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La crisi della Grande Distribuzione Organizzata e la falsa alternativa

di Eros Barone

ebe2497a9810ac1c751277b6aacb6b9b1. La crisi della GDO nel quadro del capitale commerciale e della concorrenza intercapitalistica

La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.

Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.

Come spiega il gruppo, si tratta di una decisione “strettamente connessa alla complessità delle condizioni del mercato italiano, all’interno del quale il settore della grande distribuzione si contraddistingue per una competizione intensa e frammentata, a fronte di un potere d’acquisto in diminuzione”.

Siccome “Carrefour”, in quanto azienda di punta nel settore della grande distribuzione commerciale, non è nuova a vicende di esuberi e di messa in mobilità di centinaia di lavoratori, che si sono verificate a più riprese nel corso di questi decenni, è il caso di riflettere sulla fase attuale e sulle prospettive di tale settore, il cui straordinario sviluppo risale nel nostro paese al periodo precedente la “grande crisi” del 2007/2008. Questo sviluppo ha portato alla proliferazione di un numero sproporzionato, a volte demenziale, di punti di vendita (ipermercati e centri commerciali), situati nelle periferie delle grandi città (basti pensare al caso teratologico di Cinisello Balsamo). Quali sono state le cause di questa proliferazione? Certamente, la liberalizzazione del commercio con la riduzione progressiva di ogni limite di orario di apertura e di tipologia di vendita, i finanziamenti pubblici per la riqualificazione delle aree dismesse dell’industria e pure l’opportunità per la criminalità organizzata di utilizzare la grande distribuzione per il riciclaggio del denaro sporco. Il risultato di questi processi è oggi la crisi della grande distribuzione, che è sotto i nostri occhi.

Orbene, prima di analizzare le cause di questa crisi conviene richiamare alcuni concetti esposti da Marx nel Capitale riguardo al capitale commerciale e al lavoro che viene impiegato nel commercio (il riferimento è alla quarta sezione del III libro del Capitale). Tali concetti riguardano i mutamenti di forma del capitale da merce in denaro e da denaro in merce, cioè il processo di circolazione del capitale, che è necessario per la realizzazione del plusvalore. Tutto ciò, osserva Marx, «costa tempo e forza-lavoro, ma non per creare valore, bensì per produrre la conversione del valore da una forma nell’altra». I costi di circolazione delle merci non aggiungono nuovo valore alle merci stesse e il capitale sborsato per la loro circolazione appartiene ai costi improduttivi, funzionali alla riproduzione capitalistica allargata.

Il capitale commerciale è, comunque, una parte del capitale monetario complessivo, una parte del capitale anticipato per la produzione; quindi il processo complessivo di riproduzione allargata comprende anche il processo della vendita-consumo delle merci, mediato dalla circolazione, in cui il capitalista commerciale si appropria di una parte del plusvalore già contenuto nelle merci. Chiaramente il capitalista commerciale immette nei processi di circolazione una quantità di valore inferiore, nella forma di denaro, rispetto a quella che poi ne estrarrà, ma questo avviene perché ciò che viene introdotto nella circolazione in forma di merce è già comprensivo di una quantità maggiore di valore. Il saggio medio del profitto (plusvalore / capitale costante + capitale variabile) viene infatti calcolato in base al capitale produttivo totale, aggiungendo a esso il profitto del capitale commerciale. Il capitalista industriale, il “produttore diretto”, non vende al commerciante le merci al loro prezzo di produzione, ossia al loro valore, ma ad un prezzo inferiore. L’effettivo prezzo della merce sarà quindi uguale al suo prezzo di produzione aumentato del profitto mercantile (commerciale). Il prezzo di vendita del commerciante è superiore a quello di acquisto di una data merce, perché il prezzo di acquisto è stato inferiore al valore totale della merce. In questo modo il capitalista commerciale partecipa alla ripartizione del profitto complessivo e se ne appropria con il lavoro non pagato dei suoi lavoratori.

