’evitare sia un’elevata pressione fiscale generale sia ampi accumuli di debito pubblico. In questa cornice lo Stato, conformemente del resto alle concezioni neoliberiste, non può che tenere decisamente bassa la spesa pubblica, rinunciare in gran parte a qualsiasi funzione di redistribuzione dei redditi a favore delle classi svantaggiate – affidando così le problematiche socio-economiche di queste ultime eminentemente alla speranza di qualche “sgocciolamento” e nei casi più drammatici alla beneficenza – e lasciare parallelamente in mano ai mercati gran parte delle dinamiche della società.

A questo proposito si vedano p.es. le concise ed essenziali osservazioni di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz riportate in Due Nobel per lo Stato sociale (La Civetta, gennaio 2012) [25]. In breve, dal confronto storico tra le varie economie nazionali risulta quanto mai evidente che quella pretesa – insita tipicamente nelle varie ricette d’austerità predicate da Fmi e UE – è funzionale solamente al mantenimento e all’espansione della posizione sociale di estremo privilegio dei “grandi ricchi”, non certo al benessere degli altri strati sociali. E ciò proprio perché questo confronto dimostra che è decisamente errata non solo la teoria dello “sgocciolamento” automatico, ma anche l’altra comunissima tesi neoliberista secondo cui ogni iniziativa pubblica che cambi qualcosa nell’ambito della sfera economica porta necessariamente con sé una vasta serie di distorsioni, sprechi e/o inefficienze che alla fin fine rallentano e inibiscono il settore privato più di quanto l’attività economica possa essere stata stimolata direttamente da quell’iniziativa. Anzi, i fatti dimostrano che vi sono iniziative pubbliche che, riuscendo in modo indiscutibile a porre significativamente rimedio a certi “fallimenti del mercato”, possono stimolare specificamente anche tale settore e favorire complessivamente le sue stesse attività [26].... Particolarmente pregnante appare anche un’intervista – La società opulenta? Un’illusione (Corriere della Sera, 9 novembre 1998) – in cui a 90 anni il celebre economista John Kenneth Galbraith riassunse l’essenza della sua lunga esperienza riconoscendo, dal punto di vista della qualità complessiva della vita in una società, gli estremi limiti umani che ha l’azione economica se non è esplicitamente accompagnata da una politica che «investe nel sistema scolastico, nella sanità, nello sviluppo sociale». Si tratta sostanzialmente del contrario di quanto sostengono e fanno i politici e i burocrati che dall’interno appunto del Fmi e dell’UE continuano a spingere per vincolare sempre più a quel genere di meccanismi di austerità i singoli Stati e le loro popolazioni.

Più in particolare, appare storicamente assurda l’idea secondo cui per stimolare e rilanciare l’economia la cosa più importante è ridurre le tasse ai ricchi, e specialmente ai “grandi ricchi” (e ciò tanto più durante un periodo di ristagno o recessione). È invece quanto mai indiscutibile il fatto che i concreti dati economici indicano esattamente il contrario [27]. Proprio per questo, tra gli economisti che appoggiano il neoliberismo non tutti continuano a sostenere pubblicamente quell’idea: alcuni hanno cominciato a vergognarsi di dire cose che tra gli “addetti ai lavori” sono inequivocabilmente note come informazioni false e fasulle (pienamente corrispondenti all’ormai famosa espressione inglese “fake news”) e magari a preoccuparsi per il futuro della propria reputazione professionale.... Ciononostante, tra i politici – che in moltissimi casi sono ormai abituati a sbandierare fake news dalla mattina alla sera senza batter ciglio – è un’idea che ancora viene pubblicamente ribadita con costanza giorno dopo giorno da un gran numero di essi in un gran numero di paesi....

Poiché tenere basse le tasse sui profitti aziendali effettivamente reinvestiti nell’attività produttiva – o addirittura detassarli – è un accorgimento fiscale che può risultare molto utile per l’andamento economico specialmente nei periodi di ristagno o recessione, uno dei modi principali in cui nei discorsi pubblici dei politici si inserisce l’idea del ridurre le tasse ai ricchi (o del mantenerle molto basse se lo sono già) è il generalizzare progressivamente e in modo pienamente infondato una prima frase sostanzialmente corretta che faccia un generico riferimento a quell’accorgimento. Ecco un esempio tipico: “se si vuole aiutare l’economia e i lavoratori bisogna aiutare le imprese a investire, quindi bisogna tenere basse le tasse agli imprenditori, quindi bisogna tenere basso il prelievo fiscale sui profitti delle imprese e sugli scaglioni di reddito più elevati” [28]....

Nelle parti del mondo che come l’eurozona sono caratterizzate da una moneta comune per più paesi (una situazione in cui le pubbliche istituzioni di una singola nazione non possono pertanto né stampare – e ovviamente spendere – moneta per cercare di riequilibrare gli effetti di un elevato indebitamento pubblico, né svalutarla per rilanciare la competitività internazionale del paese), alle manipolazioni argomentative già citate si aggiungono tipicamente ulteriori affermazioni con le quali si mira in pratica ad incastrare le classi lavoratrici in un vicolo cieco come il seguente: 1) se il bilancio pubblico giunge a un debito complessivo considerevole (che nell’UE corrisponde ufficialmente al superamento del 60% del Pil nazionale), la cosa diviene molto pericolosa per i titoli di Stato, per il futuro problema degli interessi da pagare sul debito pubblico, ecc., con gravi conseguenze sull’“economia reale” e quindi sull’occupazione, sui redditi dei lavoratori, ecc.; 2) pertanto, bisogna evitare che il debito raggiunga quei livelli considerevoli e, se invece li ha già raggiunti, bisogna recuperare anno dopo anno parte di quel debito – attraverso dei bilanci pubblici in attivo – fino a tornare a un livello non pericoloso; 3) poiché se si fanno pagare elevate tasse ai ricchi l’economia va in crisi e cresce la disoccupazione, in conclusione dunque se si vuole porre a livelli impegnativi la spesa pubblica per branche della pubblica amministrazione (P.A.) come l’istruzione, la sanità, l’assistenza e previdenza sociale e la salvaguardia ambientale allora bisognerà far pagare alte tasse e alti contributi ai lavoratori (e se questi ultimi preferiscono pagare poco allora dovranno accontentarsi di attività striminzite – e spesso costose per gli utenti – da parte di quelle branche della P.A.); 4) analogamente, nel caso in cui per riuscire a ridurre il debito occorrano dei bilanci pubblici in attivo per un certo numero di anni, questo attivo lo si dovrà ottenere soprattutto da dei tagli nella spesa relativa a tali branche della P.A. e/o da un accresciuta imposizione fiscale o contributiva sulle classi lavoratrici (p.es. mediante un aumento dell’Iva) [29].... A questo proposito non si dimentichi che le branche in questione operano generalmente, molto più che per i ricchi, per tutto il resto della società, in quanto i ceti economicamente più elevati – che appunto secondo i neoliberisti non bisognerebbe colpire dal punto di vista economico per i motivi già espressi – non solo sono caratterizzati da un numero di persone molto limitato, ma tendono anche a ricorrere molto spesso a scuole private, cliniche private, ecc..

Delle due premesse di questo ragionamento, la prima (ai punti 1 e 2) è gonfiata ed esagerata anche se ha un fondo di verità (ma perché quei pericoli si concretizzino bisognerebbe arrivare a un debito più che doppio rispetto a quel 60%), mentre la seconda (all’inizio del punto 3) è appunto semplicemente falsa. Le conclusioni (alla seconda parte del punto 3 e al punto 4) sono quindi prive di alcun fondamento dal punto di vista della scienza economica (e sono semplicemente l’espressione di quell’“edonismo reaganiano” che ha manifestato il prevalere, tra i ricchi, del rifiuto radicale di ridurre i propri privilegi e di contribuire non solo al proprio benessere ma anche a quello degli altri strati sociali). Ma, ripetendo pubblicamente tale ragionamento innumerevoli volte, si ottiene spesso che molte persone delle classi lavoratrici, essendo prive di una specifica istruzione economica, finiscano col credere a quest’assurdità, o perlomeno col pensare che le cose potrebbero stare proprio così come tutti questi politici, giornalisti, economisti, ecc. ribadiscono continuamente....

Nelle nazioni che hanno una loro specifica valuta nazionale ma da un lato devono affrontare gravi debiti pubblici che i loro governi non intendono contestare alla radice né giuridicamente né politicamente né economicamente [30] e dall’altro lato vivono forti tendenze inflattive che sconsigliano di stampare “allegramente” ulteriore moneta per pagare quei debiti [31] (un duplice caso non certo raro nell’evoluzione storica della moderna società industrializzata, specialmente nel Terzo mondo), entra in atto quella che potrebbe essere considerata la variante originaria di quel vicolo cieco, nata sostanzialmente nella prima metà degli scorsi anni ’80 con i “piani di aggiustamento strutturale” elaborati dal Fmi. In questa variante, al posto dei primi due punti precedenti si trova in sostanza una formulazione come la seguente: 1) dato che il bilancio pubblico è giunto a un elevato debito complessivo e che l’inflazione ha ormai diversi effetti indesiderabili, la cosa è molto pericolosa per la solvibilità finanziaria della nazione, per l’“economia reale”, per l’occupazione, per i lavoratori, ecc.; 2) bisogna pertanto evitare il più possibile i fattori che possono favorire l’inflazione (tra i quali in particolar modo un’ulteriore espansione artificiosa della circolazione monetaria, gli aumenti salariali e qualsiasi forma di “scala mobile” mirante a proteggere il valore reale di stipendi e pensioni) e nel contempo recuperare anno dopo anno parte di quel debito – attraverso dei bilanci pubblici in attivo che investano quell’attivo nella riduzione del debito – fino a tornare a un livello non pericoloso. Anche questo genere di premessa – seppur espresso in parte in modi spesso gonfiati ed esagerati e in parte in modi incompleti e alquanto inesatti, manipolati ad arte per penalizzare artificiosamente le classi lavoratrici – ha comunemente un fondo di verità (se appunto non si intende contestare alla radice una parte consistente o la totalità stessa del debito); ma, dato che i punti 3 e 4 del ragionamento rimangono sostanzialmente immutati e rimane quindi la falsità della seconda premessa, anche le conclusioni rimangono in pratica del tutto false.

Paradossalmente, in base ai concreti dati storici la risposta più sensata a un’economia in difficoltà con bilanci pubblici altamente indebitati – e con una moneta in comune con altri paesi oppure con un notevole tasso d’inflazione – sarebbe ovviamente proprio il far pagare notevoli tasse ai ricchi così da riequilibrare il più possibile i bilanci senza colpire pesantemente né le classi già più deboli (che chiaramente stanno già soffrendo molto più dei ricchi), né la domanda aggregata (che è in fondo la chiave di volta dell’andamento economico e che è sospinta molto più dai redditi dei ceti sociali bassi e medi che dai redditi dei ceti più elevati) [32], né eventualmente il valore della valuta nazionale sui mercati internazionali.... Tuttavia, in un mondo impostato secondo i dettami dei neoliberisti (e del Fmi) ogni paese dovrebbe praticamente deregolamentare gli scambi commerciali con l’estero e il proprio mercato nazionale dei capitali, così che di fronte alla minaccia di notevoli tasse i ricchi reagirebbero probabilmente esportando il più possibile fuori dal paese in questione i loro beni e i loro capitali finanziari.... In altre parole, per poter far pagare in modo effettivo notevoli tasse ai ricchi in una società come l’attuale (ampiamente tecnologizzata, industrializzata, globalizzata e “finanziarizzata”), in linea di massima un paese dovrebbe prima dotarsi di norme commerciali e finanziarie che non intendano le frontiere come un colabrodo e che non si inchinino a quella estrema deregolamentazione dei mercati che serve soprattutto alle multinazionali e alla finanza speculativa per fare il bello e il cattivo tempo nelle varie parti del mondo [33].

In sintesi, l’idea secondo cui per stimolare l’economia la cosa più importante è ridurre le tasse ai ricchi non è solo un “banale” – e fondamentalmente prevedibile – aspetto della competizione economica tra classi, ceti, ecc. all’interno della società (con le falsità e le ipocrisie che possono accompagnare tale competizione, per lo meno da parte di chi non considera importanti nella propria vita aspetti come l’etica, la sensibilità umana, la correttezza con gli altri, ecc.), ma specialmente nei paesi che hanno delle marcate difficoltà nei bilanci pubblici è un vero e proprio tentativo di sottrarre a intere classi sociali l’accesso a una sanità, un’istruzione, un’assistenza sociale e altri servizi di qualità, mentre ovviamente le classi privilegiate hanno di fatto a loro piena disposizione cliniche altamente tecnologizzate, istituti scolastici ampiamente strutturati e attrezzati, ecc. ecc. (magari spostandosi anche all’estero per qualcuna di queste opportunità) [34]. Ed è anche un tentativo di operare una particolare forma di persuasione sulle classi che già sono state deprivate di quell’accesso (e che di conseguenza sono colpite generalmente da una scarsità di istruzione, una mortalità e una sofferenza generale nettamente più alte di quelle che sarebbero possibili in una società un po’ equa): persuaderle che è sostanzialmente inevitabile che le cose vadano così, con pochi vincenti e tantissimi perdenti [35], e ciò perché qualsiasi tentativo di migliorare la situazione dei tanti non porterebbe a nulla di efficace.... E pure questa è in realtà una colossale bufala, in quanto sia nel mondo “sviluppato” che in quello “in via di sviluppo” vi sono paesi in cui la “popolazione comune” sta molto meglio che in altri (e non grazie alla fortuna di avere a disposizione risorse nazionali particolarmente abbondanti, ma semplicemente grazie soprattutto ad un diffuso “spirito civico”, all’arte della “buona amministrazione pubblica” e alla capacità di mettere a frutto la creatività innovativa mostrata nell’ambito economico-produttivo dalle persone), così come nel medesimo paese la qualità della vita popolare può migliorare o peggiorare nettamente a seconda del modo in cui operano il governo e le amministrazioni locali ed eventualmente del modo – equo e collaborativo oppure iniquo e sfruttatore – in cui le istituzioni internazionali si rapportano con quel paese.

Dal punto di vista dell’economia in generale, il modo più efficace ed efficiente di far pagare le tasse ai ricchi è tassare soprattutto il loro patrimonio non impegnato nell’attività produttiva e il loro reddito annuo (inclusi i profitti aziendali non distribuiti e non reinvestiti in senso strettamente produttivo). Dato questo (e dato lo stretto rapporto esistente tra le élite economiche e moltissimi dei partiti esistenti nei vari paesi), non genera dunque stupore il sentire così tanti politici da un capo all’altro del mondo ribadire il loro “no” ad imposte patrimoniali sui grandi patrimoni e ad elevati prelievi fiscali sui grandi redditi.... È la sfacciataggine di chi, dall’interno delle pubbliche istituzioni, fa una cosa che è estremamente dannosa per lo sviluppo economico generale e più specificamente per le classi lavoratrici e, nel contempo, asserisce che la fa proprio per salvare l’economia e per non danneggiare i lavoratori....

In Italia, p.es., questi “no” e quel ragionamento di fondo – le cui due premesse sono una gonfiata e l’altra palesemente fasulla – sono diventati delle specie di mantra durante l’ultimo decennio sia per partiti di destra come Forza Italia, Lega e FdI (che addirittura stanno sostenendo prospettive fiscali non solo mostruosamente classiste ma anche assolutamente insostenibili in Italia come la flat tax proposta da Berlusconi nel 2018, che se seriamente attuata porterebbe ad un secco calo delle entrate statali praticamente incompatibile con una società diffusamente moderna e “civilizzata”, tanto più alla luce del nostro elevato debito pubblico), sia per partiti comunemente definiti della “sinistra moderata” come il Pd (inclusa la corrente renziana che ne è recentemente uscita verso destra prendendo il nome di Italia Viva e che, anzi, quando nel Pd era la corrente dominante era anche la più insistente e decisa nel dire quei “no”...). Analogamente, nel resto del mondo “sviluppato” questi mantra li ripetono comunemente i principali partiti sia dell’intera destra (non solo quella cosiddetta “moderata”, come i partiti raccolti a livello europeo nel Ppe, o quella più apertamente conservatrice, ma anche i vari partiti legati nell’UE al “populismo sovranista”, i quali fingono tutti di avere una vena profondamente popolare ma invece – con posizioni economiche come queste – rivelano inequivocabilmente di essere anche loro profondamente classisti e antipopolari) sia di altre aree politiche, tra le quali spiccano oggi la cosiddetta “sinistra moderata” (con rarissime eccezioni) e quel “centro” solo apparentemente innovativo che si incarna p.es. in Francia nel partito En marche, lanciato nel 2016 da Emmanuel Macron (che è poi divenuto presidente del paese l’anno successivo).

Questa contraddizione riguardante soprattutto i bilanci pubblici e la politica fiscale è, in fondo, semplicemente una parte delle contraddizioni economiche che caratterizzano i tipici “piani di aggiustamento strutturale” che il Fmi impone da quasi quattro decenni ai paesi del Terzo mondo in occasione dei suoi vari prestiti: piani che impongono sistematicamente condizioni che, nei paesi in questione, danneggiano pesantemente non solo le classi lavoratrici ma anche più in generale un’ampia parte dell’attività economico-produttiva locale, favorendo invece soprattutto gli interessi delle multinazionali e della finanza internazionale (e a tali piani si sono notevolmente ispirati anche i cosiddetti “programmi d’aiuto” in cui Fmi e UE, in accordo tra loro, hanno inserito i già menzionati prestiti a Irlanda, Grecia, ecc.). Si tratta di una questione ormai dimostrata in modo ampio e indiscutibile grazie non solo a una serie di ricerche concrete in campo economico, ma anche – come si è già accennato – a documenti interni del Fmi che hanno reso ancor più evidente il deliberato approccio elitario, classista, clientelare e reazionario che continua a dominare nelle scelte finanziarie del Fondo stesso e che dovrebbe essere totalmente incompatibile con un’istituzione pubblica internazionale che è basata in grandissima parte su istituzioni pubbliche nazionali di tipo democratico [36].

