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ilpungolorosso

Referendum autonomista in Veneto-Lombardia

Un grosso bidone, ma pieno di veleni

di redazione Il cuneo rosso

class war is realI reali scopi dei promotori

Il 22 ottobre in Veneto e in Lombardia si terrà il referendum per l’autonomia. Finalmente – sostengono i due presidenti Zaia e Maroni – le regioni più virtuose d’Italia potranno tenersi i proventi delle tassazioni che sono oggi drenati da Roma (ladrona) e incrementare la loro efficienza, non solo nel campo dove eccellono, la sanità, ma in parecchi altri. Tutto talmente semplice e così vantaggioso che praticamente non esiste un fronte del NO, essendo la quasi totalità dei partiti schierati per una “responsabile autonomia”.

Fine del discorso? Non proprio.

Anzitutto, c’è un primo falso: non si potrà toccare il sistema tributario e contabile dello stato trattenendo l’80% dei proventi della tassazione raccolta dalle regioni, come spacciato dai promotori, in quanto è vietatissimo dalla Costituzione. Due anni fa la Corte costituzionale ha categoricamente escluso la possibilità di tenere un referendum su questa materia, bocciando anche la ipotetica consultazione sulla trasformazione del Veneto in regione a statuto speciale e, tanto più, quella sulla indipendenza del Veneto. Ciò che è rimasto è solo un mini-referendum consultivo per un po’ di autonomia in più, per qualche ulteriore competenza principalmente in materia di istruzione, tutela dell’ambiente, beni culturali, giudici di pace. Per tutto questo, è noto, non serviva il referendum; era sufficiente una semplice lettera al governo per iniziare il confronto stato-regione. È la via che sta seguendo l’Emilia-Romagna.

A che pro allora il referendum?

La chiamata alle urne ha due scopi: il primo è interno alla Lega e alla battaglia in corso nel centro-destra. Scimmiottando le ultra-destre europee, Salvini sta cercando di trasformare la vecchia Lega Nord in partito nazionale di stampo lepenista: più nazionalista che padanista; più aggressivo contro gli immigrati che contro i “terroni”; più cristiano del papa, anzi una vera e propria falange di crociati (dimentichi d’essere stati i ridicoli custodi degli antichi riti celtici); un partito sovranista, più critico verso i super-poteri di Bruxelles che verso Roma ladrona, dove spera di tornare finalmente a… rubare, e qualcosa in più dei modesti 48 milioni di euro arraffati a suo tempo, con falsi rimborsi spese, dalla banda Bossi-Belsito, collaterale costui della ‘ndrangheta (nord e sud uniti nella truffa: Bossi ha anticipato Salvini pure in questo). Il duo Zaia-Maroni si guarda bene dal tornare a blaterale di secessione, non si contrappone neppure alla mutazione della politica della Lega Nord in Lega (nazionale), che è in corso e sarà formalizzata a novembre con il nuovo nome; intende solo marcare con forza, attraverso un rinnovato consenso popolare, che anche in questo ennesimo riciclaggio, la Lega deve riservare al nord, e in specie all’asse lombardo-veneto, un surplus di potere e risorse.

Il secondo scopo dei referendum è quello di rilanciare e approfondire la frattura Nord-Sud, sia per accaparrarsi più risorse, sia per dividere ancora più a fondo la classe lavoratrice. Il primo intento è esplicito, il secondo resta implicito ma è altrettanto importante. La contrapposizione tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati, infatti, non basta più ad assicurare la pace sociale, dal momento che in Veneto e in Lombardia la condizione di milioni di lavoratori e di giovani si è fatta molto più precaria e pesante di anni fa, si è in certa misura meridionalizzata, proprio mentre sta arrivando al nord un crescente numero di giovani proletari meridionali della nuova emigrazione in fuga da un sud più disastrato di vent’anni fa. Pericoli sociali in vista! Meglio seminare preventivamente un altro po’ di veleni anti-meridionali.