Tornando all’analisi delle cause della crisi della grande distribuzione commerciale, molti sono i fattori: l’ipertrofico proliferare dei punti vendita, di cui si è detto, l’espansione dell’“hard discount”, la diffusione della spesa via Internet, il cambiamento dei gusti di una parte dei consumatori che preferiscono al prodotto massificato i mercatini ‘online’, le botteghe e i gruppi di acquisto, ma soprattutto la contrazione dei consumi provocata dalla crisi economica mondiale. Tutti fattori reali, legati alla concorrenza intercapitalistica, ma che non prendono in considerazione, o tendono a occultare, la causa principale, che è costituita anche in questo settore della circolazione delle merci dalla crisi di sovrapproduzione. È sufficiente infatti entrare in un centro commerciale per essere colti da un senso di vertigine e chiedersi nel contempo: “Ma chi comprerà tutte queste merci?”. La sovrapproduzione si riferisce naturalmente al consumo cosiddetto ‘di massa’, ovvero alla produzione di merci che rientrano nel consumo per la riproduzione della forza-lavoro ai livelli storicamente determinati. Per queste merci la domanda solvibile è costituita sostanzialmente dai salari dei lavoratori (salario diretto, indiretto e differito). Come è noto, i salari dei lavoratori sono in forte calo da qualche decennio e, di conseguenza, la sproporzione fra domanda e offerta tende costantemente ad aumentare. In un sistema concorrenziale puro, ipotizzabile solo in astratto, una situazione come quella descritta dovrebbe portare o a una distruzione delle merci in eccesso o a un calo drastico del prezzo delle merci in circolazione. Ma nulla di tutto questo avviene. Come si spiega questo fenomeno?

La risposta è la seguente: per quanto riguarda il livello dei prezzi, esso viene mantenuto artificialmente alto attraverso una politica monetaria espansiva basata su un aumento esponenziale del credito al consumo e quindi del debito privato, come si è visto negli USA prima dello scoppio della bolla immobiliare determinato dall’aumento delle insolvenze. Una politica monetaria simile è stata messa in pratica dalla BCE di Mario Draghi con l’azzeramento del costo del denaro e con il “quantitative easing”: tutte modalità con cui si è cercato vanamente di esorcizzare lo spettro triforme della duplice crisi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione del capitale con la correlativa caduta tendenziale del saggio di profitto. Un articolo che mi è capitato di leggere sul sito ‘online’ de “la Repubblica” di qualche anno fa suggeriva, peraltro, un’interpretazione ‘classista’ della crisi della grande distribuzione e del modello dei centri commerciali. Secondo tale articolo, la crisi dei centri commerciali non dipenderebbe dall’avanzata delle vendite ‘online’ o della ‘share economy’. La crisi sarebbe dovuta invece all’aumento delle disuguaglianze sociali, cioè alla polarizzazione nella distribuzione della ricchezza e quindi all’impoverimento della ‘middle class’, comprensiva di ceto medio e classe operaia, che porta con sé la crisi di quel modello di supermercato interclassista, trasversale, che si rivolgeva alla famiglia media americana.

Infine, vi è da considerare che la funzione di ‘socializzazione’ esercitata dai centri commerciali ha sostituito quella un tempo svolta da sindacati, partiti, associazioni civiche, ivi comprese le chiese, che hanno perso gran parte del proprio ruolo storico come centri d’incontro e di vita collettiva. Sennonché le proposte di parte capitalistica per superare la crisi non potranno che acuire tutte le contraddizioni in essere, anziché risolverle. Gli interessi dei grandi costruttori, dei politici locali e dei capitalisti della grande distribuzione commerciale tendono, infatti, a perpetuare un modello ormai obsoleto, incentrato sulla mercificazione e sull’alienazione totale non solo del consumo, ma anche del tempo libero e della vita dei lavoratori. Se il ritorno al piccolo commercio vicinale è un’utopia piccolo-borghese, il progresso ulteriore della grande distribuzione è invece una sorta di “cattivo infinito” destinato ad aggravare la crisi di sovrapproduzione, peggiorando le condizioni dei lavoratori di questo settore e fornendo alla popolazione merci e servizi sempre più cari e di qualità sempre più scadente.

