Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Contro la guerra. Come si può alzare il livello della lotta?

di Carlo Lucchesi

Foto news.pngPerché ci stiamo avvicinando al baratro di un conflitto senza ritorno nell’indifferenza generale? Perché la guerra in Ucraina e il massacro in Palestina hanno prodotto reazioni neppure minimamente paragonabili a quelle che abbiamo visto in altre simili circostanze? Perché il movimento per la pace vive di rare e piccole manifestazioni e non scuote le coscienze?

Questi interrogativi non sono all’ordine del giorno di alcuna forza politica, di alcun sindacato, di alcuna istituzione, di alcuna chiesa, sfiorano appena il mondo degli intellettuali, sembrano poco presenti persino tra le forze che meritoriamente quanto stentatamente provano a fare qualcosa.

Eppure è solo dalla risposta a queste domande che può nascere una lotta che abbia qualche possibilità di successo.

In prima battuta viene da pensare che l’assenza di partecipazione, emotiva oltre che politica, a eventi tanto tragici sia dovuta in gran parte al fatto che nel sentire comune vengono viste come guerre a noi vicine, ma non così tanto, che si tratta di due porzioni di mondo che non ci toccano direttamente, che sono destinate a restare in quegli ambiti, che non è facile farsi un’idea precisa di dove stanno le ragioni e dove i torti, perché ognuno dei contendenti almeno una piccola parte di ragione in fondo ce l’ha. E poi, comunque, finiranno là dove sono iniziate, perché nell’era nucleare non è immaginabile una guerra più grande, non è pensabile che ci sia qualcuno così folle da innescare un conflitto che metta a rischio l’intera umanità.

Considerazioni apparentemente ragionevoli come queste erano diffuse anche in un passato non molto lontano quando, però, di fronte a guerre più vicine, come quella nell’ex Jugoslavia, o più lontane, come quella in Iraq, la voglia e la capacità di reagire furono ben diverse. Dunque la risposta va cercata altrove.

Va cercata partendo da una premessa che è la sola che possa dare un senso alla battaglia per la pace contro i costruttori di guerre.

La premessa è che va pensata non come una battaglia di testimonianza umanitaria, ma come una battaglia che può e deve essere vinta. Da questo punto di vista la guerra che l’Occidente sta combattendo contro la Russia tramite l’Ucraina è oggi quella risolutiva, perché è lì che gli USA, il vero e unico dominus, hanno deciso di giocare le loro carte: la rottura di ogni legame fra Europa e Russia, la conquista di un pieno controllo politico del nostro continente ed un suo sostanziale ridimensionamento economico. Per rimettere le cose in discussione e cominciare a immaginare in altro modo i rapporti internazionali è necessario rompere in un punto importante, fosse anche un solo Paese a farlo, la sottomissione agli USA che la dirigenza della UE ha accettato senza dire verbo. Questo deve essere l’obiettivo e, per quanto difficile, rimane possibile, alla condizione che si sviluppi un grande movimento di lavoratori e di popolo.

Ecco perché la risposta agli interrogativi iniziali è prioritaria. Credo la si possa trovare nei due cambiamenti di scenario che più hanno concorso a portarci nel punto in cui siamo.

