I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale
di Maurizio Lazzarato
Questo testo, scritto alla fine di un «ciclo» di tre libri sulla guerra (Guerra o rivoluzione, 2022; Guerra e moneta, 2023; Guerra civile mondiale?, 2024) precisa alcuni concetti, in modo particolare quelli di imperialismo, monopolio, guerra
In questo momento in tutto il mondo si discute della possibilità di una terza guerra mondiale. Dobbiamo essere psicologicamente preparati a questa eventualità e considerarla analiticamente. Noi siamo decisamente per la pace e contro la guerra. Ma se gli imperialisti insistono nel voler iniziare un'altra guerra, non dobbiamo avere paura. Il nostro atteggiamento nei confronti di questo problema è lo stesso di tutti i disordini: in primo luogo, siamo contrari e, in secondo luogo, non ne abbiamo paura. La prima guerra mondiale è stata seguita dalla nascita dell'Unione Sovietica, con una popolazione di 200 milioni di abitanti. La seconda guerra mondiale è stata seguita dalla formazione del campo socialista, con una popolazione di 900 milioni di abitanti. È certo che se gli imperialisti si ostinano a scatenare una terza guerra mondiale, centinaia di milioni di persone passeranno dalla parte del socialismo e non rimarrà molto spazio sulla terra per gli imperialisti; è persino possibile che il sistema imperialista crolli completamente.
Mao Tse-tung
Ognuno può vedere quanto manchi di tatto il Rabocheye Dyelo quando agita trionfalmente la frase di Marx : «Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come «fare dello spirito a un funerale».
Lenin
L' affermazione di Mao sembra essere stata scritta per la nostra attualità. Ma siamo psicologicamente impreparati alla realtà della guerra e ancor meno a considerare analiticamente le sue cause, le sue ragioni e le possibilità che potrebbe aprire. Ci mancano gli «affetti» e i concetti per farlo. Il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri - Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire. Lo «sbandamento teorico» prodotto negli ultimi cinquanta anni è grande. Non si tratta di sopravvalutare la teoria, ma senza quest’ultima, come diceva qualcuno, «non ci può essere movimento rivoluzionario».
È molto difficile sviluppare in un articolo una critica complessiva di un progetto, andato incontro al fallimento, che si è posto l’obiettivo di superare i limiti del marxismo. Ci limiteremo ad analizzare i guasti profondi prodotti dall’assenza di tre parole chiave: imperialismo, monopolio e guerra, la cui rimozione impedisce di capire cosa sono diventati il capitale, lo Stato, il loro rapporto e l’azione politica[1].
L’imperialismo
Il concetto di imperialismo è stato praticamente rimosso da tutte queste teorie, in maniera più o meno esplicita. Negri e Hardt, all’inizio del nuovo millennio, hanno pensato bene di dare consistenza teorica a questa rimozione, decretando: «L’imperialismo è finito. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come le furono le nazioni europee moderne. Né gli Stati Uniti, né alcuno Stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista».
L’«Impero» si impone come alternativa alla sovranità moderna, disegnando un nuovo ordine mondiale che fa saltare quel rapporto centro-periferia a partire dal quale il capitalismo era nato e si era sviluppato. Se non c’è più un centro, non c’è più nemmeno una periferia, «le divisioni tra primo, secondo e terzo mondo si confondono».
Nella nuova sovranità sovra-nazionale «i conflitti e le rivalità tra le varie potenze imperialistiche sono stati per molti versi sostituiti da un’idea di un unico potere che le sovrasta tutte, le organizza in una struttura unitaria» e in un diritto comune «post-imperialista e post-coloniale». Il «definitivo declino dello Stato-nazione» metterebbe fine «all’era dei grandi conflitti [...] La storia delle guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste è finita».
Una governance mondiale e sovrastatale porta con sé la «pace». Così facendo, le guerre si riducono a semplici operazioni di polizia. Un’idea simile la troviamo in Deleuze e Guattari secondo cui la guerra mondiale avrebbe prodotto una macchina globale dove gli Stati assumono un ruolo subordinato. Anche qui il risultato è la «pace assoluta della sopravvivenza». La pace, per entrambe le coppie di filosofi, non è il contrario della guerra: è una pace terribile, una pace «securitaria» imposta dalla macchina globale. Ma resta il fatto che per loro «la guerra civile mondiale» di Schmitt e Arendt non è più d’attualità.
Ancora: «L’espansione imperiale non ha nulla a che fare con l’imperialismo e neppure con l’iniziativa delle forme statuali votate alla conquista, al saccheggio, al genocidio, alla colonizzazione e alla schiavitù. Contro questo imperialismo, l’Impero estende e consolida il modello della rete di poteri» che sarà descritta, nella sua molteplicità orizzontale (ontologia piatta, per usare un termine alla moda qualche anno fa) dalla teoria del «biopotere» e della «società di controllo».
Gli Stati Uniti, secondo tale teoria, non sono né la potenza globale egemone sul mercato mondiale, né una vecchia forza imperialista. Avranno invece il compito di traghettare il mondo verso questo nuovo sistema sovrastante gli Stati, che integra le differenze piuttosto che escluderle, poiché la costituzione americana è già di suo imperiale, «fondata sull’esodo, su valori affermativi e non dialettici, sul pluralismo e sulla libertà».