 

2. La falsa alternativa alla GDO

La falsa alternativa alla crisi della Grande Distribuzione Organizzata è quella rappresentata dalla Lega Nazionale delle Cooperative. Immaginiamo allora che in una cittadina dell’Emilia Romagna, di cui è opportuno non fare il nome, buona parte della vita ruoti attorno a un’azienda che può essere denominata Coopquattro. Si tratta di una cooperativa costituita quasi cento anni fa da una decina di operai meccanici, decisi a sottrarsi allo sfruttamento e a uscire dalla miseria applicando i princìpi della mutualità e della solidarietà che stanno alla base della cooperazione. In tal modo questa azienda può vantare origini eroiche e, grazie a esse, può perfino qualificare le proprie attività come “etiche”. Quello che molti non sanno però è che su un migliaio di lavoratori appena un centinaio sono soci cooperatori, i quali lavorano in fabbrica come gli altri novecento. Sulla carta, lo stipendio è uguale per tutti indipendentemente dal fatto che siano soci oppure no. Solo che per i soci viene raddoppiato con una serie complessa di trucchi contabili. Naturalmente, anche i semplici dipendenti possono aspirare a diventare soci: basta che lavorino per anni e anni, con spirito devoto, e un giorno potranno presentare domanda. Un’inappellabile commissione di soci valuterà se l’aspirante possieda o no, oltre a una congrua somma di euro da investire come quota, anche i “requisiti morali” - così si chiamano - per entrare nella cerchia dei soci. Invece i figli dei soci diventano automaticamente soci per diritto di nascita, come accadeva nelle buone famiglie nobiliari di una volta.

Orbene, la Coopquattro domina la vita del Comune. Il Partito che fu comunista e che oggi si chiama PD ne è la principale filiale, l’ufficio del sindaco è una sorta di seconda sede dell’azienda e a Roma un deputato ne perora gli interessi. La Coopquattro sa governare la nebbiosa cittadina della Bassa Padana in maniera ‘prudente’, per citare un’espressione cara al lessico dalemiano usato dai dirigenti, evitando di commettere discriminazioni o reati clamorosi, assicurando servizi abbastanza puntuali e piazzando molti cartelli che vietano l’accesso alle aiuole ai cani, anche se tenuti al guinzaglio. Chi non conosce l’industria emiliano-romagnola probabilmente non si rende conto che le grandi cooperative sono gestite come tutte le altre aziende: i soci ingaggiano sul mercato un manager che ha lo scopo di far guadagnare il massimo alla società (e di farsi pagare ovviamente in proporzione). E poiché in tempi lontani le cooperative erano la proprietà di lavoratori privi di capitale, la legge prevede che gli utili debbano essere reinvestiti nell’azienda e non divisi tra i soci; in compenso, lo Stato evita di infierire con le tasse. Un bel principio, solo che i commercialisti provvedono egualmente a dividere gli utili tra i soci, mentre le cooperative hanno un ottimo vantaggio in termini fiscali sulle aziende private. Sicché il manager della Coopquattro oggi vende in Thailandia e compra in Uruguay, investe a Wall Street e riceve delegazioni di indiani e giapponesi tutti i giorni. Col bel risultato di far inferocire gli imprenditori privati del posto, che non sempre a torto sostengono che la Coopquattro rovina loro la piazza.