Il primo è l’approfondirsi della crisi politica e ideologica di tutte le maggiori organizzazioni rappresentative della sinistra e del mondo del lavoro. Pur con distinzioni significative, partiti e sindacati hanno gradualmente perduto la capacità di analizzare criticamente quanto accadeva sotto i loro occhi, quasi soggiogati dalla sua inevitabilità. Le trasformazioni del lavoro, della società, delle nuove forme che il potere veniva assumendo, sono state guardate, e talvolta contestate non nelle cause, ma nei loro esiti già determinati, quando cioè si potevano solo mitigare gli effetti, non certo modificarne i fini e neppure le traiettorie. E il venir meno di una propria, autonoma, capacità di lettura critica ha portato, e non poteva essere diversamente, al dileguarsi della prospettiva. A chi domandasse qual è il modello di società che le forze della sinistra perseguono, o anche semplicemente quali sono i suoi obiettivi non contingenti, credo che nessuno saprebbe rispondere, semplicemente perché quelle domande non sono più da tempo all’ordine del giorno di nessuna sua componente. Si opera alla giornata, quasi ora per ora, attenti ai sondaggi, agli umori e alle convenienze del momento, sempre comunque prigionieri della realtà così com’è, cioè quella di un Paese in cui il movimento operaio ha subito una sconfitta micidiale e i miti del neoliberismo, il mercato e l’individualismo, anche se non entusiasmano, tuttavia la fanno da padroni. Non c’è allora da sorprendersi se queste forze di fronte a queste guerre sono silenti, o danno un colpo al cerchio e uno alla botte, di sicuro non azzardano giudizi compromettenti, tanto meno vere mobilitazioni. Per opporsi sul serio a queste guerre occorrerebbe rivelare da cosa nascono, chi veramente le vuole e quali sono gli obiettivi che si propone. Occorrerebbe parlare dell’imperialismo degli USA, della sua crisi e della guerra, la più lunga possibile, come unica e ultima via d’uscita. Occorrerebbe dire ad alta voce qual è la vera origine della guerra in Ucraina, come fanno alcuni intellettuali statunitensi, invece di recitare la ridicola litania dell’aggressore e dell’aggredito. Occorrerebbe dire del patto fra Usa e Israele, del loro gioco delle parti, dove chi alimenta il fuoco ogni tanto prova a travestirsi da colomba, di quanto faccia comodo agli USA questo secondo fronte di guerra. Cose che questa sinistra non può dire perché la sola cosa che per lei conta è andare al governo e senza la benedizione degli USA è convinta che non ci si possa andare. Oggi non fanno presa neppure le parole di un papa, perché anche i cattolici non sono più l’esercito di una volta. Senza la spinta o quantomeno l’adesione convinta, anche se non necessariamente unanime, di grandi organizzazioni, il movimento per la pace non può essere riconosciuto come una forza in campo, e infatti non lo è.

Il secondo cambiamento sta nella conquista del totale controllo dell’informazione da parte delle classi dominanti. Non mi riferisco alla melonizzazione della Rai, che nell’ambito di questa conquista che riguarda tutto l’Occidente è un puro e transitorio dettaglio senza alcun peso. Occorre guardare da un lato alle forze che effettivamente detengono il potere, dall’altro alle molteplici forme che l’informazione ha assunto. Sul fronte del potere, la catena di comando è perfettamente evidente, almeno dal momento in cui gli USA hanno indotto l’Ucraina a innescare la guerra con la Russia e imposto all’Europa di mettersi al servizio degli interessi americani, cosa che l’Unione Europea ha puntualmente e supinamente accettato fino al punto da comportarsi come farebbe una qualunque colonia. I grandi tradizionali mezzi di comunicazione, giornali e televisioni, si sono subito asserviti. Salvo pochissime eccezioni, articoli e trasmissioni sono diventati non versioni di parte di una realtà complessa, ma vere e proprie deliberate manipolazioni di quella realtà. Quella cui assistiamo da noi, ma non diversamente nelle altre cosiddette democrazie occidentali, è un’informazione da Paesi in guerra. Il Bene è tutto dalla nostra parte, il Male tutto dall’altra, senza sfumature, senza il minimo dubbio, incuranti della orribile storia che abbiamo alle spalle e di cui diamo quotidiana e rinnovata testimonianza con l’ennesimo genocidio, stavolta quello dei palestinesi, perpetrato scientificamente da Israele e dagli USA, ma assecondato e protetto dall’intero Occidente. Non sfuggono a questo dispotico controllo quelli che avrebbero dovuto essere i canali di un’informazione finalmente democratica, perché tecnicamente aperta a tutti coloro che intendono esprimere e diffondere una libera opinione. Anche nei social, com’era facile immaginare, sono i centri del potere mondiale, di cui fanno organicamente parte i gruppi che li hanno creati, che decidono cosa deve circolare e cosa va tenuto nascosto. Il messaggio da recapitare deve essere univoco, perché la sua forza di persuasione dipende da non presentare smagliature e dall’insistenza con cui viene riproposto sempre uguale a se stesso.