 

Le promesse-truffa

Naturalmente la contesa interna alla Lega resta sottotraccia, molto ben nascosta. Se si sapesse che vengono rapinati dal bilancio pubblico 70 milioni di euro (è questo il costo dei due referendum) per un regolamento di conti tra Salvini, Maroni e Zaia, sarebbe un ottimo incentivo per non andare a votare. Per spingere i cittadini al voto i padrini del referendum spacciano invece massicciamente il seguente discorso: «è vero, per il momento ci è stato impedito di decidere quanto delle tasse si può trattenere qui in regione, ma per intanto cominciamo un percorso che alla fine, un passo alla volta, ci porterà proprio lì. Massima affluenza alle urne, quindi, per fare il massimo di pressione su Roma. È questo il modo per iniziare a liberarci dalla corruzione e dagli sprechi».

Argomento forte, perché è diffusa la convinzione – al 100% fondata – che intorno al governo centrale ci siano giganteschi giri di corruzione e di sprechi (pensiamo solo alla vicenda degli F-35), i cui costi sono accollati ai lavoratori tramite l’inflazione del debito pubblico. Nella propaganda leghista la corruzione e gli sprechi sono attribuiti da sempre a Roma, come fossero una malattia endemica del governo centrale da cui il nord sarebbe geneticamente immune. Ma questa versione dei fatti può stare in piedi solo se si cancellano gli enormi scandali che hanno investito tanto la Lega-partito, quanto le regioni del nord guidate da decenni dal centro-destra e dalla Lega. Già nel 1993, il carroccio era nato da poco, il tesoriere Patelli incassava 200 milioni di lire di mazzetta di finanziamento illecito dalla Montedison. Successivamente nei lunghi regni di Formigoni e Galan, due tra i massimi grassatori di stato degli ultimi 70 anni, la Lega ha svolto la funzione di loro fedele compagna di merende. Dal 2011 in poi, da quando la Lega è stata estromessa dal governo, è venuto giù il diluvio (il che, tra l’altro, la dice lunga sulla cosiddetta indipendenza della magistratura). Il tesoriere Belsito indagato per truffa, appropriazione indebita, riciclaggio, tangenti, distrazione di fondi pubblici per le spese della “Family” Bossi, e insieme al senatur, il padre-fondatore della Lega, condannato a rimborsare allo stato 48 milioni di euro di “soldi pubblici”, allegramente gestiti per tornaconti privati in un solo paio d’anni (e se si indagasse per gli altri anni…). Indi le dimissioni forzate di Cota, presidente del Piemonte accusato di peculato. Segue una sfilza di personaggi minori ma non troppo: Cavaliere, ex-presidente del consiglio regionale veneto, indagato per bancarotta e tangenti ricevute dalla Siram, un’impresa titolare di vari appalti pubblici; Balocchi, ex-tesoriere Lega, indagato per bancarotta; Boni, ex-presidente del consiglio regionale in  Lombardia, il Trota-Bossi e il deputato Bossetti, per rimborsi illeciti; Rizzi, consigliere regionale in Lombardia, arrestato per tangenti; Ballaman, ex-presidente del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, condannato in secondo grado a un anno di carcere per peculato. E ancora sindaci leghisti collusi con la malavita organizzata, etc… Insomma, c’è n’è abbastanza per affermare che il pesce-Lega puzza dalla testa, e che, autonome o meno, le due regioni chiamate al voto e il nord non sono affatto immuni dal marciume della corruzione e degli sprechi di stato, come pretendono gli smemorati promotori del referendum. Anzi! “Ladroni a casa nostra” è il felice slogan che riassume la politica e la pratica amministrativa leghista nell’intero nord.

 

La prova del nove: la sanità pubblica regalata al profitto privato

Forse, però, non è il caso di spaccare il capello in quattro. I promotori del referendum e buona parte dei cittadini e (purtroppo) dei lavoratori veneti e lombardi potrebbero sostenere che in questo quadro a tinte fosche sono comunque cresciute, come fiori in mezzo al letame, le sanità più virtuose d’Italia. Non è oro, però, tutto quello che luccica. Anche in queste regioni, dove le strutture sanitarie funzionano certo meglio che in Lazio o in Calabria, si è imboccato da anni il lungo piano inclinato che ha portato alla chiusura e all’accentramento dei presidi ospedalieri, alla privatizzazione della sanità, alle strutture private che a settembre hanno già terminato i regimi convenzionati, a delle liste d’attesa sempre più lunghe. E alla realizzazione di giganti dai piedi d’argilla come l’ospedale dell’Angelo di Mestre: dove la sanità veneta ha ridotto i posti letto rispetto all’ospedale che ha sostituito, promettendo una serie di strutture satellite che lo avrebbero dovuto affiancare come i reparti esterni di lungodegenza, o i centri di primo soccorso diffusi, di cui non si è vista neppure l’ombra. E l’ospedale, nato sulla carta come esempio di efficienza energetica, è diventato in realtà un mostro energivoro.

