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Fine di un'epoca?

di Giuliano Santoro

E’ finita veramente l’epoca di Silvio Berlusconi? Parto da una sgrammaticatura, cioè da una licenza autobiografica. Quando il serial leader salì al potere avevo diciott’anni. Il presidente cinese non era ancora l’uomo più potente del mondo, l’America latina era ancora governata dalle destre e le Torri gemelle erano ancora al loro posto.

Qualche anno prima, dopo che il telegiornale della sera aveva dato l’annuncio dell’avviso di garanzia a Bettino Craxi, i miei genitori avevano stappato una bottiglia di spumante tenuta in fresco per le grandi occasioni. La piazzale Loreto tutta mediatica di Mani Pulite, le monetine all’uscita del Rafael su un uomo già morto politicamente [«Vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste…»], l’assedio al parlamento dei giovani fascisti e le tele-piazze di Mediaset a favore dei magistrati avrebbero dovuto insospettirci. Ma due anni dopo, tutti pensammo che l’anomalia del Cavaliere alleato al nord con la Lega e al sud con i non-ancora-post fascisti non poteva durare.

Mentre ero in una montagna sperduta, in campeggio coi miei amici del liceo nell’ultima estate dell’adolescenza, discesi un sentiero per raggiungere una cabina telefonica.

Telefonai a casa e venni a sapere che Roberto Baggio aveva sbagliato il rigore decisivo a Usa ’94 contro il Brasile e che Umberto Bossi aveva scaricato il Berlusca, colpevole di voler tagliare le pensioni e sostenere il famigerato «colpo di spugna» per i «ladri» di Tangentopoli. Allora risalii il sentiero di corsa a informare i miei compagni di accampamento: avevamo una scusa ulteriore per festeggiare la nostra spensieratezza. Bevemmo vino rosso alla luce del fuoco del bivacco prendendoci gioco di Arrigo Sacchi e di Silvio Berlusconi. Ci immaginammo le nostre vite da studenti universitari nella nuova epoca.

Chiunque a diciott’anni pensa di essere al centro di eventi storici irripetibili. Quella volta spiegai ai miei amici che ci trovavamo al centro della storia. Il quadro era semplice: arrivavamo freschi freschi e allegramente spettinati dopo la fine della prima repubblica e in men che non si dica ci trovavamo al riparo dalla calata di Berluskane. I partiti erano al collasso e quella strana forma di militanza, all’incrocio tra i movimenti degli anni precedenti, le controculture e l’auto-organizzazione sociale e persino economica, avrebbe fatto grandi cose. Mi sbagliavo, come molte altre volte è accaduto. Dopo cinque anni di governi di centrosinistra l’uomo di Arcore tornò a palazzo Chigi e le strade di Genova diventarono il teatro di una feroce resa dei conti verso una generazione intera. La vittoria del centrodestra nel 2001 servì a consolidare un’egemonia che fino a quel momento avevamo percepito come strisciante. Nel luglio del 2002, la legge sull’immigrazione che ancora oggi porta il nome dei due eterni nemici-amici Bossi-Fini sancì una volta per tutte che le regole della produzione valevano molto di più di qualsiasi diritto umano. Ci trovavamo oltre qualsiasi simulazione liberale o liberista. Non si affidava alla fantomatica «mano invisibile» del mercato il compito di fare incontrare le due curve della domanda e dell’offerta di forza-lavoro. Semplicemente, si stabiliva che chiunque volesse godere del diritto a esistere come persona in Italia dovesse accettare le condizioni di lavoro che gli venivano proposte unilateralmente. Ci saremmo accorti che tutto ciò non riguardava solo i migranti.

«Non accade solo in Italia» ci dicevamo, ascoltando le tesi di chi descriveva la fine dell’egemonia della grande fabbrica, disegnava le sofisticate forme di controllo e costruiva mappe nel labirinto dei lavori disegnato dal pacchetto Treu. La puzza di muffa dell’iper-sfruttamento si accompagnava a cose nuove, come nel resto dell’Occidente che ballava sulla bolla telematica senza accorgersi di essere sull’orlo della crisi. Ma solo in Italia accadeva che la figura totalizzante di Berlusconi dilagasse. Ogni reazione per essere davvero efficace deve sapersi muovere nel campo della rivoluzione. La regoletta marxiana del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte e le analisi di Antonio Gramsci sulla «rivoluzione passiva» hanno trovato conferma nell’epoca berlusconiana, che si è mossa con disinvoltura sui terreni aperti dalle insorgenze del Novecento: la fine del lavoro salariato, la liberazione sessuale, la fine del monopolio dei mass media.