Oltre tutto, un tale approccio è pure contrario in pratica agli statuti del Fmi, secondo i quali tra gli scopi del Fondo stesso – che devono guidare «tutte le sue politiche e le sue decisioni» – vi sono sia il «facilitare l’espansione e l’equilibrata crescita del commercio internazionale» in modo tale da «contribuire alla promozione e al mantenimento di alti livelli di occupazione e di reddito reale e allo sviluppo delle risorse produttive di tutti i paesi membri come obiettivi primari della politica economica», sia l’erogare prestiti a dei paesi istituendo «appropriate forme di salvaguardia» così da fornire a tali paesi «l’opportunità di correggere degli squilibri della loro bilancia dei pagamenti senza ricorrere a misure che avrebbero effetti distruttivi sulla prosperità nazionale e internazionale». Dal momento che le condizioni di prestito imposte dal Fmi ai paesi del Terzo mondo hanno invece comunemente effetti squilibranti sul loro commercio e soprattutto sulla loro occupazione, sul loro reddito reale e sullo sviluppo delle loro risorse produttive e, nel contempo, effetti distruttivi sulla loro prosperità, se ne ricava che esiste un contrasto insanabile tra gli scopi statutari del Fmi da un lato e le politiche e le decisioni prese dai vertici del Fmi su questi temi dall’altro. In altre parole, la gestione che in pratica i governi dei maggiori paesi “sviluppati” stanno attuando da decenni nel Fmi nei confronti dei paesi finanziariamente in difficoltà è impostata sostanzialmente in una maniera illegittima, giuridicamente illegale....

 

3. Armamenti ed eserciti

C’è anche un terzo ampio campo in cui i politici neoliberisti continuano da tempo a contraddire intensamente le loro affermazioni di fondo (in questo caso, la loro costante rivendicazione di un apparato statale snello e soprattutto dal bilancio molto leggero): le spese militari.

Dopo la fine della “guerra fredda”, a partire dall’ultimo decennio del ’900 in teoria ci sarebbe stato sempre meno bisogno di armi ed eserciti nel globo, dati anche il contemporaneo avvento della globalizzazione e il sempre più corposo e vasto commercio mondiale che ne è seguito. La crescente interdipendenza economica dei vari paesi del mondo avrebbe dovuto scoraggiare fortemente le guerre, dal momento che la pace favorisce e incoraggia sia il commercio su vasta scala sia i molteplici vantaggi economici che possono derivare diffusamente da esso. Oltre tutto, le guerre si ritorcono enormemente contro le classi lavoratrici (tra le quali si trovano tipicamente quasi tutte le vittime di guerra, civili o militari), danno fastidio alle politiche keynesiane (che necessiterebbero di collaborazione, dialogo, confronto democratico ed efficace contrattazione per esprimersi al meglio) e sconvolgono i mercati (ponendosi in tal modo direttamente contro il perno stesso delle logiche economiche liberiste). Dunque – con la fine della “guerra fredda” e delle guerre locali di tipo politico da essa favorite (nelle quali da un lato stavano tipicamente forze sociali e/o paesi sostenitori del capitalismo e dal lato opposto forze sociali ostili al capitalismo e sostenute di solito da qualcuno dei paesi che appartenevano al cosiddetto “socialismo reale”, come l’Urss, la Cina maoista, la Cuba castrista, ecc.) – praticamente tutte le principali forze politiche e tutte le maggiori élite economiche avrebbero dovuto usare concordemente tutta la loro forza economica, politica ed eventualmente militare per dissuadere lo scoppio di guerre e all’occorrenza farle terminare al più presto: un intento che in teoria appunto avrebbe dovuto essere condiviso anche dai sostenitori del neoliberismo (e del suo così sbandierato predominio dei mercati), proprio al fine di mantenere ed eventualmente ripristinare il più rapidamente possibile lo sviluppo indisturbato del mercato mondiale.

Tuttavia, un’ennesima conferma del fatto che il neoliberismo non è affatto un approccio all’economia, ma un’ideologia politica che mira semplicemente a favorire ancor più chi è già molto ricco e potente, viene da tre fatti paralleli: a) nel mondo, anche dopo appunto la fine della “guerra fredda” continuano ad esserci decine di conflitti armati locali legati al controllo delle risorse del luogo, controllo che in molti casi fa direttamente o indirettamente capo a esponenti delle maggiori élite economiche internazionali; b) come mostrano gli accurati – anche se forzatamente non del tutto completi – rapporti annuali dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), dalla metà degli anni ’90 in poi le spese militari mondiali sono aumentate quasi costantemente anno dopo anno, risultando nel 2018 più alte di circa il 75% rispetto a vent’anni prima e superiori di circa il 19% anche rispetto al 1988, cioè rispetto ai livelli precedenti alla caduta del “muro di Berlino” (si tratta di dati depurati dall’inflazione e quindi corrispondenti agli incrementi effettivi) [37]; c) proprio questo è il mondo in cui la globalizzazione neoliberista imperversa svuotando sempre più lo “Stato sociale” in quasi tutto il pianeta, con la parziale eccezione di pochissimi paesi che almeno nella politica interna cercano di opporsi in modo corposo a questa tendenza (e che non sono certo né quelli con le maggiori percentuali di spesa pubblica destinate ad esercito, armamenti, ecc., né quelli più inclini ad avventure belliche qua e là nel globo...). Tra l’altro, poiché dopo l’11 settembre 2001 (la giornata divenuta pressoché universalmente nota perché funestata dagli attentati alle “Torri gemelle” e ad altri luoghi del territorio statunitense) la difesa dal terrorismo è diventata l’argomento principale di chi sostiene l’importanza di elevate spese militari, vale la pena di ricordare – e sottolineare – che il terrorismo opera comunemente in modi che finiscono con l’aggirare i grandi eserciti e gli armamenti più costosi, rendendo quindi gli uni e gli altri pressoché inutili da questo punto di vista....

Persino nell’ultimo decennio, durante il quale a seguito della “crisi dei mutui” le economie nazionali e i bilanci statali di praticamente tutti i paesi del mondo si sono trovati in difficoltà finanziarie di cui “ovviamente” hanno più sofferto le classi lavoratrici (con i neoliberisti che hanno continuato instancabilmente a predicare in tutto il mondo a favore dell’austerità e della compressione della spesa pubblica di tipo sociale), i rapporti del SIPRI mettono in evidenza che le spese militari mondiali si sono ridotte – e soltanto molto lievemente – solo negli anni dal 2012 al 2014 e hanno poi ricominciato subito a crescere, toccando il nuovo massimo storico annuale nel 2017 e poi ancora nel 2018. I dati rilevati dal SIPRI pongono quest’ultimo massimo a 1.822 miliardi di dollari (di cui circa il 36% è speso dagli Usa e il 14% dalla Cina, mentre tra il 3 e il 4% ciascuno si trovano Arabia Saudita, India, Francia e Russia e tra il 2 e il 3% G. Bretagna, Germania, Giappone e Corea del sud), ma la già citata non universalità dei dati raccolti e alcune difformità statistiche da un paese all’altro fanno ritenere che l’effettiva cifra complessiva del 2018 possa essere intorno ai 1.900-2.000 miliardi di dollari [38].

La cosa vale specificamente anche per l’UE, considerato anche che in Europa si sta registrando una pace ininterrotta e stabile da più di 70 anni. Le uniche eccezioni sono state dapprima alcune crisi internazionali interne al “patto di Varsavia” – come la sostanziale invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968 da parte delle forze armate soprattutto dell’Urss – e in seguito, dopo il crollo dei regimi basati sul cosiddetto “socialismo reale” che controllavano l’Europa centro-orientale (con la conseguente dissoluzione del “patto di Varsavia” stesso, dell’Urss e della Jugoslavia durante l’ultimo decennio del ’900), alcune guerre strettamente locali e specificamente legate agli effetti di tale crollo [39]. Nonostante dunque tre fattori nodali come il concludersi della “guerra fredda” (nella quale il continente europeo era una cruciale area di contatto e soprattutto di attrito tra i due blocchi contrapposti), lo svilupparsi del mercato mondiale e la pace oltremodo stabile presente sul piano internazionale in Europa, i dati raccolti dal SIPRI indicano che dopo il 1990 nell’Europa occidentale – che all’epoca poteva quasi sovrapporsi all’UE – le spese militari sono calate molto lentamente e solo fino al 1997 (quando la riduzione giunse al 16% rispetto al ’90), giacché già dall’anno successivo hanno ricominciato a crescere ancor più lentamente ma pressoché ininterrottamente fino al 2009 (quando l’aumento fu del 10% rispetto al ’97). Anche nell’Europa centrale, che a cavallo tra 20° e 21° secolo ha cominciato un percorso di progressivo ingresso nell’UE, il periodo tra il 1999 e il 2007 ha visto un continuo incremento di tali spese, aumentate complessivamente del 25%. E, nel decennium horribilis che ha sconvolto l’economia mondiale a seguito della “crisi dei mutui”, i dati mostrano che a dispetto delle pesanti e diffuse difficoltà sociali contemporanee – che ancora non si sono affatto concluse – le spese militari nell’insieme dell’Europa centro-occidentale sono calate di poco e solo fino al 2014 (-12% rispetto al 2009) tornando poi subito a crescere del 2-3% all’anno.

Uno dei principali aspetti politici di questo atteggiamento quanto mai diffuso tra i governi europei sta indubbiamente nel fatto che – come osservò tra gli altri Antonio Gambino in un’intervista apparsa su Aprile del 26 maggio 1999 – la guerra avviata dalla Nato contro la Jugoslavia in quella primavera «serviva [...] a lanciare la nuova Nato, una sorta di nuovo governo mondiale che ignorando le Nazioni unite intende operare come potere imperiale americano sul mondo» [40]. L’accuratamente architettata e ben mascherata genesi di quella guerra, in un complicato intreccio col procedere dei colloqui di Rambouillet sul Kosovo, mostrò che non si trattò affatto né di una drammatica incomprensione tra rappresentanti politici né dello sfortunato effetto di qualche “incidente diplomatico”, ma di un complesso progetto condiviso praticamente dai vertici politici dei maggiori paesi della Nato (gli Usa e i quattro più popolosi paesi dell’UE) malgrado si trattasse di un progetto in pieno contrasto con lo statuto originario della Nato, nel quale sono incluse – in pieno ed esplicito accordo con la Carta dell’Onu – funzioni autonome solamente di tipo difensivo [41]. Il disegno di fondo di cui era parte quel progetto – disegno ulteriormente sviluppato dai governi dei paesi della Nato negli anni successivi – implica evidentemente, in tali paesi, il costante mantenimento di una notevole enfasi su eserciti, aggiornamenti degli armamenti, strategie militari, ecc. [42]. Non a caso, durante il vertice della Nato svoltosi in Galles nel settembre 2014, i governi di tutti i paesi membri presero l’impegno di far superare alle spese militari della propria nazione la quota del 2% del Pil nazionale nel prossimo futuro (indicativamente, entro un decennio), e ciò benché all’epoca – secondo i dati ufficiali – solo Usa, G. Bretagna e Grecia lo facessero già e quasi tutti gli altri paesi fossero molto al di sotto di tale quota (essendo di solito nettamente più vicini all’1% che al 2%). E negli ultimissimi anni i vertici politico-militari di Washington, tramite l’amministrazione Trump, continuano ad insistere con forza non solo sull’accelerazione della concretizzazione di questo impegno da parte degli altri paesi della Nato, ma anche sull’andare tutti ben oltre il 2% e arrivare al 4%.... Anche il recente rilancio fatto dall’amministrazione Trump a proposito della “guerra spaziale” è, tra le varie cose, un tentativo di spingere l’intero mondo verso politiche di riarmo sempre più costose, sofisticate ed invadenti.

Oltre tutto – così come avvenne senza alcun dubbio nel caso dell’invasione dell’Iraq scatenata dai governi di Usa e G. Bretagna nel 2003 – quella guerra deliberata ufficialmente dalla Nato nel 1999 andò anche contro la Carta dell’Onu e contro la legalità internazionale, essendo palesemente pure un “crimine contro la pace” e ricadendo quindi nel campo d’applicazione dei “princìpi di Norimberga” del 1950 (i quali facendo parte del diritto internazionale generalmente riconosciuto sono pienamente validi – anche penalmente – in Italia e in molte altre nazioni in quanto tutelati costituzionalmente) [43]....

Tutti questi dati e queste constatazioni, dunque, alla faccia dello “Stato snello, leggero e dal bilancio sobrio” di cui parlano costantemente i neoliberisti, i quali da alcuni decenni dominano in modo indiscutibile nella politica non solo mondiale ma anche specificamente europea....

In sintesi, in realtà per il neoliberismo quello che più conta non sono affatto cose come i mercati, la cosiddetta sobrietà della spesa pubblica, lo sviluppo dell’economia in sé o neanche la massimizzazione dei profitti imprenditoriali (della quale si parlava così tanto nei movimenti alternativi negli anni attorno al ’68), ma è il potere dei “grandi ricchi”, il loro controllo sulle risorse e sull’economia stessa, la loro immersione nei privilegi.... Il mondo diventa dunque un’arena gladiatoria in cui molti esponenti delle élite economiche combattono una vera e propria guerra contro tutti coloro che in un modo o nell’altro danno loro fastidio: le classi lavoratrici, che comunemente – di fronte alle grandissime diseguaglianze socio-economiche attualmente imperanti – cercano di rivendicare condizioni un po’ migliori di lavoro e di vita; quei gruppi sociali e quelle etnie di scarso peso economico che in questa o quella parte del mondo vorrebbero sottrarre localmente a tali “grandi ricchi” un po’ del loro controllo sulle risorse del pianeta [44]; spesso le piccole e medie imprese (Pmi), che cercando di ritagliarsi un proprio spazio nell’economia possono disturbare le tendenze monopolistiche od oligopolistiche dei grandi gruppi aziendali; e via dicendo.

E tra i principali strumenti usati in questa guerra non ci sono solo l’ovvio armamentario strettamente economico su cui si concentrò già nell’Ottocento la monumentale serie di opere di economia politica di Marx e la diffusione di una “cultura di massa” mirante a rendere le classi lavoratrici il più possibile subalterne e succubi rispetto alle classi privilegiate. Ci sono anche, da un lato, i vari conflitti armati locali che vengono combattuti al di fuori del mondo “sviluppato” e che sono incentrati in pratica su dei “signori della guerra” solitamente legati di fatto agli interessi e ai finanziamenti di questo o quel gruppo economico (generalmente straniero) e, dall’altro lato, l’acquisizione – più sotterranea o più esplicita, a seconda dei casi – di un sostanziale controllo da parte delle élite economiche sui vertici politici dei vari paesi e sulla burocrazia internazionale. Gli aspetti di quest’acquisizione più sotterranei passano tipicamente attraverso l’offerta di tangenti e bustarelle, la concessione di favori personali e altre forme di corruzione e/o di ricatto, mentre gli aspetti più espliciti si concretizzano nella diretta “discesa in campo” di rilevanti esponenti di tali élite nell’arena politica (come Berlusconi, Fujimori, Trump, ecc.). Vi sono anche degli aspetti più indiretti, che attraverso leggi elettorali e regolamenti istituzionali localmente funzionali allo scopo mirano a svuotare di significato la democrazia, a trasformare i politici in una sorta di casta – molto più facilmente manipolabile dal potere economico di quanto possa avvenire in una democrazia autentica e vitale – e a facilitare appunto quelle azioni di tipo sotterraneo o esplicito [45]. Grazie specificamente all’acquisizione di tale controllo, si potranno approvare provvedimenti – leggi nazionali nei vari paesi e accordi internazionali – fatti su misura per favorire gli interessi delle élite economiche; si potranno attuare forme di cruenta repressione nei confronti di chi contesta politicamente il sempre più aspro classismo dei numerosissimi governi sostanzialmente neoliberisti e delle entità sovranazionali da essi pilotate (come Fmi, Organizzazione mondiale del commercio, Banca Mondiale, la stessa UE, ecc.); si potrà usare pure qualche “esercito regolare” in qualcuno dei conflitti armati locali che rivestono un particolare interesse per una parte di quelle élite; e si potranno fare ricattatorie minacce internazionali di far scendere in campo dall’estero uno o più “eserciti regolari” se qualche paese non è sufficientemente disponibile ad assecondare gli interessi delle élite in questione. Un’ulteriore variante di questi strumenti – usata spesso soprattutto durante la “guerra fredda” ma anche oggi non del tutto dimenticata – è l’attuazione di “colpi di Stato” preparati con l’aiuto sotterraneo di servizi segreti di qualche altro paese (solitamente ricco) ai danni di governi eletti democraticamente ed orientati economicamente in modi più favorevoli agli interessi delle popolazioni locali che agli interessi delle multinazionali e della grande finanza internazionale.

È soprattutto per questa serie di motivi che con lo sviluppo del neoliberismo – e in pieno contrasto con le affermazioni teoriche che lo contraddistinguono – nel mondo si sono fortemente accentuati il militarismo, la spesa pubblica per armamenti ed eserciti e la tendenza al ricorso concreto all’uso delle armi (all’estero e/o all’interno, a seconda di una serie di dinamiche politiche, economico-strategiche e sociali) da parte dei governi [46].

Una particolare area della vita economico-politica in cui si sovrappongono diversi di questi motivi venne posta in luce già nel 1961 dal presidente degli Usa Dwight D. Eisenhower, il quale nel suo discorso ufficiale di fine mandato lanciò un forte avvertimento sui pericoli insiti nell’organizzarsi di un “complesso militare-industriale” e nell’instaurarsi di una sua pesante influenza lobbystica sulla politica, che da tale influenza avrebbe potuto essere trascinata verso un continuo incremento degli armamenti e verso delle iniziative di tipo bellico [47]. Essendo stato lui stesso un generale di altissimo livello, evidentemente Eisenhower conosceva molto bene il mondo militare e i suoi rapporti con l’industria delle armi. L’apparente paradosso è che quelli erano decenni incentrati dal punto di vista economico sulle politiche keynesiane e sul ruolo molto rilevante da esse affidato alla P.A., ma quando i neoliberisti hanno fatto letteralmente saltare per aria l’approccio keynesiano hanno a quanto pare “dimenticato” di snellire, assieme alla spesa pubblica di tipo sociale, anche quella legata agli armamenti e agli eserciti....

Del resto, anche il capitalismo liberista pre-keynesiano contava solitamente su un marcato supporto militare degli Stati, molto spesso impegnati da un lato a reprimere le rivendicazioni organizzate e le proteste dei lavoratori e dall’altro a garantire alle imprese del proprio paese territori coloniali da sfruttare per le loro risorse naturali – trattando generalmente le loro popolazioni come una massa di schiavi, o quasi – ed eventualmente da usare come sbocco per la produzione industriale di una parte di quelle imprese. E a volte quel supporto poteva anche arrivare allo scontro armato tra Stati vicini, per il controllo sia delle risorse naturali presenti nei rispettivi territori sia, eventualmente, delle rispettive colonie. In altre parole, anche il liberismo originario, che ignorava raffinatezze economiche come quelle keynesiane e che non faceva che sbandierare la pratica pubblica del laissez-faire, di solito non aveva alcun problema a tradire completamente quella bandiera non appena si toccava il tasto degli eserciti nazionali e dei loro armamenti: un tasto che anche per i liberisti di allora era di enorme importanza di fronte alle tensioni socio-economiche tra le classi padronali e quelle lavoratrici e alla concorrenza economica tra nazioni....