Se uniamo la scomparsa di una sinistra effettivamente alternativa e la strutturale debolezza del sindacato, da un lato, con la piena presa di possesso dei mezzi di comunicazione e di informazione da parte delle forze dominanti, dall’altro, si capisce e si spiega bene l’inconsistenza del movimento per la pace. Nessuno può dire con certezza se e quanto siamo vicini a una guerra mondiale e nucleare, possibile se non probabile ultima stagione dell’umanità. Si può dire, però, con ragionevole sicurezza che, se non si provoca presto una rottura traumatica nel corso delle cose, dopo saremo soltanto costretti a prendere atto di ciò che accadrà. Non ci sarà più dato né tempo né modo per opporci. Siamo, oggi, esattamente nelle condizioni della rana immersa nella pentola con la temperatura dell’acqua che sale lentamente.

La questione prima - tale perché se non la si risolve non ce n’è una seconda, c’è solo la guerra definitiva - di cui tutti dovremmo occuparci è dunque come fermare questo treno che giorno per giorno si avvicina al precipizio o, quanto meno, come farlo deragliare prima dell’abisso. Ma chi sono questi tutti? Con il poco tempo che abbiamo davanti, non è immaginabile che a organizzare un’azione di rottura siano nella loro odierna configurazione le grandi organizzazioni, partiti, sindacati, grandi associazioni, che nel passato avevano dimostrato sul tema della pace ben altra volontà. Non è immaginabile che le variegate forze che si autodefiniscono di sinistra o progressiste restituiscano d’improvviso a questi termini il senso che dovrebbe essergli dato qui e ora, come non è immaginabile che i sindacati riescano a dare alla lotta contro la guerra il primato che meriterebbe, e così via. Dunque, per tutti vanno intese associazioni, piccoli gruppi, persone, quanti in posizioni minoritarie fanno parte di organizzazioni silenti o ambigue, insomma tutti coloro che possono prendere parola là dove essa possa trovare ascolto: esperti e intellettuali che abbiano ancora accesso ai media, insegnanti di ogni ordine nelle scuole e nelle facoltà, lavoratori nelle fabbriche e nei servizi pubblici e privati, sacerdoti nelle chiese, qualunque cittadino ovunque se ne presenti l’opportunità. E’ necessario che nel territorio queste forze si uniscano, formino dei coordinamenti, decidano insieme le iniziative da prendere per rendere più efficace la loro controinformazione promuovendo assemblee e utilizzando in modo coordinato tutti gli strumenti possibili, da quelli più antichi come i volantini e i manifesti, ai social, i flashmob e quant’altro sappiano inventare.

Prendere parola, per dire cosa? E’ qui che va compiuto un grande salto. Dallo scoppio della guerra in Ucraina non sono mancati interventi controcorrente, analisi e proposte che contestavano la versione main stream degli avvenimenti, quella che viene direttamente dagli USA e dalla NATO e che è ossequiosamente propalata dai maggiori organi di informazione. Chi se ne è reso protagonista ha dovuto subire offese e ostracismi in una partita che ha combattuto ad armi impari. Ma i loro contributi non hanno suscitato quella reazione che sarebbe occorsa, una reazione mobilitante. Probabilmente ciò è dipeso non solo dall’aver dovuto giocare in difesa o dal loro rispetto delle regole, ma anche dalla scelta di essere propositivi, di indicare responsabilità e soluzioni possibili, di tenere il confronto ancorato alla ragione, mentre dall’altra parte si faceva leva non sull’intelligenza ma sulle emozioni dell’ascoltatore accumulando falsità su falsità. Chi decide di prendere parola non può più confidare solo sulle propria capacità di argomentare, di spiegare, di convincere grazie alla evidenza della sua interpretazione dei fatti, deve unire a questa capacità quella di provocare nell’ascoltatore una scossa che lo induca a essere parte attiva di un movimento, di una lotta.