Ma per renderci conto di come funzioni la sanità in Veneto, andiamo a guardare un po’ dentro i “conti d’oro” di questo ospedale, come li ha definiti “il Sole 24 ore” del 6 ottobre 2014. L’ospedale è nato in base a un project financing, termine tecnico ingannevole che si traduce così: assicurazione di maxi-profitti a lungo termine per le imprese private concessionarie a spese dei conti pubblici, in primis dei lavoratori. Beneficiarie, in questo caso, sono le imprese Mantovani, Astaldi, Aerimpianti, Gemmo, Cofathec, Aps, Mattioli, studio Altieri. Consorziate nella Veneta Sanitaria, queste imprese, tirando fuori dalle proprie casse appena 20,5 milioni di euro, hanno ricevuto in regalo dalla Regione Veneto per 24 anni la gestione di tutti i servizi non sanitari e del laboratorio di diagnostica: un business da almeno 1,2-1,5 miliardi di euro l’anno, con altissimi margini di profitto, dell’ordine di centinaia di milioni di euro l’anno. La società di gestione, poi, è svincolata da ogni controllo. Per la sola costruzione dell’ospedale di Mestre la Regione Veneto ha dovuto accollarsi oneri finanziari a favore dei privati, delle banche e dell’erario, per 280 milioni! Ciò è avvenuto sotto la cupola di Forza-Italia Galan-Chisso, è vero; fatto sta, però, che Zaia non ha avuto nulla da obiettare fino a quando la Corte dei Conti non ha rilevato un “eccesso di remunerazione” per il concessionario. Che incasserà fino al 2033, oltre i maxi-profitti diretti, il canone pagato dall’Ulss 12 pari a 71,5 milioni di euro l’anno, a rischio-zero e con contabilità a trasparenza-zero. Solo in seguito a questo rilievo della Corte dei Conti, si è mossa l’Ulss interessata, ottenendo attraverso un lodo arbitrale il taglio del 10% del canone annuo. Ma anche dopo questo piccolo sconto, l’affare resta così goloso che si è fatto avanti il Fondo britannico-globale Equitix. Intanto, a proposito di sprechi, per far spazio alla nuova struttura ospedaliera, veniva buttata giù, nel perimetro del vecchio ospedale, una struttura da 10 milioni di euro inaugurata da appena 5 anni…

Il metodo del project financing è stato usato anche in Lombardia per la costruzione dei nuovi ospedali di Como e Garbagnate, in Veneto per quelli di Castelfranco, Montebelluna, Vicenza. E per tutti i casi vale quanto ha scritto il giurista Luca Bensi sul sito Salute internazionale: “In sintesi, il socio pubblico mette i soldi, garantisce per il privato [per i mutui che il privato accende], diventa il suo unico e obbligato cliente, si affida obbligatoriamente a un monopolista che gli gestisce i servizi, a cui paga onerosi canoni. Il tutto per essere alla fine del periodo di concessione pienamente proprietario dell’ospedale. Peccato che i periodi di concessione siano lunghissimi, vanno dai venti ai trenta anni, periodo al termine del quale l’opera necessita di una forte ristrutturazione. (…) Il socio pubblico, la collettività quindi, verrà in totale possesso dell’opera solo quando la stessa diventa vetusta e necessitante di ulteriori gravosi investimenti. Nel frattempo l’opera presenta delle diseconomie rigide e difficilmente comprimibili”. I costi di gestione sono sempre superiori a quelli della vecchia gestione interna o dei precedenti sistemi di appalto, “anche del 30, 40, 50%“. Un esempio perfetto di istituzioni locali autonome dello stato come le regioni già sono nel campo della salute, in tutto e per tutto al servizio delle imprese, del capitale, mentre i ticket che debbono pagare i malati crescono a doppia cifra (in Veneto + 15,2% nel biennio 2014-2015).