A proposito del terrorismo, è infine da aggiungere che non appare certo un caso che la relativamente recente moltiplicazione internazionale dei gruppi terroristici pseudoislamici sia avvenuta nell’ultimo ventennio: è stata in un certo senso uno dei modi in cui le popolazioni del Terzo mondo (o meglio, alcuni strati sociali di esse) hanno reagito alle ciniche e brutali strategie economiche e politico-militari con cui il mondo “sviluppato” ha infierito su tali popolazioni anche dopo la fine della “guerra fredda”. A mo’ di esempi di queste strategie basti ricordare, dal punto di vista economico, i “piani di aggiustamento strutturale” organizzati dal Fmi e le azioni sottobanco che frequentemente li hanno accompagnati e, dal punto di vista politico-militare, la prima e la seconda “guerra del Golfo” (rispettivamente del 1991 e del 2003), l’asperrimo embargo che si estese negli anni intercorsi tra le due – e che sottopose ad un sostanziale strangolamento di fatto un’ampia parte della popolazione irachena – e la totale protezione che il governo statunitense ha continuato stabilmente a dare a livello internazionale (incluso il “Consiglio di sicurezza” dell’Onu) al regime dell’apartheid sionista che vige tuttora in Israele e che viola in molti modi una serie di fondamentali diritti umani della popolazione araba residente nel paese [48]. Oltre tutto, la nascita stessa dei principali di quei gruppi, il loro sviluppo, il loro addestramento al combattimento e la loro fornitura di armi sono stati sponsorizzati, finanziati e organizzati dai governi statunitensi dalla seconda metà degli anni ’70 alla fine degli anni ’80 e sporadicamente anche in seguito, prima allo scopo di mettere in gravi difficoltà militari ed economiche l’Urss in Afghanistan e poi con l’obiettivo di “stabilizzare” rapidamente quest’ultimo paese così da poterlo attraversare – senza particolari rischi – con importanti oleodotti e gasdotti. Le schiere di terroristi “coltivate” accuratamente e a lungo dai governi Usa si sono poi rivoltate brutalmente contro Washington, contro i cittadini statunitensi e contro l’Occidente in generale quando i vertici politici statunitensi le hanno abbandonate a se stesse – e in una situazione di pesantissima emarginazione internazionale – una prima volta dopo la caduta dell’Urss e una seconda volta dopo il fallimento di quel tentativo di “stabilizzazione” del territorio afghano [49].

 

4. Per una sintesi: l’austerità come soprattutto specchietto per le allodole, facciata ingannevole ad usum delphini, trappola socio-politica per le classi popolari

In breve – se ormai da tempo la posizione dei politici e dei burocrati che deliberano di persona, o anche solo sostengono, le forme di austerità antipopolare che il Fmi diffonde da decenni nel Terzo mondo è decisamente indifendibile dal punto di vista della scienza economica (ma loro se ne fregano, in quanto finora i governi dei maggiori paesi “sviluppati”, che per motivi statutari hanno di fatto il potere nel Fmi, continuano ad appoggiare questa forma di brutale colonizzazione e sfruttamento del Sud del mondo a vantaggio soprattutto delle multinazionali e della grande finanza) – ai politici e ai burocrati che propongono ed eventualmente deliberano simili forme di austerità pure nell’eurozona, o nell’UE in generale, andrebbe risposto che anche la loro posizione è del tutto ingiustificabile e indifendibile, e non solo perché la loro tipica e ormai “ufficializzata” rigidità sui bilanci pubblici è palesemente esagerata e gonfiata rispetto alle dinamiche concrete dell’economia reale, ma anche perché loro stessi sono i primi a dimenticarsi dei bilanci pubblici (e anche della sacralità, da loro così spesso sostenuta, del principio della concorrenza) quando si tratta di temi come in primo luogo gli aiuti alla grande finanza e le spese militari. E questi concretissimi comportamenti costituiscono appunto una delle evidenti dimostrazioni del fatto che quella rigidità è una bandiera soltanto “di facciata”: in realtà, non è altro che una maschera che nasconde unicamente logiche elitarie e classiste.

I propagandisti del neoliberismo asseriscono spesso di essere l’alternativa alla corruzione in politica, ma della corruzione sono invece una delle manifestazioni più intense e una delle celebrazioni massime: se la corruzione ordinaria svende di fatto a qualcuno qualcosa di pubblico, il neoliberismo mira a priori a svendere a qualcuno l’intera “cosa pubblica”....

In altri termini il neoliberismo – in modo simile alle dittature più decise e sfacciate, che in un certo senso, esprimendosi già in un dominio pressoché assoluto, non hanno bisogno delle forme ordinarie di corruzione – è una forma di corruzione di ordine superiore rispetto alla corruzione ordinaria (cioè quella che p.es. in Italia è entrata in modo eclatante nei tribunali con i processi di “Mani pulite” negli anni ’90). La differenza rispetto a tali dittature è che queste ultime svendono l’insieme della “cosa pubblica” a un gruppo ristrettissimo di persone alleatesi fra loro per conquistare materialmente il potere politico oppure addirittura a una sola persona (cui solitamente sono aggregati qualche consigliere e una serie di “esecutori di ordini”), mentre il neoliberismo mira a svenderla a un’oligarchia economico-finanziaria: il ceto dei “grandi ricchi”, il quale grazie alle pratiche neoliberiste mira a sua volta a divenire classe non solo dominante ma anche sostanzialmente egemonica.

Dal punto di vista della vita sociale, la differenza più profonda tra la corruzione ordinaria e le forme di corruzione di ordine superiore è che la prima – pur potendo anch’essa generare molti e gravi problemi nella società attraverso l’affarismo dei politici, il clientelismo, la frequente burocratizzazione della P.A., ecc. – sarebbe anche ampiamente curabile e prevenibile attraverso delle forme di salvaguardia dei cittadini: l’istituzione di leggi elettorali profondamente democratiche e di norme altrettanto democratiche sul funzionamento delle pubbliche istituzioni; la trasparenza amministrativa; la “democrazia partecipativa”; l’ampliamento della “democrazia diretta”, in modo simile a quanto avviene in Svizzera e in Bolivia [50]; l’evitare i conflitti di interesse nelle funzioni degli amministratori pubblici; l’efficace presenza sia di organismi regionali di controllo sulla legittimità degli atti delle amministrazioni locali, sia di un analogo organismo nazionale che dia una prima valutazione dei vari aspetti di legittimità (costituzionali e di altro tipo) degli atti del Parlamento, del governo e delle amministrazioni regionali, prima che tutti questi vari atti possano entrare in vigore; l’evitare che i poteri degli organismi politico-amministrativi vengano “devoluti” automaticamente a dei funzionari della P.A. (come hanno fatto invece in Italia in molte circostanze la “legge Bassanini” del marzo 1997 e i suoi decreti applicativi), e ciò in quanto l’idea di una applicazione esclusivamente “tecnica” – anziché tecnico-politica – del potere decisionale è una chimera che tendenzialmente fa comodo soltanto alle varie lobby economiche che mirano a manipolare a loro favore le scelte delle amministrazioni pubbliche [51]; e così via. Il tutto tenendo ovviamente conto dell’esigenza di forme di partecipazione democratica che siano socialmente adeguate alle singole realtà delle varie parti del mondo [52].

Al contrario, la corruzione di ordine superiore – non basandosi su tanti singoli episodi diversificati ma su un’impostazione di fondo che a priori affida ad un ristretto strato privilegiato il ruolo di comando nella società – appare curabile solamente con un vero e proprio rovesciamento che ponga termine alla radice stessa di tale impostazione, cioè in pratica, a seconda dei casi, al potere delle élite economiche rivendicato e concretizzato dai neoliberisti o a un regime dittatoriale indiscusso, praticamente assolutistico e sostanzialmente privo di limitazioni e di contrappesi istituzionali [53].


