La crisi della Grande Distribuzione Organizzata e la falsa alternativa
di Eros Barone
1. La crisi della GDO nel quadro del capitale commerciale e della concorrenza intercapitalistica
La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.
Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.
Come spiega il gruppo, si tratta di una decisione “strettamente connessa alla complessità delle condizioni del mercato italiano, all’interno del quale il settore della grande distribuzione si contraddistingue per una competizione intensa e frammentata, a fronte di un potere d’acquisto in diminuzione”.
Siccome “Carrefour”, in quanto azienda di punta nel settore della grande distribuzione commerciale, non è nuova a vicende di esuberi e di messa in mobilità di centinaia di lavoratori, che si sono verificate a più riprese nel corso di questi decenni, è il caso di riflettere sulla fase attuale e sulle prospettive di tale settore, il cui straordinario sviluppo risale nel nostro paese al periodo precedente la “grande crisi” del 2007/2008. Questo sviluppo ha portato alla proliferazione di un numero sproporzionato, a volte demenziale, di punti di vendita (ipermercati e centri commerciali), situati nelle periferie delle grandi città (basti pensare al caso teratologico di Cinisello Balsamo). Quali sono state le cause di questa proliferazione? Certamente, la liberalizzazione del commercio con la riduzione progressiva di ogni limite di orario di apertura e di tipologia di vendita, i finanziamenti pubblici per la riqualificazione delle aree dismesse dell’industria e pure l’opportunità per la criminalità organizzata di utilizzare la grande distribuzione per il riciclaggio del denaro sporco. Il risultato di questi processi è oggi la crisi della grande distribuzione, che è sotto i nostri occhi.
Orbene, prima di analizzare le cause di questa crisi conviene richiamare alcuni concetti esposti da Marx nel Capitale riguardo al capitale commerciale e al lavoro che viene impiegato nel commercio (il riferimento è alla quarta sezione del III libro del Capitale). Tali concetti riguardano i mutamenti di forma del capitale da merce in denaro e da denaro in merce, cioè il processo di circolazione del capitale, che è necessario per la realizzazione del plusvalore. Tutto ciò, osserva Marx, «costa tempo e forza-lavoro, ma non per creare valore, bensì per produrre la conversione del valore da una forma nell’altra». I costi di circolazione delle merci non aggiungono nuovo valore alle merci stesse e il capitale sborsato per la loro circolazione appartiene ai costi improduttivi, funzionali alla riproduzione capitalistica allargata.
Il capitale commerciale è, comunque, una parte del capitale monetario complessivo, una parte del capitale anticipato per la produzione; quindi il processo complessivo di riproduzione allargata comprende anche il processo della vendita-consumo delle merci, mediato dalla circolazione, in cui il capitalista commerciale si appropria di una parte del plusvalore già contenuto nelle merci. Chiaramente il capitalista commerciale immette nei processi di circolazione una quantità di valore inferiore, nella forma di denaro, rispetto a quella che poi ne estrarrà, ma questo avviene perché ciò che viene introdotto nella circolazione in forma di merce è già comprensivo di una quantità maggiore di valore. Il saggio medio del profitto (plusvalore / capitale costante + capitale variabile) viene infatti calcolato in base al capitale produttivo totale, aggiungendo a esso il profitto del capitale commerciale. Il capitalista industriale, il “produttore diretto”, non vende al commerciante le merci al loro prezzo di produzione, ossia al loro valore, ma ad un prezzo inferiore. L’effettivo prezzo della merce sarà quindi uguale al suo prezzo di produzione aumentato del profitto mercantile (commerciale). Il prezzo di vendita del commerciante è superiore a quello di acquisto di una data merce, perché il prezzo di acquisto è stato inferiore al valore totale della merce. In questo modo il capitalista commerciale partecipa alla ripartizione del profitto complessivo e se ne appropria con il lavoro non pagato dei suoi lavoratori.
Tornando all’analisi delle cause della crisi della grande distribuzione commerciale, molti sono i fattori: l’ipertrofico proliferare dei punti vendita, di cui si è detto, l’espansione dell’“hard discount”, la diffusione della spesa via Internet, il cambiamento dei gusti di una parte dei consumatori che preferiscono al prodotto massificato i mercatini ‘online’, le botteghe e i gruppi di acquisto, ma soprattutto la contrazione dei consumi provocata dalla crisi economica mondiale. Tutti fattori reali, legati alla concorrenza intercapitalistica, ma che non prendono in considerazione, o tendono a occultare, la causa principale, che è costituita anche in questo settore della circolazione delle merci dalla crisi di sovrapproduzione. È sufficiente infatti entrare in un centro commerciale per essere colti da un senso di vertigine e chiedersi nel contempo: “Ma chi comprerà tutte queste merci?”. La sovrapproduzione si riferisce naturalmente al consumo cosiddetto ‘di massa’, ovvero alla produzione di merci che rientrano nel consumo per la riproduzione della forza-lavoro ai livelli storicamente determinati. Per queste merci la domanda solvibile è costituita sostanzialmente dai salari dei lavoratori (salario diretto, indiretto e differito). Come è noto, i salari dei lavoratori sono in forte calo da qualche decennio e, di conseguenza, la sproporzione fra domanda e offerta tende costantemente ad aumentare. In un sistema concorrenziale puro, ipotizzabile solo in astratto, una situazione come quella descritta dovrebbe portare o a una distruzione delle merci in eccesso o a un calo drastico del prezzo delle merci in circolazione. Ma nulla di tutto questo avviene. Come si spiega questo fenomeno?