Il progressivo smantellamento del servizio sanitario nazionale pubblico ha il suo epicentro proprio nella Padania leghista, e coincide con la costruzione di ingenti fortune capitalistiche e di altrettanto ingenti arricchimenti dei pubblici amministratori (vedi ancora Lombardia). E questo processo non conosce soste. Un testo del SI-Cobas intitolato Milano da bere, a piccolissimi sorsi  denuncia che il piano della Regione Lombardia sulla “presa in carico dei malati cronici e/o fragili” del maggio 2017 è un passo decisivo verso il completo l’affossamento della sanità pubblica. Questo, nella più perfetta continuità con le politiche decise “a Roma” dal governo nazionale, nonostante la bolsa demagogia per cui tutto ciò che non va dipenderebbe dai tagli lineari operati dal governo centrale. La presunta razionalizzazione della sanità lombarda è in realtà questo: si tagliano i servizi; si trasformano i medici in gestori di budget al risparmio e insieme li si esautora, come medici, a favore dei gestori privati; si creano così ad arte spazi enormi per i profitti delle imprese della sanità privata, aggravando pesantemente i bilanci delle famiglie. E su tutto ciò, che è l’essenziale dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, non c’è alcuna tensione tra Roma/Partito democratico e l’asse leghista Milano/Venezia. Tutti insieme appassionatamente.

Il morbo non è solo lombardo-veneto. La sanità, che è il più importante campo di competenza delle regioni, è uno dei luoghi in cui la corruzione è più estesa e strutturale a livello nazionale. Un rapporto di Transparency del 2016, dall’interessante titolo “Curiamo la corruzione”, ha trovato “casi di malaffare nel 37% delle aziende sanitarie italiane negli ultimi 5 anni”, con almeno 300 milioni di euro di frodi nel solo 2015, laddove ormai sempre più spesso perfino per i malati di cancro è difficile accedere agli esami diagnostici, alle visite specialistiche, agli interventi chirurgici, alla radioterapia, e le visite domiciliari sono divenute un miraggio. Insomma: si tagliano i fondi per la sanità, però le pretese di profitto delle imprese e la corruzione degli amministratori pubblici diventano, se possibile, più aggressive. Per cui l’equazione più potere alle regioni = meno corruzione e meno sprechi è pura e semplice menzogna.

 

Ragioniamo per assurdo… e compaiono la flat tax al 15%, le zone speciali e lo stato di polizia!

Ma a tutto c’è un rimedio, pensa la stragrande maggioranza dei cittadini e dei lavoratori che andrà a votare sì il 22: se i soldi nostri si fermeranno in Veneto e Lombardia, tutto si risolverà per il meglio. Peccato, come abbiamo già detto, che il tema tributario sia intoccabile. Proviamo comunque a seguire ugualmente la banditesca propaganda leghista e di tutto il codazzo che cerca di salire sul carro del vincitore. Se il referendum vincerà, o meglio, visto che l’esito delle schede è più che scontato, se più della metà degli elettori si recherà alle urne, l’impegno è quello di trattenere il surplus di tassazione versato a “Roma ladrona” e che non ritorna nelle casse regionali. Si tratta di una ventina di miliardi di euro l’anno per il Veneto e di 53 miliardi per la Lombardia. Maroni ha dichiarato che gli sarebbe sufficiente trattenerne la metà, non è esoso. Ma in questo calcolo tanto strombazzato è nascosta un’altra truffa: il calcolo è fatto sulle attuali aliquote fiscali, sennonché la Lega e la destra berlusconiana, sulla scia di Trump e di altre destre ‘sovraniste’, sono per la radicale riduzione delle tasse. La Lega è per la flat tax al 15%. Si tratta di una tassazione ad aliquota unica tanto per il disoccupato in cassa integrazione, quanto per i parassiti che guadagnano il reddito medio annuale di un metalmeccanico o di un’insegnante in pochi giorni: tutti pagherebbero un tributo fisso del 15% di ciò che guadagnano. Anzi, al massimo il 15%: perché la flat tax è una mostruosità tale che perfino i tecnici leghisti hanno dovuto pensare a una qualche gradualità introducendo delle correzioni relative alle persone a carico; al netto delle deduzioni, solo i ceti più elevati arriveranno a versare allo stato o alle regioni il 15% dei loro redditi.