La prima cosa da dire, allora, è che l’allargamento della guerra e persino il ricorso alle armi nucleari sono un pericolo reale e ravvicinato, senza bisogno di pensare all’atto sconsiderato di qualche leader che va fuori di cervello. Da un lato c’è la Russia, che non può perdere la guerra perché ne va della sua stessa esistenza e che, quindi, prima di cedere ricorrerebbe verosimilmente all’ultima risorsa disponibile per evitarlo. Dall’altro ci sono gli USA e la Nato, con gli uni che dichiarano apertamente di non poter tollerare che alcun altro Paese metta in discussione la loro supremazia e che vedono nella guerra l’unico antidoto alla crisi della loro economia e, ancor più incombente, della loro egemonia, e l’altra, la Nato, vale a dire il braccio armato degli USA, pronta a obbedire a qualsiasi loro ordine anche a costo di esporre i Paesi che ne fanno parte a qualunque tipo di reazione. Dobbiamo avere paura! Questo va detto ovunque e a voce altissima, la stessa con cui va detto che non prenderemo parte a nessuna guerra della Nato, anche se fossimo il solo Paese a rifiutarsi.

Nello stesso tempo occorre far leva sugli interessi, su ciò di cui c’è bisogno, e denunciare apertamente dove ci sta portando il servilismo di gran parte della politica e dei media. Il discorso deve essere esplicito. Non c’è nessuna invasione russa all’orizzonte e l’unico pericolo per la democrazia può essere la crescita della destra in corso in tutte le parti d’Europa ma, molto di più, le conseguenze delle scelte che si sono compiute e che si vogliono confermare. Servire gli USA, come stanno facendo l’UE, l’Italia e i grandi media, significa affossare gli interessi dei popoli dell’Europa e del popolo italiano, peggiorare pesantemente le condizioni di vita, compromettere il futuro delle nuove generazioni. I grandi gruppi finanziari USA, solidamente intrecciati con il complesso militare-industriale e con i padroni dei Big Data, sono i veri registi delle decisioni politiche di quel paese e determinano quelle dei vertici della UE. Strapagare il gas agli USA invece che acquistarlo a prezzi convenienti dalla Russia, subire gli effetti di sanzioni che mettono in crisi i nostri sistemi produttivi, demolire lo stato sociale e privatizzare tutti i servizi remunerativi per far posto alle economie di guerra, è quanto abbiamo accettato, addirittura gioiosamente condiviso, senza batter ciglio ed è quanto siamo decisi ad accettare anche per il futuro. Armi al posto di un servizio sanitario pubblico davvero funzionante, armi invece di istruzione e formazione, armi e misere pensioni. Questa è la classe dirigente che guida la UE con il consenso del nostro paese accompagnato dal belato di quasi tutti i nostri media. Gli italiani devono sapere quali sono le forze reali che stanno giocando la partita, qual è la posta e quali sono le maschere che i protagonisti hanno indossato.

La guerra nucleare è un pericolo imminente, all’economia di guerra, con tutto ciò che significa anche in termini di libertà delle persone, stanno spalancando le porte. E’ l’ora di dire basta a squarciagola.

Pin It

Comments

Search Reset
0
luca benedini
Wednesday, 08 January 2025 19:47
Caro Carlo, sono profondamente d'accordo con te pressoché su tutto. Personalmente tendo ad essere un po' meno incline di te ad approfondire il lato "socialmente emotivo", ma mi rendo conto che è una mia caratteristica personale e che probabilmente è opportuno occuparsi ampiamente anche di quello, come proponi tu. Aggiungerei alcune cose, che cercherò di sintetizzare qui.