La risposta è la seguente: per quanto riguarda il livello dei prezzi, esso viene mantenuto artificialmente alto attraverso una politica monetaria espansiva basata su un aumento esponenziale del credito al consumo e quindi del debito privato, come si è visto negli USA prima dello scoppio della bolla immobiliare determinato dall’aumento delle insolvenze. Una politica monetaria simile è stata messa in pratica dalla BCE di Mario Draghi con l’azzeramento del costo del denaro e con il “quantitative easing”: tutte modalità con cui si è cercato vanamente di esorcizzare lo spettro triforme della duplice crisi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione del capitale con la correlativa caduta tendenziale del saggio di profitto. Un articolo che mi è capitato di leggere sul sito ‘online’ de “la Repubblica” di qualche anno fa suggeriva, peraltro, un’interpretazione ‘classista’ della crisi della grande distribuzione e del modello dei centri commerciali. Secondo tale articolo, la crisi dei centri commerciali non dipenderebbe dall’avanzata delle vendite ‘online’ o della ‘share economy’. La crisi sarebbe dovuta invece all’aumento delle disuguaglianze sociali, cioè alla polarizzazione nella distribuzione della ricchezza e quindi all’impoverimento della ‘middle class’, comprensiva di ceto medio e classe operaia, che porta con sé la crisi di quel modello di supermercato interclassista, trasversale, che si rivolgeva alla famiglia media americana.
Infine, vi è da considerare che la funzione di ‘socializzazione’ esercitata dai centri commerciali ha sostituito quella un tempo svolta da sindacati, partiti, associazioni civiche, ivi comprese le chiese, che hanno perso gran parte del proprio ruolo storico come centri d’incontro e di vita collettiva. Sennonché le proposte di parte capitalistica per superare la crisi non potranno che acuire tutte le contraddizioni in essere, anziché risolverle. Gli interessi dei grandi costruttori, dei politici locali e dei capitalisti della grande distribuzione commerciale tendono, infatti, a perpetuare un modello ormai obsoleto, incentrato sulla mercificazione e sull’alienazione totale non solo del consumo, ma anche del tempo libero e della vita dei lavoratori. Se il ritorno al piccolo commercio vicinale è un’utopia piccolo-borghese, il progresso ulteriore della grande distribuzione è invece una sorta di “cattivo infinito” destinato ad aggravare la crisi di sovrapproduzione, peggiorando le condizioni dei lavoratori di questo settore e fornendo alla popolazione merci e servizi sempre più cari e di qualità sempre più scadente.
2. La falsa alternativa alla GDO
La falsa alternativa alla crisi della Grande Distribuzione Organizzata è quella rappresentata dalla Lega Nazionale delle Cooperative. Immaginiamo allora che in una cittadina dell’Emilia Romagna, di cui è opportuno non fare il nome, buona parte della vita ruoti attorno a un’azienda che può essere denominata Coopquattro. Si tratta di una cooperativa costituita quasi cento anni fa da una decina di operai meccanici, decisi a sottrarsi allo sfruttamento e a uscire dalla miseria applicando i princìpi della mutualità e della solidarietà che stanno alla base della cooperazione. In tal modo questa azienda può vantare origini eroiche e, grazie a esse, può perfino qualificare le proprie attività come “etiche”. Quello che molti non sanno però è che su un migliaio di lavoratori appena un centinaio sono soci cooperatori, i quali lavorano in fabbrica come gli altri novecento. Sulla carta, lo stipendio è uguale per tutti indipendentemente dal fatto che siano soci oppure no. Solo che per i soci viene raddoppiato con una serie complessa di trucchi contabili. Naturalmente, anche i semplici dipendenti possono aspirare a diventare soci: basta che lavorino per anni e anni, con spirito devoto, e un giorno potranno presentare domanda. Un’inappellabile commissione di soci valuterà se l’aspirante possieda o no, oltre a una congrua somma di euro da investire come quota, anche i “requisiti morali” - così si chiamano - per entrare nella cerchia dei soci. Invece i figli dei soci diventano automaticamente soci per diritto di nascita, come accadeva nelle buone famiglie nobiliari di una volta.