Il mercato mondiale si costruisce a partire da «un regime monetario universale», in cui tutte le monete nazionali «tendono a perdere qualunque titolo di sovranità». Il denaro «è l’arbitro imperiale, ma non possiede alcuna localizzazione precisa, né status trascendente», il che significa che l’Impero annulla il potere del dollaro come moneta internazionale.
La «moltitudine» è l’altra faccia dell’Impero, composizione del proletariato contemporaneo, diventata «autonoma e indipendente». «La cooperazione sociale non è più il risultato dell’investimento capitalistico, ma il patrimonio del potere autonomo» - della moltitudine, aggiungo. «Siamo noi i padroni del mondo» perché la moltitudine «col proprio lavoro produce e riproduce autonomamente l’intero mondo della vita».
Per Machiavelli il progetto di costruire una nuova società dal basso richiede «armi» e «denaro». «Spinoza risponde: ma non li possediamo già? Le armi che ci sono necessarie non sono già in possesso del potere creativo e profetico della moltitudine, della sua produttività?».
La critica a questi concetti è già stata fatta dalla realtà dell’imperialismo, del genocidio, dei monopoli finanziarizzati, della guerra e delle guerre civili; dall’impotenza dei nuovi movimenti che senza «armi», «denaro» e «autonomia» stanno perdendo, uno a uno, tutti – ma proprio tutti – i diritti sociali e politici conquistati in due secoli di lotte e rivoluzioni; la molteplicità dei movimenti si rivela afasica, inconsistente, disorientata con lo scoppio della guerra, possibilità non contemplata nelle loro teorie e nei loro programmi.
È interessante riportare il punto di vista di un marxista del Sud, secondo cui «l’imperialismo è uno stadio permanente del capitalismo». Samir Amin, già nel 1978, partendo dalla continuità secolare dello «spossessamento» delle periferie da parte del centro, anticipa lo sviluppo della situazione politica attuale in modo sorprendente. Dopo il 1945 la configurazione dell’imperialismo cambia profondamente. Si costruisce un «imperialismo collettivo» – comprendente gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone – animato da una cooperazione/competizione gerarchica al cui centro ci sono gli Usa, mentre gli «alleati» sono anch’essi oggetti di dominio. L’imperialismo collettivo non sviluppa più conflitti interimperialisti tra gli Stati del Nord, ma è invece in guerra permanente con il Sud globale, perché «lo sviluppo del sottosviluppo», lo «sviluppo lumpen» imposto ai paesi del Sud, è ancora e sempre una condizione dell’accumulazione del Nord. Nel capitalismo globale lo spazio non può mai essere «liscio», è sempre necessariamente polarizzato.
La teoria dell’imperialismo collettivo si perfeziona seguendo il filo degli avvenimenti e, dopo la caduta del muro di Berlino, annuncia – previsione anche questa confermata – che l’imperialismo degli Usa ha definito i nemici principali della sua feroce volontà di egemonia unilaterale: in testa la Russia, poi la Cina e quindi l’Europa[2]. Mentre quest’ultima non persegue nessuna strategia autonoma, il Sud si è rafforzato grazie alla mondializzazione lanciata dagli Usa e, a sua volta, espande la sua forza economica (Cina) e politico/territoriale (Turchia, Russia) entrando in concorrenza con l’imperialismo collettivo.
Lungimiranza di un marxismo non occidentale: non solo la guerra al Sud è diventata realtà, ma l’Europa e il Giappone si sono docilmente trasformate in colonie a tutti gli effetti e le loro economie sono state messe in ginocchio dall’alleato americano. Gli Usa si sono salvati dalla bancarotta grazie al saccheggio garantito dal monopolio pubblico della loro moneta, il dollaro, e dai monopoli privati dei fondi di investimento che spossessano gli altri paesi della loro ricchezza e del loro risparmio per finanziare l’enorme deficit dell' «american way of life».
La teoria dell’imperialismo collettivo è fondata su un’altra ipotesi strategica problematica, ma che merita di essere discussa: la contraddizione principale è tra un centro e una periferia sempre meno periferica. La gerarchia imperialista invece di sparire nella confusione tra primo, secondo e terzo mondo, si polarizza in maniera radicale su iniziativa del centro. Anche questa ipotesi sembra confermarsi: contrapposizione economico-politica tra G7 e BRICS, confronto militare contro il proletariato del Sud, esemplificato dal genocidio palestinese. I punti di scontro sono tutti tra Nato, Usa e Israele e quello che il centro considera come nemico (Russia, proletariato arabo, Cina), almeno fino al cambio attuale di presidenza.
Samir Amin ritiene che «Impero» produce un’identificazione deplorabile tra imperialismo e colonialismo che trae in errore Negri e Hardt, per cui la fine del secondo determinerebbe la fine del primo. L’economista franco-egiziano afferma provocatoriamente che la Svizzera è un paese imperialista perché partecipa allo «sviluppo del sottosviluppo», vera definizione dell’imperialismo, anche senza avere una sola colonia[3].
Il monopolio
Deleuze e Guattari non si limitano a rifiutare il concetto di imperialismo, rimuovono anche un’altra fondamentale categoria del lavoro di Samir Amin, il monopolio. Sembrano ignorare l’insegnamento di Fernand Braudel, secondo cui il capitalismo è sempre stato dominato da essi, fin da quando si presentava come monopolio mercantile. Da allora il processo di centralizzazione non ha fatto che intensificarsi, accelerando ancora a partire dagli anni ‘70, raggiungendo il culmine - inaspettato sia per le dimensioni che per la sua natura finanziaria e non più industriale - proprio in questi anni.