Ma vi è un altro insospettabile alleato del cooperativismo all’italiana: i liberisti americani che ritengono che le cooperative siano un’ottima soluzione per le aziende in via di fallimento. Thatcher e Reagan sono stati infatti i massimi promotori dello sviluppo del cooperativismo all’italiana anche in terra anglosassone. Essendo inoltre “imprenditori etici”, i manager della Coopquattro non si peritano anche di predicare, a differenza degli uomini d’affari comuni. E per questo pubblicano scritti e lanciano slogan pubblicitari con titoli come i seguenti: “Coniugare mercato e solidarietà”, “Una buona spesa può cambiare il mondo, “L’impresa sociale nel Terzo Millennio”. In conclusione, alla luce di quanto sinora esposto un fatto risulta ovvio: il mondo della Coopquattro, e quindi del partito che la Coopquattro tiene in piedi, è un mondo capitalistico, nel senso che rientra nel grande flusso planetario dei profitti, esattamente come vi rientrano tutte le aziende private. E il cuore di tale flusso si trova, come tutti sanno, a New York. È questo il motivo - economico - per cui i vari dirigenti della Coopquattro si scontreranno furiosamente con la destra quando si tratterà di decidere se concedere un terreno al Carrefour oppure all’Ipercoop; ma non potranno che schierarsi totalmente con la destra quando si tratterà di fare ‘business’, ignorare genocidi 1 o sostenere guerre.


Note
1 Una meritoria eccezione è l’iniziativa di alcuni supermercati Coop, in particolare Coop Alleanza 3.0, che hanno deciso di rimuovere dai loro scaffali i prodotti israeliani, in risposta alle richieste di alcuni soci e per sostenere la popolazione palestinese. Ben diverso è invece il comportamento di Carrefour, definibile senza mezzi termini come un facilitatore del genocidio in atto in Palestina. L’azienda francese ha infatti stretto una serie di partnership strategiche con Israele, ha aperto filiali negli insediamenti illegali e sostiene attivamente l’esercito israeliano durante l’assedio della Striscia di Gaza.
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Comments

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Paolo Selmi
Sunday, 03 August 2025 14:50
Carissimi Eros, Mario e AlsOb (non penso altri ritornino a distanza di giorni a scartabellare a ritroso, in tal caso carissimi tutti):

è domenica e di fronte allo schifo quotidiano ventiquattr'ore al giorno che ci tocca vivere, oggi compreso, almeno oggi a quest'ora non ritimbro entrata e non mi tocca pensare al lavoro per vivere.

E posso pensare a come sarebbe il mondo se.

Se, per esempio, avessimo a disposizione non solo la stanza dei bottoni, ma tutti i mezzi di produzione socializzati.

Lavoriamo ulteriormente di fantasia e supponiamo anche di avere non solo mezzi di produzione e competenze per gestirli, ma anche un Paese tipo Paese dei balocchi, dove le materie prime ci sono tutte (modello chiuso): non perché ci piace vincere facile, ma perché poi una volta fissati dei paletti il resto discende dagli stessi.

Quindi, ricapitolando
- siamo entrati nella stanza dei bottoni
- abbiamo a disposizione tutte le leve
- abbiamo letto bene il manuale d'istruzioni e sappiamo esattamente cosa fare per quello che vogliamo fare per dove dobbiamo andare (come neanche Totò e Peppino in Piazza Duomo)
- ci basta fare un buco per terra ed esce tutto.

A questo punto,
- primo passo: partiamo dalla legge del valore di Marx. Valore merce = ore di lavoro.
- secondo passo: lavoriamo sulle matrici input-output, ovvero facciamo la radiografia di ogni merce e ricostruiamo TUTTI i passaggi di fornitura fino all'estrazione delle materie prime dai suddetti buchi per terra.

A questo punto, calcoliamo le ore di lavoro per estrarre il petrolio necessario a produrre un chilo di plastica che finisce in grani in un estrusore che fonde il materiale in uno stampo che poi viene rifinito e diventa il fascione destro della mia macchina (prodotto finito). Fascione che viene trasportato in officina dove viene assemblato (costo di trasporto) e diviene macchina (altro prodotto finito) che finisce su una bisarca che la porta in concessionaria. Dove io firmo un pezzo di carta e la compro.