Veniamo al dunque. La flat tax è un modello di tassazione tipica di paesi devastati dalla guerra o dal repentino passaggio all’economia capitalistica dopo la frantumazione del blocco sovietico. Essa vige anche in paesi al limite dell’implosione finanziaria come Irlanda e Islanda. Uno strumento  tributario finalizzato unicamente ad attrarre capitali globali famelici di profitto che facciano ricadere le briciole (il 10, 15% appunto) sul terreno di caccia. Per quanto si vagheggi l’emersione del nero e l’invasione di capitali amici, la flat tax produce entrate nettamente inferiori a quelle della tassazione progressiva, anche moderatamente progressiva come quella attuale. Per questo motivo l’aliquota unica a bassa soglia è totalmente incapace di sostenere “servizi sviluppati, welfare sanitario e assistenziale avanzato, politiche di integrazioni al reddito”. Quindi i famosi miliardi che si fantastica di trattenere al livello regionale vanno più che dimezzati. E poi: trattenuti a favore di chi?

Fondamentalmente di imprenditori e medie e grandi imprese, al cui reddito e fatturato non sarebbe più applicata un’aliquota del 43%, bensì la ridicola aliquota del 15 % con un taglio dei 2/3! I beneficiari di una simile mega-regalia non si accorgerebbero dei servizi che verrebbero tagliati con una scelta tanto sciagurata (per i lavoratori): non prendono i treni dei pendolari, non hanno bisogno della cassa integrazione e già si rivolgono a strutture sanitarie private. Il dazio, che dazio!, verrebbe pagato da chi vive del proprio lavoro e usufruisce dei servizi pagati con il proprio salario.

Del resto, andiamo a vedere il programma che Maroni attuerebbe se aumentasse l’autonomia – ne ha parlato in una intervista a “Libero” il 21 agosto. Quale radioso futuro promette il presidente della regione Lombardia? La creazione di zone economiche speciali con sgravi fiscali speciali, un tappeto rosso per il padronato; altre infrastrutture (nuova cementificazione in una regione tra le più asfaltate?); la gestione diretta dell’ordine pubblico e delle forze di polizia. Innanzitutto contro gli immigrati, come la Lega va ripetendo a tamburo battente, ma anche contro la “povertà molesta”, quella che si vede e “disturba”, e va perciò criminalizzata (Minniti insegna). Il potere repressivo, però, non si ferma a colpire quanto reclamizza per legittimarsi: è facile prevedere che si avventerà su ogni forma di protesta, di rivendicazione per il miglioramento delle condizioni di vita. Un sistema repressivo lo è a trecentosessanta gradi, come dimostrano i tentativi di reprimere con la violenza il movimento di lotta nel settore della logistica: lo zoccolo duro era costituito in buona parte da immigrati (promessa di bastonate mantenuta), lavoratori (ecco la parte non detta) che rivendicavano dignità e rispetto dei contratti. L’impegno proclamato da Salvini sul prato di Pontida di cancellare le leggi sul divieto dell’apologia nazifascista è la vernice che dà il giusto colore all’apparato di repressione che è nei sogni del presidente della Lombardia e dei capi leghisti. Naturalmente Maroni mette nel suo programma anche uno zuccherino per i lavoratori, specchietto per allodole di una prospettiva che altrimenti sarebbe troppo smaccatamente pro-padronale e pro-capitale: aumentare gli stanziamenti per i servizi socio-sanitari per anziani e disabili. Con quali fondi, a questo punto, resta un mistero.