Note
* La prima parte di questo intervento si trova al seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/16503-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica.html”.
A questa seconda parte – nella quale per semplicità la numerazione delle note prosegue come continuazione dalla prima parte – dovrebbe fare prossimamente seguito una terza e conclusiva parte.
[18] Oltre ai riferimenti già inclusi nella nota 2 (nella prima parte del presente intervento), su diversi aspetti eclatanti della crisi irlandese – che ha avuto un’origine nazionale esclusivamente bancaria ed è stata pesantemente manipolata a più riprese in via sia ufficiale che “ufficiosa” dalle istituzioni dell’UE, tra le quali soprattutto la Banca centrale europea (Bce) durante la presidenza Trichet – cfr. anche p.es. The big gamble: The inside story of the bank guarantee, di Simon Carswell (The Irish Times, 25 settembre 2010), The curse of the euro: EU and Mrs Merkel humiliate new Irish prime minister Enda Kenny, di Mary Ellen Synon (The Irish Daily Mail, 7 marzo 2011), Fianna Fail finally admit truth about the bank guarantee, di Kevin Doyle (The Evening Herald, 25 maggio 2012), Martin claim on bailout is shocking, editoriale (ibid.), Lenihan name ‘sullied’ by Trichet (The Irish Examiner, 4 maggio 2015) e Eamon Ryan insists: Trichet acted to protect bondholders (id., 5 maggio 2015), entrambi di Juno McEnroe, e The ECB’s role in the design and implementation of (financial) measures in crisis-hit countries, di Ajai Chopra, Daniel Gros e Karl Whelan (Directorate General for Internal Policies, European Parliament, novembre 2015).
Sull’esperienza greca, cfr. anche p.es. Errori, ritardi e liti nel flop della Troika, ora il mea culpa arriva anche dall’Fmi, di Ettore Livini (La Repubblica, 10 febbraio 2015), L’attacco dell’Europa alla democrazia greca, un intervento di Joseph E. Stiglitz pubblicato su Internet il 29 giugno 2015 e ripreso poi da diverse testate giornalistiche nella loro versione on-line (“https://www.project-syndicate.org/commentary/greece-referendum-troika-eurozone-by-joseph-e--stiglitz-2015-06/italian”), e il già citato documento interno dell’UE redatto da A. Chopra, D. Gros e K. Whelan.
Sulle vicende spagnole, cfr. anche p.es. The state of Spanish banks: Under siege (The Economist, 13 gennaio 2011) e Rising inequality: youth and poor fall further behind (Income inequality update - June 2014), uno studio realizzato dall’OECD – più nota in italiano come Ocse – dove si mostra tra le altre cose la gestione economicamente quanto mai elitaria e antipopolare che la “crisi dei mutui” ha avuto in Spagna da parte dei suoi governi di quegli anni. Si tratta di uno studio che ha avuto molta risonanza in questo paese.
Sul controverso caso del Portogallo, cfr. p.es. Portugal’s economy: Still scary (The Economist, 13 gennaio 2011) e Portugal’s unnecessary bailout, di Robert M. Fishman (The New York Times, 13 aprile 2011).
Sulla crisi cipriota, cfr. p.es. The Economic Adjustment Programme for Cyprus, a cura di Maarten Verwey (Directorate-General for Economic and Financial Affairs Publications, European Commission, maggio 2013).
Anche le statistiche socio-economiche rese note anno dopo anno dai paesi in questione (specialmente i dati riguardanti la disoccupazione, la diffusione della povertà, l’indebitamento pubblico, il Pil pro-capite e l’andamento borsistico) possono risultare estremamente efficaci per comprendere l’effettivo svolgersi delle vicende qui ricordate.
[19] La crisi dei Subprime è sempre la crisi nota anche come “crisi dei mutui”. In inglese, “Subprime” indica appunto una tipologia di mutuo, o di altre forme di credito, caratterizzata dal fatto che i debitori sono considerati avere un notevole rischio di insolvenza e/o dal fatto che il credito viene erogato a fronte di garanzie basse o addirittura nulle.
[20] In tutta questa procedura, le istituzioni europee hanno favorito in vari modi il passaggio del debito greco da creditori soprattutto privati a creditori quasi solo pubblici. Ha riassunto p.es. Gaël Giraud in Transizione ecologica - La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia (Emi, 2015), parlando dei «diversi piani di “salvataggio” messi in atto dal 2010» con la Grecia: «In verità, il “salvataggio” che avevano in mente quei piani era quello delle banche francesi e tedesche. Le decine di miliardi che i Paesi dell’eurozona hanno prestato alla Grecia dal 2010 [...] sono serviti al rimborso dei debiti di Atene alle banche. E hanno dunque sostituito un debito inizialmente dovuto alle banche con un debito ormai dovuto agli Stati. Lo stesso dicasi per il debito pubblico greco che le banche private, francesi e tedesche, hanno venduto alla Bce» grazie ovviamente ad una “speciale” disponibilità di quest’ultima ad acquistare senza problemi i titoli in questione. «È un debito che ormai figura nel bilancio della Bce. Ciò significa che, se la Grecia fa default sul suo debito sovrano, la Bce registrerà delle perdite. Ora, i Trattati europei obbligano gli Stati membri dell’eurozona a ricapitalizzare la Bce. È chiaro: sono in ogni caso i contribuenti europei ad aver preso il posto delle banche come creditori della Grecia». Così, «l’opinione pubblica, che avrebbe probabilmente accettato con serenità una [ulteriore, N.d.R.] ristrutturazione del debito greco a spese delle banche (come nel gennaio 2012), accetta con ben maggiore difficoltà una ristrutturazione a spese dei cittadini. E a ragione. Sarebbe stato assai più ragionevole praticare una ristrutturazione massiccia del debito pubblico greco fin dal 2011, il che avrebbe costretto le banche francesi e tedesche a pagare il prezzo dei loro errori (concedere un prestito a un richiedente insolvente è un errore professionale di cui un banchiere è il primo a doversi assumere la responsabilità)»....
Lo stesso Fmi ha più volte ribadito negli ultimi anni che, per evitare futuri danni ancor più gravi all’economia greca ed europea in genere, si sarebbe dovuto intervenire rapidamente con una seconda ristrutturazione del debito greco, riducendolo di nuovo in maniera consistente (a danno ovviamente dei creditori). Ma, ora che i creditori sono la Bce, gli Stati europei e quindi alla fin fine i loro cittadini (ed elettori), non stupisce che l’UE continui a rifiutare questo secondo taglio, mantenendo in tal modo una esagerata e controproducente pressione finanziaria sulla popolazione greca.... Anche questo è un effetto dei colossali favori fatti ripetutamente agli istituti bancari e finanziari durante l’ultimo decennio dalle istituzioni dell’UE e ovviamente dai governi dei suoi paesi membri.
[21] Colpisce in modo particolare qui la scelta della parola “dovuto”: una scelta che già da sola spiega mille cose....
[22] Cfr. p.es. lo State Aid Scoreboard 2018, pubblicato dalla Commissione europea nel gennaio 2019. Secondo i dati di questo rapporto, i 5.120 miliardi approvati erano costituiti da circa 855 miliardi di ricapitalizzazioni, 605 di misure relative a risorse finanziarie deteriorate, 3.415 di garanzie e 245 di altre operazioni legate alla liquidità, mentre i 1.960 miliardi concretamente impegnati erano composti da circa 475 miliardi di ricapitalizzazioni, 190 di misure su risorse deteriorate, 1.185 di garanzie e 110 di altre forme di liquidità. Come ha sottolineato in particolare Éva Voszka in Competition Policy in Europe - Temporary or Long-Lasting Changes? (Public Finance Quarterly, 1° trimestre 2012), andrebbe comunque ricordato che il valore intrinseco delle garanzie statali poste su dei debiti bancari è tale che esse in numerosi casi, riuscendo di fatto mediante la loro mera esistenza ad eliminare le pressioni dei creditori e del mercato sulle banche in questione, possono essere sufficienti a rispondere a certi aspetti di una crisi bancaria anche senza bisogno che venga effettivamente sborsato un solo euro di soldi pubblici. In altre parole, le garanzie statali potrebbero essere considerate utilizzate anche quando non espressamente mobilitate. Tenendo conto di questo, si potrebbe arrivare a un totale effettivamente utilizzato – anche se in parte non mobilitato – di circa 4.190 miliardi, cioè approssimativamente il 33% del Pil dell’UE del 2011.
[23] Per quanto riguarda gli aiuti concretamente impegnati, secondo i dati in questione pubblicati dall’UE i paesi con le percentuali più alte rispetto al Pil nazionale del 2011 sono risultati Irlanda (224%), Danimarca (66%), Grecia (54%), Cipro (35%), Belgio (24%), Portogallo (22%), G. Bretagna (19%), Slovenia (17%), Spagna (17%), Olanda (16%), Lussemburgo (15%), Lettonia (12%), Austria (12%) e Germania (11%), mentre in termini assoluti hanno spiccato Irlanda (351 miliardi), G. Bretagna (332), Germania (284), Spagna (186), Danimarca (158), Francia (119), Grecia (116), Italia (109), Olanda (99) e Belgio (89).
Se i calcoli degli aiuti utilizzati vengono fatti tenendo conto dell’avvertenza riportata nella nota precedente, per i paesi e gli importi in questione si ottengono i seguenti risultati: in percentuale del Pil nazionale, Irlanda 283%, Danimarca 248%, Belgio 86%, Grecia 68%, Cipro 53%, Slovenia 45%, Olanda 43%, Lettonia 35%, G. Bretagna 31%, Austria 30%, Portogallo 29%, Spagna 29%, Germania 23% e Lussemburgo 17%; in termini assoluti, Germania 597 miliardi, Danimarca 593, G. Bretagna 538, Irlanda 442, Francia 346, Belgio 318, Spagna 314, Olanda 258, Italia 198 e Grecia 147.
Per chi ne avesse la curiosità, i 109, 198 e 226 miliardi di aiuti associati all’Italia (e calcolati rispettivamente come “concretamente impegnati”, “tendenzialmente utilizzati secondo l’avvertenza citata” e “ufficialmente approvati dalla Commissione europea”) corrispondono rispettivamente al 7%, al 12% e al 14% del Pil italiano del 2011.
[24] In pratica, la soglia oltre la quale iniziano tipicamente queste richieste e minacce è quando il deficit annuo supera il 3% del Pil, ma nel caso dei paesi dell’UE (e soprattutto dell’eurozona) che hanno un debito pubblico complessivo oltre il 60% del loro Pil si considera che ogni anno andrebbe recuperata una parte di tale “eccesso di debito” e, quindi, in tal caso la soglia – in base a varie considerazioni politico-economiche spesso apertamente controverse e molto discusse – può venire spostata dalla Commissione a livelli percentuali inferiori al 3%.
[25] L’indirizzo in rete è: “http://www.civetta.info/download/civetta_01_12.pdf” (pag. 10). Nell’articolo si citavano un articolo di Krugman uscito poche settimane prima sul New York Times e una conferenza di Stiglitz del 2007 (organizzata dall’Economic Policy Institute a Washington). I rispettivi titoli erano Legends of the fail e Beyond balanced budget mania: An agenda for shared prosperity.
[26] Cfr. in particolare Quale economia oggi per il bene comune? (i cui riferimenti bibliografici consentono ampi approfondimenti), scritto pubblicato nell’ottobre 2018 nel sito di “Sinistra in rete”. Ovviamente, tutta la questione ha a che fare, tra le varie cose, anche con la qualità del mondo politico presente in una certa parte del mondo, come in sostanza si metteva in evidenza già in Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017). I neoliberisti – che a dispetto di una serie inconfutabile di dati reali insistono nell’affermare che sia impossibile un’azione pubblica davvero efficace ed efficiente (come si è già sottolineato nella prima parte del presente intervento, in particolare nella nota 11) – mostrano evidentemente di ritenere inevitabilmente molto bassa la qualità del mondo politico in un qualsiasi paese. Poiché coloro che noi conosciamo meglio sono tipicamente quelli che ci stanno più vicini, ciò suggerisce con molta forza che i politici vicini al neoliberismo siano i primi ad essere comunque degli amministratori pubblici e degli statisti intrinsecamente di pessima qualità.... E ciò probabilmente perché sono i primi ad essere talmente intrisi di ambizioni personali, di egocentrismo, di classismo e di insensibilità verso gli altri e verso l’ambiente naturale – come appunto predica in sostanza il neoliberismo a proposito di come sono fatti a suo parere gli esseri umani – da essere pressoché incapaci di cogliere il senso profondo dell’interesse collettivo, del bene comune e di quelle motivazioni sociali ed etiche che possono riscaldare il cuore umano in rapporto a gruppi di popolazione anche molto ampi (ampi magari come l’intera umanità o, più in generale, come l’intero universo degli esseri senzienti).... I due scritti qui ricordati si trovano ai seguenti indirizzi rispettivi:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html”;
https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”.
[27] In italiano – oltre all’articolo già citato Due Nobel per lo Stato sociale e a Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016) – cfr. p.es. C’è crescita solo dove il pubblico investe, di Anna Maria Merlo (Il Manifesto, 25 maggio 2005), Il prezzo della diseguaglianza, di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, 2013), Riduci le disuguaglianze e avrai più crescita: parola di Ocse e Fmi, di Marta Fana (Il Manifesto, 20 giugno 2015), Stagnazione: la finanza è la causa, non il rimedio, di Vladimiro Giacché (Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016), Meno crescita e più disuguaglianza - Effetti (straordinari) delle politiche neoliberiste secondo il FMI, di Maurizio Franzini (“https//www.sinistrainrete.info/neoliberismo/7497-maurizio-franzini-meno-crescita-e-piu-disuguaglianza.html”, 26 giugno 2016), Gli economisti liberisti al servizio della rapina, di Claudio Conti (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/13192-claudio-conti-gli-economisti-liberisti-al-servizio-della-rapina.html”, 7 settembre 2018), «Crescita recessiva», ovvero la crescita che non fa crescere, di Marco Bertorello (Il Manifesto, 17 novembre 2018), e In arrivo una nuova ondata globale di austerità, di Thomas Fazi (“https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/16156-thomas-fazi-in-arrivo-una-nuova-ondata-globale-di-austerita.html”, 26 ottobre 2019). Per ulteriori commenti e approfondimenti politico-economici cfr. anche Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica (intervento dell’ottobre 2013) e Oltre Keynes, cit.. Appare inutile esplicitare qui di nuovo i tanti dati e le osservazioni che sono stati presentati in questi vari scritti, ai quali si rimanda dunque per qualsiasi eventuale precisazione. L’articolo di Rocca del 2016 e l’intervento dell’ottobre 2013 sono disponibili ai seguenti rispettivi indirizzi:
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/7398-luca-benedini-non-una-vera-crisi-economica-ma-una-strategia.html”;
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0eae6ece0720d94be1a4a88720d94f90ae113b2f722d7d3e/1/8/MjY/MjYvMg”.
[28] In altre parole, attraverso questo genere di false deduzioni si potrebbe arrivare p.es., partendo dall’evidente esigenza di badare a che un animale domestico sia nutrito se si vuole averne uno, ad affermare che sia assolutamente necessario fargli una cuccia dorata e rivestita di seta.... Nell’antica Grecia, i sofisti si erano specializzati nel compiere falsi ragionamenti che potevano sembrare veritieri, mediante i quali cercare – e spesso con successo se non erano presenti interlocutori sufficientemente acuti, informati e/o scafati – di persuadere a loro piacimento gli astanti a proposito di qualsiasi argomento si potesse voler discutere.... E si vantavano di questa loro capacità oratoria, che hanno spesso fatto diventare anche una fonte di reddito.
[29] Come ha ricordato p.es. Thomas Fazi in La follia delle clausole di salvaguardia sull’IVA (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15696-thomas-fazi-la-follia-delle-clausole-di-salvaguardia-sull-iva.html”, 27 agosto 2019), «l’IVA (imposta sul valore aggiunto) [...] è una tassa [...] applicata a tutti i beni e servizi che vengono acquistati nel territorio nazionale» e, «come ogni tassa indiretta, si tratta di un’imposta intrinsecamente regressiva, poiché incide maggiormente sui redditi bassi che su quelli alti». In Italia, un ampio peso delle imposte indirette nell’ambito del sistema fiscale risulta quindi in sostanziale contrasto col già citato art. 53 della Costituzione, che specifica che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
[30] Oltre a un’eventuale contestabilità di tipo politico (sulla base di ragioni umane, sociali, etiche, ecc.) o economico (sulla base di valutazioni pratiche come p.es. quelle che hanno portato a una parziale ristrutturazione del debito pubblico greco nel 2012) e indipendentemente da tali tipi di contestabilità, in svariati casi i debiti pubblici possono avere una specifica contestabilità giuridica. Su quest’ultima cfr. p.es. Debito estero: le ragioni per non pagarlo (Rocca, 15 novembre 2002) e le ulteriori indicazioni bibliografiche riportate nella nota 19 di Quale economia oggi per il bene comune?, cit.. L’articolo del 2002 è disponibile al seguente indirizzo:
https://www.peacelink.it/pace/a/8892.html”.
[31] Tra gli effetti più problematici di un’elevata inflazione vi è il fatto che essa riduce costantemente il valore effettivo – cioè la capacità di acquisto – delle entrate a reddito fisso (stipendi, pensioni, ecc.). Inoltre, nei paesi con una specifica valuta nazionale vi è l’inevitabile tendenza ad un crescente deprezzamento di tale valuta nei confronti di tutte le valute che hanno una maggiore stabilità (il che potrebbe implicare anche una crescente incapacità di saldare i propri debiti esteri, se questi sono espressi appunto in una valuta più stabile), mentre nei paesi che hanno insieme ad altri una valuta comune si pone il problema di una sempre più scarsa competitività economica nazionale nei confronti specialmente di questi altri paesi (ed eventualmente anche di altri ancora, a seconda degli andamenti valutari internazionali). Stampare e spendere sul mercato una quantità decisamente eccessiva di moneta rispetto ai bisogni intrinseci delle attività di produzione e circolazione di beni e servizi è appunto uno dei modi più tipici per provocare alti livelli di inflazione.
[32] Come si è ampiamente sottolineato nei due interventi già citati Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica e Dietro le quinte dell’economia internazionale, in linea di massima la domanda aggregata di beni e servizi dipende principalmente dai consumi, e questi dipendono in buona parte dalla propensione delle persone al consumo (specialmente di beni e servizi di produzione locale), propensione che tende ad essere molto elevata nelle fasce di popolazione a reddito basso e medio-basso e piuttosto bassa nelle fasce a reddito elevato. Quindi – e tanto più quando si parla specificamente della scala nazionale – il prelievo fiscale sui redditi bassi e medio-bassi colpisce la domanda aggregata e l’attività economica in modi decisamente più pesanti di quanto faccia il prelievo sui redditi elevati.
[33] Sulla questione cfr. in particolar modo La globalizzazione e i suoi oppositori, di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, 2002). Sui vari significati che può avere l’affiancare le iniziative riguardanti nei singoli paesi il piano nazionale con azioni riguardanti il piano internazionale, cfr. anche Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010), Oltre Keynes, cit. (in special modo il paragrafo “L’irrompere della globalizzazione”) e Quale economia oggi per il bene comune?, cit. (in special modo il paragrafo “Far fronte alla globalizzazione”, con un particolare riferimento alle sue note 11 e 14). L’articolo del 2010 è disponibile all’indirizzo:
http://www.civetta.info/download/civetta_11_10.pdf” (pag. 16).
Il rapporto tra fisco e frontiere è indubbiamente alquanto complicato, tanto più alla luce della tendenza economica globalizzante che era stata osservata – e in parte anche apprezzata – da Marx ed Engels già a metà ’800 (come attestano p.es. il primo capitolo del loro Manifesto del partito comunista, del 1848, il Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato e poi pubblicato quello stesso anno da Marx, e Protezionismo e libero scambio, un testo che Engels scrisse nel 1888 come prefazione alla prima edizione statunitense di quel Discorso marxiano cogliendo l’occasione per fornire una serie di puntualizzazioni, aggiornamenti e approfondimenti sull’argomento). Per una breve introduzione a quelli che nell’epoca attuale, globalizzata in modo neoliberista, possono essere considerati i due nodi principali della “questione fiscale” (cioè da un lato generalmente un grande arricchimento di pochi e una stagnazione o una riduzione del reddito dei tanti e dall’altro lato la tendenza a sempre più intense problematiche ambientali su scala internazionale, dalle quali derivano anche i sempre più drammatici squilibri climatici odierni), cfr. p.es. Dietro le quinte dell’economia internazionale, cit., Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit., e Transizione ecologica - La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia, di Gaël Giraud, cit.. Questi due nodi s’intrecciano a loro volta col fatto che un’ampia parte della tassazione dei ceti sociali ad alto reddito e delle imprese ha direttamente o indirettamente a che fare appunto con le frontiere: vi sono p.es. le relative, ma ampiamente superabili, difficoltà insite nell’identificare chi e che cosa tassare con una web tax (imposta sui guadagni realizzati tramite Internet), dal momento che Internet in sé e per sé praticamente non ha frontiere nazionali; vi è la questione dei paradisi fiscali, grazie ai quali molti “grandi ricchi” e la criminalità organizzata si fanno sostanzialmente beffe delle norme fiscali (e spesso anche penali) di tutti gli altri paesi; parallelamente, vi sono imposte che per funzionare davvero richiederebbero un accordo praticamente mondiale, come accade con i progetti di tassazione delle transazioni finanziarie, e ciò anche in quanto – grazie soprattutto all’informatica e alla telematica – è diventato facilissimo operare nel campo della finanza mondiale stando pressoché in qualsiasi parte del globo; vi è il fatto che, senza accorgimenti fiscali particolarmente mirati, in pratica le multinazionali possono spostare nominalmente i loro redditi da un paese all’altro con grande facilità, scegliendo così i paesi e le situazioni che consentono loro di pagare meno tasse; e in generale vi è il fatto che con la globalizzazione neoliberista i capitali tendono a spostarsi rapidamente dai paesi che trattano in modi meno favorevoli i capitali stessi ai paesi in cui i capitali vengono sostanzialmente riveriti dall’amministrazione statale (inclusa la cosiddetta “Cina popolare”, che negli ultimi decenni è diventata uno dei luoghi più profittevoli del mondo per i capitalisti di qualsiasi paese, grazie al ferreo controllo sociale e repressivo che il regime post-rivoluzionario di Pechino continua ad avere sulla popolazione – incluse specificamente le classi lavoratrici – sin dalla seconda metà degli scorsi anni ’50 e all’estrema commistione di interessi tra potere politico ed élite economiche che si è affermata sempre più nella linea politica di tale regime a partire dagli anni ’80).