Questa scarsità di partecipazione popolare alla questione delle guerre in Ucraina e in Palestina (ma il governo Netanyahu sta trasformando la seconda delle due in una sorta di guerra mediorientale quasi generalizzata, facendo ammazzare dal suo esercito - come niente fosse - gruppi di civili del tutto innocenti qua e là pur di riuscire a colpire qualche presunto terrorista o qualche deposito di armi, nel più totale dispregio di aspetti riconosciuti e inequivocabili del diritto internazionale come le Convenzioni di Ginevra, i Princìpi di Norimberga e altro ancora) mi pare una prosecuzione della frattura tra "società civile" e mondo politico che esplose intorno al 2000 dopo le grandissime manifestazioni di Seattle: il mondo politico - non solo di destra e di centro, ma anche della cosiddetta sinistra - rifiuta di ascoltare la "società civile" (e sostanzialmente la prende in giro) e la "società civile" non sa o non vuole fare direttamente politica. Poiché la politica è comunque la chiave della "vita pubblica" e delle possibilità di trasformare in meglio o in peggio quest'ultima, questa frattura implica una tremenda impotenza concreta della "società civile" riguardo ai temi di tipo politico: le uniche cose che le rimangono sono le preziosissime azioni di aiuto (invio di cibo, medicine, ecc., accoglienza ai profughi, ecc.) rivolte alle popolazioni vittime di guerre, e inoltre le parole e la possibilità di fare manifestazioni di piazza; ma da un lato le parole dopo un po' stufano se non acquistano concretezza e incisività e dall'altro lato le manifestazioni sono destinate a perdere progressivamente di significato e soprattutto di forza se non riescono ad incidere sulla politica... In altre parole, come in quegli anni intorno al 2000, nella "società civile" dilaga il senso di impotenza e sempre di più si finisce col fare finta di nulla... E' una sorta di naturale autodifesa delle persone stesse... Solo gli attivisti più convinti - ma secondo me si tratta di una caratteristica personale di pochi, non di un aspetto "naturale" della personalità umana - continuano ad insistere sul prendere coscienza, sul fare comitati locali per la pace e per la nonviolenza, sul scendere in piazza, sul parlare di queste guerre con gli altri, ecc., ma questo non è "fare politica", non è incidere OGGI sulla vita pubblica: sono tentativi di incidere su un futuro - probabilmente molto lontano... - in cui con questa crescita della coscienza popolare i politici saranno finalmente "costretti" a cambiare strada. Oggi non c'è nessuna capacità di incidere veramente sui politici, finché ci si limiterà a questo tipo di approccio. Ovviamente neanche servirebbe l'approccio opposto, quello tipo "black bloc", cioè scendere violentemente in piazza e spaccare tutto finché i governi non pongono fine a queste guerre con la "loro" diplomazia... Sarebbe un approccio che oltre tutto giustificherebbe, con i governi che ci sono oggi, una sorta di criminalizzazione di tutti gli alternativi e di tutte le forme di lotta anche del tutto pacifiche (come mostra p.es. in Italia il "ddl sicurezza", che tenta già questa criminalizzazione anche senza bisogno di diffusi e violenti disordini alla "black bloc"...).

Ciò che servirebbe sarebbe risanare quella frattura, il che significa soprattutto che la "società civile" dovrebbe - come si faceva parecchi decenni fa - non chiedere pietosamente ai politici di fare la pace sviluppando loro le loro "arti diplomatiche", ma dire ai politici come si fa a fare quella pace, e se poi loro non la fanno allora ci si presenta alle prossime elezioni come una forza capace di governare in maniera umana e intelligente e, sperabilmente, di mandare a casa questi governi insulsi o addirittura apertamente guerrafondai. A sua volta questo vuol dire presentare proposte fattibili e concrete - e in sintonia col diritto internazionale vigente - per risolvere sia l'attuale aggressione putiniana all'Ucraina e la precedente guerriglia che si trascinava nel Donbass da quasi un decennio, sia la guerra tra l'esercito d'Israele e i gruppi armati palestinesi o arabi in generale. Personalmente ho avanzato una proposta del genere in questo sito già più di un anno fa ("https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/26534-luca-benedini-l-onu-e-il-conflitto-russo-ucraino-potenzialita-inattuate.html") e ho posto all'attenzione quella drammatica frattura tra mondo politico e "società civile" già più di un lustro fa ("https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14007-luca-benedini-dopo-gli-errori-di-seattle.html"). Ma le difficoltà di passare da una posizione di singolo movimento "specializzato" in una particolare tematica alla posizione di sviluppare un movimento capace di "fare politica" e quindi di occuparsi - a 360 gradi - dell'intera società sembrano schiacciare i vari movimenti della "società civile" facendoli restare ingabbiati ognuno nel suo proprio "orticello" (già denunciò fortemente questa tendenza Alex Zanotelli quando cercò di realizzare la "Rete di Lilliput", ma fu un inutile tentativo perché si scontrò con il diffuso e persistente "orticellismo" dei vari movimenti alternativi italiani e dei loro principali esponenti...). Parallelamente, da più di un secolo chi si muove nel campo della politica - che si tratti di quella teorica (in cui si approfondiscono le idee di Marx, Lenin, Stalin, Gandhi, Mao, Pol Pot, Deng o Putin (i quali purtroppo molti sembrano metterli tutti - tranne ovviamente Gandhi - nello stesso calderone senza neanche accorgersi intelligentemente delle loro diversità abissali...) o di quella pratica (in cui si cerca di entrare nella concreta sfera decisionale della politica corrente) - sembra quasi sempre divenire rapidamente autoreferenziale e non ascoltare più nessuno tranne gli altri che si sono specializzati nella politica o eventualmente i lobbysti che li corteggiano...