Niente di diverso si trova nel programma di Zaia, illustrato nel libretto Autonomia. Le 100 domande dei veneti a Luca Zaia. Con abilità costui finge che attraverso il referendum la regione si vedrà attribuire ampissimi poteri, quasi da stato indipendente, tace totalmente sulla flat tax che il suo partito intende introdurre e gonfia all’inverosimile ciò che un domani la regione divenuta più autonoma potrebbe fare. Nelle 76 pagine dell’opuscolo sono prudentemente scomparsi i termini corruzione e ladroni, che continuano ad essere usati massicciamente nella propaganda spicciola: si parla solo di “spreconi”… C’è altrettanta prudenza nel dire che il referendum è “perfettamente in linea con la Costituzione italiana”, anzi avrebbe il merito di attuare un “importante articolo (il 116)” della riforma costituzionale varata nel 2001 da D’Alema-Amato, “che è sempre stato indebitamente ignorato”. Ma, a leggere bene, è chiaro a chi andrebbe la polpa di un Veneto più autonomo: alle imprese sarebbe tolta l’Irap, sarebbe garantita una scuola “più aderente ai loro bisogni”, “politiche tese a incentivare gli investimenti con bandi, agevolazioni, finanziamenti agevolati”, nuovi servizi pubblici, procedure amministrative semplificate, un porto franco a Venezia con un numero di banchine “enormemente aumentato”, e “aree libere da tasse in cui ospitare attività manifatturiere di trasformazione e assemblaggio” (esiste già una prima free zone a Marghera). Insomma un piccolo Eldorado per i capitali nazionali e globali.

Del resto il federalismo è solo l’altra faccia del neo-liberismo. E il federalismo competitivo a cui si appella Zaia, un federalismo che è stato introdotto in Costituzione dal centro-sinistra, ha lo scopo di mettere in competizione tra loro i territori, ovvero i lavoratori dei diversi territori, per renderli il più attrattivi possibili per gli investimenti di capitale. Come? Elementare: assicurando il massimo di benefici possibili ai capitalisti, sul modello appunto del project financing dell’ospedale di Mestre, o delle disastrate repubblichette nate dalla disgregazione dell’ex-Jugoslavia. Ecco perché non c’è una sola parola, né di Maroni né di Zaia, contro la brutale precarizzazione del lavoro che devasta le vite di decine e centinaia di migliaia di lavoratori autoctoni e immigrati in queste aree, contro il dilagante metodo degli appalti e sub-appalti nella sanità regionale, e sulle sacche sempre più ampie di povertà e di emarginazione sociale (in Italia Mestre è la città che ha il record dei morti per eroina: 10 negli ultimi tre mesi). Si dà per scontato che povertà, precarietà ed emarginazione, prodotto anche delle politiche economiche volute dalla Lega, andranno a crescere: l’attuazione del federalismo reaganiano negli Stati Uniti ha significato esattamente questo. Liberismo e federalismo sono un binomio inscindibile, in cui il secondo termine è un attributo del primo. La formula giusta è: liberismo federalista, che tutto è salvo che anti-statalista, come pretende di essere. Al contrario è per la moltiplicazione degli apparati di stato, amministrativi e repressivi. La libertà di cui ciancia è la libertà dei capitali, non certo quella dei cittadini-lavoratori. E maggiore libertà per il capitale è uguale a maggior schiavitù e oppressione per il lavoro.

Esageriamo? Ecco allora un’anticipazione di come sarebbe gestito l’ordine pubblico in un Veneto ancora più autonomo. 3 ottobre 2017, vigilia del referendum: il consiglio regionale del Veneto approva, con i voti del centro-destra e (notabene) dei 5stelle, una proposta di legge statale presentata dal deputato regionale leghista Finozzi, che prevede di punire con la reclusione da 4 a 8 anni (ripetiamo: da 4 a 8 anni) “chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico, cagiona lesione personale a un pubblico ufficiale in servizio di ordine e sicurezza pubblica, anche con il lancio di oggetti, pericolosi o atti ad offendere, mentre impedisce che venga messo in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini o la commissione di reati”. Capìto? Inutile dire che i primi bersagli sarebbero le lotte gli immigrati, e a seguire tutto il resto.