In questa serie di questioni, la meno nota fra i “non addetti ai lavori” è molto probabilmente quella delle multinazionali. A tale riguardo, Rob Van Drimmelen – in Economia globale e fede (Claudiana, 2002) – ha messo in particolare evidenza che «non è raro il caso in cui le TNC [cioè le multinazionali, N.d.R.] riescono a evadere il pagamento delle imposte. [...] Uno dei meccanismi usati per ridurre le imposte» ha a che fare col fatto che «quasi un terzo del commercio mondiale in beni e servizi è formato ora da transazioni che avvengono all’interno di una singola TNC. I prezzi adottati per queste transazioni – i prezzi di trasferimento interno – non seguono necessariamente i prezzi del mercato. Al contrario, le TNC possono manipolare questi prezzi per aumentare i loro profitti e far sì che questi ultimi si realizzino dove vogliono loro». Addirittura, delle merci possono essere spostate in maniera soltanto virtuale (e quindi fasulla) da una filiale nazionale ad un’altra e poi di nuovo alla prima utilizzando prezzi diversi nelle due operazioni, magari associando alla cosa qualche ulteriore trucco che mascheri ancor meglio la faccenda: il risultato formale e giuridico è un apparente spostamento netto dei profitti da un paese all’altro. Basta avere una filiale in un paese che tassa molto poco i profitti aziendali e, attraverso operazioni come quelle qui accennate, si può giungere a tagliare gran parte delle imposte che la multinazionale dovrebbe versare ai vari Stati in cui opera.... «Un’assoluta segretezza circonda il modo in cui i prezzi interni di trasferimento vengono fissati e applicati», ha proseguito Van Drimmelen. E – guarda caso – «perfino i governi spesso considerano tali questioni problemi interni delle TNC».... Le leggi fiscali di uno Stato dovrebbero invece affrontare questa tematica in modo chiaro e diretto, richiedendo trasparenza alle imprese ed evitando che nei bilanci delle filiali di una multinazionale si possano compiere legalmente dei trucchi che mascherano e nascondono l’andamento economico reale delle filiali stesse; le situazioni concrete andrebbero poi tenute sotto controllo da parte dei ministeri competenti, della guardia di finanza, ecc..
Come se non bastasse l’insistenza neoliberista in merito al ridurre ufficialmente il più possibile l’imposizione fiscale sui ricchi, va tenuto conto che le deregolamentazioni rivendicate comunemente dai neoliberisti e il loro tipico invito a snellire il più possibile l’apparato statale servono anche proprio a facilitare molteplici forme di elusione ed evasione fiscale alle imprese e in generale alle classi privilegiate, che hanno tipicamente forme di reddito alquanto complesse (le quali possono consentire un certo aggiramento delle leggi fiscali, tanto più quando i controlli sui bilanci e sui redditi dichiarati sono sempre più rari e limitati grazie appunto allo snellimento degli apparati pubblici e al fatto che tale snellimento può facilmente comportare disponibilità di bilancio sempre più striminzite per quanto riguarda la guardia di finanza e gli altri possibili controllori fiscali...), mentre nel contempo si cerca invece di far pagare ogni centesimo dovuto di imposte e tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati (che tranne quando lavorano in nero non possono che dichiarare ogni loro reddito). Ovviamente, un sistema fiscale ben funzionante dovrebbe riuscire ad evitare sia l’inanità auspicata dai neoliberisti (che in generale mirano appunto a ridurre il più possibile l’impatto del fisco sui ricchi e sulle imprese), sia una proliferazione pressoché incontrollata di adempimenti e controlli burocratici, che oltre a snervare i cittadini risulterebbe pure alquanto costosa dal punto di vista operativo.... Occorrerebbero insomma semplicità, efficacia e capacità di rapido adeguamento ai cambiamenti concreti dell’“economia reale”.
Sulla tendenza allo spostamento internazionale dei capitali (per quanto riguarda sia gli investimenti veri e propri nell’“economia reale” sia i depositi di tipo finanziario miranti semplicemente a remunerativi tassi d’interesse o al coinvolgimento in rapide operazioni speculative) anche la mentalità imprenditoriale predominante nei diversi paesi può avere notevoli effetti. P.es., dove predomina una mentalità improntata all’egocentrismo e all’accumulo indiscriminato di ricchezza e privilegi, facilmente gli imprenditori faranno di tutto per pagare meno tasse possibile e per ottenere dei profitti particolarmente elevati; dove invece – in sintonia con la visione keynesiana dell’economia e più in generale con i modi di vivere che considerano importanti l’etica e la qualità dei rapporti interpersonali e sociali – gli imprenditori tendono a considerarsi parte integrante della comunità locale (che può essere intesa su una scala non necessariamente ristretta e “campanilistica” ma anche più vasta, come del resto suggerisce da tempo il concetto di “villaggio globale”), può non essere per loro così fondamentale evitare il più possibile il pagamento delle tasse e massimizzare in qualsiasi maniera i guadagni, proprio perché possono ritenere normale ed equo partecipare anch’essi alla vita di tale comunità contribuendo come gli altri ad essa in base alle proprie possibilità economiche (di solito, ovviamente, molto maggiori di quelle delle classi lavoratrici) e apprezzando la possibilità che vi sia una diffusa presenza locale di una positiva e incoraggiante qualità della vita.
Il moderno proliferare delle società per azioni e delle multinazionali facilita chiaramente la diffusione della mentalità del primo tipo, in quanto il rapporto tra il livello decisionale di un’impresa e le varie situazioni locali che stanno intorno alle varie sedi operative dell’impresa stessa (filiali, stabilimenti, punti-vendita, laboratori, magazzini, ecc.) tende a diventare sempre più labile, impersonale e sostanzialmente virtuale. È anche per questo che Marx ed Engels – che fecero in tempo a vedere il primo fiorire delle società per azioni e della tendenza alla trasformazione dell’originario capitalismo concorrenziale in capitalismo oligopolistico o addirittura monopolistico – ipotizzarono appunto che le contraddizioni interne del capitalismo stessero crescendo sempre più fino ad un probabile punto d’implosione economica, ambientale e soprattutto sociale. Oltre alla particolare capacità di innovazione tecnologica e di rinnovamento mostrata nei fatti già allora dal capitalismo e messa in particolare rilievo da Engels nella sua Introduzione del 1895 al testo marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, anche altri fattori hanno indubbiamente rallentato in seguito la crescita di tali contraddizioni: tra questi, in particolare lo sviluppo delle analisi e proposte keynesiane (e più in generale della capacità politica di intervenire sull’economia moderando o addirittura aggirando in gran parte il meccanismo collegato alle crisi cicliche che avevano caratterizzato l’Ottocento e il primo Novecento); la capacità pubblica di stabilire degli specifici requisiti qualitativi per il settore produttivo in base alle conoscenze scientifiche e alle esigenze collettive di tipo sanitario e ambientale; e le iniziative politiche messe frequentemente in atto contro gli oligopoli e i monopoli (specialmente quando di tipo privato, giacché a volte quelli pubblici possono risultare del tutto adeguati alle effettive esigenze della popolazione e dello sviluppo economico). Peraltro, l’attuale neoliberismo sta palesemente accelerando di nuovo la crescita di quelle contraddizioni, con effetti estremamente negativi praticamente su qualsiasi aspetto delle dinamiche sociali, ambientali ed economiche odierne fatta eccezione per l’ammontare continuamente crescente dei guadagni e del potere delle élite economiche....
Per recenti aggiornamenti sulla tendenza alla finanziarizzazione e alla proliferazione delle attività finanziarie meramente speculative, cfr. in particolare Derivati finanziari: salvare il sistema per non cambiarlo, di Giovanna Cracco (“https://sinistrainrete.info/finanza/16607-giovanna-cracco-derivati-finanziari-salvare-il-sistema-per-non-cambiarlo.html”, 22 dicembre 2019).
Nell’ambito dell’UE il rapporto tra fisco e frontiere ha – in aggiunta a tutto questo – una sua peculiare complessità in rapporto con i vari aspetti della legislazione vigente e con le possibili rivendicazioni di sue modifiche. Come hanno riassunto p.es. Dražen Rakic e Denitza Dessimirova nell’aprile 2019 in Libera circolazione dei capitali (un testo informativo pubblicato all’indirizzo “http://www.europarl.europa.eu/ftu/pdf/it/FTU_2.1.3.pdf”, nel sito Internet del Parlamento europeo) – da un lato «il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1994, ha introdotto la libera circolazione dei capitali», ma dall’altro lato sono previste alcune «restrizioni giustificate» a tale libertà: «(i) le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione nazionale (in particolare nel settore fiscale e in materia di vigilanza prudenziale sui servizi finanziari); (ii) le procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a fini amministrativi o statistici; e (iii) le misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. Quest’ultimo caso è stato invocato durante la crisi della zona euro, quando Cipro (2013) e la Grecia (2015) sono stati costretti a introdurre controlli sui movimenti di capitale al fine di impedire un deflusso incontrollabile dei capitali. Mentre Cipro ha rimosso tutte le restrizioni rimanenti nel 2015, i controlli sui movimenti di capitali, anche se meno rigidi, restano in vigore in Grecia». Inoltre, è autorizzata «l’adozione di misure di salvaguardia per la bilancia dei pagamenti in caso di difficoltà tali da compromettere il funzionamento del mercato interno o di improvvisa crisi. Tale clausola di salvaguardia è disponibile solamente per gli Stati membri non appartenenti alla zona euro», però. Tra le prospettive collegate all’UE va considerato anche che la Commissione europea sta «cercando di sospendere gli attuali trattati bilaterali di investimento (Tbi) intra-UE, molti dei quali esistevano già prima dei più recenti allargamenti dell’UE» (si tratta di alcuni dei trattati di “libero scambio” ricordati nella parte iniziale del presente scritto, sui quali cfr. in particolare i riferimenti menzionati nella nota 3). «Tali accordi tra gli Stati membri sono considerati dalla Commissione come un impedimento al mercato unico, poiché sono incompatibili e si sovrappongono con il quadro legislativo dell’UE. I meccanismi di arbitrato inclusi nei Tbi, ad esempio, escludono sia i tribunali nazionali sia la Corte di giustizia dell’Unione europea, impedendo in tal modo l’applicazione del diritto dell’UE. I Tbi potrebbero inoltre determinare un trattamento più favorevole nei confronti degli investitori di alcuni Stati membri che hanno concluso Tbi intra-UE». Nel contempo, il Parlamento europeo ha «sottolineato che la liberalizzazione dei capitali dovrebbe essere accompagnata dalla totale liberalizzazione dei servizi finanziari e dall’armonizzazione delle legislazioni fiscali in vista della creazione di un mercato finanziario europeo unificato».
Queste considerazioni mostrano in particolare che anche nell’UE uno Stato ha attualmente la possibilità di utilizzare qualche restrizione al libero movimento dei capitali e che dei cruciali terreni di iniziativa su scala europea dovrebbero essere comunque costituiti dai possibili cambiamenti che si possono introdurre nella legislazione dell’UE o più specificamente dell’eurozona. In particolare – oltre all’ovvia lotta contro i vari trattati di “libero scambio” (non solo quelli intra-UE) e il loro tipico atteggiamento di ossequio agli interessi delle multinazionali – andrebbe prevista appunto una maggiore armonizzazione fiscale tra i vari paesi membri, così da evitare il più possibile la “concorrenza fiscale al ribasso” che in base alle normative attuali tende a prodursi tra i paesi dell’UE per quanto riguarda la tassazione dei ceti più abbienti e in special modo delle imprese. Ma ancor più importante appare la cornice complessiva di tale armonizzazione, in quanto da un lato quest’ultima andrebbe fatta tenendo conto più della salvaguardia della qualità della vita della “popolazione comune” che degli interessi immediati delle élite economiche e dall’altro lato andrebbero posti in essere dei meccanismi di controllo democratico sulle politiche economiche dell’UE da parte dei cittadini, mentre oggi i meccanismi fondamentali di tali politiche sono invece saldamente nelle mani di organismi politico-burocratici (soprattutto la Commissione europea, l’Eurogruppo e la direzione della Bce) estremamente ristretti e soprattutto molto lontani dalle dinamiche effettive della democrazia.
Indirettamente, peraltro, il fatto che tuttora in paesi dell’UE come Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda lo “Stato sociale” continui sostanzialmente a funzionare in modi considerevolmente efficaci e con metodi essenzialmente democratici mostra comunque che anche nell’attuale situazione dell’UE – e dell’eurozona stessa – esistono equilibri economici, amministrativi e culturali che sono in grado di consentire sul piano nazionale politiche economiche considerevolmente attente al tenore di vita delle classi lavoratrici (inclusi, nella valutazione di tale tenore, i servizi pubblici accessibili alla popolazione). Non appare affatto casuale che siano paesi che – come si notava già in Oltre Keynes, cit. – «hanno mantenuto una relativa scarsità di corruzione, di incompetenza, ecc. soprattutto grazie a una sorta di “spirito civico” diffuso che porta i loro cittadini a negare drasticamente il loro voto ai politici e ai partiti che hanno dato segni di quelle “patologie amministrative”». Questo ovviamente non significa che negli altri paesi la “popolazione comune” sia direttamente responsabile del frequente malgoverno che li caratterizza (in quanto i diretti responsabili sono, evidentemente, i politici e i loro clientes), ma mostra che attraverso sia in generale la partecipazione alla vita politico-sociale sia più in particolare lucide scelte elettorali i “cittadini comuni” avrebbero dei mezzi per difendersi dalla tendenza al malgoverno che appare quanto mai diffusa fra i tanti “politicanti” che mirano più agli interessi personali (loro, dei loro “soci di partito” e appunto dei loro clientes) che al “bene comune”. In ciò va comunque ricordato che dal punto di vista economico-produttivo un paese che si trovi a patire le conseguenze di decenni di sostanziale malgoverno – che si tratti soprattutto di clientelismo, di gravi forme di incompetenza dei politici, dello Stato ridotto all’osso e cinicamente indifferente ai “fallimenti del mercato” come predicano i neoliberisti, di intensa e controproducente burocratizzazione della P.A., o di altre forme ancora di malgoverno – non può certo essere in una situazione paragonabile a quella dei paesi in cui nello stesso periodo lo “Stato sociale” ha agito in notevole sintonia con l’“economia reale” e con la “società civile” nell’affrontare i complessi nodi della moderna società ad elevato sviluppo tecnologico. Il malgoverno lascia solitamente dietro di sé rapporti disfunzionali tra settore privato e P.A., servizi pubblici molto spesso mal diretti, finanze nazionali spesso malmesse, e via dicendo; e per superare una tale impasse può comunemente occorrere un prolungato e notevole impegno collettivo della popolazione del paese.
Questa diversità di situazioni, ad ogni modo, non giustifica affatto i politici e i burocrati che a livello europeo utilizzano le impasse economiche di questo o quel paese dell’UE per maltrattarne le classi popolari e per facilitare le mire che le élite economiche di altri paesi dell’UE possono avere sulle attività produttive, sulle risorse e sul territorio stesso dei paesi in difficoltà di tipo economico. Anzi, questo quadro mostra ancor meglio il cinismo e, alla fin fine, l’odiosità di fondo dei personaggi in questione (tanto più che – come si è già sottolineato in modo esplicito per la Grecia – molto spesso i politici implicati in qualche paese in prolungati casi di malgoverno fanno parte delle stesse aree partitiche dei politici che a livello europeo invocano forme punitive di austerità non certo contro i partiti e le lobby economiche coinvolti in quel malgoverno, ma contro le classi lavoratrici dei paesi in questione, che sono già state le vittime designate di tali partiti e di tali lobby...).
La diversità di effetti che l’attuale legislazione europea ha sui vari paesi membri a seconda del loro sviluppo economico e del grado di malgoverno da essi patito nel recente passato aiuta a comprendere i punti di vista insiti in tale legislazione: è una legislazione che rafforza chi è già particolarmente forte dal punto di vista economico e indebolisce chi da quel punto di vista è già particolarmente debole, e ciò sia nel senso dei rapporti tra le classi sociali che nel senso della competizione – interna al sistema capitalistico – tra le élite economiche dei diversi paesi. Va anche rammentato che nelle varie fasi della realizzazione di tale legislazione sono stati coinvolti tanti partiti, appartenenti non solo a quella sorta di “grande area di centro” che in pratica dirige da tempo la politica dell’UE (e che è costituita principalmente dalle cosiddette “destra moderata” e “sinistra moderata”, incarnate nel Parlamento europeo rispettivamente nel gruppo dei popolari e in quello dei socialdemocratici), ma anche ad altre aree politiche.
In Italia, p.es., all’elaborazione e approvazione dell’accoppiata Sixpack-“fiscal compact” hanno partecipato pienamente l’ultimo governo Berlusconi e il governo Monti: in pratica, al primo dei due spetta il Sixpack e al secondo il “fiscal compact”, che è sostanzialmente una riproposizione del Sixpack con qualche piccolo ampliamento normativo e su una diversa base istituzionale (non una direttiva europea, ma un trattato). Ora, di quel governo Berlusconi erano parte determinante anche la Lega e la destra storica, allora rappresentata da An (divenuta in pratica in quel periodo una corrente del “superpartito” ideato all’epoca da Berlusconi, il Pdl), mentre il governo Monti – un governo “tecnico”, non strettamente politico – è esistito grazie anche al supporto determinante del Pdl (inclusa la sua corrente che corrispondeva ad An), il quale fece pesare in maniera decisiva tale supporto in diversi dei campi dell’attività governativa. Oggi la Lega e FdI – che ha sostituito ufficialmente An nella rappresentanza della destra storica – si presentano pubblicamente come “sovranisti” e acerrimi avversari del tipo di politiche europee espresso emblematicamente in quell’accoppiata, ma in realtà entrambe le formazioni politiche in questione hanno contribuito direttamente, tranquillamente e silenziosamente ad essa quando erano loro a governare in Italia alcuni anni fa (e, in pratica, sin da allora fanno accuratamente finta che ciò non sia mai accaduto...). Non a caso, benché negli ultimi anni il governo Renzi (incentrato sul Pd) e il primo governo Conte (basato sulla coalizione tra Movimento 5 stelle e Lega) si siano distinti per le tante parole inutili dette contro il “fiscal compact” e contro le altre forme di pesante ingerenza dei vertici dell’UE nelle politiche economiche dei singoli paesi membri, né il Pd né la Lega hanno presentato proposte ufficiali per “correggere” in sede europea quelle forme di ingerenza, che loro stessi avevano ufficialmente approvato qualche anno prima (anche i “5 stelle” non hanno presentato proposte e si sono limitati a vuote parole, ma è più facile “perdonarli” a seguito della loro scarsa esperienza politica e anche del fatto che comunque il loro movimento non ha partecipato alla progressiva edificazione di tale ingerenza).... E il fatto che le élite politiche dei paesi economicamente più deboli abbiano approvato una legislazione europea che svantaggia pesantemente questi ultimi suggerisce con grande forza – come si metteva in evidenza già nel 2013 in Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit. – che direttamente o indirettamente tali élite siano state all’epoca letteralmente “comprate” in un modo o nell’altro dalle élite economiche dei paesi dell’UE economicamente più forti....