A leggere Foucault, Deleuze e Guattari, Negri, ecc., sembra che dopo il ‘68 il processo di centralizzazione sia stato bloccato e addirittura rovesciato. L’accento è messo sull’orizzontalità del potere, sulla sua dispersione e diffusione locale, sulla micropolitica: per Deleuze il «capitalismo del XIX secolo è per la concentrazione» mentre oggi è «essenzialmente dispersivo». I «dispositivi» della scuola, dell’ospedale, della fabbrica si sono aperti, tracciando uno «spazio liscio» che è il corrispettivo interno dello spazio liscio del mercato mondiale. Non convergono più verso un «proprietario, Stato o potenza privata». Il «potere ha per caratteristica l’immanenza del suo campo, senza unificazione trascendente, senza centralizzazione globale».
Ma è sicuramente Foucault che cancella radicalmente, nei suoi corsi sulla nascita della biopolitica, i processi di centralizzazione capitalista, d’unificazione trascendente, di centralizzazione globale, «tagliando la testa al re» e producendo così un radicale e nefasto controsenso politico.
Le categorie di biopotere e di società del controllo vorrebbero introdurre una nuova concezione del potere capace di criticare ogni forma di sovranità, di «eccesso di potere» sulla soggettività. La governamentalità biopolitica ha come scienza del suo esercizio l’economia politica, che Foucault definisce una «disciplina atea, senza Dio, senza totalità, senza Sovrano». Manifesterebbe «non solo l'inutilità, ma l'impossibilità di un punto di vista sovrano» e affermerebbe l’esistenza di una «molteplicità non totalizzabile». Il sovrano viene eliminato dall’organizzazione del mercato, istituzione che forma i prezzi senza l’intervento di nessuna autorità ma unicamente attraverso l’impersonalità della concorrenza.
Non è importante sapere se Foucault avesse simpatie per il liberalismo, ma essere coscienti che la concezione del funzionamento dell’economia fondata sul mercato e la concorrenza – in quanto dispositivo impersonale capace di determinare i prezzi cortocircuitando ogni concentrazione monopolistica di potere – è coerente con la sua visione del potere.
La teoria del biopolitico e della società del controllo (categorie completamente assunte da Negri e Hardt), vedono solo il movimento della diffusione orizzontale, la micropolitica dell’accumulazione del profitto e del potere e non colgono l’altra dinamica, quella centralizzante che comanda, decide e organizza la dispersione orizzontale delle relazioni di dominio e sfruttamento. In altre parole: la diffusione è funzione del monopolio. I due movimenti sono sempre esistiti insieme – Marx li descrive già ne Il 18 brumaio – ma è la centralizzazione che esercita potere e comando sul decentramento. La guerra è un potente strumento di veridicità, perché porta in prima piano la dinamica dei monopoli che il pensiero critico ha rimosso.
Samir Amin insiste sul cambiamento nella continuità. L’imperialismo ha una nuova configurazione, così, a partire dal 1973-1975, viene fuori il monopolio descritto da Baran e Sweezy. A questo proposito parla di «monopolio generalizzato», perché tutti gli elementi produttivi diffusi nel territorio e nel pianeta sono comandati e catturati dai monopoli. Non c’è più spazio per alcuna entità autonoma, indipendente. Un esempio viene dall’agricoltura: i contadini «indipendenti» dipendono di fatto dai monopoli, a monte per le sementi, il credito, i tipi di produzione, ecc., a valle perché la vendita del prodotto è tra le mani della grande distribuzione che decide i prezzi. Al contrario di ciò che crede la biopolitica, il mercato non produce in maniera immanente i prezzi. Per ogni settore, per ogni asset finanziario, i prezzi sono fissati da un numero ristretto di imprese, che subito dopo la pandemia hanno scatenato l’inflazione da profitti a livello mondiale. I prezzi non sono funzione della «domanda e dell’offerta», ma della speculazione per la rendita (vedi il «mercato» del gas di Amsterdam dove opera la speculazione da derivati che, il 26 agosto 2022, ha fatto aumentare di dieci volte il suo valore a fronte di variazioni minime della domanda reale).
Samir Amin ricostruisce così una nuova tappa dello sviluppo della centralizzazione della produzione. Ma a partire dalla crisi del 2008 si è sviluppata un’ulteriore centralizzazione inimmaginabile per il monopolio industriale. Un numero ristrettissimo di fondi pensione e d’investimento, che raccolgono il risparmio statunitense, europeo e mondiale e lo investono nel debito americano o in asset finanziari, detiene una cifra astronomica di 55.000 miliardi di dollari, di cui tra poco vedremo il senso e il funzionamento.
Mentre il potere sovrano esercita il diritto di «far morire e lasciar vivere», l’evizione del sovrano apre, secondo Foucault, a una gestione positiva del potere che esercita un nuovo diritto, «far vivere e lasciar morire», una tecnica di «gestione della vita» capace di farla «proliferare». Questa nuova dimensione del potere ci fa in un certo senso uscire dal capitalismo, almeno dagli effetti che questo produceva nel XIX secolo e nella prima parte del XX secolo. Il nostro problema non sarebbe più la produzione del profitto che crea contemporaneamente la ricchezza dei pochi e la miseria dei molti. Oggi, secondo il filosofo francese, più che il profitto il problema è il «troppo potere» che si esercita sul corpo, l’eccesso di dominio individualizzante sulla soggettività.
