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Pianificare non basta?

di Giovanni Di Benedetto

rm 43 2640Chi, ostinatamente, si pone il problema della trasformazione della società presente non può limitarsi soltanto a darne una descrizione critica, individuandone i limiti, le inadeguatezze e i punti di rottura. Oltre a formulare un’analisi che sia la più fedele possibile allo stato delle cose esistenti, deve anche provare ad esaminare le modalità con le quali, in passato, sono stati sperimentati i tentativi di cambiamento. Una tale osservazione vale a maggior ragione per il più importante, drammatico e straordinario tentativo di rottura rivoluzionaria con il capitalismo e di costruzione del socialismo compiuto lungo la storia del XX secolo. Quello relativo alla rivoluzione del ’17 e alla nascita dell’URSS.

Del sistema sovietico si sono date le definizioni teoriche più svariate e differenti: Stato operaio degenerato, collettivismo burocratico, capitalismo di Stato,  società di transizione al socialismo, società di transizione al capitalismo. E ancora, modo di produzione statuale, sistema di produzione asiatico, dispotismo statale interventista e dispotismo orientale. Il punto è, tuttavia, che nella misura in cui ognuna di queste definizioni può esprimere tracce di verità, essa comunque cela, al contempo, elementi di complessità più ampi e profondi. Peraltro, nessuna di tali definizioni può negare il fatto che, nella misura in cui l'Unione Sovietica si presentava come ‘un sistema socialista realmente esistente’, essa sembrava concretamente rappresentare un’alternativa reale e effettiva all’anarchia del capitalismo. Sì, proprio così, l’inaspettato successo della rivoluzione russa mostrò a tutto il mondo che una società socialista poteva essere edificata sulle macerie della guerra e di uno Stato imperialista.

È stato correttamente osservato (Alexander Höbel, Il crollo dell’Unione Sovietica. Fattori di crisi e interpretazioni in Problemi della transizione al socialismo in Urss) che la storia del socialismo sovietico richiede interpretazioni complesse, multiformi, in grado, soprattutto, di evidenziarne il carattere processuale, di svolgimento storico dalle cause molteplici. Come, del resto, molteplici sono i fattori di crisi. Isolare un singolo evento o fattore storico per assolutizzarlo in una dimensione astratta avulsa dal contesto rischia di condurre su sentieri interpretativi unilaterali. Il punto è che, nel tentativo di indagare cosa è stata l’URSS, diventa davvero impossibile astrarre la politica dall’economia così come la teoria dalla storia. Il momento in cui scoppia la rivoluzione bolscevica, per fare solo un esempio, deve essere storicizzato e collocato all’interno dello scenario della grande guerra. L’impero zarista era, rispetto alle potenze industriali dell’Occidente, molto più arretrato, sebbene al proprio interno vi fossero isole industriali (finanziate per la maggior parte da capitali stranieri, francesi soprattutto) di tutto rispetto. All’interno della divisione mondiale del lavoro occupava un ruolo secondario e subordinato, quasi periferico. Parimenti, nel corso della prima guerra mondiale fu del tutto evidente che la sconfitta delle velleità dei Romanov avrebbe comportato costi enormi in termini di vite umane e risorse economiche. Non si capisce nulla dell’esperimento sovietico, e dei suoi limiti, se si presta il fianco a quelle letture ideologiche che, operando una sorta di rimozione nient’affatto disinteressata della memoria, separano l’irruzione della rivoluzione dalla violenza belluina, dalle sofferenze spaventose e dalla ferina brutalità della trincea e del fronte di guerra.