Dimenticavo, in tutto questo, anche le ore di lavoro necessarie delle brigate elettriciste alla centrale idroelettrica o termoelettrica per presenziare e regolare e manutenere le fasi dove la turbina opera, il rotore gira nello statore, il trasformatore trasforma in corrente alternata, il filo della corrente trasporta, il trasformatore ritrasforma in corrente continua, e la resistenza scalda il suddetto estrusore che trasforma i grani in poltiglia "plastica", per l'appunto.

Passo terzo: ho ricostruito la mappa delle ore di lavoro necessarie, allo stato tecnologico (e di automazione) esistente per far girare l'economia così come gira ora. Senza piani quinquennali, senza ancora decidere io dove tirare il boccino, ovvero dove indirizzare l'economia.

Passo quarto: ho una variabile INDIPENDENTE, in tutto questo. I lavoratori devono lavorare otto ore al giorno per quattro giorni la settimana e sette un quinto, oppure sei (38 / settimana).

Passo quinto: altra variabile INDIPENDENTE, il loro stipendio deve essere DIGNITOSO

Passo sesto: altra variabile INDIPENDENTE: SANITA', SCUOLA, ASSISTENZA SOCIALE, CULTURA, TUTTO GRATIS O A PREZZI CALMIERATISSIMI E PREVIDENZA PUBBLICA E CHE FUNZIONA (eh ma quante variabili indipendenti ci sono... e che caspita! sennò che socialismo è... faremo mica come i cinesi, prima economia del mondo e che hanno appena premiato i compagni padroni dell'anno! E nemmeno come NEP, ma come "grandi costruttori del socialismo con caratteristiche cinesi" (优秀中国特色社会主义事业建设者 qui un soggetto
https://t.me/daokedao/40120
e qui la lista completa
https://www.gov.cn/yaowen/liebiao/202507/content_7034392.htm

E no... c'è stato un momento, per settant'anni, in cui per socialismo si è intesa una società senza sfruttati e senza sfruttatori. E girava pure, pur coi suoi difetti, immancabili visto che nella storia non è MAI stato tentato niente di simile, e meglio sicuramente dello schifo attuale. Premiazione dei compagni padroni e dei loro conti off shore inclusi.

Torniamo a noi. abbiamo i la nostra mappa delle ore lavoro e i nostri paletti. Ora dobbiamo fare girare il tutto. In un sistema chiuso, lo ricordiamo, dove il petrolio e il gas e tutto quanto ci serve come materie prime lo abbiamo in casa. Cominciamo da qui.

I sovietici avevano un sistema molto simile a quello sopra descritto. Prima di pianificare, avevano tabelle complesse di input e output dove tutto il giro della forma merce dalla produzione al consumo, ivi compreso il terziario, era quantificato. Il socialismo è calcolo. E gli elaboratori in batteria, invece di esser buttati nel cesso per "scavare miniere" di bitcoin, potrebbero essere usati per fini ben più nobili, collegati in tempo reale a tutti i centri di produzione e distribuzione.

Il prezzo a questo punto, secondo la scuola sovietica, diventa
SEBESTOIMOST', ovvero costo di produzione
+
NORMA PRIBILY (e qui i sovietici mi facevano incazzare perché usavano lo stesso termine del capitalismo, cazzo, non potevano usare un po' di fantasia), ovvero "MARGINE DI UTILE" (e la differenza la scrivo io, perché col profitto capitalistico non c'entra un cazzo). Tale percentuale, fissiamola al 20% o a quel che vogliamo, è FISSA e PIANIFICATA. serve a far restare quattro soldi nelle casse dell'azienda, perché si romperà sempre una macchina, o saranno chiesti degli investimenti perché piove in mensa, o in sala riunioni, o entrambe non sono ancora a norma, o a qualcuno viene in mente un campo estivo per i bambini dei lavoratori, eccetera.

La forma merce, da grezza al finito che più finito non si può, sostanzialmente si carica in tutti i passaggi di sebestoimost'+norma pribily. E arriva alla fine con il PREZZO AL DETTAGLIO finale. sullo scaffale della cooperativa o del centro di distribuzione statale, ivi incluso la quota di stipendio del banconista che lo ha prezzato e sistemato in fila per sei col resto di zero.