Ciò da cui dobbiamo difenderci «sono gli effetti del potere in quanto tale. Ad esempio, la critica mossa alla professione medica non è principalmente quella di essere un'impresa a scopo di lucro, ma di esercitare un potere incontrollato sul corpo delle persone, sulla loro salute, sulla loro vita e sulla loro morte».
È proprio a partire dalla medicina come azione biopolitica per eccellenza che possiamo constatare l’inadeguatezza delle nuove categorie di Foucault. Recentemente Luigi Mangione ha sparato e ucciso Brian Thompson, CEO di UnitedHealthcare (UHC), rimettendo al centro del dibattito le assicurazioni private, cavallo di battaglia contro lo Stato sociale (in Francia promosse da uno stretto collaboratore di Foucault, François Ewald). Il biopotere, prendendosi cura delle forze della vita, avrebbe come obiettivo di «farle crescere e ordinarle, invece di essere votato a sbarrare il loro sviluppo, a piegarle o a distruggerle». Negli Stati Uniti le assicurazioni sanitarie hanno invece come unico ed esclusivo obiettivo: il profitto (e il potere necessario a garantirlo) che ricavano, letteralmente, dalla pelle (dalla «vita») degli assicurati a cui negano le cure necessarie. Nel 2023 UnitedHealthcare ha ricavato 22 miliardi di dollari di profitti estorti a pazienti, medici e infermieri, e li ha trasferiti nelle tasche degli azionisti. Mangione è diventato un eroe nazionale (si raccolgono fondi per la sua difesa, ci si mobilita davanti al tribunale, lo si difende nei social media) perché il cittadino statunitense, se ha i soldi, paga molto per un servizio pessimo. Se non ha soldi semplicemente non si cura. Gli Usa sono al 46 posto per la speranza di vita con una spesa sanitaria doppia che è il doppio di quella europea e che viene tutta trasformata in rendita/profitto. Decisivo è il ruolo che gioca il monopolio finanziario dei fondi pensione che possiede tra il 20 e il 25% di tutte le prime dieci assicurazioni. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%).
Sono i monopoli - e non il mercato - a fare i prezzi e a decidere le politiche di copertura degli «assicurati». La descrizione dell’ospedale fatta da Deleuze, che da struttura chiusa si apre e modifica di conseguenza il suo modo di curare («settorizzazione, ospedale di giorno, cure a domicilio»), non coglie l’aspetto finanziario del problema, che è il vero e unico punto che interessa all’avidità dei capitalisti. Il nuovo modo di curare, infatti, è finalizzato a ridurre i costi.
Mentre Foucault descriveva la sua biopolitica (1978 - 1979) e le nuove modalità di esercizio del potere sulla soggettività, il capitalismo e lo Stato (anglo-americani) si stavano riorganizzando da più di un decennio, per mettere al centro della loro politica, ancora e sempre, il vecchio profitto, assicurato, sempre e comunque, sicuramente non dal mercato degli ordo-liberisti o dei neo liberisti, ma dal monopolio economico, dal monopolio del potere esecutivo, dal monopolio dell’uso della forza militare.
La cancellazione dell’azione «sovrana» del monopolio, la negazione della centralizzazione e della verticalità del potere, hanno delle conseguenze perniciose anche sul concetto di potere, che risulta radicalmente pacificato. Dice Foucault: «Una relazione di potere è una modalità di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri, ma agisce sulla propria azione. Un'azione sull'azione, sulle azioni possibili, attuali, future o presenti» mentre «una relazione di violenza agisce su un corpo, sulle cose: costringe, piega, spezza, distrugge». Molto pericoloso ridurre il potere ad affetto, «potere di produrre affezioni» e di «essere affetti» (Deleuze). In questo modo viene eliminata la violenza fisica, la distruzione di cose e persone che è invece ciò che sta proliferando come une metastasi su tutto il pianeta. Il monopolio della violenza fisica trova nel genocidio in corso la massima espressione «del diritto di far morire», mai scalfito dal biopotere di «far vivere». Foucault ammette ancora la sua possibilità ma non per le buone ragioni: «Se il genocidio è il sogno dei poteri moderni, non è oggi per un ritorno del vecchio potere di uccidere; è perché il potere si situa e si esercita al livello della vita, della specie, della razza e di fenomeni massicci della popolazione». Il fondamento della guerra, della guerra civile, della predazione, del dominio e del genocidio, delle guerre razziali contemporanee, si fonda, oggi come ieri, sulla sete di profitto e sulla volontà di potenza dell’imperialismo collettivo. Il regime di guerra distrugge lo Stato sociale e il suo prendersi cura della popolazione, privatizzandolo e finalizzando le sue spese agli armamenti per il benessere degli azionisti del «far morire» che invece la vera e propria industria contemporanea.
Chi è sovrano ? Profitto e strategia
Il concetto di «imperialismo collettivo» ci permette di analizzare la natura dello Stato contemporaneo e il suo rapporto con il capitalismo.
Il nuovo imperialismo produce una differenziazione tra Stati. Mentre alcuni rafforzano sovranità e potere economico e militare dominando «grandi spazi» (Usa, Russia, Cina), altri, come gli Stati europei, hanno una sovranità più che limitata, subordinati, da tutti i punti di vista, alla mai eletta Commissione europea che, a sua volta, è agli ordini diretti del centro, gli Usa. Deleuze e Guattari, malgrado utilizzino abbondantemente la teoria dello scambio ineguale e della dipendenza, nella versione di Samir Amin in particolare, non si rifanno mai al concetto di imperialismo collettivo. La differenziazione da loro operata è sempre fatta sulla base del concetto di Stato-nazione, da cui perviene la debolezza di tutto il loro impianto teorico. Negri e Hardt invece dichiarano la fine di questa entità ma, proclamando una sovranità imperiale che non è mai esistita, non sfuggono da questo limite.
Dalla caduta del muro di Berlino in poi, infatti, si è imposta la sovranità unilaterale degli Stati Uniti sugli altri paesi a sovranità limitata.
Il limite della concezione dello Stato che ritroviamo in Deleuze e Guattari e in Negri e Hardt (e Foucault che, ricordiamo, ha «tagliato la testa al re») risiede nel concetto di capitale usato dalle loro elaborazioni, che viene inteso come forza cosmopolita che tende costantemente a superare i propri limiti e fuoriuscire di continuo dai confini dello Stato-nazione. Il capitale viene considerato come «una forza che non conosce che limiti immanenti», ma basta che la guerra (cioè una decisione politica) porti al sabotaggio di un gasdotto come il Nord Stream 2 e un’intera economia (quella europea in questo caso) comincia a vacillare. È sufficiente che l’imperialismo collettivo imponga sanzioni o dazi (altra decisione politica) e una popolazione intera può soffrire la fame o morire (vedi Iraq, Cuba, Siria, ecc., la lista è infinita). Basta che il governo americano decida che una data tecnologia non debba essere trasmessa alla Cina e la logica immanente del capitale è messa a tacere. Il mercato mondiale dimostra che i limiti del capitale non sono immanenti al suo «modo di produzione», ma sono tutti politici.
A oggi sembra che lo Stato cinese possa controllare politicamente la finanza, forma deterritorializzata e astratta del capitale, impedendo ai capitali stranieri di penetrare nel paese e di saccheggiarlo. Ma già durante i trenta gloriosi la forza «cosmopolita» della finanza e i suoi presunti automatismi erano stati sottoposti al potere politico degli Stati-nazione.
È solo la volontà politica di qualcuno che ha rimesso la finanza al centro dell'economia, processo che dunque non è figlio di caratteristiche intrinseche, di una vocazione al superamento di ogni limite che la stessa finanza ha.
La separazione «ontologica» tra Stato e capitale è esasperata da Negri e Hardt che scrivono: la «trascendenza della sovranità moderna è in conflitto con l’immanenza del capitale». Da qui la necessità dell'Impero, poiché imperialismo e Stato ostacolano lo sviluppo del capitale. Entrambe le coppie di filosofi, anche se in modo differente, sembrano opporre lo spazio liscio della produzione e del commercio, allo spazio striato delle sovranità statali. Il realtà la dinamica del capitale non è concepibile senza lo Stato; i due non si oppongono come trascendenza e immanenza; il dolce commercio non elimina la guerra; lo scambio e il mercato non possono funzionare senza il diritto. Non esiste un «modo di produzione» con le sue leggi economiche e la sovranità come modalità di intervento strumentale, per favorire o bloccare un’accumulazione autonoma. Stato e capitale costituisco da sempre una macchina comune la cui coordinazione/competizione si è approfondita a partire dalla prima guerra mondiale.
Se l’economia non ha «tagliato la testa al re», come crede Foucault, bisogna allora domandarsi, chi è «sovrano» oggi?
Cerchiamo di approfondire il rapporto che si stabilisce tra Stato e capitale interrogando la teoria dell’«Homo Sacer» di Agamben, che vorrebbe coniugare la biopolitica di Foucault con la teoria dello stato di eccezione di Schmitt (e, dunque, l’immanenza con la trascendenza).
Se è vero che «sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione», dobbiamo problematizzare le definizioni dei due termini. L'ipotesi è che, a partire della prima guerra mondiale, i due concetti non sembrano più corrispondere alle realtà ragionate da Schmitt e Agamben.
Lo stato di eccezione non può più limitarsi alla definizione data da Agamben, cioè una situazione in cui il sovrano sospende la norma giuridica affinché il sistema del diritto si possa riconfigurare. Già durante gli anni della Repubblica di Weimar lo stato di eccezione non poteva non comprendere e non avere come sua causa lo sviluppo capitalistico, l’irruzione delle masse nella politica e la possibilità della rivoluzione, la lotta di classe e la conseguente riconfigurazione dello Stato, le forze imperialiste del saccheggio coloniale e il conseguente scontro tra imperialismi,, ecc. Lo stato di eccezione riguarda la sospensione di tutte le norme (produttive, giuridiche, politiche) come condizione necessaria alla definizione di un Nuovo Ordine Mondiale e non solo in casi di «emergenza» come la pandemia. La decisione deve sostenere una realtà che è allo stesso tempo politica, statale, economica e militare, che travalica le competenze e le funzioni dello Stato di cui Schmitt piange la morte, lo Stato al di sopra delle parti, separato dalla «società», autonomo dall’economia, arbitro delle lotte di classe. Lo Stato è solo uno degli attori di questa nuova dimensione della sovranità. Tutto ciò è diventato sempre più chiaro nel progredire del secolo.