Uno degli aspetti fondamentali del riuscire efficacemente a "fare politica" sta nel riuscire ad avere sia una tattica efficace (come tra l'altro hanno mostrato Lenin, Mao, Fidel Castro, Ho Chi Minh e gli altri che hanno saputo abbattere dei poteri pesantemente classisti e autoritari come quelli che li precedevano) sia una strategia efficace (come nel '900 nessuno sembra aver mostrato, giacché i successi a breve termine ottenuti nel Terzo mondo dai gruppi rivoluzionari guidati da quei leader, o in Occidente dalle diffuse lotte sindacali e studentesche degli anni intorno al '68, si sono rapidamente consumati in un ritorno dell'autoritarismo e di una diversa forma di aspro classismo repressivo dopo quelle riuscite rivoluzioni e in un ritorno di un aspro ed elitario dirigismo economico-politico in Occidente. E' possibile che i gruppi alternativi che si impegnano attualmente soprattutto per espandere la coscienza pacifica e nonviolenta della gente, oltre che per dare una concreta mano alle popolazioni vittime di guerre, abbiano una strategia dotata di una certa efficacia, ma senza una tattica efficace quella strategia appare di una lentezza esasperante, rispetto alle tragedie che fanno parte dell'oggi e che sono previste sempre più nel futuro (come risultato, p.es., dell'effetto serra e di altre forme di inquinamento e di distruzione ambientale): in altre parole, è una strategia che potrebbe forse servire a ripartire più saggiamente dopo tremende distruzioni provocate qua e là da guerre, da disastri ambientali, da carestie, da epidemie, ecc., come già stiamo sostanzialmente vivendo su una scala alquanto minore delle fosche previsioni che ci aspettano (sempre ammesso che le distruzioni non siano così grosse da ritrascinarci in una sorta di medioevo: non si dimentichi che diverse popolazioni hanno miti e tradizioni che suggeriscono che già più volte l'umanità sia ritornata indietro a stadi decisamente primitivi come effetto di una sostanziale autodistruzione o di disastri naturali planetari). Ma è questo che vogliamo? E, soprattutto, è questo tutto quello che sappiamo fare? Non sappiamo fare altro che lasciare in queste tragedie gli ucraini, i palestinesi e altri ancora, guardando quasi solo a un lontano futuro? Preferiamo lasciare la politica ai politici attuali, piuttosto che proporre con forza e decisione un'alternativa effettiva ed efficace ai modi autoritari, classisti, patriarcali, elitari e repressivi di fare politica che continuiamo a vedere da un capo all'altro del pianeta...? Preferiamo continuare a fregarcene degli aspetti economici della vita delle popolazioni del Terzo mondo senza renderci conto che per il principio dei "vasi comunicanti" - che ormai è tutt'uno con la società planetaria umana a seguito della globalizzazione oltre che della mancanza di frontiere caratteristica dell'ecosistema terrestre - la debolezza sociale delle classi lavoratrici del Terzo mondo ricade ormai anche sulle classi lavoratrici dei paesi "sviluppati" e la paghiamo quotidianamente con grande pesantezza sotto forma di precarietà occupazionale, basse retribuzioni, servizi pubblici sempre più striminziti, disoccupazione, alti tassi di sfruttamento sul lavoro (che portano ad affaticameto, stress cronico, disturbi fisici vari, ecc.), e via dicendo...?

Pochissime voci cercano davvero di andare oltre la frattura in questione e oltre gli enormi limiti esistenziali e concettuali che la caratterizzano. Cerchiamo di approfondire questo percorso che cerca di superare tali limiti e di sviluppare così una più ampia e aperta capacità di dialogo e di interazione e una maggiore incisività creativa e collettiva!

Fraternamente, luca benedini
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit