Il neoliberismo non è una teoria economica
Seconda parte* (Qui la prima parte)
di Luca Benedini
Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE
Sulla mancanza di effettive giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità antipopolare previsti da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la sostanziale assenza di concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o addirittura del tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare vantaggi economici a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.
Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).
E tanto meglio se a quell’autentico approccio keynesiano si fossero aggiunti anche più recenti sviluppi operativi nel campo delle politiche economiche, come il microcredito, l’approfondimento della nozione di “beni comuni”, la green economy – cioè, in pratica, l’economia ecologicamente sostenibile – e la globalizzazione non solo dell’economia in senso stretto ma anche di ulteriori aspetti quali, innanzi tutto, i diritti e le retribuzioni dei lavoratori (come sostenuto p.es. da un organismo collegato alle Nazioni Unite come l’Organizzazione internazionale del lavoro), una fiscalità ispirata a criteri di progressività col crescere del reddito personale (criteri previsti p.es. dall’art. 53 della Costituzione italiana) e appunto la sostenibilità ambientale (sostenuta a sua volta anche da agenzie dell’Onu come specialmente lo United Nations Environmental Programme). Più in generale, le prospettive a questo proposito dovrebbero essere quelle di arrivare a un coordinamento internazionale delle iniziative pubbliche o comunitarie miranti a occuparsi efficacemente di ciascuno dei vari “fallimenti del mercato”.
Oltre tutto, nella posizione dei sostenitori dell’austerità vi sono anche delle profondissime contraddizioni specifiche, in aggiunta a quelle già citate riguardanti in generale l’orientamento neoliberista.
1. Tra finanzieri e lavoratori
Una prima colossale contraddizione specifica appare avere come sua manifestazione più emblematica proprio le vicende irlandesi, greche, spagnole e portoghesi, oltre a quelle di un altro paese dell’UE come Cipro [18]: mentre i vertici di UE e Fmi tengono costantemente nel loro mirino la spesa pubblica rivolta direttamente o indirettamente ai ceti bassi e medio-bassi, in tali vicende quei vertici hanno praticamente costretto i governi dei paesi in questione a espandere nettamente la spesa pubblica (giungendo anche a dei deficit di bilancio colossali) per coprire una serie di incauti “investimenti a rischio” attuati da degli istituti bancari e finanziari. Come ha riassunto p.es. Antonio Foglia in Quelle Banche in Germania salvate da noi Europei (Corriere della Sera, 12 gennaio 2014), «il sistema bancario tedesco, a furia di erogare [all’estero, N.d.R.] credito che andava a finanziare anche le bolle immobiliari in Spagna e Irlanda (ma anche in Usa, tanto che la prima banca saltata nella crisi dei Subprime fu la tedesca Ikb nel 2007) si ritrovò nel 2008 esposto per più di 900 miliardi di euro verso i Paesi della periferia dell’eurozona. Cifra pari a oltre due volte e mezzo il capitale totale delle banche tedesche» [19]. Diretta all’epoca da Jean-Claude Trichet, «la Banca centrale europea (Bce) fece imporre a Paesi come l’Irlanda, che avevano finanze pubbliche perfettamente sane, di rovinarle per salvare il proprio sistema bancario. A vantaggio anche delle banche estere creditrici che poterono rientrare dai crediti facili erogati» (erano banche soprattutto tedesche, per l’appunto, ma anche di altri paesi come principalmente la Francia). E «anche gli altri Paesi dovettero garantire i propri sistemi bancari, peggiorando il proprio merito di credito sovrano e quindi indebolendo ulteriormente il loro sistema bancario carico di obbligazioni dello stesso Stato».
In quegli anni lo Stato irlandese, su richiesta della direzione della Bce e in seguito anche della Commissione europea (che comunque approvò sempre ognuna delle scelte delle pubbliche istituzioni irlandesi sulla questione), investì soldi pubblici per un ammontare complessivo di almeno 350 miliardi di euro per coprire sostanzialmente i buchi di bilancio delle banche del paese, e ciò principalmente allo scopo di evitare che banche di altri paesi soffrissero per i propri incauti prestiti alle banche irlandesi: secondo i dati ufficiali dell’UE, 65 miliardi furono usati per ricapitalizzare le banche e/o per acquistare da loro a un prezzo loro favorevole titoli di credito deteriorati, mentre almeno 285 miliardi vennero impegnati per fornire garanzie alle loro obbligazioni, ai depositi bancari e ad altre loro forme di debito. Un tale ammontare – mobilitato dal governo irlandese nell’arco di circa tre anni – corrisponde a circa il 224% del prodotto interno lordo (Pil) irlandese del 2011...! Ne conseguì ovviamente, da parte del governo irlandese, la richiesta di un grosso prestito, rivolta a UE e Fmi. Su una scala minore, fatti analoghi sono successi in Spagna e a Cipro, Stati che come l’Irlanda hanno finito col dover chiedere prestiti a UE e Fmi per riuscire a salvare con soldi pubblici – in base alle indicazioni della Commissione europea e della Bce – alcune banche del proprio paese (o meglio, i loro più ricchi correntisti, i solitamente ricchi detentori di loro obbligazioni non garantite e/o i loro eventuali fornitori di crediti interbancari...). E ogni volta questi prestiti sono stati anche utilizzati dai vertici dell’UE e del Fmi per imporre a questi paesi condizioni-capestro estremamente antipopolari, impostate su pesanti forme di austerità, di svuotamento dello “Stato sociale” e di riduzione dei diritti dei lavoratori, accompagnate poi di fatto sistematicamente da un netto aumento nazionale della povertà e della disoccupazione. Cose non dissimili sono avvenute anche in Grecia e in Portogallo, dove delle combinazione di malgoverno, crisi bancarie e pressioni speculative internazionali hanno innescato difficoltà finanziarie statali che UE e Fmi hanno analogamente pilotato verso prestiti accompagnati da austerità, svuotamento dello “Stato sociale”, ecc.. Specialmente in Grecia, di fianco a tutto questo sono state imposte anche delle privatizzazioni forzate e un’ampia svendita di beni pubblici: provvedimenti estremamente graditi alla grande finanza internazionale, che ha avuto così la possibilità di accaparrarsi a prezzi praticamente stracciati varie attività e proprietà precedentemente pubbliche....
La più complessa di queste situazioni è stata sicuramente quella greca, che ha raggiunto punte di disagio sociale e di effettiva e prolungata miseria particolarmente drammatiche e diffuse e che richiede qualche ulteriore approfondimento perché si possa giungere a un’effettiva analisi di massima. Come ha mostrato un accurato studio realizzato su dati ufficiali e pubblicato nel 2016 dalla “European School of Management and Technology” di Berlino (Where did the Greek bailout money go?, di Jörg Rocholl e Alex Stahmer), i due programmi di aiuto europeo concretizzatisi nei prestiti del 2010 e del 2012 alla Grecia sono serviti quasi esclusivamente per ripagare debiti statali (soprattutto titoli di Stato giunti a scadenza e cedole su titoli ancora in corso), per ricapitalizzare alcune banche greche in crisi e per incentivare delle banche estere ad accettare una ristrutturazione di titoli di Stato greci da esse acquisiti in passato: del prestito complessivo di circa 216 miliardi di euro, solo una decina di miliardi (cioè meno del 5% del totale) sono finiti nel bilancio dello Stato greco per le spese correnti.... E la medesima tendenza era confermata anche dai prospetti di utilizzazione previsti per il terzo programma, concretizzatosi nel prestito del 2015. In altre parole, i cosiddetti “programmi di aiuto” sono serviti quasi solo per saldare debiti statali del passato (evitando così che venissero toccati in modo più intenso, con una ristrutturazione ancora più acuta, i detentori di titoli di Stato greci), non certo ad aiutare fattivamente il paese a rialzarsi: si può così comprendere che lo scopo preciso di tali programmi non era affatto far ripartire l’economia greca e salvare la popolazione del paese da una crescente crisi, ma salvaguardare il più possibile sia le banche greche sia soprattutto i “grandi ricchi” esteri che avevano investito in tale economia (specialmente banche francesi e tedesche) [20]. E i costi di tutto questo sono stati riversati sulla popolazione greca stessa in una prospettiva di decenni, benché nella gravissima crisi economico-finanziaria del paese la responsabilità di gran lunga maggiore non fosse affatto di tale popolazione ma dei vertici delle banche in questione e soprattutto dei due corrotti partiti di governo del decennio precedente (appartenenti l’uno alla cosiddetta “destra moderata” e l’altro alla cosiddetta “sinistra moderata”), durante il quale a un certo punto il governo greco è giunto addirittura a inviare all’UE bilanci statali annui pesantemente falsificati. Poiché praticamente da sempre nelle istituzioni dell’UE dominano proprio i partiti delle cosiddette “destra moderata” e “sinistra moderata”, non si può evitare di notare che la popolazione greca è stata clamorosamente fregata non una ma ben due volte da queste due aree politiche: prima dalla loro versione nazionale greca, poi dalla loro versione europea....
Nel complesso – come si trova riconosciuto ufficialmente p.es. in un comunicato-stampa emesso dalla Commissione europea il 6 giugno 2012, Gestione delle crisi: nuove misure per evitare di dover ricorrere al salvataggio delle banche – nell’UE con «la crisi finanziaria [...] i governi hanno dovuto iniettare denaro pubblico nel sistema bancario ed emettere garanzie in uno sforzo senza precedenti: tra ottobre 2008 e ottobre 2011 la Commissione europea ha approvato aiuti di Stato a favore degli enti finanziari pari a 4.500 miliardi di euro (equivalenti al 37% del Pil dell’UE). Ciò ha evitato fallimenti bancari e perturbazioni economiche su ampia scala, ma ha fatto ricadere sui contribuenti il costo del deterioramento delle finanze pubbliche» [21].... Dopo quegli anni, a partire appunto dal 2012, l’UE ha cercato di cambiare il sistema di aiuti alle banche in difficoltà, passando in gran parte – come si è già accennato nel paragrafo precedente – da dei diretti impegni statali nella forma di fondi o garanzie a dei prestiti estremamente ampi della Bce a tasso agevolatissimo. Da questa tendenza al cambiamento sono rimasti comunque esclusi soprattutto i fondi per le ricapitalizzazioni bancarie, i quali rimangono ancora tipicamente tra le incombenze che l’UE richiede agli Stati (che in cambio ottengono comunemente azioni delle banche implicate). Anche con queste “nuove” procedure, in ogni caso rimane il fatto che le attenzioni e le premure che vengono rivolte dall’UE – e dai governi che in pratica la dirigono – ai “grandi ricchi” coinvolti nella gestione delle banche e degli istituti finanziari sono infinitamente maggiori di quelle rivolte alle classi lavoratrici e alla qualità della loro vita.... Anzi, queste ultime in pratica vengono sistematicamente vessate, non certo trattate con attenzioni e premure....
Secondo recenti dati ufficiali dell’UE, della cifra complessiva approvata fino a fine 2017 per degli aiuti di Stato agli istituti bancari e finanziari – cifra giunta intorno ai 5.120 miliardi – erano stati concretamente impegnati alla stessa data circa 1.960 miliardi (nei pressi del 16% del Pil dell’UE del 2011), mentre per un altro simile importo si può ipotizzare una sorta di uso indiretto [22]. Ma – anche se più di metà dell’ammontare approvato non è stata poi effettivamente mobilitata in senso stretto, cioè non ha determinato alcuna forma di esborso vero e proprio – non si dimentichi che le due già citate aree politiche che predominano nell’UE, e che in questo decennio sono state tipicamente così avversarie della parte sociale della spesa pubblica (come hanno vissuto drammaticamente le classi popolari dei numerosi paesi dell’UE i cui bilanci pubblici sono stati messi nel mirino dalla Commissione europea), hanno appunto deliberato in via ufficiale attraverso la Commissione stessa nel medesimo periodo la possibilità di più di 5.000 miliardi di uscite pubbliche nazionali pro-finanza, cioè una cifra dell’ordine del 40% del Pil dell’intera Unione. E ciò spesso in paesi già in difficoltà finanziarie oppure precipitati in tali difficoltà proprio a seguito di questi aiuti pubblici al settore finanziario....
Più in particolare – secondo quei dati recenti – i paesi per cui sono state approvate maggiori quantità di tali aiuti, misurati come percentuale del rispettivo Pil nazionale (del 2011), sono stati Irlanda (363%), Danimarca (252%), Belgio (94%), Grecia (75%), Slovenia (57%), Olanda (54%), Cipro (53%), Spagna (50%), Portogallo (46%), G. Bretagna (44%), Lettonia (42%) e Svezia (42%), mentre in termini assoluti gli importi più elevati hanno riguardato G. Bretagna (767 miliardi), Germania (655), Danimarca (602), Irlanda (567), Spagna (544), Francia (362), Belgio (348), Olanda (323) e Italia (226) [23]. Tra l’altro, una grandissima parte di questi aiuti è stata approvata e utilizzata non con modalità spalmate sull’intero decennio, ma nel giro di pochi anni: solitamente da due a quattro. Il che significa che durante gli anni in questione l’impatto di tali aiuti sui bilanci pubblici nazionali ha spesso raggiunto – con piena tranquillità dell’UE e, anzi, con una sua completa corresponsabilità – livelli finanziariamente molto pesanti, o addirittura devastanti come nel caso irlandese. Altri due di questi paesi, infatti, si sono ritrovati costretti a ricorrere come l’Irlanda a prestiti della stessa UE e del Fmi per evitare una bancarotta nazionale dovuta in pratica solo agli aiuti alle banche, mentre ulteriori due hanno fatto lo stesso ma in un contesto in cui il prestito aveva molteplici cause.
Se si pensa a come durante il medesimo decennio, nel caso di questi cinque paesi e di altri paesi dell’UE con considerevoli deficit pubblici di bilancio, la Commissione europea abbia mostrato normalmente l’abitudine di prendere ferocemente e inflessibilmente posizione su percentuali del Pil anche dell’1% o meno, minacciando pesanti sanzioni agli Stati che non intendevano uniformarsi alle sue richieste tipicamente incentrate sul tagliare vari aspetti della spesa pubblica di tipo sociale [24], si comprende ancor meglio come non siano affatto i finanzieri a sembrare dei comuni cittadini sudditi dell’UE, ma siano i vertici dell’UE a manifestarsi come palesemente e pressoché totalmente sudditi della grande finanza....
In sintesi – come dimostrano in modo inequivocabile la gestione internazionale della “crisi dei mutui” e in particolare le vicende di paesi come Irlanda, Grecia, ecc. – non è affatto vero che un considerevole deficit pubblico è un mostro orribile per UE e Fmi: lo è solo quando cerca di migliorare la qualità della vita delle classi lavoratrici, mentre diventa invece un sacro e santo dovere se si tratta di evitare grosse perdite finanziarie a dei “grandi ricchi” (in primo luogo gli istituti bancari e finanziari e i loro eventuali grandi creditori), immersi solitamente nella finanza speculativa.... E tutto questo vale, ovviamente, anche per i molti governi nazionali che di fatto hanno concorso negli anni scorsi agli orientamenti espressi da entità sovranazionali come appunto l’UE e il Fmi.
2. Fisco e classi sociali
Una seconda contraddizione estrema ha a che fare con la pretesa neoliberista secondo cui il modo di governare più efficace per la società nel suo insieme passa in pratica per il mantenere sui ceti ad alto reddito una tassazione complessiva – tenuto conto delle imposte dirette e di quelle indirette, delle imposte sulle persone fisiche e di quelle sulle società, ecc. – percentualmente simile (o addirittura minore) della tassazione attuata sulle classi lavoratrici e, nel contempo, per l’evitare sia un’elevata pressione fiscale generale sia ampi accumuli di debito pubblico. In questa cornice lo Stato, conformemente del resto alle concezioni neoliberiste, non può che tenere decisamente bassa la spesa pubblica, rinunciare in gran parte a qualsiasi funzione di redistribuzione dei redditi a favore delle classi svantaggiate – affidando così le problematiche socio-economiche di queste ultime eminentemente alla speranza di qualche “sgocciolamento” e nei casi più drammatici alla beneficenza – e lasciare parallelamente in mano ai mercati gran parte delle dinamiche della società.
A questo proposito si vedano p.es. le concise ed essenziali osservazioni di Paul Krugman e Joseph E. Stiglitz riportate in Due Nobel per lo Stato sociale (La Civetta, gennaio 2012) [25]. In breve, dal confronto storico tra le varie economie nazionali risulta quanto mai evidente che quella pretesa – insita tipicamente nelle varie ricette d’austerità predicate da Fmi e UE – è funzionale solamente al mantenimento e all’espansione della posizione sociale di estremo privilegio dei “grandi ricchi”, non certo al benessere degli altri strati sociali. E ciò proprio perché questo confronto dimostra che è decisamente errata non solo la teoria dello “sgocciolamento” automatico, ma anche l’altra comunissima tesi neoliberista secondo cui ogni iniziativa pubblica che cambi qualcosa nell’ambito della sfera economica porta necessariamente con sé una vasta serie di distorsioni, sprechi e/o inefficienze che alla fin fine rallentano e inibiscono il settore privato più di quanto l’attività economica possa essere stata stimolata direttamente da quell’iniziativa. Anzi, i fatti dimostrano che vi sono iniziative pubbliche che, riuscendo in modo indiscutibile a porre significativamente rimedio a certi “fallimenti del mercato”, possono stimolare specificamente anche tale settore e favorire complessivamente le sue stesse attività [26].... Particolarmente pregnante appare anche un’intervista – La società opulenta? Un’illusione (Corriere della Sera, 9 novembre 1998) – in cui a 90 anni il celebre economista John Kenneth Galbraith riassunse l’essenza della sua lunga esperienza riconoscendo, dal punto di vista della qualità complessiva della vita in una società, gli estremi limiti umani che ha l’azione economica se non è esplicitamente accompagnata da una politica che «investe nel sistema scolastico, nella sanità, nello sviluppo sociale». Si tratta sostanzialmente del contrario di quanto sostengono e fanno i politici e i burocrati che dall’interno appunto del Fmi e dell’UE continuano a spingere per vincolare sempre più a quel genere di meccanismi di austerità i singoli Stati e le loro popolazioni.
Più in particolare, appare storicamente assurda l’idea secondo cui per stimolare e rilanciare l’economia la cosa più importante è ridurre le tasse ai ricchi, e specialmente ai “grandi ricchi” (e ciò tanto più durante un periodo di ristagno o recessione). È invece quanto mai indiscutibile il fatto che i concreti dati economici indicano esattamente il contrario [27]. Proprio per questo, tra gli economisti che appoggiano il neoliberismo non tutti continuano a sostenere pubblicamente quell’idea: alcuni hanno cominciato a vergognarsi di dire cose che tra gli “addetti ai lavori” sono inequivocabilmente note come informazioni false e fasulle (pienamente corrispondenti all’ormai famosa espressione inglese “fake news”) e magari a preoccuparsi per il futuro della propria reputazione professionale.... Ciononostante, tra i politici – che in moltissimi casi sono ormai abituati a sbandierare fake news dalla mattina alla sera senza batter ciglio – è un’idea che ancora viene pubblicamente ribadita con costanza giorno dopo giorno da un gran numero di essi in un gran numero di paesi....
Poiché tenere basse le tasse sui profitti aziendali effettivamente reinvestiti nell’attività produttiva – o addirittura detassarli – è un accorgimento fiscale che può risultare molto utile per l’andamento economico specialmente nei periodi di ristagno o recessione, uno dei modi principali in cui nei discorsi pubblici dei politici si inserisce l’idea del ridurre le tasse ai ricchi (o del mantenerle molto basse se lo sono già) è il generalizzare progressivamente e in modo pienamente infondato una prima frase sostanzialmente corretta che faccia un generico riferimento a quell’accorgimento. Ecco un esempio tipico: “se si vuole aiutare l’economia e i lavoratori bisogna aiutare le imprese a investire, quindi bisogna tenere basse le tasse agli imprenditori, quindi bisogna tenere basso il prelievo fiscale sui profitti delle imprese e sugli scaglioni di reddito più elevati” [28]....
Nelle parti del mondo che come l’eurozona sono caratterizzate da una moneta comune per più paesi (una situazione in cui le pubbliche istituzioni di una singola nazione non possono pertanto né stampare – e ovviamente spendere – moneta per cercare di riequilibrare gli effetti di un elevato indebitamento pubblico, né svalutarla per rilanciare la competitività internazionale del paese), alle manipolazioni argomentative già citate si aggiungono tipicamente ulteriori affermazioni con le quali si mira in pratica ad incastrare le classi lavoratrici in un vicolo cieco come il seguente: 1) se il bilancio pubblico giunge a un debito complessivo considerevole (che nell’UE corrisponde ufficialmente al superamento del 60% del Pil nazionale), la cosa diviene molto pericolosa per i titoli di Stato, per il futuro problema degli interessi da pagare sul debito pubblico, ecc., con gravi conseguenze sull’“economia reale” e quindi sull’occupazione, sui redditi dei lavoratori, ecc.; 2) pertanto, bisogna evitare che il debito raggiunga quei livelli considerevoli e, se invece li ha già raggiunti, bisogna recuperare anno dopo anno parte di quel debito – attraverso dei bilanci pubblici in attivo – fino a tornare a un livello non pericoloso; 3) poiché se si fanno pagare elevate tasse ai ricchi l’economia va in crisi e cresce la disoccupazione, in conclusione dunque se si vuole porre a livelli impegnativi la spesa pubblica per branche della pubblica amministrazione (P.A.) come l’istruzione, la sanità, l’assistenza e previdenza sociale e la salvaguardia ambientale allora bisognerà far pagare alte tasse e alti contributi ai lavoratori (e se questi ultimi preferiscono pagare poco allora dovranno accontentarsi di attività striminzite – e spesso costose per gli utenti – da parte di quelle branche della P.A.); 4) analogamente, nel caso in cui per riuscire a ridurre il debito occorrano dei bilanci pubblici in attivo per un certo numero di anni, questo attivo lo si dovrà ottenere soprattutto da dei tagli nella spesa relativa a tali branche della P.A. e/o da un accresciuta imposizione fiscale o contributiva sulle classi lavoratrici (p.es. mediante un aumento dell’Iva) [29].... A questo proposito non si dimentichi che le branche in questione operano generalmente, molto più che per i ricchi, per tutto il resto della società, in quanto i ceti economicamente più elevati – che appunto secondo i neoliberisti non bisognerebbe colpire dal punto di vista economico per i motivi già espressi – non solo sono caratterizzati da un numero di persone molto limitato, ma tendono anche a ricorrere molto spesso a scuole private, cliniche private, ecc..
Delle due premesse di questo ragionamento, la prima (ai punti 1 e 2) è gonfiata ed esagerata anche se ha un fondo di verità (ma perché quei pericoli si concretizzino bisognerebbe arrivare a un debito più che doppio rispetto a quel 60%), mentre la seconda (all’inizio del punto 3) è appunto semplicemente falsa. Le conclusioni (alla seconda parte del punto 3 e al punto 4) sono quindi prive di alcun fondamento dal punto di vista della scienza economica (e sono semplicemente l’espressione di quell’“edonismo reaganiano” che ha manifestato il prevalere, tra i ricchi, del rifiuto radicale di ridurre i propri privilegi e di contribuire non solo al proprio benessere ma anche a quello degli altri strati sociali). Ma, ripetendo pubblicamente tale ragionamento innumerevoli volte, si ottiene spesso che molte persone delle classi lavoratrici, essendo prive di una specifica istruzione economica, finiscano col credere a quest’assurdità, o perlomeno col pensare che le cose potrebbero stare proprio così come tutti questi politici, giornalisti, economisti, ecc. ribadiscono continuamente....
Nelle nazioni che hanno una loro specifica valuta nazionale ma da un lato devono affrontare gravi debiti pubblici che i loro governi non intendono contestare alla radice né giuridicamente né politicamente né economicamente [30] e dall’altro lato vivono forti tendenze inflattive che sconsigliano di stampare “allegramente” ulteriore moneta per pagare quei debiti [31] (un duplice caso non certo raro nell’evoluzione storica della moderna società industrializzata, specialmente nel Terzo mondo), entra in atto quella che potrebbe essere considerata la variante originaria di quel vicolo cieco, nata sostanzialmente nella prima metà degli scorsi anni ’80 con i “piani di aggiustamento strutturale” elaborati dal Fmi. In questa variante, al posto dei primi due punti precedenti si trova in sostanza una formulazione come la seguente: 1) dato che il bilancio pubblico è giunto a un elevato debito complessivo e che l’inflazione ha ormai diversi effetti indesiderabili, la cosa è molto pericolosa per la solvibilità finanziaria della nazione, per l’“economia reale”, per l’occupazione, per i lavoratori, ecc.; 2) bisogna pertanto evitare il più possibile i fattori che possono favorire l’inflazione (tra i quali in particolar modo un’ulteriore espansione artificiosa della circolazione monetaria, gli aumenti salariali e qualsiasi forma di “scala mobile” mirante a proteggere il valore reale di stipendi e pensioni) e nel contempo recuperare anno dopo anno parte di quel debito – attraverso dei bilanci pubblici in attivo che investano quell’attivo nella riduzione del debito – fino a tornare a un livello non pericoloso. Anche questo genere di premessa – seppur espresso in parte in modi spesso gonfiati ed esagerati e in parte in modi incompleti e alquanto inesatti, manipolati ad arte per penalizzare artificiosamente le classi lavoratrici – ha comunemente un fondo di verità (se appunto non si intende contestare alla radice una parte consistente o la totalità stessa del debito); ma, dato che i punti 3 e 4 del ragionamento rimangono sostanzialmente immutati e rimane quindi la falsità della seconda premessa, anche le conclusioni rimangono in pratica del tutto false.
Paradossalmente, in base ai concreti dati storici la risposta più sensata a un’economia in difficoltà con bilanci pubblici altamente indebitati – e con una moneta in comune con altri paesi oppure con un notevole tasso d’inflazione – sarebbe ovviamente proprio il far pagare notevoli tasse ai ricchi così da riequilibrare il più possibile i bilanci senza colpire pesantemente né le classi già più deboli (che chiaramente stanno già soffrendo molto più dei ricchi), né la domanda aggregata (che è in fondo la chiave di volta dell’andamento economico e che è sospinta molto più dai redditi dei ceti sociali bassi e medi che dai redditi dei ceti più elevati) [32], né eventualmente il valore della valuta nazionale sui mercati internazionali.... Tuttavia, in un mondo impostato secondo i dettami dei neoliberisti (e del Fmi) ogni paese dovrebbe praticamente deregolamentare gli scambi commerciali con l’estero e il proprio mercato nazionale dei capitali, così che di fronte alla minaccia di notevoli tasse i ricchi reagirebbero probabilmente esportando il più possibile fuori dal paese in questione i loro beni e i loro capitali finanziari.... In altre parole, per poter far pagare in modo effettivo notevoli tasse ai ricchi in una società come l’attuale (ampiamente tecnologizzata, industrializzata, globalizzata e “finanziarizzata”), in linea di massima un paese dovrebbe prima dotarsi di norme commerciali e finanziarie che non intendano le frontiere come un colabrodo e che non si inchinino a quella estrema deregolamentazione dei mercati che serve soprattutto alle multinazionali e alla finanza speculativa per fare il bello e il cattivo tempo nelle varie parti del mondo [33].
In sintesi, l’idea secondo cui per stimolare l’economia la cosa più importante è ridurre le tasse ai ricchi non è solo un “banale” – e fondamentalmente prevedibile – aspetto della competizione economica tra classi, ceti, ecc. all’interno della società (con le falsità e le ipocrisie che possono accompagnare tale competizione, per lo meno da parte di chi non considera importanti nella propria vita aspetti come l’etica, la sensibilità umana, la correttezza con gli altri, ecc.), ma specialmente nei paesi che hanno delle marcate difficoltà nei bilanci pubblici è un vero e proprio tentativo di sottrarre a intere classi sociali l’accesso a una sanità, un’istruzione, un’assistenza sociale e altri servizi di qualità, mentre ovviamente le classi privilegiate hanno di fatto a loro piena disposizione cliniche altamente tecnologizzate, istituti scolastici ampiamente strutturati e attrezzati, ecc. ecc. (magari spostandosi anche all’estero per qualcuna di queste opportunità) [34]. Ed è anche un tentativo di operare una particolare forma di persuasione sulle classi che già sono state deprivate di quell’accesso (e che di conseguenza sono colpite generalmente da una scarsità di istruzione, una mortalità e una sofferenza generale nettamente più alte di quelle che sarebbero possibili in una società un po’ equa): persuaderle che è sostanzialmente inevitabile che le cose vadano così, con pochi vincenti e tantissimi perdenti [35], e ciò perché qualsiasi tentativo di migliorare la situazione dei tanti non porterebbe a nulla di efficace.... E pure questa è in realtà una colossale bufala, in quanto sia nel mondo “sviluppato” che in quello “in via di sviluppo” vi sono paesi in cui la “popolazione comune” sta molto meglio che in altri (e non grazie alla fortuna di avere a disposizione risorse nazionali particolarmente abbondanti, ma semplicemente grazie soprattutto ad un diffuso “spirito civico”, all’arte della “buona amministrazione pubblica” e alla capacità di mettere a frutto la creatività innovativa mostrata nell’ambito economico-produttivo dalle persone), così come nel medesimo paese la qualità della vita popolare può migliorare o peggiorare nettamente a seconda del modo in cui operano il governo e le amministrazioni locali ed eventualmente del modo – equo e collaborativo oppure iniquo e sfruttatore – in cui le istituzioni internazionali si rapportano con quel paese.
Dal punto di vista dell’economia in generale, il modo più efficace ed efficiente di far pagare le tasse ai ricchi è tassare soprattutto il loro patrimonio non impegnato nell’attività produttiva e il loro reddito annuo (inclusi i profitti aziendali non distribuiti e non reinvestiti in senso strettamente produttivo). Dato questo (e dato lo stretto rapporto esistente tra le élite economiche e moltissimi dei partiti esistenti nei vari paesi), non genera dunque stupore il sentire così tanti politici da un capo all’altro del mondo ribadire il loro “no” ad imposte patrimoniali sui grandi patrimoni e ad elevati prelievi fiscali sui grandi redditi.... È la sfacciataggine di chi, dall’interno delle pubbliche istituzioni, fa una cosa che è estremamente dannosa per lo sviluppo economico generale e più specificamente per le classi lavoratrici e, nel contempo, asserisce che la fa proprio per salvare l’economia e per non danneggiare i lavoratori....
In Italia, p.es., questi “no” e quel ragionamento di fondo – le cui due premesse sono una gonfiata e l’altra palesemente fasulla – sono diventati delle specie di mantra durante l’ultimo decennio sia per partiti di destra come Forza Italia, Lega e FdI (che addirittura stanno sostenendo prospettive fiscali non solo mostruosamente classiste ma anche assolutamente insostenibili in Italia come la flat tax proposta da Berlusconi nel 2018, che se seriamente attuata porterebbe ad un secco calo delle entrate statali praticamente incompatibile con una società diffusamente moderna e “civilizzata”, tanto più alla luce del nostro elevato debito pubblico), sia per partiti comunemente definiti della “sinistra moderata” come il Pd (inclusa la corrente renziana che ne è recentemente uscita verso destra prendendo il nome di Italia Viva e che, anzi, quando nel Pd era la corrente dominante era anche la più insistente e decisa nel dire quei “no”...). Analogamente, nel resto del mondo “sviluppato” questi mantra li ripetono comunemente i principali partiti sia dell’intera destra (non solo quella cosiddetta “moderata”, come i partiti raccolti a livello europeo nel Ppe, o quella più apertamente conservatrice, ma anche i vari partiti legati nell’UE al “populismo sovranista”, i quali fingono tutti di avere una vena profondamente popolare ma invece – con posizioni economiche come queste – rivelano inequivocabilmente di essere anche loro profondamente classisti e antipopolari) sia di altre aree politiche, tra le quali spiccano oggi la cosiddetta “sinistra moderata” (con rarissime eccezioni) e quel “centro” solo apparentemente innovativo che si incarna p.es. in Francia nel partito En marche, lanciato nel 2016 da Emmanuel Macron (che è poi divenuto presidente del paese l’anno successivo).
Questa contraddizione riguardante soprattutto i bilanci pubblici e la politica fiscale è, in fondo, semplicemente una parte delle contraddizioni economiche che caratterizzano i tipici “piani di aggiustamento strutturale” che il Fmi impone da quasi quattro decenni ai paesi del Terzo mondo in occasione dei suoi vari prestiti: piani che impongono sistematicamente condizioni che, nei paesi in questione, danneggiano pesantemente non solo le classi lavoratrici ma anche più in generale un’ampia parte dell’attività economico-produttiva locale, favorendo invece soprattutto gli interessi delle multinazionali e della finanza internazionale (e a tali piani si sono notevolmente ispirati anche i cosiddetti “programmi d’aiuto” in cui Fmi e UE, in accordo tra loro, hanno inserito i già menzionati prestiti a Irlanda, Grecia, ecc.). Si tratta di una questione ormai dimostrata in modo ampio e indiscutibile grazie non solo a una serie di ricerche concrete in campo economico, ma anche – come si è già accennato – a documenti interni del Fmi che hanno reso ancor più evidente il deliberato approccio elitario, classista, clientelare e reazionario che continua a dominare nelle scelte finanziarie del Fondo stesso e che dovrebbe essere totalmente incompatibile con un’istituzione pubblica internazionale che è basata in grandissima parte su istituzioni pubbliche nazionali di tipo democratico [36].
Oltre tutto, un tale approccio è pure contrario in pratica agli statuti del Fmi, secondo i quali tra gli scopi del Fondo stesso – che devono guidare «tutte le sue politiche e le sue decisioni» – vi sono sia il «facilitare l’espansione e l’equilibrata crescita del commercio internazionale» in modo tale da «contribuire alla promozione e al mantenimento di alti livelli di occupazione e di reddito reale e allo sviluppo delle risorse produttive di tutti i paesi membri come obiettivi primari della politica economica», sia l’erogare prestiti a dei paesi istituendo «appropriate forme di salvaguardia» così da fornire a tali paesi «l’opportunità di correggere degli squilibri della loro bilancia dei pagamenti senza ricorrere a misure che avrebbero effetti distruttivi sulla prosperità nazionale e internazionale». Dal momento che le condizioni di prestito imposte dal Fmi ai paesi del Terzo mondo hanno invece comunemente effetti squilibranti sul loro commercio e soprattutto sulla loro occupazione, sul loro reddito reale e sullo sviluppo delle loro risorse produttive e, nel contempo, effetti distruttivi sulla loro prosperità, se ne ricava che esiste un contrasto insanabile tra gli scopi statutari del Fmi da un lato e le politiche e le decisioni prese dai vertici del Fmi su questi temi dall’altro. In altre parole, la gestione che in pratica i governi dei maggiori paesi “sviluppati” stanno attuando da decenni nel Fmi nei confronti dei paesi finanziariamente in difficoltà è impostata sostanzialmente in una maniera illegittima, giuridicamente illegale....
3. Armamenti ed eserciti
C’è anche un terzo ampio campo in cui i politici neoliberisti continuano da tempo a contraddire intensamente le loro affermazioni di fondo (in questo caso, la loro costante rivendicazione di un apparato statale snello e soprattutto dal bilancio molto leggero): le spese militari.
Dopo la fine della “guerra fredda”, a partire dall’ultimo decennio del ’900 in teoria ci sarebbe stato sempre meno bisogno di armi ed eserciti nel globo, dati anche il contemporaneo avvento della globalizzazione e il sempre più corposo e vasto commercio mondiale che ne è seguito. La crescente interdipendenza economica dei vari paesi del mondo avrebbe dovuto scoraggiare fortemente le guerre, dal momento che la pace favorisce e incoraggia sia il commercio su vasta scala sia i molteplici vantaggi economici che possono derivare diffusamente da esso. Oltre tutto, le guerre si ritorcono enormemente contro le classi lavoratrici (tra le quali si trovano tipicamente quasi tutte le vittime di guerra, civili o militari), danno fastidio alle politiche keynesiane (che necessiterebbero di collaborazione, dialogo, confronto democratico ed efficace contrattazione per esprimersi al meglio) e sconvolgono i mercati (ponendosi in tal modo direttamente contro il perno stesso delle logiche economiche liberiste). Dunque – con la fine della “guerra fredda” e delle guerre locali di tipo politico da essa favorite (nelle quali da un lato stavano tipicamente forze sociali e/o paesi sostenitori del capitalismo e dal lato opposto forze sociali ostili al capitalismo e sostenute di solito da qualcuno dei paesi che appartenevano al cosiddetto “socialismo reale”, come l’Urss, la Cina maoista, la Cuba castrista, ecc.) – praticamente tutte le principali forze politiche e tutte le maggiori élite economiche avrebbero dovuto usare concordemente tutta la loro forza economica, politica ed eventualmente militare per dissuadere lo scoppio di guerre e all’occorrenza farle terminare al più presto: un intento che in teoria appunto avrebbe dovuto essere condiviso anche dai sostenitori del neoliberismo (e del suo così sbandierato predominio dei mercati), proprio al fine di mantenere ed eventualmente ripristinare il più rapidamente possibile lo sviluppo indisturbato del mercato mondiale.
Tuttavia, un’ennesima conferma del fatto che il neoliberismo non è affatto un approccio all’economia, ma un’ideologia politica che mira semplicemente a favorire ancor più chi è già molto ricco e potente, viene da tre fatti paralleli: a) nel mondo, anche dopo appunto la fine della “guerra fredda” continuano ad esserci decine di conflitti armati locali legati al controllo delle risorse del luogo, controllo che in molti casi fa direttamente o indirettamente capo a esponenti delle maggiori élite economiche internazionali; b) come mostrano gli accurati – anche se forzatamente non del tutto completi – rapporti annuali dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), dalla metà degli anni ’90 in poi le spese militari mondiali sono aumentate quasi costantemente anno dopo anno, risultando nel 2018 più alte di circa il 75% rispetto a vent’anni prima e superiori di circa il 19% anche rispetto al 1988, cioè rispetto ai livelli precedenti alla caduta del “muro di Berlino” (si tratta di dati depurati dall’inflazione e quindi corrispondenti agli incrementi effettivi) [37]; c) proprio questo è il mondo in cui la globalizzazione neoliberista imperversa svuotando sempre più lo “Stato sociale” in quasi tutto il pianeta, con la parziale eccezione di pochissimi paesi che almeno nella politica interna cercano di opporsi in modo corposo a questa tendenza (e che non sono certo né quelli con le maggiori percentuali di spesa pubblica destinate ad esercito, armamenti, ecc., né quelli più inclini ad avventure belliche qua e là nel globo...). Tra l’altro, poiché dopo l’11 settembre 2001 (la giornata divenuta pressoché universalmente nota perché funestata dagli attentati alle “Torri gemelle” e ad altri luoghi del territorio statunitense) la difesa dal terrorismo è diventata l’argomento principale di chi sostiene l’importanza di elevate spese militari, vale la pena di ricordare – e sottolineare – che il terrorismo opera comunemente in modi che finiscono con l’aggirare i grandi eserciti e gli armamenti più costosi, rendendo quindi gli uni e gli altri pressoché inutili da questo punto di vista....
Persino nell’ultimo decennio, durante il quale a seguito della “crisi dei mutui” le economie nazionali e i bilanci statali di praticamente tutti i paesi del mondo si sono trovati in difficoltà finanziarie di cui “ovviamente” hanno più sofferto le classi lavoratrici (con i neoliberisti che hanno continuato instancabilmente a predicare in tutto il mondo a favore dell’austerità e della compressione della spesa pubblica di tipo sociale), i rapporti del SIPRI mettono in evidenza che le spese militari mondiali si sono ridotte – e soltanto molto lievemente – solo negli anni dal 2012 al 2014 e hanno poi ricominciato subito a crescere, toccando il nuovo massimo storico annuale nel 2017 e poi ancora nel 2018. I dati rilevati dal SIPRI pongono quest’ultimo massimo a 1.822 miliardi di dollari (di cui circa il 36% è speso dagli Usa e il 14% dalla Cina, mentre tra il 3 e il 4% ciascuno si trovano Arabia Saudita, India, Francia e Russia e tra il 2 e il 3% G. Bretagna, Germania, Giappone e Corea del sud), ma la già citata non universalità dei dati raccolti e alcune difformità statistiche da un paese all’altro fanno ritenere che l’effettiva cifra complessiva del 2018 possa essere intorno ai 1.900-2.000 miliardi di dollari [38].
La cosa vale specificamente anche per l’UE, considerato anche che in Europa si sta registrando una pace ininterrotta e stabile da più di 70 anni. Le uniche eccezioni sono state dapprima alcune crisi internazionali interne al “patto di Varsavia” – come la sostanziale invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968 da parte delle forze armate soprattutto dell’Urss – e in seguito, dopo il crollo dei regimi basati sul cosiddetto “socialismo reale” che controllavano l’Europa centro-orientale (con la conseguente dissoluzione del “patto di Varsavia” stesso, dell’Urss e della Jugoslavia durante l’ultimo decennio del ’900), alcune guerre strettamente locali e specificamente legate agli effetti di tale crollo [39]. Nonostante dunque tre fattori nodali come il concludersi della “guerra fredda” (nella quale il continente europeo era una cruciale area di contatto e soprattutto di attrito tra i due blocchi contrapposti), lo svilupparsi del mercato mondiale e la pace oltremodo stabile presente sul piano internazionale in Europa, i dati raccolti dal SIPRI indicano che dopo il 1990 nell’Europa occidentale – che all’epoca poteva quasi sovrapporsi all’UE – le spese militari sono calate molto lentamente e solo fino al 1997 (quando la riduzione giunse al 16% rispetto al ’90), giacché già dall’anno successivo hanno ricominciato a crescere ancor più lentamente ma pressoché ininterrottamente fino al 2009 (quando l’aumento fu del 10% rispetto al ’97). Anche nell’Europa centrale, che a cavallo tra 20° e 21° secolo ha cominciato un percorso di progressivo ingresso nell’UE, il periodo tra il 1999 e il 2007 ha visto un continuo incremento di tali spese, aumentate complessivamente del 25%. E, nel decennium horribilis che ha sconvolto l’economia mondiale a seguito della “crisi dei mutui”, i dati mostrano che a dispetto delle pesanti e diffuse difficoltà sociali contemporanee – che ancora non si sono affatto concluse – le spese militari nell’insieme dell’Europa centro-occidentale sono calate di poco e solo fino al 2014 (-12% rispetto al 2009) tornando poi subito a crescere del 2-3% all’anno.
Uno dei principali aspetti politici di questo atteggiamento quanto mai diffuso tra i governi europei sta indubbiamente nel fatto che – come osservò tra gli altri Antonio Gambino in un’intervista apparsa su Aprile del 26 maggio 1999 – la guerra avviata dalla Nato contro la Jugoslavia in quella primavera «serviva [...] a lanciare la nuova Nato, una sorta di nuovo governo mondiale che ignorando le Nazioni unite intende operare come potere imperiale americano sul mondo» [40]. L’accuratamente architettata e ben mascherata genesi di quella guerra, in un complicato intreccio col procedere dei colloqui di Rambouillet sul Kosovo, mostrò che non si trattò affatto né di una drammatica incomprensione tra rappresentanti politici né dello sfortunato effetto di qualche “incidente diplomatico”, ma di un complesso progetto condiviso praticamente dai vertici politici dei maggiori paesi della Nato (gli Usa e i quattro più popolosi paesi dell’UE) malgrado si trattasse di un progetto in pieno contrasto con lo statuto originario della Nato, nel quale sono incluse – in pieno ed esplicito accordo con la Carta dell’Onu – funzioni autonome solamente di tipo difensivo [41]. Il disegno di fondo di cui era parte quel progetto – disegno ulteriormente sviluppato dai governi dei paesi della Nato negli anni successivi – implica evidentemente, in tali paesi, il costante mantenimento di una notevole enfasi su eserciti, aggiornamenti degli armamenti, strategie militari, ecc. [42]. Non a caso, durante il vertice della Nato svoltosi in Galles nel settembre 2014, i governi di tutti i paesi membri presero l’impegno di far superare alle spese militari della propria nazione la quota del 2% del Pil nazionale nel prossimo futuro (indicativamente, entro un decennio), e ciò benché all’epoca – secondo i dati ufficiali – solo Usa, G. Bretagna e Grecia lo facessero già e quasi tutti gli altri paesi fossero molto al di sotto di tale quota (essendo di solito nettamente più vicini all’1% che al 2%). E negli ultimissimi anni i vertici politico-militari di Washington, tramite l’amministrazione Trump, continuano ad insistere con forza non solo sull’accelerazione della concretizzazione di questo impegno da parte degli altri paesi della Nato, ma anche sull’andare tutti ben oltre il 2% e arrivare al 4%.... Anche il recente rilancio fatto dall’amministrazione Trump a proposito della “guerra spaziale” è, tra le varie cose, un tentativo di spingere l’intero mondo verso politiche di riarmo sempre più costose, sofisticate ed invadenti.
Oltre tutto – così come avvenne senza alcun dubbio nel caso dell’invasione dell’Iraq scatenata dai governi di Usa e G. Bretagna nel 2003 – quella guerra deliberata ufficialmente dalla Nato nel 1999 andò anche contro la Carta dell’Onu e contro la legalità internazionale, essendo palesemente pure un “crimine contro la pace” e ricadendo quindi nel campo d’applicazione dei “princìpi di Norimberga” del 1950 (i quali facendo parte del diritto internazionale generalmente riconosciuto sono pienamente validi – anche penalmente – in Italia e in molte altre nazioni in quanto tutelati costituzionalmente) [43]....
Tutti questi dati e queste constatazioni, dunque, alla faccia dello “Stato snello, leggero e dal bilancio sobrio” di cui parlano costantemente i neoliberisti, i quali da alcuni decenni dominano in modo indiscutibile nella politica non solo mondiale ma anche specificamente europea....
In sintesi, in realtà per il neoliberismo quello che più conta non sono affatto cose come i mercati, la cosiddetta sobrietà della spesa pubblica, lo sviluppo dell’economia in sé o neanche la massimizzazione dei profitti imprenditoriali (della quale si parlava così tanto nei movimenti alternativi negli anni attorno al ’68), ma è il potere dei “grandi ricchi”, il loro controllo sulle risorse e sull’economia stessa, la loro immersione nei privilegi.... Il mondo diventa dunque un’arena gladiatoria in cui molti esponenti delle élite economiche combattono una vera e propria guerra contro tutti coloro che in un modo o nell’altro danno loro fastidio: le classi lavoratrici, che comunemente – di fronte alle grandissime diseguaglianze socio-economiche attualmente imperanti – cercano di rivendicare condizioni un po’ migliori di lavoro e di vita; quei gruppi sociali e quelle etnie di scarso peso economico che in questa o quella parte del mondo vorrebbero sottrarre localmente a tali “grandi ricchi” un po’ del loro controllo sulle risorse del pianeta [44]; spesso le piccole e medie imprese (Pmi), che cercando di ritagliarsi un proprio spazio nell’economia possono disturbare le tendenze monopolistiche od oligopolistiche dei grandi gruppi aziendali; e via dicendo.
E tra i principali strumenti usati in questa guerra non ci sono solo l’ovvio armamentario strettamente economico su cui si concentrò già nell’Ottocento la monumentale serie di opere di economia politica di Marx e la diffusione di una “cultura di massa” mirante a rendere le classi lavoratrici il più possibile subalterne e succubi rispetto alle classi privilegiate. Ci sono anche, da un lato, i vari conflitti armati locali che vengono combattuti al di fuori del mondo “sviluppato” e che sono incentrati in pratica su dei “signori della guerra” solitamente legati di fatto agli interessi e ai finanziamenti di questo o quel gruppo economico (generalmente straniero) e, dall’altro lato, l’acquisizione – più sotterranea o più esplicita, a seconda dei casi – di un sostanziale controllo da parte delle élite economiche sui vertici politici dei vari paesi e sulla burocrazia internazionale. Gli aspetti di quest’acquisizione più sotterranei passano tipicamente attraverso l’offerta di tangenti e bustarelle, la concessione di favori personali e altre forme di corruzione e/o di ricatto, mentre gli aspetti più espliciti si concretizzano nella diretta “discesa in campo” di rilevanti esponenti di tali élite nell’arena politica (come Berlusconi, Fujimori, Trump, ecc.). Vi sono anche degli aspetti più indiretti, che attraverso leggi elettorali e regolamenti istituzionali localmente funzionali allo scopo mirano a svuotare di significato la democrazia, a trasformare i politici in una sorta di casta – molto più facilmente manipolabile dal potere economico di quanto possa avvenire in una democrazia autentica e vitale – e a facilitare appunto quelle azioni di tipo sotterraneo o esplicito [45]. Grazie specificamente all’acquisizione di tale controllo, si potranno approvare provvedimenti – leggi nazionali nei vari paesi e accordi internazionali – fatti su misura per favorire gli interessi delle élite economiche; si potranno attuare forme di cruenta repressione nei confronti di chi contesta politicamente il sempre più aspro classismo dei numerosissimi governi sostanzialmente neoliberisti e delle entità sovranazionali da essi pilotate (come Fmi, Organizzazione mondiale del commercio, Banca Mondiale, la stessa UE, ecc.); si potrà usare pure qualche “esercito regolare” in qualcuno dei conflitti armati locali che rivestono un particolare interesse per una parte di quelle élite; e si potranno fare ricattatorie minacce internazionali di far scendere in campo dall’estero uno o più “eserciti regolari” se qualche paese non è sufficientemente disponibile ad assecondare gli interessi delle élite in questione. Un’ulteriore variante di questi strumenti – usata spesso soprattutto durante la “guerra fredda” ma anche oggi non del tutto dimenticata – è l’attuazione di “colpi di Stato” preparati con l’aiuto sotterraneo di servizi segreti di qualche altro paese (solitamente ricco) ai danni di governi eletti democraticamente ed orientati economicamente in modi più favorevoli agli interessi delle popolazioni locali che agli interessi delle multinazionali e della grande finanza internazionale.
È soprattutto per questa serie di motivi che con lo sviluppo del neoliberismo – e in pieno contrasto con le affermazioni teoriche che lo contraddistinguono – nel mondo si sono fortemente accentuati il militarismo, la spesa pubblica per armamenti ed eserciti e la tendenza al ricorso concreto all’uso delle armi (all’estero e/o all’interno, a seconda di una serie di dinamiche politiche, economico-strategiche e sociali) da parte dei governi [46].
Una particolare area della vita economico-politica in cui si sovrappongono diversi di questi motivi venne posta in luce già nel 1961 dal presidente degli Usa Dwight D. Eisenhower, il quale nel suo discorso ufficiale di fine mandato lanciò un forte avvertimento sui pericoli insiti nell’organizzarsi di un “complesso militare-industriale” e nell’instaurarsi di una sua pesante influenza lobbystica sulla politica, che da tale influenza avrebbe potuto essere trascinata verso un continuo incremento degli armamenti e verso delle iniziative di tipo bellico [47]. Essendo stato lui stesso un generale di altissimo livello, evidentemente Eisenhower conosceva molto bene il mondo militare e i suoi rapporti con l’industria delle armi. L’apparente paradosso è che quelli erano decenni incentrati dal punto di vista economico sulle politiche keynesiane e sul ruolo molto rilevante da esse affidato alla P.A., ma quando i neoliberisti hanno fatto letteralmente saltare per aria l’approccio keynesiano hanno a quanto pare “dimenticato” di snellire, assieme alla spesa pubblica di tipo sociale, anche quella legata agli armamenti e agli eserciti....
Del resto, anche il capitalismo liberista pre-keynesiano contava solitamente su un marcato supporto militare degli Stati, molto spesso impegnati da un lato a reprimere le rivendicazioni organizzate e le proteste dei lavoratori e dall’altro a garantire alle imprese del proprio paese territori coloniali da sfruttare per le loro risorse naturali – trattando generalmente le loro popolazioni come una massa di schiavi, o quasi – ed eventualmente da usare come sbocco per la produzione industriale di una parte di quelle imprese. E a volte quel supporto poteva anche arrivare allo scontro armato tra Stati vicini, per il controllo sia delle risorse naturali presenti nei rispettivi territori sia, eventualmente, delle rispettive colonie. In altre parole, anche il liberismo originario, che ignorava raffinatezze economiche come quelle keynesiane e che non faceva che sbandierare la pratica pubblica del laissez-faire, di solito non aveva alcun problema a tradire completamente quella bandiera non appena si toccava il tasto degli eserciti nazionali e dei loro armamenti: un tasto che anche per i liberisti di allora era di enorme importanza di fronte alle tensioni socio-economiche tra le classi padronali e quelle lavoratrici e alla concorrenza economica tra nazioni....
A proposito del terrorismo, è infine da aggiungere che non appare certo un caso che la relativamente recente moltiplicazione internazionale dei gruppi terroristici pseudoislamici sia avvenuta nell’ultimo ventennio: è stata in un certo senso uno dei modi in cui le popolazioni del Terzo mondo (o meglio, alcuni strati sociali di esse) hanno reagito alle ciniche e brutali strategie economiche e politico-militari con cui il mondo “sviluppato” ha infierito su tali popolazioni anche dopo la fine della “guerra fredda”. A mo’ di esempi di queste strategie basti ricordare, dal punto di vista economico, i “piani di aggiustamento strutturale” organizzati dal Fmi e le azioni sottobanco che frequentemente li hanno accompagnati e, dal punto di vista politico-militare, la prima e la seconda “guerra del Golfo” (rispettivamente del 1991 e del 2003), l’asperrimo embargo che si estese negli anni intercorsi tra le due – e che sottopose ad un sostanziale strangolamento di fatto un’ampia parte della popolazione irachena – e la totale protezione che il governo statunitense ha continuato stabilmente a dare a livello internazionale (incluso il “Consiglio di sicurezza” dell’Onu) al regime dell’apartheid sionista che vige tuttora in Israele e che viola in molti modi una serie di fondamentali diritti umani della popolazione araba residente nel paese [48]. Oltre tutto, la nascita stessa dei principali di quei gruppi, il loro sviluppo, il loro addestramento al combattimento e la loro fornitura di armi sono stati sponsorizzati, finanziati e organizzati dai governi statunitensi dalla seconda metà degli anni ’70 alla fine degli anni ’80 e sporadicamente anche in seguito, prima allo scopo di mettere in gravi difficoltà militari ed economiche l’Urss in Afghanistan e poi con l’obiettivo di “stabilizzare” rapidamente quest’ultimo paese così da poterlo attraversare – senza particolari rischi – con importanti oleodotti e gasdotti. Le schiere di terroristi “coltivate” accuratamente e a lungo dai governi Usa si sono poi rivoltate brutalmente contro Washington, contro i cittadini statunitensi e contro l’Occidente in generale quando i vertici politici statunitensi le hanno abbandonate a se stesse – e in una situazione di pesantissima emarginazione internazionale – una prima volta dopo la caduta dell’Urss e una seconda volta dopo il fallimento di quel tentativo di “stabilizzazione” del territorio afghano [49].
4. Per una sintesi: l’austerità come soprattutto specchietto per le allodole, facciata ingannevole ad usum delphini, trappola socio-politica per le classi popolari
In breve – se ormai da tempo la posizione dei politici e dei burocrati che deliberano di persona, o anche solo sostengono, le forme di austerità antipopolare che il Fmi diffonde da decenni nel Terzo mondo è decisamente indifendibile dal punto di vista della scienza economica (ma loro se ne fregano, in quanto finora i governi dei maggiori paesi “sviluppati”, che per motivi statutari hanno di fatto il potere nel Fmi, continuano ad appoggiare questa forma di brutale colonizzazione e sfruttamento del Sud del mondo a vantaggio soprattutto delle multinazionali e della grande finanza) – ai politici e ai burocrati che propongono ed eventualmente deliberano simili forme di austerità pure nell’eurozona, o nell’UE in generale, andrebbe risposto che anche la loro posizione è del tutto ingiustificabile e indifendibile, e non solo perché la loro tipica e ormai “ufficializzata” rigidità sui bilanci pubblici è palesemente esagerata e gonfiata rispetto alle dinamiche concrete dell’economia reale, ma anche perché loro stessi sono i primi a dimenticarsi dei bilanci pubblici (e anche della sacralità, da loro così spesso sostenuta, del principio della concorrenza) quando si tratta di temi come in primo luogo gli aiuti alla grande finanza e le spese militari. E questi concretissimi comportamenti costituiscono appunto una delle evidenti dimostrazioni del fatto che quella rigidità è una bandiera soltanto “di facciata”: in realtà, non è altro che una maschera che nasconde unicamente logiche elitarie e classiste.
I propagandisti del neoliberismo asseriscono spesso di essere l’alternativa alla corruzione in politica, ma della corruzione sono invece una delle manifestazioni più intense e una delle celebrazioni massime: se la corruzione ordinaria svende di fatto a qualcuno qualcosa di pubblico, il neoliberismo mira a priori a svendere a qualcuno l’intera “cosa pubblica”....
In altri termini il neoliberismo – in modo simile alle dittature più decise e sfacciate, che in un certo senso, esprimendosi già in un dominio pressoché assoluto, non hanno bisogno delle forme ordinarie di corruzione – è una forma di corruzione di ordine superiore rispetto alla corruzione ordinaria (cioè quella che p.es. in Italia è entrata in modo eclatante nei tribunali con i processi di “Mani pulite” negli anni ’90). La differenza rispetto a tali dittature è che queste ultime svendono l’insieme della “cosa pubblica” a un gruppo ristrettissimo di persone alleatesi fra loro per conquistare materialmente il potere politico oppure addirittura a una sola persona (cui solitamente sono aggregati qualche consigliere e una serie di “esecutori di ordini”), mentre il neoliberismo mira a svenderla a un’oligarchia economico-finanziaria: il ceto dei “grandi ricchi”, il quale grazie alle pratiche neoliberiste mira a sua volta a divenire classe non solo dominante ma anche sostanzialmente egemonica.
Dal punto di vista della vita sociale, la differenza più profonda tra la corruzione ordinaria e le forme di corruzione di ordine superiore è che la prima – pur potendo anch’essa generare molti e gravi problemi nella società attraverso l’affarismo dei politici, il clientelismo, la frequente burocratizzazione della P.A., ecc. – sarebbe anche ampiamente curabile e prevenibile attraverso delle forme di salvaguardia dei cittadini: l’istituzione di leggi elettorali profondamente democratiche e di norme altrettanto democratiche sul funzionamento delle pubbliche istituzioni; la trasparenza amministrativa; la “democrazia partecipativa”; l’ampliamento della “democrazia diretta”, in modo simile a quanto avviene in Svizzera e in Bolivia [50]; l’evitare i conflitti di interesse nelle funzioni degli amministratori pubblici; l’efficace presenza sia di organismi regionali di controllo sulla legittimità degli atti delle amministrazioni locali, sia di un analogo organismo nazionale che dia una prima valutazione dei vari aspetti di legittimità (costituzionali e di altro tipo) degli atti del Parlamento, del governo e delle amministrazioni regionali, prima che tutti questi vari atti possano entrare in vigore; l’evitare che i poteri degli organismi politico-amministrativi vengano “devoluti” automaticamente a dei funzionari della P.A. (come hanno fatto invece in Italia in molte circostanze la “legge Bassanini” del marzo 1997 e i suoi decreti applicativi), e ciò in quanto l’idea di una applicazione esclusivamente “tecnica” – anziché tecnico-politica – del potere decisionale è una chimera che tendenzialmente fa comodo soltanto alle varie lobby economiche che mirano a manipolare a loro favore le scelte delle amministrazioni pubbliche [51]; e così via. Il tutto tenendo ovviamente conto dell’esigenza di forme di partecipazione democratica che siano socialmente adeguate alle singole realtà delle varie parti del mondo [52].
Al contrario, la corruzione di ordine superiore – non basandosi su tanti singoli episodi diversificati ma su un’impostazione di fondo che a priori affida ad un ristretto strato privilegiato il ruolo di comando nella società – appare curabile solamente con un vero e proprio rovesciamento che ponga termine alla radice stessa di tale impostazione, cioè in pratica, a seconda dei casi, al potere delle élite economiche rivendicato e concretizzato dai neoliberisti o a un regime dittatoriale indiscusso, praticamente assolutistico e sostanzialmente privo di limitazioni e di contrappesi istituzionali [53].
Note
* La prima parte di questo intervento si trova al seguente indirizzo:
“https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/16503-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica.html”.
A questa seconda parte – nella quale per semplicità la numerazione delle note prosegue come continuazione dalla prima parte – dovrebbe fare prossimamente seguito una terza e conclusiva parte.
[18] Oltre ai riferimenti già inclusi nella nota 2 (nella prima parte del presente intervento), su diversi aspetti eclatanti della crisi irlandese – che ha avuto un’origine nazionale esclusivamente bancaria ed è stata pesantemente manipolata a più riprese in via sia ufficiale che “ufficiosa” dalle istituzioni dell’UE, tra le quali soprattutto la Banca centrale europea (Bce) durante la presidenza Trichet – cfr. anche p.es. The big gamble: The inside story of the bank guarantee, di Simon Carswell (The Irish Times, 25 settembre 2010), The curse of the euro: EU and Mrs Merkel humiliate new Irish prime minister Enda Kenny, di Mary Ellen Synon (The Irish Daily Mail, 7 marzo 2011), Fianna Fail finally admit truth about the bank guarantee, di Kevin Doyle (The Evening Herald, 25 maggio 2012), Martin claim on bailout is shocking, editoriale (ibid.), Lenihan name ‘sullied’ by Trichet (The Irish Examiner, 4 maggio 2015) e Eamon Ryan insists: Trichet acted to protect bondholders (id., 5 maggio 2015), entrambi di Juno McEnroe, e The ECB’s role in the design and implementation of (financial) measures in crisis-hit countries, di Ajai Chopra, Daniel Gros e Karl Whelan (Directorate General for Internal Policies, European Parliament, novembre 2015).
Sull’esperienza greca, cfr. anche p.es. Errori, ritardi e liti nel flop della Troika, ora il mea culpa arriva anche dall’Fmi, di Ettore Livini (La Repubblica, 10 febbraio 2015), L’attacco dell’Europa alla democrazia greca, un intervento di Joseph E. Stiglitz pubblicato su Internet il 29 giugno 2015 e ripreso poi da diverse testate giornalistiche nella loro versione on-line (“https://www.project-syndicate.org/commentary/greece-referendum-troika-eurozone-by-joseph-e--stiglitz-2015-06/italian”), e il già citato documento interno dell’UE redatto da A. Chopra, D. Gros e K. Whelan.
Sulle vicende spagnole, cfr. anche p.es. The state of Spanish banks: Under siege (The Economist, 13 gennaio 2011) e Rising inequality: youth and poor fall further behind (Income inequality update - June 2014), uno studio realizzato dall’OECD – più nota in italiano come Ocse – dove si mostra tra le altre cose la gestione economicamente quanto mai elitaria e antipopolare che la “crisi dei mutui” ha avuto in Spagna da parte dei suoi governi di quegli anni. Si tratta di uno studio che ha avuto molta risonanza in questo paese.
Sul controverso caso del Portogallo, cfr. p.es. Portugal’s economy: Still scary (The Economist, 13 gennaio 2011) e Portugal’s unnecessary bailout, di Robert M. Fishman (The New York Times, 13 aprile 2011).
Sulla crisi cipriota, cfr. p.es. The Economic Adjustment Programme for Cyprus, a cura di Maarten Verwey (Directorate-General for Economic and Financial Affairs Publications, European Commission, maggio 2013).
Anche le statistiche socio-economiche rese note anno dopo anno dai paesi in questione (specialmente i dati riguardanti la disoccupazione, la diffusione della povertà, l’indebitamento pubblico, il Pil pro-capite e l’andamento borsistico) possono risultare estremamente efficaci per comprendere l’effettivo svolgersi delle vicende qui ricordate.
[19] La crisi dei Subprime è sempre la crisi nota anche come “crisi dei mutui”. In inglese, “Subprime” indica appunto una tipologia di mutuo, o di altre forme di credito, caratterizzata dal fatto che i debitori sono considerati avere un notevole rischio di insolvenza e/o dal fatto che il credito viene erogato a fronte di garanzie basse o addirittura nulle.
[20] In tutta questa procedura, le istituzioni europee hanno favorito in vari modi il passaggio del debito greco da creditori soprattutto privati a creditori quasi solo pubblici. Ha riassunto p.es. Gaël Giraud in Transizione ecologica - La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia (Emi, 2015), parlando dei «diversi piani di “salvataggio” messi in atto dal 2010» con la Grecia: «In verità, il “salvataggio” che avevano in mente quei piani era quello delle banche francesi e tedesche. Le decine di miliardi che i Paesi dell’eurozona hanno prestato alla Grecia dal 2010 [...] sono serviti al rimborso dei debiti di Atene alle banche. E hanno dunque sostituito un debito inizialmente dovuto alle banche con un debito ormai dovuto agli Stati. Lo stesso dicasi per il debito pubblico greco che le banche private, francesi e tedesche, hanno venduto alla Bce» grazie ovviamente ad una “speciale” disponibilità di quest’ultima ad acquistare senza problemi i titoli in questione. «È un debito che ormai figura nel bilancio della Bce. Ciò significa che, se la Grecia fa default sul suo debito sovrano, la Bce registrerà delle perdite. Ora, i Trattati europei obbligano gli Stati membri dell’eurozona a ricapitalizzare la Bce. È chiaro: sono in ogni caso i contribuenti europei ad aver preso il posto delle banche come creditori della Grecia». Così, «l’opinione pubblica, che avrebbe probabilmente accettato con serenità una [ulteriore, N.d.R.] ristrutturazione del debito greco a spese delle banche (come nel gennaio 2012), accetta con ben maggiore difficoltà una ristrutturazione a spese dei cittadini. E a ragione. Sarebbe stato assai più ragionevole praticare una ristrutturazione massiccia del debito pubblico greco fin dal 2011, il che avrebbe costretto le banche francesi e tedesche a pagare il prezzo dei loro errori (concedere un prestito a un richiedente insolvente è un errore professionale di cui un banchiere è il primo a doversi assumere la responsabilità)»....
Lo stesso Fmi ha più volte ribadito negli ultimi anni che, per evitare futuri danni ancor più gravi all’economia greca ed europea in genere, si sarebbe dovuto intervenire rapidamente con una seconda ristrutturazione del debito greco, riducendolo di nuovo in maniera consistente (a danno ovviamente dei creditori). Ma, ora che i creditori sono la Bce, gli Stati europei e quindi alla fin fine i loro cittadini (ed elettori), non stupisce che l’UE continui a rifiutare questo secondo taglio, mantenendo in tal modo una esagerata e controproducente pressione finanziaria sulla popolazione greca.... Anche questo è un effetto dei colossali favori fatti ripetutamente agli istituti bancari e finanziari durante l’ultimo decennio dalle istituzioni dell’UE e ovviamente dai governi dei suoi paesi membri.
[21] Colpisce in modo particolare qui la scelta della parola “dovuto”: una scelta che già da sola spiega mille cose....
[22] Cfr. p.es. lo State Aid Scoreboard 2018, pubblicato dalla Commissione europea nel gennaio 2019. Secondo i dati di questo rapporto, i 5.120 miliardi approvati erano costituiti da circa 855 miliardi di ricapitalizzazioni, 605 di misure relative a risorse finanziarie deteriorate, 3.415 di garanzie e 245 di altre operazioni legate alla liquidità, mentre i 1.960 miliardi concretamente impegnati erano composti da circa 475 miliardi di ricapitalizzazioni, 190 di misure su risorse deteriorate, 1.185 di garanzie e 110 di altre forme di liquidità. Come ha sottolineato in particolare Éva Voszka in Competition Policy in Europe - Temporary or Long-Lasting Changes? (Public Finance Quarterly, 1° trimestre 2012), andrebbe comunque ricordato che il valore intrinseco delle garanzie statali poste su dei debiti bancari è tale che esse in numerosi casi, riuscendo di fatto mediante la loro mera esistenza ad eliminare le pressioni dei creditori e del mercato sulle banche in questione, possono essere sufficienti a rispondere a certi aspetti di una crisi bancaria anche senza bisogno che venga effettivamente sborsato un solo euro di soldi pubblici. In altre parole, le garanzie statali potrebbero essere considerate utilizzate anche quando non espressamente mobilitate. Tenendo conto di questo, si potrebbe arrivare a un totale effettivamente utilizzato – anche se in parte non mobilitato – di circa 4.190 miliardi, cioè approssimativamente il 33% del Pil dell’UE del 2011.
[23] Per quanto riguarda gli aiuti concretamente impegnati, secondo i dati in questione pubblicati dall’UE i paesi con le percentuali più alte rispetto al Pil nazionale del 2011 sono risultati Irlanda (224%), Danimarca (66%), Grecia (54%), Cipro (35%), Belgio (24%), Portogallo (22%), G. Bretagna (19%), Slovenia (17%), Spagna (17%), Olanda (16%), Lussemburgo (15%), Lettonia (12%), Austria (12%) e Germania (11%), mentre in termini assoluti hanno spiccato Irlanda (351 miliardi), G. Bretagna (332), Germania (284), Spagna (186), Danimarca (158), Francia (119), Grecia (116), Italia (109), Olanda (99) e Belgio (89).
Se i calcoli degli aiuti utilizzati vengono fatti tenendo conto dell’avvertenza riportata nella nota precedente, per i paesi e gli importi in questione si ottengono i seguenti risultati: in percentuale del Pil nazionale, Irlanda 283%, Danimarca 248%, Belgio 86%, Grecia 68%, Cipro 53%, Slovenia 45%, Olanda 43%, Lettonia 35%, G. Bretagna 31%, Austria 30%, Portogallo 29%, Spagna 29%, Germania 23% e Lussemburgo 17%; in termini assoluti, Germania 597 miliardi, Danimarca 593, G. Bretagna 538, Irlanda 442, Francia 346, Belgio 318, Spagna 314, Olanda 258, Italia 198 e Grecia 147.
Per chi ne avesse la curiosità, i 109, 198 e 226 miliardi di aiuti associati all’Italia (e calcolati rispettivamente come “concretamente impegnati”, “tendenzialmente utilizzati secondo l’avvertenza citata” e “ufficialmente approvati dalla Commissione europea”) corrispondono rispettivamente al 7%, al 12% e al 14% del Pil italiano del 2011.
[24] In pratica, la soglia oltre la quale iniziano tipicamente queste richieste e minacce è quando il deficit annuo supera il 3% del Pil, ma nel caso dei paesi dell’UE (e soprattutto dell’eurozona) che hanno un debito pubblico complessivo oltre il 60% del loro Pil si considera che ogni anno andrebbe recuperata una parte di tale “eccesso di debito” e, quindi, in tal caso la soglia – in base a varie considerazioni politico-economiche spesso apertamente controverse e molto discusse – può venire spostata dalla Commissione a livelli percentuali inferiori al 3%.
[25] L’indirizzo in rete è: “http://www.civetta.info/download/civetta_01_12.pdf” (pag. 10). Nell’articolo si citavano un articolo di Krugman uscito poche settimane prima sul New York Times e una conferenza di Stiglitz del 2007 (organizzata dall’Economic Policy Institute a Washington). I rispettivi titoli erano Legends of the fail e Beyond balanced budget mania: An agenda for shared prosperity.
[26] Cfr. in particolare Quale economia oggi per il bene comune? (i cui riferimenti bibliografici consentono ampi approfondimenti), scritto pubblicato nell’ottobre 2018 nel sito di “Sinistra in rete”. Ovviamente, tutta la questione ha a che fare, tra le varie cose, anche con la qualità del mondo politico presente in una certa parte del mondo, come in sostanza si metteva in evidenza già in Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017). I neoliberisti – che a dispetto di una serie inconfutabile di dati reali insistono nell’affermare che sia impossibile un’azione pubblica davvero efficace ed efficiente (come si è già sottolineato nella prima parte del presente intervento, in particolare nella nota 11) – mostrano evidentemente di ritenere inevitabilmente molto bassa la qualità del mondo politico in un qualsiasi paese. Poiché coloro che noi conosciamo meglio sono tipicamente quelli che ci stanno più vicini, ciò suggerisce con molta forza che i politici vicini al neoliberismo siano i primi ad essere comunque degli amministratori pubblici e degli statisti intrinsecamente di pessima qualità.... E ciò probabilmente perché sono i primi ad essere talmente intrisi di ambizioni personali, di egocentrismo, di classismo e di insensibilità verso gli altri e verso l’ambiente naturale – come appunto predica in sostanza il neoliberismo a proposito di come sono fatti a suo parere gli esseri umani – da essere pressoché incapaci di cogliere il senso profondo dell’interesse collettivo, del bene comune e di quelle motivazioni sociali ed etiche che possono riscaldare il cuore umano in rapporto a gruppi di popolazione anche molto ampi (ampi magari come l’intera umanità o, più in generale, come l’intero universo degli esseri senzienti).... I due scritti qui ricordati si trovano ai seguenti indirizzi rispettivi:
“https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html”;
“https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”.
[27] In italiano – oltre all’articolo già citato Due Nobel per lo Stato sociale e a Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016) – cfr. p.es. C’è crescita solo dove il pubblico investe, di Anna Maria Merlo (Il Manifesto, 25 maggio 2005), Il prezzo della diseguaglianza, di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, 2013), Riduci le disuguaglianze e avrai più crescita: parola di Ocse e Fmi, di Marta Fana (Il Manifesto, 20 giugno 2015), Stagnazione: la finanza è la causa, non il rimedio, di Vladimiro Giacché (Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2016), Meno crescita e più disuguaglianza - Effetti (straordinari) delle politiche neoliberiste secondo il FMI, di Maurizio Franzini (“https//www.sinistrainrete.info/neoliberismo/7497-maurizio-franzini-meno-crescita-e-piu-disuguaglianza.html”, 26 giugno 2016), Gli economisti liberisti al servizio della rapina, di Claudio Conti (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/13192-claudio-conti-gli-economisti-liberisti-al-servizio-della-rapina.html”, 7 settembre 2018), «Crescita recessiva», ovvero la crescita che non fa crescere, di Marco Bertorello (Il Manifesto, 17 novembre 2018), e In arrivo una nuova ondata globale di austerità, di Thomas Fazi (“https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/16156-thomas-fazi-in-arrivo-una-nuova-ondata-globale-di-austerita.html”, 26 ottobre 2019). Per ulteriori commenti e approfondimenti politico-economici cfr. anche Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica (intervento dell’ottobre 2013) e Oltre Keynes, cit.. Appare inutile esplicitare qui di nuovo i tanti dati e le osservazioni che sono stati presentati in questi vari scritti, ai quali si rimanda dunque per qualsiasi eventuale precisazione. L’articolo di Rocca del 2016 e l’intervento dell’ottobre 2013 sono disponibili ai seguenti rispettivi indirizzi:
“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/7398-luca-benedini-non-una-vera-crisi-economica-ma-una-strategia.html”;
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0eae6ece0720d94be1a4a88720d94f90ae113b2f722d7d3e/1/8/MjY/MjYvMg”.
[28] In altre parole, attraverso questo genere di false deduzioni si potrebbe arrivare p.es., partendo dall’evidente esigenza di badare a che un animale domestico sia nutrito se si vuole averne uno, ad affermare che sia assolutamente necessario fargli una cuccia dorata e rivestita di seta.... Nell’antica Grecia, i sofisti si erano specializzati nel compiere falsi ragionamenti che potevano sembrare veritieri, mediante i quali cercare – e spesso con successo se non erano presenti interlocutori sufficientemente acuti, informati e/o scafati – di persuadere a loro piacimento gli astanti a proposito di qualsiasi argomento si potesse voler discutere.... E si vantavano di questa loro capacità oratoria, che hanno spesso fatto diventare anche una fonte di reddito.
[29] Come ha ricordato p.es. Thomas Fazi in La follia delle clausole di salvaguardia sull’IVA (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15696-thomas-fazi-la-follia-delle-clausole-di-salvaguardia-sull-iva.html”, 27 agosto 2019), «l’IVA (imposta sul valore aggiunto) [...] è una tassa [...] applicata a tutti i beni e servizi che vengono acquistati nel territorio nazionale» e, «come ogni tassa indiretta, si tratta di un’imposta intrinsecamente regressiva, poiché incide maggiormente sui redditi bassi che su quelli alti». In Italia, un ampio peso delle imposte indirette nell’ambito del sistema fiscale risulta quindi in sostanziale contrasto col già citato art. 53 della Costituzione, che specifica che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
[30] Oltre a un’eventuale contestabilità di tipo politico (sulla base di ragioni umane, sociali, etiche, ecc.) o economico (sulla base di valutazioni pratiche come p.es. quelle che hanno portato a una parziale ristrutturazione del debito pubblico greco nel 2012) e indipendentemente da tali tipi di contestabilità, in svariati casi i debiti pubblici possono avere una specifica contestabilità giuridica. Su quest’ultima cfr. p.es. Debito estero: le ragioni per non pagarlo (Rocca, 15 novembre 2002) e le ulteriori indicazioni bibliografiche riportate nella nota 19 di Quale economia oggi per il bene comune?, cit.. L’articolo del 2002 è disponibile al seguente indirizzo:
“https://www.peacelink.it/pace/a/8892.html”.
[31] Tra gli effetti più problematici di un’elevata inflazione vi è il fatto che essa riduce costantemente il valore effettivo – cioè la capacità di acquisto – delle entrate a reddito fisso (stipendi, pensioni, ecc.). Inoltre, nei paesi con una specifica valuta nazionale vi è l’inevitabile tendenza ad un crescente deprezzamento di tale valuta nei confronti di tutte le valute che hanno una maggiore stabilità (il che potrebbe implicare anche una crescente incapacità di saldare i propri debiti esteri, se questi sono espressi appunto in una valuta più stabile), mentre nei paesi che hanno insieme ad altri una valuta comune si pone il problema di una sempre più scarsa competitività economica nazionale nei confronti specialmente di questi altri paesi (ed eventualmente anche di altri ancora, a seconda degli andamenti valutari internazionali). Stampare e spendere sul mercato una quantità decisamente eccessiva di moneta rispetto ai bisogni intrinseci delle attività di produzione e circolazione di beni e servizi è appunto uno dei modi più tipici per provocare alti livelli di inflazione.
[32] Come si è ampiamente sottolineato nei due interventi già citati Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica e Dietro le quinte dell’economia internazionale, in linea di massima la domanda aggregata di beni e servizi dipende principalmente dai consumi, e questi dipendono in buona parte dalla propensione delle persone al consumo (specialmente di beni e servizi di produzione locale), propensione che tende ad essere molto elevata nelle fasce di popolazione a reddito basso e medio-basso e piuttosto bassa nelle fasce a reddito elevato. Quindi – e tanto più quando si parla specificamente della scala nazionale – il prelievo fiscale sui redditi bassi e medio-bassi colpisce la domanda aggregata e l’attività economica in modi decisamente più pesanti di quanto faccia il prelievo sui redditi elevati.
[33] Sulla questione cfr. in particolar modo La globalizzazione e i suoi oppositori, di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, 2002). Sui vari significati che può avere l’affiancare le iniziative riguardanti nei singoli paesi il piano nazionale con azioni riguardanti il piano internazionale, cfr. anche Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010), Oltre Keynes, cit. (in special modo il paragrafo “L’irrompere della globalizzazione”) e Quale economia oggi per il bene comune?, cit. (in special modo il paragrafo “Far fronte alla globalizzazione”, con un particolare riferimento alle sue note 11 e 14). L’articolo del 2010 è disponibile all’indirizzo:
“http://www.civetta.info/download/civetta_11_10.pdf” (pag. 16).
Il rapporto tra fisco e frontiere è indubbiamente alquanto complicato, tanto più alla luce della tendenza economica globalizzante che era stata osservata – e in parte anche apprezzata – da Marx ed Engels già a metà ’800 (come attestano p.es. il primo capitolo del loro Manifesto del partito comunista, del 1848, il Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato e poi pubblicato quello stesso anno da Marx, e Protezionismo e libero scambio, un testo che Engels scrisse nel 1888 come prefazione alla prima edizione statunitense di quel Discorso marxiano cogliendo l’occasione per fornire una serie di puntualizzazioni, aggiornamenti e approfondimenti sull’argomento). Per una breve introduzione a quelli che nell’epoca attuale, globalizzata in modo neoliberista, possono essere considerati i due nodi principali della “questione fiscale” (cioè da un lato generalmente un grande arricchimento di pochi e una stagnazione o una riduzione del reddito dei tanti e dall’altro lato la tendenza a sempre più intense problematiche ambientali su scala internazionale, dalle quali derivano anche i sempre più drammatici squilibri climatici odierni), cfr. p.es. Dietro le quinte dell’economia internazionale, cit., Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit., e Transizione ecologica - La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia, di Gaël Giraud, cit.. Questi due nodi s’intrecciano a loro volta col fatto che un’ampia parte della tassazione dei ceti sociali ad alto reddito e delle imprese ha direttamente o indirettamente a che fare appunto con le frontiere: vi sono p.es. le relative, ma ampiamente superabili, difficoltà insite nell’identificare chi e che cosa tassare con una web tax (imposta sui guadagni realizzati tramite Internet), dal momento che Internet in sé e per sé praticamente non ha frontiere nazionali; vi è la questione dei paradisi fiscali, grazie ai quali molti “grandi ricchi” e la criminalità organizzata si fanno sostanzialmente beffe delle norme fiscali (e spesso anche penali) di tutti gli altri paesi; parallelamente, vi sono imposte che per funzionare davvero richiederebbero un accordo praticamente mondiale, come accade con i progetti di tassazione delle transazioni finanziarie, e ciò anche in quanto – grazie soprattutto all’informatica e alla telematica – è diventato facilissimo operare nel campo della finanza mondiale stando pressoché in qualsiasi parte del globo; vi è il fatto che, senza accorgimenti fiscali particolarmente mirati, in pratica le multinazionali possono spostare nominalmente i loro redditi da un paese all’altro con grande facilità, scegliendo così i paesi e le situazioni che consentono loro di pagare meno tasse; e in generale vi è il fatto che con la globalizzazione neoliberista i capitali tendono a spostarsi rapidamente dai paesi che trattano in modi meno favorevoli i capitali stessi ai paesi in cui i capitali vengono sostanzialmente riveriti dall’amministrazione statale (inclusa la cosiddetta “Cina popolare”, che negli ultimi decenni è diventata uno dei luoghi più profittevoli del mondo per i capitalisti di qualsiasi paese, grazie al ferreo controllo sociale e repressivo che il regime post-rivoluzionario di Pechino continua ad avere sulla popolazione – incluse specificamente le classi lavoratrici – sin dalla seconda metà degli scorsi anni ’50 e all’estrema commistione di interessi tra potere politico ed élite economiche che si è affermata sempre più nella linea politica di tale regime a partire dagli anni ’80).
In questa serie di questioni, la meno nota fra i “non addetti ai lavori” è molto probabilmente quella delle multinazionali. A tale riguardo, Rob Van Drimmelen – in Economia globale e fede (Claudiana, 2002) – ha messo in particolare evidenza che «non è raro il caso in cui le TNC [cioè le multinazionali, N.d.R.] riescono a evadere il pagamento delle imposte. [...] Uno dei meccanismi usati per ridurre le imposte» ha a che fare col fatto che «quasi un terzo del commercio mondiale in beni e servizi è formato ora da transazioni che avvengono all’interno di una singola TNC. I prezzi adottati per queste transazioni – i prezzi di trasferimento interno – non seguono necessariamente i prezzi del mercato. Al contrario, le TNC possono manipolare questi prezzi per aumentare i loro profitti e far sì che questi ultimi si realizzino dove vogliono loro». Addirittura, delle merci possono essere spostate in maniera soltanto virtuale (e quindi fasulla) da una filiale nazionale ad un’altra e poi di nuovo alla prima utilizzando prezzi diversi nelle due operazioni, magari associando alla cosa qualche ulteriore trucco che mascheri ancor meglio la faccenda: il risultato formale e giuridico è un apparente spostamento netto dei profitti da un paese all’altro. Basta avere una filiale in un paese che tassa molto poco i profitti aziendali e, attraverso operazioni come quelle qui accennate, si può giungere a tagliare gran parte delle imposte che la multinazionale dovrebbe versare ai vari Stati in cui opera.... «Un’assoluta segretezza circonda il modo in cui i prezzi interni di trasferimento vengono fissati e applicati», ha proseguito Van Drimmelen. E – guarda caso – «perfino i governi spesso considerano tali questioni problemi interni delle TNC».... Le leggi fiscali di uno Stato dovrebbero invece affrontare questa tematica in modo chiaro e diretto, richiedendo trasparenza alle imprese ed evitando che nei bilanci delle filiali di una multinazionale si possano compiere legalmente dei trucchi che mascherano e nascondono l’andamento economico reale delle filiali stesse; le situazioni concrete andrebbero poi tenute sotto controllo da parte dei ministeri competenti, della guardia di finanza, ecc..
Come se non bastasse l’insistenza neoliberista in merito al ridurre ufficialmente il più possibile l’imposizione fiscale sui ricchi, va tenuto conto che le deregolamentazioni rivendicate comunemente dai neoliberisti e il loro tipico invito a snellire il più possibile l’apparato statale servono anche proprio a facilitare molteplici forme di elusione ed evasione fiscale alle imprese e in generale alle classi privilegiate, che hanno tipicamente forme di reddito alquanto complesse (le quali possono consentire un certo aggiramento delle leggi fiscali, tanto più quando i controlli sui bilanci e sui redditi dichiarati sono sempre più rari e limitati grazie appunto allo snellimento degli apparati pubblici e al fatto che tale snellimento può facilmente comportare disponibilità di bilancio sempre più striminzite per quanto riguarda la guardia di finanza e gli altri possibili controllori fiscali...), mentre nel contempo si cerca invece di far pagare ogni centesimo dovuto di imposte e tasse ai lavoratori dipendenti e ai pensionati (che tranne quando lavorano in nero non possono che dichiarare ogni loro reddito). Ovviamente, un sistema fiscale ben funzionante dovrebbe riuscire ad evitare sia l’inanità auspicata dai neoliberisti (che in generale mirano appunto a ridurre il più possibile l’impatto del fisco sui ricchi e sulle imprese), sia una proliferazione pressoché incontrollata di adempimenti e controlli burocratici, che oltre a snervare i cittadini risulterebbe pure alquanto costosa dal punto di vista operativo.... Occorrerebbero insomma semplicità, efficacia e capacità di rapido adeguamento ai cambiamenti concreti dell’“economia reale”.
Sulla tendenza allo spostamento internazionale dei capitali (per quanto riguarda sia gli investimenti veri e propri nell’“economia reale” sia i depositi di tipo finanziario miranti semplicemente a remunerativi tassi d’interesse o al coinvolgimento in rapide operazioni speculative) anche la mentalità imprenditoriale predominante nei diversi paesi può avere notevoli effetti. P.es., dove predomina una mentalità improntata all’egocentrismo e all’accumulo indiscriminato di ricchezza e privilegi, facilmente gli imprenditori faranno di tutto per pagare meno tasse possibile e per ottenere dei profitti particolarmente elevati; dove invece – in sintonia con la visione keynesiana dell’economia e più in generale con i modi di vivere che considerano importanti l’etica e la qualità dei rapporti interpersonali e sociali – gli imprenditori tendono a considerarsi parte integrante della comunità locale (che può essere intesa su una scala non necessariamente ristretta e “campanilistica” ma anche più vasta, come del resto suggerisce da tempo il concetto di “villaggio globale”), può non essere per loro così fondamentale evitare il più possibile il pagamento delle tasse e massimizzare in qualsiasi maniera i guadagni, proprio perché possono ritenere normale ed equo partecipare anch’essi alla vita di tale comunità contribuendo come gli altri ad essa in base alle proprie possibilità economiche (di solito, ovviamente, molto maggiori di quelle delle classi lavoratrici) e apprezzando la possibilità che vi sia una diffusa presenza locale di una positiva e incoraggiante qualità della vita.
Il moderno proliferare delle società per azioni e delle multinazionali facilita chiaramente la diffusione della mentalità del primo tipo, in quanto il rapporto tra il livello decisionale di un’impresa e le varie situazioni locali che stanno intorno alle varie sedi operative dell’impresa stessa (filiali, stabilimenti, punti-vendita, laboratori, magazzini, ecc.) tende a diventare sempre più labile, impersonale e sostanzialmente virtuale. È anche per questo che Marx ed Engels – che fecero in tempo a vedere il primo fiorire delle società per azioni e della tendenza alla trasformazione dell’originario capitalismo concorrenziale in capitalismo oligopolistico o addirittura monopolistico – ipotizzarono appunto che le contraddizioni interne del capitalismo stessero crescendo sempre più fino ad un probabile punto d’implosione economica, ambientale e soprattutto sociale. Oltre alla particolare capacità di innovazione tecnologica e di rinnovamento mostrata nei fatti già allora dal capitalismo e messa in particolare rilievo da Engels nella sua Introduzione del 1895 al testo marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, anche altri fattori hanno indubbiamente rallentato in seguito la crescita di tali contraddizioni: tra questi, in particolare lo sviluppo delle analisi e proposte keynesiane (e più in generale della capacità politica di intervenire sull’economia moderando o addirittura aggirando in gran parte il meccanismo collegato alle crisi cicliche che avevano caratterizzato l’Ottocento e il primo Novecento); la capacità pubblica di stabilire degli specifici requisiti qualitativi per il settore produttivo in base alle conoscenze scientifiche e alle esigenze collettive di tipo sanitario e ambientale; e le iniziative politiche messe frequentemente in atto contro gli oligopoli e i monopoli (specialmente quando di tipo privato, giacché a volte quelli pubblici possono risultare del tutto adeguati alle effettive esigenze della popolazione e dello sviluppo economico). Peraltro, l’attuale neoliberismo sta palesemente accelerando di nuovo la crescita di quelle contraddizioni, con effetti estremamente negativi praticamente su qualsiasi aspetto delle dinamiche sociali, ambientali ed economiche odierne fatta eccezione per l’ammontare continuamente crescente dei guadagni e del potere delle élite economiche....
Per recenti aggiornamenti sulla tendenza alla finanziarizzazione e alla proliferazione delle attività finanziarie meramente speculative, cfr. in particolare Derivati finanziari: salvare il sistema per non cambiarlo, di Giovanna Cracco (“https://sinistrainrete.info/finanza/16607-giovanna-cracco-derivati-finanziari-salvare-il-sistema-per-non-cambiarlo.html”, 22 dicembre 2019).
Nell’ambito dell’UE il rapporto tra fisco e frontiere ha – in aggiunta a tutto questo – una sua peculiare complessità in rapporto con i vari aspetti della legislazione vigente e con le possibili rivendicazioni di sue modifiche. Come hanno riassunto p.es. Dražen Rakic e Denitza Dessimirova nell’aprile 2019 in Libera circolazione dei capitali (un testo informativo pubblicato all’indirizzo “http://www.europarl.europa.eu/ftu/pdf/it/FTU_2.1.3.pdf”, nel sito Internet del Parlamento europeo) – da un lato «il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1994, ha introdotto la libera circolazione dei capitali», ma dall’altro lato sono previste alcune «restrizioni giustificate» a tale libertà: «(i) le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione nazionale (in particolare nel settore fiscale e in materia di vigilanza prudenziale sui servizi finanziari); (ii) le procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a fini amministrativi o statistici; e (iii) le misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. Quest’ultimo caso è stato invocato durante la crisi della zona euro, quando Cipro (2013) e la Grecia (2015) sono stati costretti a introdurre controlli sui movimenti di capitale al fine di impedire un deflusso incontrollabile dei capitali. Mentre Cipro ha rimosso tutte le restrizioni rimanenti nel 2015, i controlli sui movimenti di capitali, anche se meno rigidi, restano in vigore in Grecia». Inoltre, è autorizzata «l’adozione di misure di salvaguardia per la bilancia dei pagamenti in caso di difficoltà tali da compromettere il funzionamento del mercato interno o di improvvisa crisi. Tale clausola di salvaguardia è disponibile solamente per gli Stati membri non appartenenti alla zona euro», però. Tra le prospettive collegate all’UE va considerato anche che la Commissione europea sta «cercando di sospendere gli attuali trattati bilaterali di investimento (Tbi) intra-UE, molti dei quali esistevano già prima dei più recenti allargamenti dell’UE» (si tratta di alcuni dei trattati di “libero scambio” ricordati nella parte iniziale del presente scritto, sui quali cfr. in particolare i riferimenti menzionati nella nota 3). «Tali accordi tra gli Stati membri sono considerati dalla Commissione come un impedimento al mercato unico, poiché sono incompatibili e si sovrappongono con il quadro legislativo dell’UE. I meccanismi di arbitrato inclusi nei Tbi, ad esempio, escludono sia i tribunali nazionali sia la Corte di giustizia dell’Unione europea, impedendo in tal modo l’applicazione del diritto dell’UE. I Tbi potrebbero inoltre determinare un trattamento più favorevole nei confronti degli investitori di alcuni Stati membri che hanno concluso Tbi intra-UE». Nel contempo, il Parlamento europeo ha «sottolineato che la liberalizzazione dei capitali dovrebbe essere accompagnata dalla totale liberalizzazione dei servizi finanziari e dall’armonizzazione delle legislazioni fiscali in vista della creazione di un mercato finanziario europeo unificato».
Queste considerazioni mostrano in particolare che anche nell’UE uno Stato ha attualmente la possibilità di utilizzare qualche restrizione al libero movimento dei capitali e che dei cruciali terreni di iniziativa su scala europea dovrebbero essere comunque costituiti dai possibili cambiamenti che si possono introdurre nella legislazione dell’UE o più specificamente dell’eurozona. In particolare – oltre all’ovvia lotta contro i vari trattati di “libero scambio” (non solo quelli intra-UE) e il loro tipico atteggiamento di ossequio agli interessi delle multinazionali – andrebbe prevista appunto una maggiore armonizzazione fiscale tra i vari paesi membri, così da evitare il più possibile la “concorrenza fiscale al ribasso” che in base alle normative attuali tende a prodursi tra i paesi dell’UE per quanto riguarda la tassazione dei ceti più abbienti e in special modo delle imprese. Ma ancor più importante appare la cornice complessiva di tale armonizzazione, in quanto da un lato quest’ultima andrebbe fatta tenendo conto più della salvaguardia della qualità della vita della “popolazione comune” che degli interessi immediati delle élite economiche e dall’altro lato andrebbero posti in essere dei meccanismi di controllo democratico sulle politiche economiche dell’UE da parte dei cittadini, mentre oggi i meccanismi fondamentali di tali politiche sono invece saldamente nelle mani di organismi politico-burocratici (soprattutto la Commissione europea, l’Eurogruppo e la direzione della Bce) estremamente ristretti e soprattutto molto lontani dalle dinamiche effettive della democrazia.
Indirettamente, peraltro, il fatto che tuttora in paesi dell’UE come Svezia, Finlandia, Danimarca e Olanda lo “Stato sociale” continui sostanzialmente a funzionare in modi considerevolmente efficaci e con metodi essenzialmente democratici mostra comunque che anche nell’attuale situazione dell’UE – e dell’eurozona stessa – esistono equilibri economici, amministrativi e culturali che sono in grado di consentire sul piano nazionale politiche economiche considerevolmente attente al tenore di vita delle classi lavoratrici (inclusi, nella valutazione di tale tenore, i servizi pubblici accessibili alla popolazione). Non appare affatto casuale che siano paesi che – come si notava già in Oltre Keynes, cit. – «hanno mantenuto una relativa scarsità di corruzione, di incompetenza, ecc. soprattutto grazie a una sorta di “spirito civico” diffuso che porta i loro cittadini a negare drasticamente il loro voto ai politici e ai partiti che hanno dato segni di quelle “patologie amministrative”». Questo ovviamente non significa che negli altri paesi la “popolazione comune” sia direttamente responsabile del frequente malgoverno che li caratterizza (in quanto i diretti responsabili sono, evidentemente, i politici e i loro clientes), ma mostra che attraverso sia in generale la partecipazione alla vita politico-sociale sia più in particolare lucide scelte elettorali i “cittadini comuni” avrebbero dei mezzi per difendersi dalla tendenza al malgoverno che appare quanto mai diffusa fra i tanti “politicanti” che mirano più agli interessi personali (loro, dei loro “soci di partito” e appunto dei loro clientes) che al “bene comune”. In ciò va comunque ricordato che dal punto di vista economico-produttivo un paese che si trovi a patire le conseguenze di decenni di sostanziale malgoverno – che si tratti soprattutto di clientelismo, di gravi forme di incompetenza dei politici, dello Stato ridotto all’osso e cinicamente indifferente ai “fallimenti del mercato” come predicano i neoliberisti, di intensa e controproducente burocratizzazione della P.A., o di altre forme ancora di malgoverno – non può certo essere in una situazione paragonabile a quella dei paesi in cui nello stesso periodo lo “Stato sociale” ha agito in notevole sintonia con l’“economia reale” e con la “società civile” nell’affrontare i complessi nodi della moderna società ad elevato sviluppo tecnologico. Il malgoverno lascia solitamente dietro di sé rapporti disfunzionali tra settore privato e P.A., servizi pubblici molto spesso mal diretti, finanze nazionali spesso malmesse, e via dicendo; e per superare una tale impasse può comunemente occorrere un prolungato e notevole impegno collettivo della popolazione del paese.
Questa diversità di situazioni, ad ogni modo, non giustifica affatto i politici e i burocrati che a livello europeo utilizzano le impasse economiche di questo o quel paese dell’UE per maltrattarne le classi popolari e per facilitare le mire che le élite economiche di altri paesi dell’UE possono avere sulle attività produttive, sulle risorse e sul territorio stesso dei paesi in difficoltà di tipo economico. Anzi, questo quadro mostra ancor meglio il cinismo e, alla fin fine, l’odiosità di fondo dei personaggi in questione (tanto più che – come si è già sottolineato in modo esplicito per la Grecia – molto spesso i politici implicati in qualche paese in prolungati casi di malgoverno fanno parte delle stesse aree partitiche dei politici che a livello europeo invocano forme punitive di austerità non certo contro i partiti e le lobby economiche coinvolti in quel malgoverno, ma contro le classi lavoratrici dei paesi in questione, che sono già state le vittime designate di tali partiti e di tali lobby...).
La diversità di effetti che l’attuale legislazione europea ha sui vari paesi membri a seconda del loro sviluppo economico e del grado di malgoverno da essi patito nel recente passato aiuta a comprendere i punti di vista insiti in tale legislazione: è una legislazione che rafforza chi è già particolarmente forte dal punto di vista economico e indebolisce chi da quel punto di vista è già particolarmente debole, e ciò sia nel senso dei rapporti tra le classi sociali che nel senso della competizione – interna al sistema capitalistico – tra le élite economiche dei diversi paesi. Va anche rammentato che nelle varie fasi della realizzazione di tale legislazione sono stati coinvolti tanti partiti, appartenenti non solo a quella sorta di “grande area di centro” che in pratica dirige da tempo la politica dell’UE (e che è costituita principalmente dalle cosiddette “destra moderata” e “sinistra moderata”, incarnate nel Parlamento europeo rispettivamente nel gruppo dei popolari e in quello dei socialdemocratici), ma anche ad altre aree politiche.
In Italia, p.es., all’elaborazione e approvazione dell’accoppiata Sixpack-“fiscal compact” hanno partecipato pienamente l’ultimo governo Berlusconi e il governo Monti: in pratica, al primo dei due spetta il Sixpack e al secondo il “fiscal compact”, che è sostanzialmente una riproposizione del Sixpack con qualche piccolo ampliamento normativo e su una diversa base istituzionale (non una direttiva europea, ma un trattato). Ora, di quel governo Berlusconi erano parte determinante anche la Lega e la destra storica, allora rappresentata da An (divenuta in pratica in quel periodo una corrente del “superpartito” ideato all’epoca da Berlusconi, il Pdl), mentre il governo Monti – un governo “tecnico”, non strettamente politico – è esistito grazie anche al supporto determinante del Pdl (inclusa la sua corrente che corrispondeva ad An), il quale fece pesare in maniera decisiva tale supporto in diversi dei campi dell’attività governativa. Oggi la Lega e FdI – che ha sostituito ufficialmente An nella rappresentanza della destra storica – si presentano pubblicamente come “sovranisti” e acerrimi avversari del tipo di politiche europee espresso emblematicamente in quell’accoppiata, ma in realtà entrambe le formazioni politiche in questione hanno contribuito direttamente, tranquillamente e silenziosamente ad essa quando erano loro a governare in Italia alcuni anni fa (e, in pratica, sin da allora fanno accuratamente finta che ciò non sia mai accaduto...). Non a caso, benché negli ultimi anni il governo Renzi (incentrato sul Pd) e il primo governo Conte (basato sulla coalizione tra Movimento 5 stelle e Lega) si siano distinti per le tante parole inutili dette contro il “fiscal compact” e contro le altre forme di pesante ingerenza dei vertici dell’UE nelle politiche economiche dei singoli paesi membri, né il Pd né la Lega hanno presentato proposte ufficiali per “correggere” in sede europea quelle forme di ingerenza, che loro stessi avevano ufficialmente approvato qualche anno prima (anche i “5 stelle” non hanno presentato proposte e si sono limitati a vuote parole, ma è più facile “perdonarli” a seguito della loro scarsa esperienza politica e anche del fatto che comunque il loro movimento non ha partecipato alla progressiva edificazione di tale ingerenza).... E il fatto che le élite politiche dei paesi economicamente più deboli abbiano approvato una legislazione europea che svantaggia pesantemente questi ultimi suggerisce con grande forza – come si metteva in evidenza già nel 2013 in Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit. – che direttamente o indirettamente tali élite siano state all’epoca letteralmente “comprate” in un modo o nell’altro dalle élite economiche dei paesi dell’UE economicamente più forti....
Vista nell’insieme, la questione “fisco e frontiere nell’UE” suggerisce da un lato che non tutti i governi dei paesi membri utilizzano in modo davvero pieno gli spazi di autonomia che l’attuale legislazione europea consente loro (così come avviene, parallelamente, anche per altre questioni), e ciò presumibilmente allo scopo di fare ulteriori favori a livello nazionale alle élite economiche nascondendosi dietro presunte – e in questo caso fasulle – necessità che verrebbero “imposte dall’Europa” (come se, tra l’altro, per molti versi l’UE non fosse in pratica nelle mani dei governi stessi, oltre che delle varie aggregazioni partitiche che sostengono la Commissione Europea...), e dall’altro lato che in generale si tratta comunque di una legislazione fatta pensando molto più agli interessi dei ricchi che a quelli delle classi lavoratrici, come hanno messo in evidenza con una particolare ampiezza di dati e di osservazioni Thomas Fazi e William Mitchell in Sovranità o barbarie (Meltemi, 2019). In un paese dell’UE – e tanto più se il paese è parte anche dell’eurozona – da un governo che rifiuti di essere definito come antipopolare ci si potrebbe e dovrebbe aspettare sulla questione fiscale, insomma, come minimo un paio di cose (che potrebbero dunque essere richieste quanto mai legittimamente a tale governo dalla popolazione):
-
riconoscere che in generale una tassazione progressiva – come quella prevista appunto dalla Costituzione italiana – è evidentemente e nettamente la più adeguata a sostenere il fabbisogno della P.A., sia dal punto di vista sociale (per ovvi motivi) che da quello economico (soprattutto per la maggior propensione al consumo tipicamente caratteristica delle fasce a reddito basso e medio), anche se in ciò si dovrebbe cercare di mantenere bassa l’imposizione fiscale non solo sul lavoro ma pure sugli investimenti produttivi;
-
se il governo stesso ritiene che nella situazione del proprio paese l’attuale legislazione europea non impedisca nei fatti di porre in atto una tale tassazione, applicarla a livello nazionale con decisione (mediante aliquote fiscali sufficientemente elevate sui redditi più alti tra le persone fisiche e sui profitti delle persone giuridiche non reinvestiti produttivamente, adeguate misure anti-evasione e anti-elusione, eventualmente imposte patrimoniali, ecc., come si è già ampiamente sottolineato p.es. in Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit.); se invece il governo ritiene che la legislazione europea impedisca di fatto nel paese il tipo di tassazione in questione, spiegare pubblicamente e chiaramente perché, sollevare il problema con forza nell’ambito della vita politica e culturale europea e più specificamente presso le istituzioni dell’UE e, infine, avanzare con decisione proposte congrue e praticabili attraverso le quali cambiare questo stato di cose ripristinando una maggiore libertà delle singole nazioni nell’ambito dell’UE oppure – in alternativa – prevedendo a livello dell’intera UE l’impostazione di una politica fiscale inequivocabilmente più attenta alle esigenze delle fasce sociali a reddito basso e medio che agli interessi delle classi privilegiate (e, se entrambe queste alternative venissero considerate improponibili dalle attuali istituzioni dell’UE, lanciare un’intensissima campagna politica europea sulla degenerazione pesantemente classista ed elitaria che stanno avendo ormai da anni tali istituzioni).