Il «Nomos della terra» è più vicino a cogliere la realtà contemporanea dello stato di eccezione perché contempla la dimensione mondiale e la divisione centro/periferia, fondamento del dominio capitalistico. Ancora più preciso è il trittico che Schmitt pone all’origine di ogni ordine: prendere, dividere, produrre. Il «prendere» (la guerra, la guerra di conquista, la guerra d’assoggettamento e il sistema statale militare che le rende possibili), il «dividere» (il diritto, la proprietà privata), il «produrre» (la forza economica) sono strettamente intrecciate e non disposte gerarchicamente. Marxianamente, potremmo definire lo stato di eccezione «accumulazione originaria» continua.
Il sovrano di Schmitt, ripreso da Agamben, attraverso lo stato di eccezione «prepara la situazione di cui il diritto ha bisogno per la propria vigenza». La situazione odierna in cui siamo immersi è stata lungamente preparata dall’imperialismo americano per fondare un nuovo ordine in cui la sua egemonia possa riprodursi, ma il sovrano di oggi non somiglia neanche lontanamente a quello che produce il corpo biopolitico nella teoria di Agamben. L’obiettivo non è salvare/riconfigurare il diritto, ma un nuovo ordine mondiale.
Per essere ancora più chiari: chi è il sovrano che decide sulla situazione di guerra che viviamo, indispensabile alla riconfigurazione di un nuovo, chimerico, secolo americano? Lo Stato schimttiano o agambeniano? Sicuramente no!
Il «sovrano» è costituito da una serie di centri di potere che coordinandosi, scontrandosi e anche opponendosi, prendono le decisioni «esistenziali» (sono proprio questioni di vita o di morte) per gli Usa. Questi centri di potere sono: lo Stato federale, dove gli eletti contano quanto i funzionari del Deep State; la Federal Reserve che controlla il dollaro, la più importante forma di «produzione» dell’imperialismo yankee; i monopoli industriali, tecnologici e finanziari americani che gestiscono liquidità impressionanti (con la guerra si scopre che la finanza, come la moneta, ha una nazionalità!); il Pentagono, senza la cui forza non c’è nessun ordine politico e monetario; Wall Street che tiene i cordoni della Borsa, cioè della predazione; le differenti fondazioni, una più reazionaria dell’altra; le lobbies delle armi, dell’immobiliare, della finanza. È solo dentro questo scontro/coordinamento che può emergere «la decisione», non più monopolio esclusivo dello Stato. Lo Stato rimpianto da Schmitt e ripescato da Agamben non esiste più sin dalla prima guerra mondiale.
Ritornando ai nostri giorni: chi decide della fine della guerra con la Russia, stabilendo che la situazione è sufficientemente stabilizzata? Proprio in questa occasione si può cogliere la molteplicità che costituisce il «sovrano». Infuria una battaglia politica feroce tra i diversi centri di potere per scegliere la soluzione migliore capace di assecondare le diverse strategie perseguite dai differenti blocchi di interessi che si scontrano dentro Stato, finanza, Pentagono, Federal Reserve, monopoli.
Inoltre il sovrano, sempre secondo Schmitt e Agamben, non solo crea e garantisce lo stato di eccezione, ma «decide in modo definitivo della normalità», cioè quando la situazione si può considerare sufficientemente normalizzata, condizione per l’istituzione di nuove norme, di nuove relazioni di potere, di un Ordine mondiale nuovo. Ma il sovrano statunitense, invece, non deve decidere di nessuna «normalità», perché la sua strategia è la destabilizzazione continua, il «caos» che semina la divisone. La situazione «normale» è diventata l’alimentazione continua della guerra civile mondiale.
Il medio Oriente è il terreno di sperimentazione della normalità destabilizzante yankee (vedi cosa è accaduto negli anni in Iraq, Libia, Afganistan, Siria). La guerra contro la Russia l'ha impiantata anche in Europa.
Più in generale, si può affermare che non si può concepire un «modo di produzione» separato dallo Stato. Il capitale non esiste senza lo Stato, la sua dimensione sovrana e militare è costitutiva della produzione. D’altra parte, la nuova sovranità post-schmittiana non esiste senza il capitale: come può l’accumulazione capitalistica statunitense, che presenta un deficit abissale, riprodursi senza il potere dello Stato sul dollaro e senza l’esercizio del monopolio della violenza che la garantisce? A sua volta lo Stato può sopravvivere senza la capacità della finanza di catturare valore dal mondo intero? Come può altrimenti garantire il finanziamento dell’esercito e delle 800 basi militari, finanziare jihadisti, colpi di Stato (vedi in Ucraina) e corrompere le élites «compradore»?
Deleuze e Guattari definiscono la dinamica immanente del capitale come un'assiomatica. Penso che sarebbe giusto pensare il profitto e la rendita come il risultato di una strategia in cui intervengono forze soggettive (politiche, economiche, militari statali, sociali, religiose, ecc). La guerra in corso, e il suo rapporto con l’economia, ci mostra, per chi vuole vedere, la realtà di questa strategia. Sovrano, per giocare con Schmitt, è chi decide della strategia, di cui guerra e stato di eccezione sono momenti.
Guerra e guerra civile
La nascita o lo sviluppo del capitalismo sono inseparabili dalla guerra, dalla guerra civile, dall’uso della forza e della violenza fisica su cose e persone. Il pensiero critico ha preso la cattiva abitudine di separare il politico dal militare, l’economia dalla guerra. La filosofia e la politica di Rancière sono esemplari a questo proposito. Si parla infatti di «polizia», ma mai di guerra e guerra civile. Per il pensiero critico la democrazia degli antichi, è fondata sulla «divisione del sensibile» (ancora Rancière) o sull’«agonismo tra uomini liberi» (Foucault, Deleuze), esemplare addomesticamento della guerra civile (Nicole Loraux) che le istituzioni democratiche devono continuamente scongiurare perché continuamente minacciate dal suo esplodere.
La guerra, e non il mercato (à la Foucault), costituisce il principio di veridicità della nostra attualità. Per dirla diversamente, la verità del capitalismo è il mercato mondiale dove capitale, Stato e guerra agiscono di concerto. È possibile concepire la potenza degli Stati Uniti che comandano e dis-ordinano le relazioni mondiali senza il Pentagono, senza l’esercito più potente della storia dell’umanità? Forza economica e forza politica implicano immediatamente la guerra, che conducono ininterrottamente dal 1945, con particolare ferocia durante la guerra fredda (vedi quanto è accaduto in Indonesia, Vietnam, Cile/Argentina su tutti). Il presidente Mao sosteneva che tra civile e militare non c’è una muraglia cinese invalicabile, il passaggio dall’una all’altra è sempre possibile e può avvenire in maniera molto repentina: la velocità con cui sono passati alla guerra le classi dirigenti, i media, i politici di un’ Europa fondata sulla pace, ci dice solo che la guerra è connaturata alla politica sia nel centro dell’imperialismo collettivo che, in maniera diversa, nei suoi vassalli.
La guerra, a partire dal XX secolo, non è solo il modo per risolvere i conflitti tra Stati e classi. Ha anche una funzione direttamente economica perché gioca lo stesso ruolo delle grandi invenzioni (come la macchina a vapore, la ferrovia, l'automobile). La spesa per gli armamenti è diventata una parte permanente dello stimolo e del controllo del ciclo economico (Kalecki). Gli Usa sono usciti dalla crisi del 1929 solo grazie alla guerra mondiale. E i tassi di crescita e di profitto irriproducibili del dopoguerra sono frutto della ricostruzione dell’Europa seguita alle enormi distruzioni delle due guerre mondiali.
La domanda effettiva non è riducibile alla sola spesa sociale. La componente politicamente importante è la spesa militare, ragion per cui James O’Connor, negli anni '70, non parla di Welfare, ma di warfare - welfare:
«Tanto la spesa per l’assistenza quanto la spesa militare hanno un duplice carattere: l’assistenza sociale non serve solo a controllare politicamente la popolazione eccedente, ma anche a espandere la domanda e i mercati interni. L’apparato militare non soltanto tiene a freno i rivali stranieri e ostacola la rivoluzione mondiale (mantenendo nell’ottica capitalistica manodopera materie prime e mercati) ma contribuisce a evitare il ristagno economico interno. Si può quindi definire il governo nazionale un warfare - welfare state».
Il concetto cardine dell’attualità sembra essere proprio quello di «warfare - welfare», dove si può cogliere la contemporaneità e reversibilità di lato civile e lato militare.
L’esercito, infatti, non ha solo funzioni militari, ma anche «civili», il passaggio dall’una altra dimensione non presenta nessun problema. A partire della seconda guerra mondiale esso ha organizzato la «big science» ed ha costituito il cuore della ricerca e dell’invenzione tecnologica e scientifica ben al di sopra delle GAFAM. Tutte le nostre tecnologie hanno un’origine militare, in modo particolare le reti digitali.
Si tratterebbe allora di mettere in discussione la celebre sentenza di Clausewitz - secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» - ma anche il suo rovesciamento, compiuto da Foucault e Deleuze e Guattari - «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi» -, affermando che guerra e politica, guerra ed economia si succedono temporalmente. Politica e Guerra sono indissociabili: la separazione dei due concetti era possibile nell'epoca in cui scriveva il generale prussiano nella prima parte del XIX secolo, ma non più oggi.
Se il pensiero critico tratta la guerra come questione congiunturale, quindi mai considerandola condizione strutturale del capitalismo, ignora invece completamente la guerra civile. L’eccezione è rappresentata da Foucault che, per qualche anno, tra il 1971 e il 1975, cerca di basare il modello delle relazioni di potere proprio sulla guerra civile. Ma il filosofo abbandonerà velocemente il progetto per seguire la via della governamentalità del biopotere e, successivamente, analizzare i processi di soggettivazione. Inoltre, non ha mai definito con chiarezza la sua idea di guerra civile.
Nel libro il cui introduce questo concetto, La società punitiva del 1973, Foucault afferma che i corsi che lo costituiscono si concentrano sull'analisi della società francese tra 1823 e 1848. Stranamente (o coerentemente) non spenderà una parola sulla vera guerra civile europea che scoppierà nel 1848. Sembra ignorare che, proprio in quel periodo, tra il 1830 e il 1848, c'è uno sconvolgimento in Europa sia a livello politico (le masse - il «leone proletario» dirà Tronti - irrompono nella lotta mondiale e non abbandoneranno più la scena) che teorico. In Germania dopo la morte di Hegel, nel 1831, divampa la critica (si espongono Feurbach, la sinistra hegeliana, Stirner, ecc.) ai fondamenti dell’Occidente (cristianesimo, filosofia, capitalismo, Stato) da cui nascerà il marxismo, teoria che guiderà le rivoluzioni vincenti del XX secolo. Foucault evita di prendere in considerazione non solo la più importante guerra civile del XIX secolo, la Comune di Parigi, ma anche le guerre civili europee che caratterizzano le due guerre mondiali, così come sembra snobbare le guerre civili mondiali lanciate dalla rivoluzione sovietica, capaci di riconfigurare completamente il globo dal punto di vista politico, economico e militare. Quindi di che guerra civile parla tra il 1971 e 1975? Non è dato sapere. Infatti abbandona il concetto.