IL SALARIO, A QUESTO PUNTO, SARÀ DETERMINATO DALLA QUANTITÀ DI CONSUMO PIANIFICATO PER UNA VITA DIGNITOSA + ANCHE QUI, UNA NORMA PRIBILY. UN MARGINE DI UTILE DA POTER RISPARMIARE, ACCANTONARE PER ACQUISTI IMPORTANTI (MACCHINA, ELETTRODOMESTICI, ECCETERA). NON CASA PERCHE' LA CASA È UN DIRITTO E IN QUANTO TALE ACCESSIBILE PREVIO UN CONTRIBUTO ANNUALE DI SPESE, DETTE ANCHE CONDOMINIALI, NELLE CITTA'.

A questo punto, abbiamo
- un monte lavoratori NOTO
- un monte salari NOTO
- un monte ore lavorate per produrre distribuire merce e organizzare i servizi per una vita dignitosa NOTO
- una quantità merce dal valore in ore lavorative NOTO
- una circolazione merce che corrisponde esattamente alla sua DISTRIBUZIONE e a prezzi fissi, pianificati.

A questo punto LA MONETA CIRCOLANTE SARA' FISSATA DALLA BANCA CENTRALE ESATTAMENTE COME EQUIVALENTE DEI PREZZI DELLA MERCE IN CIRCOLAZIONE PIU' NORMA PRIBILY DEI LAVORATORI CHE PERO', USCITA DALLA PORTA DEI SALARI, ENTRERA' DALLA FINESTRA NELLE BANCHE COME CONTI CORRENTI DEGLI STESSI COME CAPACITA' DI RISPARMIO (parola tabù di questi tempi...)

E avremo un equivalenza fra ORA LAVORATA e VALORE IN RUBLI CORRISPONDENTE (o lire, o talleri, o scudi, o moneta del popolo, o Falci e Martelli. In un sistema STABILE, quale quello sovietico.

CORRETTIVI A QUESTO PUNTO IN AGRICOLTURA. CERTO. PERCHÉ LE VACCHE POSSONO MORIRE O FARE POCO LATTE, IL GRANO PUO' ANDARE BENE UN ANNO E MALE QUELLO DOPO, ECCETERA. Si aggiusta CORRISPONDENTEMENTE il valore e la moneta circolante complessiva.

Veniamo ora a un sistema APERTO. importo materie prime. nella moneta dell'impero. Dollari. A questo punto il Paese dei Soviet deve avere riserva valutaria nella moneta dell'impero necessaria. Esportando e chiedendo pagamento in dollari.

Essendo la stessa mano quella che compra e quella che vende, il problema finché il saldo resta in attivo non si pone. L'Italia è un Paese che esporta.

Fine del sogno a occhi aperti.
Un abbraccio e un caro saluto col pugno ben chiuso a tutti
Paolo
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Paolo Selmi
Monday, 04 August 2025 08:09
PPS Ultima (in ordine cronologico) nota a margine: nel nostro modello teorico "chiuso" lo Stato inizialmente "fotografa" l'esistente. Ha il boccino in mano ma non lo lancia. E' già un modello complesso di suo, non introduciamo una variabile di questo tipo, soprattutto mentre l'inchiesta operaia è in corso.

Ora che tutto è stato fotografato, misurato, calcolato, ora che l'immenso organigramma dei dare e avere è stato costruito, lo Stato tira il boccino.

E orienta investimenti, costruzione o importazione di macchinari, approfondimento e sondaggi di siti estrattivi, a monte; a valle, aumento scuole, ospedali, assistenti sociali, eccetera.

A tal fine, influisce sulla politica dei prezzi? Certo, per il solo fatto che se imbottisco di macchinari un processo produttivo rispetto a un altro, ne abbasso consapevolmente, in maniera pianificata, le ore necessarie alla produzione e quindi il valore di scambio del prodotto finito.

Ma la può fare anche più sporca. Per esempio, imporre un PREZZO POLITICO a un nuovo bene o servizio che ritiene possa e debba essere introdotto nel paniere di ogni lavoratore, con "rimborso" che potrà avvenire grazie agli utili pregressi maturati nelle casse dello stato.

Fermo restando, nel caso del bene in questione, che potrebbe essere una misura temporanea in attesa, magari anch'essa pianificata (tempi di consegna di un anno o due per la piena messa a regime di nuovi impianti automatizzati), di riportare tale valore drogato alla sua "naturale" consistenza, in termini di ore lavorate, a quello stesso livello.
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Paolo Selmi
Sunday, 03 August 2025 15:44
PS su questa bibliografia e non solo concentrerò i miei studi spero al più presto possibile

История ценообразования в СССР https://istmat.org/node/68910
Цены и ценообразование в СССР в восстановительный период 1921-1928 гг. https://istmat.org/node/32839
Ценообразование в народном хозяйстве СССР https://istmat.org/node/26972

Una delle più grandi raccolte di materiali statistici, sovietici e non, sull'area un tempo ricoperta dall'URSS:
https://istmat.org/statistics

Più quel che verrà fuori come bibliografia cammin facendo.

Infine, un PPS. In un sistema come quello sopra descritto, i parametri di efficacia ed efficienza dati da migliorie sia nei macchinari (automazione) che nel processo lavorativo (minori sprechi, ideazione e attuazione di procedure operative migliori) concorrono alla RIDUZIONE PROGRESSIVA DEI PREZZI AL DETTAGLIO. Quindi conseguente aumento della capacità di risparmio, o del potere d'acquisto del lavoratore. Accaduto anche questo per davvero, e in URSS, nel secondo dopoguerra.
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AlsOb
Saturday, 02 August 2025 17:45
A margine, si potrebbe aggiungere che le considerazioni di Marx sul valore e sul non aggiungere valore relativamente al rapporto tra la sfera produttiva del surplus reale e quella “immateriale” di attività commerciali, (ampliata poi a includere i servizi amministrativi e contabili), non si limita a essere una disquisizione, con alcuni apparenti elementi sofistici, per tentate di raccordare analisi esoterica e essoterica e tenere conto delle discussioni sul concetto di lavoro produttivo e improduttivo, tanto più che in questo ultimo caso Marx tagliò la testa al toro e spiegò inequivocabilmente il significato di produttivo in ambito capitalistico, ma presenta dei caratteri di modernità.
La sua metafora dei macchinari che sarebbero sottratti alla produzione di surplus reale, per essere impiegati in funzioni collaterali e complementari, riesce a dare una idea della problematica, più che mai attuale, specie dopo la finanziarizzazione del capitalismo, connessa alla misurazione dei flussi monetari del PIL.
Il PIL dell’impero, per esempio, è come se includesse molteplici virtuali macchine, oltre il grado di utilità e efficienza auspicabile, per garantire una sofisticata struttura di estrazione di rendita a livello planetario e di concentrazione di reddito in pochissime mani.
Senza molto riguardo alla produzione di surplus reale nazionale.
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Paolo Selmi
Thursday, 31 July 2025 10:41
Grazie mille Eros,

analisi ineccepibile. Sul riciclaggio, mi son sempre chiesto, in questi vent'anni ormai di frequentazione, per così dire, "integrale", dello stivale e non solo della parte in cui risiedo, come potessero spuntare come funghi QUATTRO supermercati in un paese di meno di 5.000 abitanti per 10 mesi all'anno, già provvisto peraltro di storiche, frequentatissime e affezionatissime (con opposti schieramenti disposti a sperticare ore di elogi per l'uno o per l'altro) macellerie (due), pescherie (una), salumerie (sic! una), "furni" (panettieri due), fruttivendoli fissi (due) e ambulanti a gogò (ape cross del contadino, quattro o cinque), cantine e spacci vinicoli (tre). Questo, con un ipercoop a Surbo e un ipermercato Auchan a Mesagne, ovvero a un quarto d'ora di strada. Stavo colpevolmente dimenticando, infine, il supermercato cinese, appena aperto.