Nei giorni scorsi Bifo ha scritto, in una delle sue note acute che leggi tutte d’un fiato, che «i salvatori della patria che si delineano all’orizzonte, i Fini e i D’Alema non sono meglio dell’orco obnubilato dal delirio pornografico-senile. Sono peggio». Bifo dice: D’Alema è quello dei bombardamenti in Serbia e Fini quello della macelleria messicana del luglio 2001. Soprattutto, osserva che «non si esce dalla barbarie senza passare per la Resistenza». La storia di Tangentopoli dovrebbe insegnarci che le rivoluzioni «dall’alto» sono foriere di disastri peggio di quelle che hanno combattuto. E dovrebbero farci preoccupare di quanto avverrà nei prossimi mesi. Come è stato detto nella grande assemblea «Uniti contro la crisi» che si è tenuta alla Sapienza all’indomani del grande corteo della Fiom del 16 ottobre scorso, non basta far fuori il tiranno per risolvere i problemi. Il dibattito di scuola sull’efficacia del tirannicidio serve a inquadrare la situazione attuale. Dobbiamo chiederci anche se l’inutilità del tirannicidio, ovviamente mediatico e simbolico, conosca qualche eccezione.

Ma ci siamo accorti negli anni di come la capacità di Berlusconi fosse quella di utilizzare le stesse modalità di successo dei tormentoni di «Striscia la notizia» [il programma più visto della televisione italiana, negli anni zero], i codici linguistici dei cinepanettoni di De Sica e Boldi [i film più visti nelle sale italiane, negli anni zero] e l’ammiccante sciovinismo delle canzoni di Gigi D’Alessio [il cantante neomelodico ma di massa cioè la voce più ascoltata nelle banlieues d’Italia, negli anni zero]. Ci sono volte, casi rari, in cui una persona riesce davvero a catalizzare nella sua figura l’attenzione del popolo e in cui l’attenzione sulla struttura sociale e collettiva del potere deve tener presente anche la natura umana e individuale del potente. L’anomalia berlusconiana ha prodotto in questi lunghi sedici anni un’altra anomalia, per certi versi più inquietante e più duratura. Molte persone hanno conosciuto la loro formazione e si sono affacciate verso lo spazio pubblico in questi anni di trasmissioni a reti unificate. Tanti e tante hanno costruito la loro soggettività politica nell’opposizione a una persona fisica, ai suoi eccessi e alle sue mostruose gaffe istituzionali, tralasciando il fatto che Berlusconi è [stato?] effetto di qualcosa.

Come ha scritto in questi giorni giorni Wu Ming 1 , «’Berlusconi’ è una metonimia, l’effetto-per-la-causa», leggerlo per «indicare l’Italia attuale, il Paese che ha prodotto il personaggio». Uno dei motivi per cui avremmo dovuto combattere da subito la banalità antiberlusconista, è che il fenomeno Berlusconi e le forze sociali da esso innescate sono una meravigliosa risorsa analitica, un libro aperto da analizzare per interpretare le trasformazioni degli ultimi anni. Ecco perché, insieme ai rischi che Fini – quello della legge sull’immigrazione e di Genova – venga accolto come un liberatore, dobbiamo approfittare del momento che si apre. Forse, adesso invece di frignare di fronte a YouTube quando il premier rompe il protocollo reale di fronte alla regina Elisabetta [non Tulliani, quell’altra], qualcuno potrà occuparsi di cose più serie. Se non fosse che rischieremmo di sporcarci le labbra di cerone, dovremmo dare un bacio sulla fronte a quest’uomo che ci ha dato l’occasione di comprendere cosa è diventato il potere. Bisogna quindi guardare negli occhi il nostro nemico e riconoscervi i tratti salienti della contemporaneità. Sempre che qualcuno non ritenga sia ancora il caso di sciorinare l’elenco dei fallimenti di Berlusconi, magari almanaccando processi e gaffes presidenziali o diffondendo su Facebook il monologo di un comico divenuto capopopolo, illudendosi che serva ancora a qualcosa.

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