Vista nell’insieme, la questione “fisco e frontiere nell’UE” suggerisce da un lato che non tutti i governi dei paesi membri utilizzano in modo davvero pieno gli spazi di autonomia che l’attuale legislazione europea consente loro (così come avviene, parallelamente, anche per altre questioni), e ciò presumibilmente allo scopo di fare ulteriori favori a livello nazionale alle élite economiche nascondendosi dietro presunte – e in questo caso fasulle – necessità che verrebbero “imposte dall’Europa” (come se, tra l’altro, per molti versi l’UE non fosse in pratica nelle mani dei governi stessi, oltre che delle varie aggregazioni partitiche che sostengono la Commissione Europea...), e dall’altro lato che in generale si tratta comunque di una legislazione fatta pensando molto più agli interessi dei ricchi che a quelli delle classi lavoratrici, come hanno messo in evidenza con una particolare ampiezza di dati e di osservazioni Thomas Fazi e William Mitchell in Sovranità o barbarie (Meltemi, 2019). In un paese dell’UE – e tanto più se il paese è parte anche dell’eurozona – da un governo che rifiuti di essere definito come antipopolare ci si potrebbe e dovrebbe aspettare sulla questione fiscale, insomma, come minimo un paio di cose (che potrebbero dunque essere richieste quanto mai legittimamente a tale governo dalla popolazione):
  1. riconoscere che in generale una tassazione progressiva – come quella prevista appunto dalla Costituzione italiana – è evidentemente e nettamente la più adeguata a sostenere il fabbisogno della P.A., sia dal punto di vista sociale (per ovvi motivi) che da quello economico (soprattutto per la maggior propensione al consumo tipicamente caratteristica delle fasce a reddito basso e medio), anche se in ciò si dovrebbe cercare di mantenere bassa l’imposizione fiscale non solo sul lavoro ma pure sugli investimenti produttivi;
  2. se il governo stesso ritiene che nella situazione del proprio paese l’attuale legislazione europea non impedisca nei fatti di porre in atto una tale tassazione, applicarla a livello nazionale con decisione (mediante aliquote fiscali sufficientemente elevate sui redditi più alti tra le persone fisiche e sui profitti delle persone giuridiche non reinvestiti produttivamente, adeguate misure anti-evasione e anti-elusione, eventualmente imposte patrimoniali, ecc., come si è già ampiamente sottolineato p.es. in Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit.); se invece il governo ritiene che la legislazione europea impedisca di fatto nel paese il tipo di tassazione in questione, spiegare pubblicamente e chiaramente perché, sollevare il problema con forza nell’ambito della vita politica e culturale europea e più specificamente presso le istituzioni dell’UE e, infine, avanzare con decisione proposte congrue e praticabili attraverso le quali cambiare questo stato di cose ripristinando una maggiore libertà delle singole nazioni nell’ambito dell’UE oppure – in alternativa – prevedendo a livello dell’intera UE l’impostazione di una politica fiscale inequivocabilmente più attenta alle esigenze delle fasce sociali a reddito basso e medio che agli interessi delle classi privilegiate (e, se entrambe queste alternative venissero considerate improponibili dalle attuali istituzioni dell’UE, lanciare un’intensissima campagna politica europea sulla degenerazione pesantemente classista ed elitaria che stanno avendo ormai da anni tali istituzioni).
[34] Va sottolineato che non è affatto detto che, in termini concreti, la miglior forma di sanità sia quella delle cliniche incentrate sull’alta tecnologia, né che la miglior forma di scuola sia quella degli istituti incentrati sull’abbondanza di strutture e di attrezzature, ecc.. Come si è già messo sinteticamente in evidenza in Quale economia oggi per il bene comune?, cit. (in particolare nella parte finale del paragrafo “I fallimenti del mercato” e nella prima metà del paragrafo “Qualità del lavoro, qualità della vita”), le forme di scienza e di tecnologia sviluppate dalla società borghese sono spesso limitate a priori da degli atteggiamenti preconcetti che tendono a dare scarso rilievo a quegli aspetti del vivere e della realtà che corrispondono poco al classismo, all’egocentrismo utilitaristico, all’antropocentrismo e soprattutto alla caccia al profitto che sono solitamente predominanti nel modo di vivere borghese. Negli interstizi di tale società si trovano non di rado, peraltro, luoghi in cui scienziati, medici, insegnanti, ecc. cercano effettivamente di andare oltre quegli atteggiamenti preconcetti, quelle limitazioni e quei ristretti orizzonti e di far evolvere la scienza, la tecnologia, la medicina, l’insegnamento, ecc. in modi che cerchino di operare una feconda sintesi – creativa e sensibilmente umana – tra le conoscenze e le esperienze che l’umanità ha sviluppato nelle varie parti del mondo e nelle varie epoche (incluse ovviamente le forme tipiche dell’epoca borghese) e che sta naturalmente continuando a sviluppare attraverso l’esperienza, la ricerca, l’intuizione, la collaborazione, ecc..
In modo speculare alle strutture che tendono a dare importanza solo a ciò che è moderno e corrispondente alla cultura borghese, anche le strutture che al contrario tendono ad esaltare il tradizionalismo e/o culture come quella contadina o quella proletaria urbana e a rifiutare alla radice tutto ciò che è moderno e/o corrispondente alla cultura borghese finiscono col cadere in numerosi effetti controproducenti: così come avviene in moltissime altre culture, pure quella borghese non veicola soltanto l’approccio strettamente borghese alla vita ma anche una serie di esperienze, ricerche, conoscenze, ecc. che sono contemporanee a tale cultura ma non necessariamente espressione specifica di quest’ultima. In tal modo, ciascuna delle tante culture in questione può veicolare scoperte, invenzioni e forme di apprendimento che possono apportare benefìci alla società umana anche se in una particolare cultura la classe dominante può essere pesantemente egocentrica, scarsamente sensibile, poco lungimirante, e via dicendo.
[35] Come osservava Germaine Greer in La donna intera (Mondadori, 2000), viviamo in «un sistema mondiale che genera miliardi di perdenti per ogni manciata di vincitori», un sistema in cui, in particolare, «dappertutto, oggi, donne ridotte al silenzio sopportano fatiche, dolore e sofferenze infinite».... Col passare degli anni, tutto questo appare sempre più vero, sia in generale per le classi lavoratrici sia più specificamente per le donne, che nella civiltà patriarcale diffusa in quasi tutto il mondo si trovano a subire molto spesso una specifica oppressione sessista da parte di un mondo maschile che, in molti casi, all’amare davvero le donne preferisce cercare persistentemente di usarle, o di trasformarle il più possibile in copie dei maschi, o addirittura di maltrattarle, dominarle in modo autoritario, e via dicendo.
Come scrisse a sua volta Friedrich Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884), «il primo contrasto di classe [Klassengegensatz] che si presenta nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nell’unione coniugale basata sulla coppia [Einzelehe] e la prima oppressione di classe [Klassenunterdrückung] con quella esercitata dal sesso maschile su quello femminile» (più specificamente, quel primo contrasto di classe coincide in linea di massima col passaggio dalla “famiglia di coppia”, tipicamente paritaria e facilmente scioglibile da parte di entrambi i coniugi, al matrimonio monogamico, che storicamente si è imposto come espressione del ruolo dominante maschile). Tale oppressione di classe si è poi intrecciata con altre oppressioni di classe a seconda delle varie epoche storiche: tipiche sono le forme di oppressione autocratico-dittatoriali, quelle associate ad una conquista da parte di invasori bellicosi e gerarchicamente organizzati, quelle feudali e infine quella borghese. E queste altre oppressioni successive poggiano tutte – in fondo – su quella prima oppressione di classe, giacché in ciascun caso si tratta sempre e comunque di forme classiste maturate all’interno di società patriarcali, in cui cioè predomina il sesso maschile.... Anche p.es. il fatto che più volte Marx ed Engels nei loro scritti (in modo più spiccato nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, in La sacra famiglia, del 1845, e nell’Antidühring, del 1878), ispirandosi a delle considerazioni presentate da Charles Fourier in Teoria dei quattro movimenti e dei destini generali (del 1808), abbiano valutato il grado di civiltà e di evoluzione culturale e sociale di una società soprattutto dalla qualità dei rapporti tra uomini e donne e dall’equità giuridica tra i due sessi è una chiara indicazione di come nella visione marx-engelsiana la contraddizione tra ruoli maschili e ruoli femminili e quella relativa alle varie classi sociali presenti in un’epoca non fossero l’una subordinata come importanza all’altra, ma fossero semplicemente e dialetticamente intrecciate tra loro: entrambe contraddizioni di primo piano nell’insieme della vita della società umana e della storia di quest’ultima.
Diversamente, le principali correnti della sinistra novecentesca hanno mostrato il diffuso ritorno di impostazioni culturali patriarcali, autoritarie e gerarchiche che – a partire soprattutto dagli anni ’10 per la cosiddetta “sinistra moderata” e dal periodo staliniano per la cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” – hanno messo in primissimo piano i rapporti economici tra le classi sociali e soprattutto la lotta per il potere politico (come si è già messo in evidenza in Dopo gli errori di Seattle, un intervento pubblicato nel 2018 nel sito di “Sinistra in rete”) e, parallelamente, hanno cercato di mettere il più possibile in subordine tematiche come la qualità dei rapporti uomo-donna, dei rapporti interpersonali in genere e della vita effettiva delle classi popolari e come la libertà sentimentale e sessuale stessa delle persone di tali classi (come si notava con chiarezza già p.es. in La rivoluzione più lunga - Saggi sulla condizione della donna nelle società a capitalismo avanzato, a cura di Mariella Gramaglia, Savelli, 1972).... L’intervento del 2018 ha il seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14007-luca-benedini-dopo-gli-errori-di-seattle.html”.
Sulla profonda differenza esistente tra Einzelehe e Monogamie nel citato testo engelsiano – differenza spesso scomparsa in numerose traduzioni, che per difficoltà lessicali inerenti alla propria lingua hanno teso a ipersemplificare le cose uniformando in molti casi i due termini, mentre il secondo dei due è invece per Engels uno specifico caso particolare del primo – si vedano in particolare le “Avvertenze filologiche” redatte da Filippo Turati all’interno dell’edizione italiana di tale testo pubblicata nel 1901 da Uffici della Critica Sociale. Turati supervisionò appunto quella traduzione, basata sull’opera di Pasquale Martignetti. In particolare, l’Einzelehe (unione coniugale basata sulla coppia) è un grande insieme che si distingue dalle forme matrimoniali poligamiche, da quelle di gruppo e dalla “semplice” promiscuità sessuale e che include diverse forme di unione, raggruppate in alcuni sottoinsiemi uno dei quali è la Monogamie (monogamia). Ma, mentre per Engels le varie forme di quest’ultima sono connaturate sin dall’origine alla civiltà patriarcale, non è affatto così per altre forme di Einzelehe come appunto quelle che fanno parte dell’altro sottoinsieme che Engels seguendo l’antropologo statunitense Lewis H. Morgan chiamò in tedesco “Paarungsfamilie” (“famiglia di coppia”). Questo sottoinsieme è tipico in particolare dei pellerossa e di altre culture aventi in comune tra loro soprattutto la mancanza di una decisa affermazione del predominio maschile e generalmente anche uno sviluppo produttivo che include per lo meno la coltivazione di piante e/o l’allevamento di animali. Il fatto che, in varie lingue, numerose traduzioni abbiano appunto continuato nel corso dei decenni a rendere spesso il termine Einzelehe utilizzando sostantivi o aggettivi collegati direttamente alla monogamia ha reso erronee e fuorvianti – e pure sostanzialmente incomprensibili ad un lettore attento – le traduzioni stesse in diversi punti.
Si potrebbe aggiungere che nel mondo contemporaneo, sull’onda del crescente inserimento economico delle donne nell’ambito del lavoro retribuito (come effetto soprattutto della progressiva evoluzione industriale e tecnico-scientifica) e sotto la spinta culturale soprattutto del movimento femminista e dei movimenti per i diritti civili, in molti paesi si è passati da forme matrimoniali caratterizzate da una spiccata rigidità e da molti privilegi maschili (tra i quali spesso il diritto solo maschile di sciogliere il matrimonio, di mantenerne i frutti economici in caso di scioglimento e/o di trattare i figli come una proprietà) a forme molto più paritarie, facilmente scioglibili da ambo le parti ed esplicitamente attente ai diritti civili della donna e dei figli. In altre parole, ricorrendo alla terminologia engelsiana si può dire che in tali paesi si è passati in sostanza da forme di monogamia a forme di “famiglia di coppia”. Ciò per lo meno dal punto di vista giuridico e nella cultura della maggioranza della popolazione; tuttavia, una parte della popolazione maschile nel proprio modo di porsi appare rifiutare questo cambiamento, come mostra l’insistente ed aggressivo senso di possesso che non pochi uomini esprimono nei confronti delle fidanzate, delle mogli o anche semplicemente delle conviventi, se queste li hanno lasciati o stanno cercando di lasciarli, oppure nei confronti delle figlie, se queste rifiutano di seguire i veri e propri ordini che il padre pretende di imporre loro. Questo senso di possesso può giungere a ripetute pesanti minacce, a percosse e talvolta persino all’assassinio, come evidenziano a quest’ultimo proposito i numerosi casi di “femminicidio” che avvengono in questi decenni, in varie parti del mondo, in concomitanza appunto con delle crisi di coppia o – come si è già ricordato nella nota 10 (nella prima parte del presente intervento) – con dei conflitti tra padre e figlia.
Per aggiornamenti relativamente recenti – in base al procedere delle ricerche storiche ed archeologiche – sul violento imporsi della civiltà patriarcale nei confronti di precedenti società comunemente più paritarie e pacifiche (un cambiamento che in gran parte del mondo è avvenuto diversi millenni fa, a quanto emerge sempre più chiaramente, e che non ha affatto implicato in sé e per sé un effettivo progresso tecnico-scientifico, come mostrano nella maniera più drammatica vicende come quelle dell’antica civiltà minoica), cfr. in particolar modo due libri di Riane Eisler – Il calice e la spada (Pratiche, 1996; Forum, 2011) e Il piacere è sacro (Frassinelli, 1996; Forum, 2012) – e i brevi aggiornamenti da lei presentati successivamente in Il potere della partnership (Forum, 2018).
[36] Per un’ampia introduzione alla questione, cfr. appunto i riferimenti bibliografici ricordati nelle note 1 (nella prima parte del presente intervento) e 27, mentre sui parallelismi con l’UE cfr. i riferimenti inclusi nelle note 2 (sempre in quella prima parte) e 18.
[37] Dalle statistiche del SIPRI sono comprensibilmente esclusi alcuni paesi caratterizzati da una tale scarsità di trasparenza politico-amministrativa che nemmeno i loro cittadini hanno un’idea abbastanza precisa del valore effettivo delle spese militari nella loro nazione, in quanto mancano attendibili dati pubblici in merito. Ecco i paesi che sono rimasti solitamente al di fuori di tali statistiche nell’ultimo quinquennio: Libia, Eritrea, Somalia, Gibuti, Guinea equatoriale e Guinea-Bissau in Africa; Siria, Qatar, Emirati arabi uniti, Yemen, Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Laos e Corea del nord in Asia.
Non certo a caso, nelle valutazioni di Transparency International sulla percezione della corruzione nelle varie nazioni, da tempo 13 di questi 15 paesi sono nell’ultima parte della classifica e ottengono punteggi molto bassi, indicanti livelli di corruzione nazionale complessivamente molto elevati. Gli unici due con punteggi che si possono considerare sostanzialmente positivi sono gli Emirati arabi uniti e il Qatar (assieme ad un’altra quarantina di nazioni). Vale la pena di notare che, secondo il rapporto 2019 reso recentemente noto da Transparency International (rapporto che comunque conferma in gran parte tendenze che sono in atto da tempo), dai paesi con punteggi sostanzialmente positivi sono escluse sia l’Italia, la Grecia e Malta in Europa occidentale, sia quasi tutte le nazioni – con le eccezioni dell’Estonia e, per un pelo, di Lituania, Slovenia e Polonia – in cui vi sono stati nei decenni scorsi, o vi sono ancora, dei cosiddetti regimi a “socialismo reale”, sia in generale gran parte delle nazioni del Sud del globo che non fanno storicamente parte del cosiddetto “mondo sviluppato”: fanno eccezione Singapore, Hong Kong, Uruguay, Bhutan, Cile, Seychelles, Taiwan, Bahamas, Barbados, i già citati Emirati arabi uniti e Qatar e, per un pelo, Botswana, Brunei Darussalam, Israele, St. Vincent & isole Grenadine, Corea del sud e Capo verde (per molti versi, alcuni di questi paesi potrebbero peraltro essere effettivamente considerati ormai come “sviluppati”, alla fin fine).
Su alcuni aspetti politico-sociali sottostanti alle valutazioni in questione raccolte ed assemblate da Transparency International, cfr. più avanti la nota 53.
[38] Nella più recente classifica dei paesi con più spese militari (relativa al 2018 e resa pubblica dal SIPRI nell’aprile 2019), l’Italia viene all’11° posto subito dopo la Corea del sud, con una cifra stimata di 27,8 miliardi di dollari, equivalenti all’1,5% del totale mondiale. Supponendo ipoteticamente che la popolazione italiana fosse composta da circa 15 milioni di famiglie di quattro persone, una tale cifra corrisponderebbe a più di 1.600 euro annui per ciascuna famiglia.
Negli Usa, un tale calcolo porta al risultato di circa 8.000 dollari annui per ogni famiglia di quattro persone. Poi ci si chiede come mai negli Usa non si trovino i fondi pubblici per una sanità accessibile a tutti, per scuole pubbliche comunemente di qualità, ecc..... In realtà, però, non è del tutto vero nemmeno che siano le spese militari a portare esplicitamente e specificamente via i fondi alla sanità, alle scuole, ecc., dal momento che si tratta di spese finanziate in buona parte attraverso l’indebitamento statale: è proprio una questione di volontà politica, che considera valide e pienamente degne le spese pubbliche per l’esercito, per l’apparato amministrativo e giudiziario, per i servizi segreti, per la polizia, per le carceri, ecc. e tendenzialmente indegne e di scarso valore quelle per la sanità, la scuola, e così via....
Non a caso è stato negli Usa che la geniale filosofa Mary Daly in diverse sue opere – come in primo luogo Gyn/Ecology - The Metaethics of Radical Feminism, edito dalla Beacon Press nel 1978 – ha sottolineato che, mentre in molte lingue esistono da tempo il sostantivo necrofilia (amore per la morte) e l’aggettivo necrofilo, in generale nelle lingue contemporanee non esistono proprio il sostantivo biofilia (amore per la vita) e l’aggettivo biofilo, o termini equivalenti (a parte per l’uso fattone in precedenza da Erich Fromm, che nell’ambito della lingua scritta aveva “coniato” quest’espressione nel libro The Heart of Man, edito da Harper & Row nel 1964). E in seguito queste parole non sono certo entrate nell’uso comune, né nel linguaggio popolare né in quello accademico (in quest’ultimo ambito se ne è fatto peraltro un uso sostanzialmente di nicchia, grazie anche soprattutto al libro di Edward O. Wilson Biophilia, edito dalla Harvard University Press nel 1984): un ennesimo piccolo segnale di come non si sia affatto ridotta negli ultimi anni la duratura resistenza della civiltà attuale – che quasi ovunque è di tipo patriarcale – a nozioni come l’amore per la vita.
Per inciso, va ricordato che Mary Daly è intervenuta con notevole ampiezza – a partire specialmente dagli scorsi anni ’70 – sulla questione di come nella nostra società il linguaggio corrente sia pesantemente influenzato dalla mentalità patriarcale dominante e di come, in un percorso di trasformazione esistenziale mirante a difendersi da tale influenza e ad uscire da essa il più possibile sia nel vivere quotidiano che nelle nostre prospettive, si possa procedere creativamente verso una progressiva reinvenzione del linguaggio da punti di vista alternativi a tale mentalità.