Un "offerta" da tratto della statale "SS 33" del Sempione in un posto con meno di un decimo degli abitanti su analogo territorio.

Questo, peraltro, su un territorio dove, per esempio, l'ortofrutta al supermercato è quasi una bestemmia: oggi tiro su tre chili di zucchine dal mio orto che porto alla cummare che mi da dodici uova per contraccambiare, poi per me sono troppe e ne porto sei al compare che è appena tornato con due angurie e me ne dà una, eccetera. Questo partendo dal semplice baratto esistente anche da noi fino a qualche tempo fa, scene che ho visto a casa di mia nonna fino a trent'anni... nonna di Modena che se fosse stato per la sua spesa settimanale al supermercatino del paese (gelato per il nonno, gusto amarena, immancabile, farina zero zero, olio, latte, fine della spesa) il supermercatino avrebbe chiuso.

Questo, peraltro, senza toccare altri aspetti della cosiddetta economia informale. Vengo a casa tua a imbiancarti la casa e, per ricambiare, mi porti tu a casa mia, così, din don, una cassa di uva ogni settimana. senza che ti dica niente. perché è giusto così.

Ed è giusto così. E ogni volta che vedo residui, sopravvivenza, questo modo di vivere, sinceramente mi commuovo. Non so nemmeno io perché. Forse perché non mi sento un numero, un conto corrente dove quello che entra a fine mese esce subito, non so. DA NOI CERCA DI PRENDERE PIEDE, FRA MILLE DIFFICOLTA', LA "BANCA DEL TEMPO". E' in ultima analisi un tentativo, meritorio, di ripristinare pratiche che i nostri nonni conoscevano benissimo senza chiamare banca e senza dover trovare un "equivalente universale" alle ripetizioni al figlio in cambio di un rubinetto riparato. Non so, davvero.

Torno sul pezzo: in un caso limite come quello esposto, con ampie quote di economia informale, DI RETI ORIZZONTALI DI SCAMBIO RECIPROCO, questi numeri, tolti i cinesi che forniscono tutto il "made in china" che non si può trovare in un pollaio o in un torchio, è inspiegabile senza ricorrere a categorie che introducono ALTRI fattori.

Grazie ancora di tutto, ti leggo anche sugli altri fronti ma fatico anche a metter giù due righe.

Un abbraccio
Paolo
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Mario Galati
Thursday, 31 July 2025 10:33
Aggiungerei, all'ottimo articolo di Eros Barone, che le Coop sono un ingranaggio del sistema capitalistico finanziarizzato, in quanto, più che la funzione di distribuire surrettiziamente utili ai soci (non so attraverso quali meccanismi. Credo che ciò avvenga più per amministratori e dirigenti, attraverso indennità e ruberie), svolgono il compito di drenare denaro e convogliarlo nel sistema finanziario e immobiliare, reinvestendo gli utili in questi settori per accrescere il patrimonio della società. Inoltre, partecipano al processo di privatizzazione dei servizi pubblici, favorendolo, ponendosi sul mercato privato e raccogliendo il denaro dei soci e non soci in questo settore. Con le polizze assicurative sanitarie private, per es., svolgono entrambe le funzioni prima descritte.
La destinazione per obblighi istituzionali di parte degli utili in spesa sociale copre ideologicamente (come gli slogans riferiti da Eros Barone) queste funzioni meno nobili per una utenza che vuole percepirsi come etica solidale, ambientalista e persino di sinistra.
Quanto alle Coop emiliane, dal punto di vista di classe, sono interclassiste dal ceto medio di riferimento in sù, poiché per l' utenza e il modello si separano nettamente dai discount e dai supermercati più economici frequentati da fasce più basse della popolazione (lavoratori più poveri e immigrati).
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