La relazione d’inclusione escludente esercitata dal potere sovrano di Agamben, come la «partizione del sensibile» (Rancière) funziona con lo stesso principio con cui Foucault pensa la divisione ragione/follia, normale/anormale, macro/microfisica, ecc… Relazioni di potere su cui è impossibile fondare una qualsiasi rottura radicale con il presente. A differenza della lotta di classe, che determina un taglio da cui emergono due fazioni, che si riconoscono l'un l'altra come nemico.
L’affermazione di Deleuze e Guattari secondo cui la dimensione micro-politica, se non passa alla macro-politica, non «esiste», nel senso che non ha nessuna effettività, si è pienamente realizzata con la guerra. Ma tale affermazione riguarda la loro stessa teoria perché né la macropolitica, né il passaggio da una all'altra sono mai stati definiti. L’insegnamento suicida che Foucault dispensa ai nuovi movimenti, pronti ad accoglierlo con irresponsabile spensieratezza, promuove già nel 1978 il disastro politico attuale che separa le due dimensioni: «Distogliersi da tutti quei progetti che pretendono di essere globali e radicali» e, al contrario, preferire delle «trasformazioni, anche parziali», «che concernono i nostri modi d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il modo in cui percepiamo la follia o la malattia».
Se si elimina questa dimensione globale e radicale (il mercato mondiale e la rivoluzione), dove politica, economia e guerra costituiscono la verità dei rapporti di potere, si avrà l’impotenza politica contemporanea, in cui anche la possibilità della micro-politica, della microfisica del potere viene meno. Marx, sfuggendo all’accecamento teorico attuale, considera che l’agire (trasformare la soggettività, il rapporto a sé) e il fare (trasformare le relazioni di potere del mondo) sono momenti della stessa prassi rivoluzionaria: «La coincidenza tra il cambiamento delle circostanze e dell'attività umana o il cambiamento di sé può essere colta e compresa razionalmente solo come pratica rivoluzionaria».
Alain Badiou pensa che per cogliere i limiti delle rivoluzioni del XX secolo bisogna guardare alle condizioni che le hanno prodotte, le guerre. È la guerra che impone la forma dell’organizzazione. Dunque guerra e guerra civile obbligano anche l’azione militare. Non ha però mai spiegato quali altre strategie avrebbero potuto permettere di raggiungere gli stessi obiettivi delle rivoluzioni del XX secolo. Nella sua concezione della politica «non sono i rapporti di forza che contano». Badiou rifiuta tutti i concetti che hanno fatto la fortuna delle rivoluzioni (strategia, tattica, offensiva difensiva, mobilizzazione, ecc.) perché militarizzano il pensiero. Dobbiamo, secondo il pensatore francese, addirittura dubitare della rilevanza del concetto di «antagonismo». «Che cos’è una politica radicale (…) che mantenga e pratichi la giustizia e l’uguaglianza, e che tuttavia presuppone il tempo della pace e non sia nella vana attesa del cataclisma»? Non lo sapremo mai.
L’insieme del pensiero critico occidentale non ha capito la strategia del capitale e dello Stato (entrambi di fattura anglo-americana) degli anni '70 e si è quindi infilato in strade senza uscita. Negri afferma che Mille Plateaux di Deleuze e Guattari, traduce il '68. Nel 1980, anno di pubblicazione del libro, sono però mutati proletariato e rapporti di forza; in più, è in corso una controrivoluzione che già sconfitto quella «strana rivoluzione». Foucault, nel 1978, teorizza una «storia indefinitamente aperta» e una «destabilizzazione dei meccanismi di potere apparentemente senza fine», quando invece sta accadendo esattamente il contrario. Lo Spinoza di Negri dichiara, malgrado la sconfitta acclarata della rivoluzione, la sua continuazione «ontologica», per cui il proletariato più debole, disorganizzato e disorientato della storia del capitalismo, assurge a espressione di una potenza irreversibile. Proprio nel 1979, un decennio dopo il suo inizio, la prima fase della contro-rivoluzione, quella dello scontro frontale, è chiusa con il rialzo spettacolare dei tassi di interesse da parte della Fed, che sancisce così la sconfitta della rivoluzione mondiale e celebra la strategia politica di finanziarizzazione dell’economia americana fondata sul debito, mossa pienamente compresa, tra marxisti e pensatori critici, solo da Paul Sweezy.
La situazione contemporanea, al di là delle impasses del pensiero critico, si presenta di nuovo, come un possibile momento leninista. È sempre la guerra che agisce da «vigoroso acceleratore» dei conflitti e delle eventuali rotture. Ma la fiducia che ripone Mao nell’esito rivoluzionario delle guerre mondiali, che gli imperialisti si ostinano a scatenare coerentemente alla loro strategia, è incomprensibile al pensiero critico occidentale che non ha la stessa «lucidità», né la stessa ostinazione, né la stessa determinazione, né lo stesso odio di classe del nemico e che, inoltre, manca di ogni strategia.
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