Orbene, la Coopquattro domina la vita del Comune. Il Partito che fu comunista e che oggi si chiama PD ne è la principale filiale, l’ufficio del sindaco è una sorta di seconda sede dell’azienda e a Roma un deputato ne perora gli interessi. La Coopquattro sa governare la nebbiosa cittadina della Bassa Padana in maniera ‘prudente’, per citare un’espressione cara al lessico dalemiano usato dai dirigenti, evitando di commettere discriminazioni o reati clamorosi, assicurando servizi abbastanza puntuali e piazzando molti cartelli che vietano l’accesso alle aiuole ai cani, anche se tenuti al guinzaglio. Chi non conosce l’industria emiliano-romagnola probabilmente non si rende conto che le grandi cooperative sono gestite come tutte le altre aziende: i soci ingaggiano sul mercato un manager che ha lo scopo di far guadagnare il massimo alla società (e di farsi pagare ovviamente in proporzione). E poiché in tempi lontani le cooperative erano la proprietà di lavoratori privi di capitale, la legge prevede che gli utili debbano essere reinvestiti nell’azienda e non divisi tra i soci; in compenso, lo Stato evita di infierire con le tasse. Un bel principio, solo che i commercialisti provvedono egualmente a dividere gli utili tra i soci, mentre le cooperative hanno un ottimo vantaggio in termini fiscali sulle aziende private. Sicché il manager della Coopquattro oggi vende in Thailandia e compra in Uruguay, investe a Wall Street e riceve delegazioni di indiani e giapponesi tutti i giorni. Col bel risultato di far inferocire gli imprenditori privati del posto, che non sempre a torto sostengono che la Coopquattro rovina loro la piazza.
Ma vi è un altro insospettabile alleato del cooperativismo all’italiana: i liberisti americani che ritengono che le cooperative siano un’ottima soluzione per le aziende in via di fallimento. Thatcher e Reagan sono stati infatti i massimi promotori dello sviluppo del cooperativismo all’italiana anche in terra anglosassone. Essendo inoltre “imprenditori etici”, i manager della Coopquattro non si peritano anche di predicare, a differenza degli uomini d’affari comuni. E per questo pubblicano scritti e lanciano slogan pubblicitari con titoli come i seguenti: “Coniugare mercato e solidarietà”, “Una buona spesa può cambiare il mondo, “L’impresa sociale nel Terzo Millennio”. In conclusione, alla luce di quanto sinora esposto un fatto risulta ovvio: il mondo della Coopquattro, e quindi del partito che la Coopquattro tiene in piedi, è un mondo capitalistico, nel senso che rientra nel grande flusso planetario dei profitti, esattamente come vi rientrano tutte le aziende private. E il cuore di tale flusso si trova, come tutti sanno, a New York. È questo il motivo - economico - per cui i vari dirigenti della Coopquattro si scontreranno furiosamente con la destra quando si tratterà di decidere se concedere un terreno al Carrefour oppure all’Ipercoop; ma non potranno che schierarsi totalmente con la destra quando si tratterà di fare ‘business’, ignorare genocidi 1 o sostenere guerre.
Ora che tutto è stato fotografato, misurato, calcolato, ora che l'immenso organigramma dei dare e avere è stato costruito, lo Stato tira il boccino.
E orienta investimenti, costruzione o importazione di macchinari, approfondimento e sondaggi di siti estrattivi, a monte; a valle, aumento scuole, ospedali, assistenti sociali, eccetera.
A tal fine, influisce sulla politica dei prezzi? Certo, per il solo fatto che se imbottisco di macchinari un processo produttivo rispetto a un altro, ne abbasso consapevolmente, in maniera pianificata, le ore necessarie alla produzione e quindi il valore di scambio del prodotto finito.
Ma la può fare anche più sporca. Per esempio, imporre un PREZZO POLITICO a un nuovo bene o servizio che ritiene possa e debba essere introdotto nel paniere di ogni lavoratore, con "rimborso" che potrà avvenire grazie agli utili pregressi maturati nelle casse dello stato.
Fermo restando, nel caso del bene in questione, che potrebbe essere una misura temporanea in attesa, magari anch'essa pianificata (tempi di consegna di un anno o due per la piena messa a regime di nuovi impianti automatizzati), di riportare tale valore drogato alla sua "naturale" consistenza, in termini di ore lavorate, a quello stesso livello.
История ценообразования в СССР https://istmat.org/node/68910
Цены и ценообразование в СССР в восстановительный период 1921-1928 гг. https://istmat.org/node/32839
Ценообразование в народном хозяйстве СССР https://istmat.org/node/26972
Una delle più grandi raccolte di materiali statistici, sovietici e non, sull'area un tempo ricoperta dall'URSS:
https://istmat.org/statistics
Più quel che verrà fuori come bibliografia cammin facendo.
Infine, un PPS. In un sistema come quello sopra descritto, i parametri di efficacia ed efficienza dati da migliorie sia nei macchinari (automazione) che nel processo lavorativo (minori sprechi, ideazione e attuazione di procedure operative migliori) concorrono alla RIDUZIONE PROGRESSIVA DEI PREZZI AL DETTAGLIO. Quindi conseguente aumento della capacità di risparmio, o del potere d'acquisto del lavoratore. Accaduto anche questo per davvero, e in URSS, nel secondo dopoguerra.