[39] Sia per il conflitto azero-armeno legato al Nagorno Karabakh (dal 1992 al ’94, con una brevissima ripresa nel 2016), sia per la maggiormente recente crisi bellica ucraina legata al Donbass (e avviatasi nel 2014 dopo che la penisola della Crimea – interamente abitata in grande maggioranza da popolazioni di lingua e tradizioni russe – si era autoproclamata parte della Russia senza che il governo ucraino reagisse militarmente, mentre quando il Donbass ha tentato di fare lo stesso pur non essendo così univocamente russofono è cominciata una serie di pesanti scontri armati tra l’esercito dell’Ucraina e varie milizie locali sostenute dalla Russia), si possono identificare nello sfondo un paio di fattori causali predominanti. Da un lato, vi erano sfasature tra la distribuzione delle etnie nell’Urss e i confini geografici delle varie repubbliche che erano appunto federate assieme nell’Urss (e che con la fine di quest’ultima hanno finito col ritrovarsi completamente separate tra loro essendo divenute nazioni indipendenti). Dall’altro lato, la scarsa qualità democratica che di fatto continua a caratterizzare gli Stati nati dalla dissoluzione dell’Urss ha contribuito a rendere particolarmente difficile l’elaborare e il costruire in modi non cruenti – ma unicamente dialogici, politico-giuridici e nonviolenti – un’efficace soluzione delle problematiche sociali e culturali che dopo tale dissoluzione sono derivate da quelle sfasature.
A sua volta, il lunghissimo e asperrimo conflitto ceceno (dal 1994 al ’96 e dal 1999 al 2009) appare aver avuto, oltre a questi due tipi di cause, anche un altro palese fattore causale di importanza ancora maggiore: lo scontro tra Groznyj e Mosca per il controllo sia delle risorse petrolifere locali sia delle royalty ottenibili grazie al passaggio di importanti oleodotti e gasdotti nel territorio ceceno. La Cecenia – va ricordato – è una zona caucasica di confine all’interno dello Stato russo e con la fine dell’Urss la maggioranza dei ceceni aveva rivendicato l’indipendenza da Mosca. Il governo russo però si rifiutò di accettarla (soprattutto per i motivi economici già ricordati) e si dimostrò disposto – sia durante la presidenza Eltsin sia dopo l’avvento di Putin – a una vera e propria lunga guerra pur di non cedere.
Diversamente, la guerra jugoslava degli scorsi anni ’90 ha avuto indubbiamente cause molto più complesse e molto meno immediatamente evidenti. Per approfondimenti su di esse, cfr. in particolare Rifare i Balcani, di Cristopher Cviic (Il Mulino, 1993), La balcanizzazione della ragione, di Rada Ivekovic (Manifestolibri, 1995), e Maschere per un massacro, di Paolo Rumiz (Editori Riuniti, 1996).
Riguardo al conflitto Nato-Jugoslavia, che nel 1999 ha costituito una sorta di aggiunta alla guerra jugoslava, cfr. i prossimi due capoversi del testo principale, con le note in essi richiamate.
[40] L’intervista, a cura di Paolo Mondani, uscì col titolo “Sessanta giorni di bombe. La Nato ha sbagliato strategia e obiettivi”. Sulla genesi della guerra tra Nato e Jugoslavia, cfr. in particolare anche Kosovo - L’Italia in guerra (opera a molte mani pubblicata come quaderno speciale di Limes nel 1999), e Onu, Onu! Che fare? (Rocca, 15 maggio 2003), articolo dove tra l’altro erano già state riportate sia la citazione di Gambino qui ricordata sia quella inclusa più avanti nella nota 43. Per ulteriori conferme e riscontri, cfr. le indicazioni bibliografiche riportate nella nota 10 di La caduta della politica in Italia (e non solo), cit.. Per un inquadramento storico più ampio, cfr. p.es. Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda, di Manlio Dinucci (“https://www.sinistrainrete.info/estero/4209-manlio-dinucci-il-riorientamento-strategico-della-nato-dopo-la-guerra-fredda.html”, 22 ottobre 2014). L’articolo di Rocca è disponibile al seguente indirizzo Internet:
https://www.peacelink.it/pace/a/8891.html”.
[41] Autonome nel senso di aventi direttamente origine nella Nato stessa senza che essa abbia ricevuto qualche esplicita richiesta d’intervento da parte di un organismo di maggiore rilevanza come appunto l’Onu. In altre parole, nulla nello statuto della Nato impedisce che essa possa rispondere affermativamente a una richiesta con cui l’Onu la invita ufficialmente a partecipare in qualche parte del mondo a qualche azione armata che abbia degli scopi umanitari non inerenti alla difesa dei paesi della Nato: p.es., la difesa di una popolazione che è del tutto esterna alla Nato e che è vittima di una sanguinosa aggressione da parte di forze armate che secondo il vigente diritto internazionale sono prive di una qualsiasi giustificazione legittima. Ma tale statuto non consente in alcun modo alla Nato di attuare di propria iniziativa interventi armati che non siano strettamente inerenti alla difesa dei suoi paesi membri da attacchi armati che abbiano già avuto concretamente luogo. In breve, nel 1999 l’attacco armato della Nato contro la Jugoslavia non poteva essere deliberato dal Consiglio atlantico, che è formato dai governi dei paesi membri e che in pratica è l’organo direttivo della Nato, incaricato esplicitamente e unicamente – secondo lo statuto – di applicare lo statuto stesso alle varie circostanze.
C’è una diversità di livelli giuridici tra lo statuto della Nato (noto come “Trattato nord-atlantico”, entrato in vigore il 24 agosto 1949 dopo che tutti i suoi Stati firmatari hanno depositato le loro ratifiche) e gli accordi presi tra i governi dei paesi membri: lo statuto è stato ratificato ufficialmente dalle pubbliche istituzioni di ciascuno di tali paesi in base alla rispettiva Costituzione nazionale (in genere la ratifica è parlamentare), mentre quegli accordi hanno semplicemente l’approvazione dei vari governi. In tal modo, l’esistenza di un contrasto tra il contenuto dello statuto e il contenuto di qualcuno di quegli accordi non solo rende in realtà totalmente privi di valore giuridico questi ultimi ma, nel contempo, può anche essere vista come un chiaro e indiscutibile attentato dei governi sia alla legalità costituzionale del proprio paese, sia alla sovranità popolare che costituzionalmente si incarna di solito – tra le altre cose – appunto nel potere di ratifica degli atti internazionali riservato ai parlamenti (un potere che garantisce in tal modo che gli argomenti in questione siano pienamente aperti alla pubblica discussione, mentre le azioni governative relative al piano internazionale possono essere facilmente decise ed attuate con modalità sostanzialmente segrete), sia in sostanza al diritto internazionale che tutela i trattati e le procedure che li riguardano.
Non si dimentichi anche che, nell’eventuale caso di un sostanziale blocco del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di fronte a qualche situazione internazionale drammatica e urgente (quando cioè i veti incrociati dei rappresentanti delle cinque nazioni aventi in tale Consiglio diritto di veto impediscono qualsiasi decisione efficace nonostante la drammaticità e l’urgenza delle circostanze), si è da tempo affermata la prassi – in base alla risoluzione n. 377 del 3 novembre 1950 dell’Assemblea generale dell’Onu – secondo cui è l’Assemblea stessa che può prendere in mano la questione e deliberare i provvedimenti ritenuti necessari, come in effetti è appunto avvenuto numerose volte da quella data in poi. Nell’Assemblea generale dell’Onu nessuna nazione ha diritto di veto e, quindi, gli spazi di legittima iniziativa in campo internazionale non sono affatto vincolati al parere di quei cinque governi ciascuno dei quali può fermare nell’ambito specifico del Consiglio di Sicurezza qualsiasi decisione che risulti appunto sgradita anche a uno solo di essi. Su questa prassi – che consente di superare alcune delle problematiche di fondo, ormai ingiustificabili e profondamente inique, che caratterizzano nella Carta dell’Onu il capitolo riguardante il Consiglio di Sicurezza e che sono state prese in esame p.es. in Onu, Onu! Che fare?, cit., e nell’“appello di Bamako” del 2006, pubblicato in italiano in appendice a Per un mondo multipolare, di Samir Amin (Punto Rosso, 2006) – cfr. p.es. Quella vecchia misura Onu utile a fermare la guerra, di Robert Fisk (Liberazione, 16 marzo 2003), e Assemblea generale - L’ultima carta dell’Onu, di Isidoro D. Mortellaro (La Rivista del Manifesto, aprile 2003).
Tuttavia – come ben sanno i gruppi di popolazione che per motivazioni economico-territoriali, politiche, etniche o religiose sono maltrattati, vessati o addirittura sostanzialmente massacrati dal governo della loro nazione tramite forze armate da esso dirette (motivazioni che spesso sono espresse in qualche caotica mescolanza dove non di rado alcune di esse vengono nascoste e mascherate dietro altre...) – vi è una grossa lacuna nell’attuale ordinamento giuridico internazionale. Benché la “Dichiarazione universale dei diritti umani” e altre fonti del diritto internazionale – così come il diritto costituzionale di molti singoli paesi – affermino che ogni persona di ogni paese ha una serie di inalienabili diritti fondamentali, e benché p.es. i “princìpi di Norimberga” ufficialmente riconosciuti nel 1950 dalle Nazioni Unite affermino a loro volta che «chiunque commetta un atto che in base al diritto internazionale costituisce un crimine ne è responsabile ed è punibile per questo» anche qualora le leggi nazionali del paese in cui si svolgono i fatti non prevedano una pena per tale atto e anche qualora l’autore del crimine in questione sia un capo di Stato, un ministro governativo, un funzionario statale dotato di specifiche responsabilità o un incaricato avente comunque delle possibilità di scelta, le frontiere continuano a costituire una sorta di limite invalicabile che tende a rendere giuridicamente pressoché intoccabile ciò che avviene oltre la frontiera di una nazione il cui governo non intenda collaborare col diritto internazionale.
Genocidi, stragi, distruzioni ambientali, schiavismo, torture: qualsiasi cosa rimane, in pratica, giuridicamente al di là del diritto internazionale vigente se avviene tra le frontiere di una nazione il cui governo appunto non si curi di tale diritto.... È anche a seguito di questa grave lacuna che ha potuto avere luogo il complicato intreccio che ha portato dai colloqui di Rambouillet sul Kosovo fino alla guerra Nato-Jugoslavia.
[42] Per aggirare alcune limitazioni operative insite nella struttura della Nato (tra le quali in particolare il fatto che la Nato opera in linea di massima solo attraverso decisioni prese all’unanimità dai rappresentanti ufficiali di tutti i suoi vari paesi membri), negli ultimi decenni diversi di tali paesi hanno cominciato a lanciare “coalizioni volontarie” non specificamente legate alla Nato mediante le quali partecipare a conflitti armati qua e là nel mondo. Ma la guerra lanciata nel 1999 contro la Jugoslavia costituisce una palese “cartina di tornasole” a proposito delle strategie politiche che caratterizzano i paesi dell’Occidente. E non si dimentichi, a questo riguardo, che a quell’epoca i cinque maggiori paesi della Nato – i cui governi parteciparono tutti ai colloqui di Rambouillet che fecero da incubatrice alla guerra – erano tutti governati da forze politiche della cosiddetta “sinistra moderata” e che tali forze ebbero comunque in merito a questa guerra una sostanziale approvazione anche dalle forze del centro-destra dei rispettivi paesi.... In breve, se si amplia ulteriormente lo sguardo, nei vari paesi membri l’avvento della nuova strategia della Nato non ha avuto alcuna aperta contestazione da parte dei partiti appartenenti all’intero arco politico che va dalla destra sino alla cosiddetta “sinistra moderata”.... Né si sono verificate aperte contestazioni di questa nuova strategia da parte di tali partiti negli anni successivi.
[43] Sulla questione cfr. anche Irak chiama Onu (Rocca, 1° febbraio 2004). L’articolo è disponibile al seguente indirizzo Internet:
https://www.peacelink.it/pace/a/3588.html”.
Rimane tuttavia sostanzialmente aperta una questione, dato quanto già messo in luce nella nota 41: in pratica – riguardo alla situazione in cui si trovava il Kosovo durante gli ultimi anni del secolo scorso – che cosa avrebbero potuto fare i governi di paesi davvero intenzionati a cercare di proteggere la popolazione kosovara dalle varie forme di violenza che proliferavano in modo crescente nella regione in quel periodo (ad opera soprattutto di forze militari governative contro le etnie diverse da quella serba e, come reazione piuttosto recente, ad opera anche di milizie paramilitari di etnia albanese contro i militari di etnia serba)? Avrebbero potuto, in primo luogo, promuovere nel Kosovo da un lato attività umanitarie e testimoniali possibilmente internazionali e dall’altro lato forme smilitarizzate di controllo territoriale miranti alla difesa della pace, come nell’ambito europeo quelle dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce); in secondo luogo, appoggiare internazionalmente le idee pacifiste sia tra i kosovari di etnia albanese che tra quelli di etnia serba; in terzo luogo, minacciare di pesanti sanzioni economiche internazionali il governo jugoslavo se non avesse receduto dai vari tipi di maltrattamenti e di ingiustizie inflitti da sue forze (polizia, amministrazioni locali, ecc.) ai kosovari di etnia non serba (in particolar modo quella albanese) e, successivamente, concretizzare tali sanzioni nel caso in cui le semplici minacce non fossero servite; nel contempo, proporre sotto un’egida internazionale trattative e ipotesi di accordi “migliorativi della situazione” tra le parti in causa; infine, come ultima ratio, minacciare uno schieramento di forze armate inviate come aiuto alle popolazioni kosovare per la difesa di queste ultime dalla violenza. Ma in base al diritto internazionale questa iniziativa avrebbe dovuto comunque porsi esclusivamente come azione difensiva, non certo come quell’aggressione che invece la Nato esplicò contro la Jugoslavia nel 1999 e che tra l’altro innescò un enorme aumento della violenza governativa jugoslava contro la popolazione kosovara non di etnia serba, provocando in tal modo gravissimi danni proprio a quella popolazione civile che la Nato asseriva di voler proteggere.... Inoltre, tale eventuale schieramento avrebbe dovuto formarsi non come Nato, a causa delle già ricordate caratteristiche statutarie di quest’ultima, e nemmeno come singole nazioni associate assieme nell’iniziativa in questione, in quanto in pratica allo stato attuale la Carta dell’Onu non consente ai suoi membri neppure questo genere di azioni armate: avrebbe dovuto formarsi insomma come una aggregazione – almeno esteriormente “informale” – di volontari internazionali.
A sua volta, una tale azione “informale” avrebbe anche potuto avviare indirettamente due ulteriori effetti: da un lato, innescare lo specifico interessamento dell’Onu, perché a quel punto sarebbe stata messa tendenzialmente in pericolo la pace internazionale (il che ricade nell’ambito dei contesti contemplati dalla Carta dell’Onu); dall’altro lato, mettere in particolare evidenza nell’agone pubblico l’inadeguatezza del diritto internazionale corrente, che appunto non consente alcun intervento “ufficiale” internazionale in diretta difesa né di popolazioni vittime di aggressioni – o addirittura di stragi – né di ecosistemi naturali in grave pericolo anche se dotati magari di un grande e scientificamente noto valore planetario, finché si tratta di eventi che geograficamente sono del tutto interni ad una particolare nazione e dunque non caratterizzati da una scala internazionale.
In teoria, la serie di iniziative in questione era più o meno quanto avrebbe dovuto fare nel 1998 – sia pure in gravissimo ritardo perché erano numerosi anni che la popolazione kosovara di etnia albanese, ampiamente maggioritaria nella regione, chiedeva inutilmente sostegno e aiuto alla comunità internazionale – il “gruppo di contatto” che era stato costituito nel 1992 dai governi dei cinque maggiori paesi della Nato più la Russia per facilitare le trattative tra le parti in guerra nell’ex Jugoslavia e che si riconvocò a cavallo tra ’98 e ’99 a fronte della drammatica situazione creatasi appunto in Kosovo. Ma rapidamente emerse nei fatti che l’obiettivo primario di tali governi era tutt’altro che la protezione dei civili kosovari.... Fin dall’inizio, uno degli aspetti di questa contraddizione più eclatanti – e più emblematici riguardo alle prospettive in gioco – fu che da Washington l’amministrazione Clinton non diede affatto il suo sostegno alle forze politiche democratiche e nonviolente allora ampiamente predominanti fra i kosovari di etnia albanese, ma con grande forza e decisione appoggiò, finanziò, armò e riconobbe internazionalmente soprattutto le milizie paramilitari che avevano sempre rappresentato – fino ad allora – una voce estremamente minoritaria nella vita sociale e politica di tale etnia e che si distinguevano per l’organizzazione di attentati contro i militari governativi e i civili serbi.... E la prosecuzione delle vicende mostrò appunto quali obiettivi concreti fossero celati dietro l’interessamento dei governi in questione e dietro la facciata attivisticamente solidaristica che avevano i negoziati avviati a Rambouillet nel febbraio 1999. Quei negoziati si conclusero infatti quando – come ha ricordato sempre Antonio Gambino nella sua intervista già citata – avvenne che «Milosevic disse di sì all’autonomia del Kosovo, anche se come regione dello Stato serbo, e disse di no alla presenza di una forza militare diretta dalla Nato. È sulla base di quel no che la Nato ha sferrato l’attacco aereo», rifiutando possibilità come «una forza Onu con all’interno reparti della Nato».... Una motivazione palesemente insulsa e provocatoria, costruita ad arte per trascinare in guerra il governo belgradese....
Vale la pena di aggiungere che – come ha messo in particolare evidenza Roberto Morozzo della Rocca in La via verso la guerra (in Kosovo - L’Italia in guerra, cit.) – uno degli effetti delle offensive serbe che erano state scatenate durante il 1998 nel Kosovo fu che «almeno 50 mila persone, per lo più vecchi, donne e bambini, vagano ancora senza riparo mentre arriva la prima neve, nei boschi oppure attorno alle rovine delle case distrutte. L’opinione pubblica internazionale, alla fine di settembre, prende coscienza di questa massa di civili che si muovono come fantasmi, privi di tutto, a rischio di morire di stenti e di freddo, terrorizzati di ritrovare i soldati serbi nei cortili delle case perdute. Si moltiplicano gli appelli umanitari e i reportage. La questione umanitaria diventa immediatamente politica. [...] Si prospetta l’intervento della Nato contro i serbi, qualora non diano soluzione rapida al dramma dei profughi».... In altre parole, i vertici istituzionali della Nato e dei suoi maggiori paesi membri hanno colto al volo un’occasione imprevista, tradendo pienamente non solo i kosovari ma anche le popolazioni dell’area Nato che avevano chiesto per autentici motivi umanitari e solidali un intervento dei loro governi....
Sui tragici risultati complessivi che vennero apportati alla società kosovara dall’azione di quel “gruppo di contatto” e poi della Nato nella sua totalità – oltre ai bombardamenti in sé e per sé e al ritorno di un’azione di feroce “pulizia etnica” governativa in Kosovo contro le etnie diverse da quella serba – cfr. p.es., tra i tanti articoli usciti già all’epoca, Terra bruciata - Kosovo. Fabbriche distrutte, raffinerie in fumo. La catastrofe ambientale incombe sui Balcani, di Rosanna Magnano (La Nuova Ecologia, giugno 1999), Risponde in serbo, ammazzatelo, di Paola Caridi (L’Espresso, 27 dicembre 1999), «In Kosovo violati i diritti umani» - Kofi Annan: «Delitti contro serbi e rom». L’Aja avvia l’indagine contro i crimini Nato, di Patricia Lombroso (Il Manifesto, 30 dicembre 1999), La pace che l’Occidente sta perdendo in Kosovo, di Timothy Garton Ash (La Repubblica, 16 febbraio 2000), Il Kosovo nel caos, trappola per la Nato, di Sandro Viola (id., 23 febbraio 2000), L’Onu alla Nato: «In Kosovo la guerra è persa», di Loris Campetti (Il Manifesto, 30 marzo 2000), e Kosovo, lager albanesi per “addestrare” prostitute, di Pietro Del Re (La Repubblica, 3 aprile 2000). L’elenco potrebbe continuare anche con riferimento ai mesi e anni successivi, ma questa selezione appare, in pratica, sufficientemente chiarificatrice.
[44] Non si dimentichi che – come sottolineava tra gli altri Paul Rogers in Fuori controllo (DeriveApprodi, 2002) – «nel complesso, durante tutto il XX secolo, i paesi industrializzati del Nord sono diventati sempre più dipendenti dalle risorse materiali del Sud, una tendenza che continuerà nel XXI secolo». E questo «aspetto fondamentale dell’economia globale [...] è fonte di potenziali conflitti»....
[45] Sulle forme moderne di democrazia e sulle loro modalità, cfr. Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali e – in specifico riferimento ai livelli politico-amministrativi di tipo locale (Comuni, Province, Regioni, ecc.) e alle diverse possibili impostazioni che si possono dare al decentramento territoriale – Una radicale controlettura della questione delle Province da dentro la “società civile”, due ampi interventi pubblicati su Internet rispettivamente nel marzo e nel maggio del 2014 e attualmente disponibili ai seguenti rispettivi indirizzi:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0a3a23510edea145a8e0717edea1427e91ac45089bea79c2/1/8/MjY/MjYvNQ”;
https://share.mail.libero.it/ajax/share/08bb1ea707f77e4080f3ae17f77e4b72a6c093c32764dd13/1/8/MjY/MjYvMTc”.
Per un’introduzione storica di fondo, cfr. in special modo Democrazie senza democrazia, di Massimo L. Salvadori (Laterza, 2009), e – con una prospettiva legata soprattutto al presente – L’assalto alla ragione, di Al Gore (Feltrinelli, 2007). Per alcune indicazioni bibliografiche ed osservazioni storiche che mettono in evidenza l’interesse estremamente profondo nutrito da Marx ed Engels e dal “socialismo scientifico” ottocentesco per la democrazia e per i suoi vari modi di operare, cfr. Dopo gli errori di Seattle, cit. (in particolare la sezione III di “Un commento in cinque parti per ‘Sinistra in rete’”).