 

Un grosso bidone, pieno di veleni

Dunque questo piccolo referendum è una grande truffa, un grosso bidone per i lavoratori, anche se molti di loro si immaginano il contrario, e sperano di trarne un qualche utile. Tra i pochissimi che lo hanno denunciato, poiché quasi tutti tacciono, c’è Rifondazione. La denuncia di Rifondazione richiama puntualmente “le concrete malefatte compiute in decenni di governo regionale” dalla Lega e dai suoi alleati, dal sostegno assicurato fino alla fine ai banchieri truffatori di Veneto Banca e della Banca popolare di Vicenza al coinvolgimento nelle tangenti-Mose (le più alte di sempre, a detta di Cantone, un altro magnifico primato dell'”onesta” classe borghese del Veneto), dagli occhi chiusi sull’inquinamento da Pfas ai tagli al trasporto pubblico, dal silenzio sulla quantità di morti sul lavoro alla crescita dei ticket sanitari, etc.. È una denuncia efficace, ma l’idea che il referendum di Zaia-Maroni sia inutile è radicalmente sbagliata. Perché quello messo in campo da Zaia-Maroni è sì un bidone nel senso di completa fregatura, in quanto promette ai comuni cittadini-lavoratori ciò che in nessun caso potrà mantenere, neppure se avessimo davanti 10-20 anni di grande sviluppo invece che di 10-20 anni di stagnazione (o peggio), ma è un grande bidone pieno di veleni. La propaganda referendaria, infatti, insistendo sull’identità e la virtuosità regionale in contrapposizione alla non-virtuosità delle regioni del sud, non fa altro che approfondire la linea di frattura tra i lavoratori: non solo tra immigrati e padani, a quello ci pensa la sanguinaria propaganda di Salvini, ma anche tra lavoratori lombardo-veneti e lavoratori del sud, accusati di vivere sulle spalle del nord.

Ed in questo l’intero arco costituzionale si ritrova unito. Perché anche la regione Emilia-Romagna a guida del centro-sinistra si muove nello stesso senso, mentre i leghisti della Romagna, a loro volta, insistono nella secessione dall’Emilia (trovando udienza anche negli altri partiti…). La via di uscita dal malessere e dai sacrifici del presente che si prospetta ai lavoratori attraverso i referendum per l’autonomia è una via alla catastrofe: massima concorrenza tra lavoratori, massima espansione degli apparati amministrativi e repressivi che parassitano sui lavoratori. Potenziare il regionalismo è la via sicura per balcanizzare ulteriormente la classe lavoratrice e ridurla, nella disgregazione, all’impotenza, spingendola alla lotta fratricida. Mentre, all’opposto, si favorisce la centralizzazione del capitale. Basti, nel piccolo, ancora una volta, l’esempio dell’ospedale di Mestre: dopo l’abbuffata di 7-8 medio-grandi imprese italiane, è in arrivo il capitale globale. Altro che la “vera democrazia” spacciata da Zaia, nel senso di maggior potere al “popolo”, e del potere che si avvicina ai “cittadini”! L’esatto contrario.

Le nostre sono posizioni contro-corrente, lo sappiamo. Anche nell’estrema sinistra che, quasi unanime, gioisce a squarciagola degli avvenimenti di Catalogna arrivando perfino a dimenticare chi sono stati e sono realmente i Mossos, chi  ha diretto politicamente negli ultimi 35 anni la Catalogna e avviato la corsa della Catalogna alla “indipendenza” (dimenticanze fatali, insieme a molte altre). Quella Catalogna dove Zaia ha inviato come osservatore il presidente del consiglio regionale Ciambetti con queste parole: “La piazza di Barcellona sta alla Catalogna come il voto al referendum del 22 al Veneto”. Ma c’è ben poco da gioire. In questa generale corsa alle “autonomie” regionali e territoriali, che anche Macron e Merkel s’apprestano ad assecondare in Francia e in Germania per indebolire ulteriormente il movimento operaio e attizzare ancora di più la concorrenza tra i lavoratori,  non c’è nulla di buono per i proletari. Prima lo si comprende e si reagisce, meglio è.

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gengiss
Tuesday, 17 October 2017 13:55
Ottimo intervento, manca solo il ruolo dell'Unione europea in tutto questo (chiaramente l'oligarchia finanziaria tifa per ogni richiesta di federalismo autonomismo o secessione, che indebolisca quel che resta degli Stati nazionali). Basta osservare i media ufficiali su Scozia Catalogna o referendum autonomisti.
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Francesco zucconi
Monday, 16 October 2017 23:58
Ottimo intervento! Non si potrebbe scrivere di meglio su quet'inganno del Feralismo! È incedibile che la sinistra
non veda l'arretrameno morald
e materiale che il federalismo rappresenta per il proletariato italiano!
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