Come hanno sottolineato vari sociologi e politologi – tra i quali con particolare efficacia Robert A. Dahl in Poliarchia - Partecipazione e opposizione nei sistemi politici (Franco Angeli, 1981) – la democrazia rappresentativa ha bisogno di alcune condizioni di base per poter essere funzionale alle esigenze di una popolazione: in particolar modo, un’alfabetizzazione sostanzialmente generalizzata, un’ampia e pluralistica disponibilità di mezzi di informazione, la presenza di un livello significativo di istruzione anche tra i ceti popolari, una società non impostata in senso strettamente centralizzato ed autoritario, l’assenza di estreme diseguaglianze socio-economiche se non in via marginale. A queste condizioni si potrebbe aggiungere anche la relativa assenza – se non, di nuovo, in via marginale – di un senso identitario popolare strettamente etnico o religioso in paesi dove sono presenti popolazioni con affiliazioni etniche e/o religiose considerevolmente diversificate (altrimenti il processo elettorale finisce facilmente col diventare soprattutto una sorta di banale “conta” numerica dei vari gruppi etnici o religiosi e può anche innescare pericolose e crescenti tensioni sociali tra un gruppo e l’altro, finendo col favorire fortemente la conflittualità tra tali entità, anziché la collaborazione e la pacifica convivenza). Dove tutte queste condizioni non siano soddisfatte, possono risultare molto più efficaci per la qualità della vita della gente forme di democrazia e di coordinamento territoriale – nelle quali andrebbero comunque tutelati i fondamentali diritti umani raccolti in particolare nella “Dichiarazione universale” del 1948 – come quelle tipiche generalmente delle società tribali (di cui un esempio particolarmente recente può essere la democrazia comunitaria del Chiapas, descritta p.es. da Sabrina Benenati in Storia del Chiapas, edito da Bruno Mondadori nel 2002) o come quella specie di “confederazione di repubbliche autonome basate sulle comunità locali attraverso i Consigli espressi da queste” che Gandhi proponeva per la “grande India” alla fine dell’epoca coloniale.
In altri termini, anche se nel mondo “sviluppato” i professionisti della politica tendono a comportarsi pubblicamente come se in qualsiasi società la democrazia rappresentativa fosse la forma istituzionale più adatta e come se per poterla realizzare adeguatamente bastasse la presenza della copertura finanziaria necessaria per le elezioni e per il funzionamento pratico delle assemblee elettive, le cose non stanno affatto così. Basti ricordare emblematicamente quanto ci teneva dopo la “seconda guerra del Golfo” l’amministrazione Bush junior a dichiarare all’intero pianeta di aver “portato la democrazia” in Iraq, mentre quella guerra è stata invece l’inizio di un tragico caos nel paese, tra innumerevoli attentati sanguinari indirizzati soprattutto contro la popolazione civile, azioni terroristiche organizzate spintesi a livelli di una violenza indicibile, estreme tensioni politico-economiche intrecciate con l’ambito etnico-religioso, e via dicendo.... Come ha osservato p.es. Dambisa Moyo in La carità che uccide (Rizzoli, 2010), «costruire istituzioni politiche ed economiche» adeguate ed efficaci «richiede più del semplice denaro».... Senza quelle condizioni già ricordate, l’insistere sui meccanismi della democrazia rappresentativa può diventare l’ennesimo pesante caso – umanamente e socialmente controproducente anche se magari molto conveniente per i “finanzieri d’assalto” internazionali desiderosi di mettere le mani sulle risorse di un paese corrompendo i governanti locali – di eurocentrismo culturale e politico. E ciò tanto più in quelle nazioni del Terzo mondo caratterizzate da frontiere estremamente artificiose imposte di fatto agli abitanti della regione dal colonialismo o dai vincitori delle guerre mondiali novecentesche: frontiere che – paradossalmente – più di mezzo secolo dopo quelle guerre mondiali e dopo la fine “ufficiale” del colonialismo sono solitamente ancora lì anche dove la loro artificiosità ha provocato e continua a provocare forti tensioni locali (e la permanenza di tali frontiere appare dovuta, in pratica, soprattutto al fatto che decennio dopo decennio i governanti di quelle nazioni continuano ad anteporre alle esigenze e alle volontà popolari gli interessi di élite politico-economiche nazionali, ed eventualmente internazionali, interessate molto più alle risorse capitate in modo più o meno casuale all’interno del territorio delimitato da quelle frontiere che alla gente...).
E non si tratta solamente delle modalità di funzionamento del sistema legislativo e di quello esecutivo, ma anche di quello giudiziario. P.es., il fatto che negli Usa i giudici della Corte Suprema siano nominati dal capo del governo – cioè il presidente del paese – ha avuto storicamente effetti devastanti sull’attendibilità giuridica della Corte e delle sue sentenze.... Su uno dei casi più radicalmente contrari ai diritti costituzionali dei cittadini statunitensi e alla democrazia, più scandalosi e alla fin fine più emblematici – cioè la sentenza con cui la Corte Suprema degli Usa nel dicembre 2000 impedì il riconteggio dei voti in Florida dopo le elezioni presidenziali appena avvenute (sentenza che regalò a George W. Bush la presidenza del paese al posto di Al Gore, che secondo tutte le avvisaglie aveva invece vinto le elezioni, come poi venne sostanzialmente confermato dai riconteggi che dei volontari fecero in Florida senza che la cosa potesse però avere ormai alcun valore istituzionale...) – cfr. in particolare The path to Florida, di David Margolick, Evgenia Peretz e Michael Shnayerson (Vanity Fair, ottobre 2004). Per chi volesse cercare nell’ambito della cosiddetta “letteratura di genere” (che rispetto alla saggistica, al “giornalismo impegnato” o alle forme di narrativa più complesse è solitamente molto più facile e scorrevole da leggere), si possono trovare acute digressioni sui rapporti tra politica e Corte Suprema statunitense p.es. nel “romanzo giallo” Il rapporto Pelican, di John Grisham (Mondadori, 1992; titolo originale: The Pelican Brief, cioè “Il promemoria sui pellicani”), romanzo cui si è ispirato nel 1993 un omonimo film diretto da Alan J. Pakula, con protagonisti Julia Roberts e Denzel Washington.
Tra l’altro, la storia dell’intero mondo cambiò radicalmente a causa di quella sentenza del 2000 palesemente manipolata in senso politico (con i membri correnti di quella Corte Suprema che erano stati nominati in maggioranza da presidenti che facevano parte del partito repubblicano, appunto lo stesso partito di George W. Bush), in quanto l’amministrazione Bush junior che nacque da tale sentenza si configurò sin dall’inizio in modo pesantemente autoritario ed internazionalmente aggressivo e giunse infine a scatenare non solo una guerra afgana che appare aver avuto principali motivazioni reali ben diverse dall’asserito bisogno di difendere gli Usa dagli attacchi terroristici di Al Qaeda (come traspare p.es. da molti degli scritti citati più avanti nella nota 49 e pubblicati negli anni 2001-02), ma anche la già ricordata “seconda guerra del Golfo”. Quest’ultima fu una vera e propria invasione che sbeffeggiò radicalmente le Nazioni Unite e che calpestò mostruosamente il diritto internazionale, innescando anche innumerevoli tensioni, scontri e fenomeni terroristici nel Medio Oriente e in altre regioni culturalmente collegate. Quell’invasione e i governanti che – da Washington e Londra – la scatenarono usufruirono però della protezione garantita da un lato, all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dal “diritto di veto” di cui godono tra gli altri Usa e Gran Bretagna e dall’altro lato, più in generale, dall’accondiscendenza del mondo politico mondiale di fronte alla potenza economica e militare degli Usa.... Sugli aspetti giuridico-legali collegati a tale calpestamento del diritto internazionale, cfr. p.es. Irak chiama Onu, cit..
[46] La consapevolezza critica di queste tendenze non è certo una scoperta recente. Basti vedere p.es. quanto ampiamente se ne occupava già più di quindici anni fa Paul Rogers nel suo testo citato nella nota 44 e come negli stessi anni la questione si fosse inserita indirettamente con forza anche nel libro di Greg Palast ricordato nella nota 1.
[47] A quanto pare, quell’avvertimento ebbe valenze premonitrici anche maggiori di quanto esplicitamente espresso da Eisenhower, dal momento che il presidente che gli successe – John F. Kennedy – fu assassinato nel 1963 nemmeno tre anni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, per mano di un complotto che in base ad ogni evidenza era collegato proprio al “complesso militare-industriale” statunitense e alle sue aderenze nelle pubbliche istituzioni del paese. Su ciò cfr. in particolare JFK - Sulle tracce degli assassini (Sperling & Kupfer, 1992), di Jim Garrison, a lungo procuratore distrettuale di New Orleans e in seguito giudice di Corte d’appello in Louisiana. In particolare, la lobby militare-industriale appariva interessata – diversamente dal presidente Kennedy – a una forte escalation nella guerra del Vietnam (nella quale gli Usa non si erano ancora coinvolti profondamente) e a un inasprimento della “guerra fredda” (che Kennedy invece tendeva ad ammorbidire), il tutto con l’evidente prospettiva anche di una grande espansione sia della richiesta pubblica di armamenti all’industria produttrice di questi ultimi sia del ruolo dei militari nella vita della nazione.
Il costante e strabordante peso di tale lobby nella vita politica statunitense lo si può ricavare anche dai seguenti fatti: all’epoca, la “Commissione Warren” – nominata dal nuovo presidente Usa Lyndon Johnson, molto più incline di Kennedy alla guerra e subentratogli in quanto suo vice – giunse alla conclusione ufficiale secondo cui Kennedy era stato ucciso da un singolo assassino, che aveva agito in totale solitudine; in seguito emerse in maniera inequivocabile che si trattava di una conclusione totalmente errata, basata su una profondissima e palese manipolazione delle prove esistenti ad opera di ampie parti della polizia, della magistratura, dei servizi segreti e del mondo politico statunitensi (come ha appunto documentato in quel libro Jim Garrison recuperando una vasta serie sia di quelle prove, sia delle varie tracce lasciate da quella manipolazione, sia di ulteriori e successivi episodi di insabbiamento e depistaggio condotti dalle medesime forze istituzionali anche mediante attacchi e minacce personali basati totalmente sulla falsificazione della realtà e rivolti specificamente contro gli investigatori che si stavano avvicinando a portare alla luce aspetti sostanziali di quel complotto); tuttavia, malgrado Kennedy fosse stato probabilmente il presidente più amato dell’intera storia degli Usa, non vennero mai riprese seriamente da parte dell’insieme dell’amplissimo e potenzialmente molto potente apparato poliziesco e giudiziario statunitense le indagini per scoprire chi facesse parte di tale complotto e per cercare di assicurare i colpevoli alla giustizia....
[48] La prima “guerra del Golfo” prese le mosse dal sostanziale nulla osta che, da Washington, l’amministrazione Bush senior diede palesemente al dittatore iracheno Saddam Hussein nel luglio 1990 quando quest’ultimo progettava l’invasione del Kuwait e dal successivo voltafaccia del governo statunitense, che poco dopo quell’invasione divenne il principale sostenitore internazionale di una guerra di ritorsione contro l’Iraq, poi scatenata in nome della sovranità kuwaitiana nel gennaio 1991. Su questa complessa vicenda, che i vertici politici di Washington hanno tenuto nascosta il più possibile, cfr. p.es. Bagdad, di Fabrizio del Noce (Mondadori, 1991), e due articoli redazionali usciti sul quotidiano francese Le Monde nel 1991: Le mystère d’April Glaspie (14 maggio) e L’ancien ambassadeur américain aurait bien adopté un ton conciliant à Bagdad - Avant l’invasion du Koweït (14 luglio).
Sul successivo embargo, cfr. p.es. Obiettivo Iraq - Nel mirino di Washington, di Jean-Marie Benjamin (Editori Riuniti, 2002), e L’embargo dell’acqua, di Manlio Dinucci (Il Manifesto, 22 novembre 2002). E per alcune osservazioni di fondo sulla seconda “guerra del Golfo” cfr. Guerra e diritto internazionale - Tra carta Onu e dichiarazione dei diritti umani (Rocca, 1° febbraio 2003), Onu, Onu! Che fare?, cit., e Irak chiama Onu, cit.. L’articolo del 1° febbraio 2003 è disponibile al seguente indirizzo Internet:
https://www.peacelink.it/pace/a/3589.html”.
Sull’apartheid esistente da tempo in Israele e sullo stretto rapporto stabilmente esistente tra i vertici politici statunitensi e quelli israeliani, cfr. p.es. Gli occhi bendati sul Golfo, di Alberto B. Mariantoni con Fred Oberson (Jaca Book, 1991), La questione palestinese - La tragedia di essere vittima delle vittime, di Edward W. Said (Gamberetti, 1995), Noi arabi israeliani siamo vittime, i veri terroristi sono al governo, intervista ad Azmi Bishara a cura di Enrico Franceschini (La Repubblica, 11 settembre 2001), L’ulivo e le pietre, di Ugo Tramballi (Tropea, 2002), Israele e i miti sionisti, di Joseph Halevi (“https://www.sinistrainrete.info/estero/11507-joseph-halevi-israele-e-i-miti-sionisti.html”, 27 gennaio 2018), e Ha vinto Israele, la Palestina è morta - Ma è adesso che cominciano i guai veri, di Fulvio Scaglione (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/11521-fulvio-scaglione-ha-vinto-israele-la-palestina-e-morta.html”, 28 gennaio 2018).
[49] Su queste vicende cfr. p.es. È una donna. Meglio che muoia, di Anna Cataldi (L’Espresso, 21 novembre 1996), Afghanistan, l’incubo degli eserciti, di Bernardo Valli (La Repubblica, 22 settembre 2001), Obiettivo petrolio, di Magdi Allam (id., 9 ottobre 2001), Sotto il corridoio afghano, di Manlio Dinucci (Il Manifesto, 18 ottobre 2001), Talebani: Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale, di Ahmed Rashid (Feltrinelli, 2001), La guerra infinita, di Giulietto Chiesa (Feltrinelli, 2002), Buskashì - Viaggio dentro la guerra, di Gino Strada (Feltrinelli, 2002), I nuovi padroni del mondo, di John Pilger (Fandango, 2002), Lettere contro la guerra, di Tiziano Terzani (Longanesi, 2002), La verità negata, di Jean-Charles Brisard e Guillaume Dasquié (Tropea, 2002), Guerra alla libertà, di Nafeez Mosaddeq Ahmed (Fazi, 2002), Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, di Gore Vidal (Fazi, 2002), Restano i misteri della verità ufficiale, di Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco (Il Manifesto, 11 settembre 2003), La verità nascosta sull’11 settembre, di Eric Laurent (Baldini Castoldi Dalai, 2005), e Afghanistan - La guerra per l’oppio, di Enrico Piovesana (PeaceReporter, luglio 2007). Sul fatto che i gruppi terroristici in questione non possano che essere definiti pseudoislamici – un tema già toccato nella nota 13 (nella prima parte del presente intervento) – cfr. in particolare anche Basta! - Musulmani contro l’estremismo islamico, a cura di Valentina Colombo (Mondadori, 2007), e dichiarazioni come quella siglata negli Usa dai rappresentanti delle principali organizzazioni musulmane statunitensi e della Conferenza nazionale dei vescovi cattolici il 14 settembre 2001 e presentata in italiano col titolo All’opposto della vera religione (Il Regno - documenti, ottobre 2001) e come la Lettera aperta al sedicente “Stato islamico” firmata nell’autunno 2014 da 126 leader e studiosi islamici (id., dicembre 2014).
Vale la pena di notare che l’operazione statunitense di sponsorizzazione, finanziamento, fornitura di armi e addestramento di gruppi terroristici internazionali indirizzati in Afghanistan e caratterizzati da un integralismo pseudoislamico estremamente aggressivo e ferocemente maschilista ha raggiunto il suo acme proprio durante gli anni ’80 che, dal punto di vista economico, hanno visto a Washington l’affermarsi e il trionfare delle logiche neoliberiste in concomitanza con le presidenze di Reagan e di Bush senior.
[50] Per approfondimenti su queste prime quattro forme di salvaguardia, cfr. Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali, cit..
[51] In Italia quegli organismi regionali di controllo erano stati istituiti dall’art. 130 della Costituzione italiana, poi cancellato nel 2001 per iniziativa dei partiti dell’Ulivo, tra i quali predominava molto nettamente – in termini non solo di numero ma anche di abilità nei maneggi politici – il Pds, che in seguito ha cambiato la sua sigla in Pd. Quella cancellazione – che ha comportato un estremo calo delle possibilità di difesa dei cittadini italiani rispetto agli episodi di malgoverno delle amministrazioni locali – è l’ennesima dimostrazione del profondissimo e storico coinvolgimento della cosiddetta “sinistra moderata” italiana in pratiche clientelari, affaristiche, ecc..
Pure la “legge Bassanini” – che incise moltissimo sui processi decisionali delle amministrazioni locali – fu un parto dell’Ulivo.... Questa legge e la cancellazione dell’art. 130 della Costituzione fecero appunto parte dei vari passi con cui la “casta politica” italiana – con contributi specifici dei principali partiti della destra, del cosiddetto centro e della cosiddetta “sinistra moderata” – imparò rapidamente a tutelarsi meglio dalle indagini giudiziarie e dalle richieste di trasparenza e di onestà provenienti dai cittadini.
Per alcuni approfondimenti, cfr. Una radicale controlettura della questione delle Province da dentro la “società civile”, cit..
[52] Come si è messo in particolare evidenza nella nota 45.
[53] Ovviamente, per porre termine al neoliberismo possono essere di grande importanza anche obiettivi e lotte di tipo intermedio come le forme di salvaguardia dei cittadini appena ricordate. Ma bisognerebbe non dimenticare che rimane comunque estremamente difficile aspettarsi che un governo neoliberista e i suoi eventuali partiti approvino tali forme di salvaguardia se esse non sono già presenti nell’organizzazione istituzionale del paese. Quindi si tratta di obiettivi e lotte che spesso potrebbero servire più a mostrare alla popolazione intera il cinismo oligarchico dei neoliberisti – e ad accrescere così la consapevolezza politica della popolazione stessa – che ad ottenere qualcosa di democratico da quel governo.... Naturalmente, in un paese in cui si svolgono regolarmente delle elezioni politiche a suffragio universale, per porre fine al potere politico dei neoliberisti potrebbe bastare una loro sconfitta elettorale (che quindi potrebbe costituire un primo frutto concreto di quelle lotte e di una significativa crescita della consapevolezza politica della gente), anche se poi rimarrebbe comunque da costruire nei dettagli un’altra forma di società dove ci sia attenzione per la qualità della vita delle persone e per l’ambiente e dove l’economia diventi una scienza e nel contempo un’arte non ponendosi al diretto servizio di alcuno – né di singole persone né di qualche ristretto gruppo specifico di popolazione – ma mirando al bene comune (sul concetto di “bene comune”, specialmente in un mondo complesso come quello attuale, cfr. in particolare Quale economia oggi per il bene comune?, cit., con uno speciale riferimento alla sua ultima nota).
Sulle lotte popolari contro le dittature assolutistiche (che avessero assunto o no una forma “ufficializzata” come la monarchia o l’impero), basti ricordare negli ultimi secoli le prolungate lotte contro l’assolutismo, sia in molte “nazioni sovrane” sia in molte colonie che vari paesi soprattutto del Nord del mondo hanno cercato di stabilire in altre parti del globo.
A proposito delle statistiche sulla percezione della corruzione nei vari paesi (qui ricordate nella nota 37), si può notare che l’affermarsi del neoliberismo potrebbe – date le sue caratteristiche – dare localmente alla gente l’impressione di una minore diffusione della corruzione rispetto ad un eventuale precedente periodo non liberista, proprio perché tendendo a ridurre le attività della P.A. il neoliberismo tende a ridurre anche le occasioni di “corruzione ordinaria” tra i politici, i funzionari pubblici, ecc.. Trattandosi sostanzialmente di una forma superiore di corruzione, il fatto che questa superiore intensità finisca o no con l’apparire esplicitamente in quelle statistiche dipende in pratica dalla capacità della popolazione di notare e cogliere tale superiore intensità: una capacità che, ovviamente, può variare nel tempo e nello spazio non solo da una nazione all’altra ma anche all’interno della medesima nazione. Questa variabilità è collegata anche all’enorme insistenza con cui tipicamente il neoliberismo tenta di diffondere tra la popolazione miti quanto mai fasulli, assurdi e infondati secondo i quali non può esistere un’economia più efficiente, funzionale e meravigliosa di quella liberista, che quindi anziché essere il frutto di una forma superiore di corruzione sarebbe invece l’estrinsecazione di una forma superiore di conoscenza e di abilità progettuale.... Come mostra la storia, purtroppo non è raro che miti di tal fatta abbiano un ampio successo tra la popolazione di una certa parte del mondo durante un certo periodo, prima di collassare sotto la spinta di qualche concatenazione di eventi....
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