Inoltre, giocò un ruolo decisivo, fin dal periodo della guerra civile, la condizione di isolamento, entro il cosiddetto cordone sanitario, dell’Unione Sovietica dal complesso del mercato mondiale. L’accerchiamento capitalistico dell’URSS agì in maniera decisiva sullo svolgimento del socialismo impedendogli quella libertà di programmazione e quella autonomia di azione di cui necessitava. Da qui la necessità di uno sviluppo produttivo forzato finalizzato alla crescita dell’industria pesante, per potenziare l’apparato militare, a scapito dell’agricoltura e dell’industria leggera produttrice di beni di consumo. Anche se già la Russia degli zar, come osserva Graziosi (L’URSS di Lenin e Stalin, Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945), aveva compiuto un notevole sforzo di modernizzazione e di industrializzazione per riparare, tra Otto e Novecento, alle sconfitte in Crimea e in seguito con ottomani e giapponesi, solo l’Unione Sovietica procede a tappe forzate verso l’industrializzazione: il fine era quello di guadagnare una modernizzazione dell’apparato militare (accumulazione militare) come unica strategia che poteva permettere la sopravvivenza nell’epoca dell’imperialismo. Certo, a parziale difesa di questo modello si può riconoscere che la crescita economica non era trascinata dalla massimizzazione del profitto a tutti i costi ma dalla necessità di ampliare la massa dei valori d'uso per soddisfare le esigenze sia dello Stato che della popolazione. Tuttavia, che questo svolgimento dei fatti storici abbia indirizzato la crescita dell’economia sovietica verso un orientamento produttivista e sviluppista, privilegiando il lato della quantità a scapito di quello della qualità, è fuori di dubbio. Così come è certo che gli effetti di un tale approccio hanno prodotto guasti, squilibri e distorsioni significative con ricadute devastanti in termini di alienazione e oppressione degli individui (proprio quei liberi produttori che si volevano classe dominante in Unione Sovietica) e di corruzione degli equilibri ambientali e ecosistemici.

Eppure, a muovere involontariamente verso questo esito era anche l’idea che, in particolari condizioni storicamente determinate, le deliberazioni razionali degli individui isolati potevano determinare esiti socialmente irrazionali. Da qui la necessità della proprietà statale dei mezzi di produzione, della pianificazione centralizzata e di un’economia controllata e diretta dai pubblici poteri. Uno degli obiettivi principali della pianificazione nei paesi del socialismo reale, e in particolare nell’URSS, era per l’appunto la proiezione del principio di razionalità dall’impresa privata alla società intesa nella sua interezza, in modo da garantire l’elemento dell’efficienza economica all’intera economia nazionale. Una tale finalità, come già è stato detto, era peraltro storicamente determinata dal bisogno, da parte di un paese profondamente arretrato, di mettersi al passo con i paesi imperialisti economicamente più forti e militarmente più aggressivi. Già a cavallo della prima metà degli anni ‘20 nel gruppo dirigente bolscevico era diffusa la consapevolezza che solo un’industrializzazione accelerata avrebbe potuto contribuire al mantenimento dell’indipendenza e alla salvaguardia dei confini nazionali dall’espansionismo occidentale. La grande guerra patriottica e la sconfitta del nazifascismo confermarono, almeno su questo punto, la correttezza di questo convincimento.

Il problema è che, ovviamente, lo svolgimento storico, i rapporti di forza tra le classi, all’interno, e tra  sistemi nazionali, all’esterno, e le dinamiche materiali non consentivano la riproduzione in vitro, nella sua purezza essenziale e astratta, del tentativo di dare un’organizzazione armonica e razionale, socialista, per l’appunto, del modo di produzione. Già Engels, a proposito dell’impero zarista, parlava di mnogoukladnost, ossia della compresenza di una pluralità, se così si può dire, di sistemi socioeconomici. Come ricorda Luigi Cortesi “in Russia, ammoniva Lenin, coesistevano varie economie che rappresentavano, quasi come strati archeologici sovrapposti, tempi storici diversi” (Storia del comunismo). Se una tale coesistenza risale fin dall’epoca dell’impero zarista, è nel socialismo sovietico che sono compresenti, innanzitutto, la sfera della nazionalizzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione statale, ma anche la sfera della produzione e dello scambio mercantili. Il loro rapporto sembra essere di crescita inversa visto che al dilatarsi della sfera mercantile decresce quella del piano e viceversa. Preobraženskij, economista, membro del Comitato Centrale e paladino dell’industrializzazione forzata e centralizzata, affermava che l’ampliamento della sfera dell’economia statale doveva passare necessariamente per la sistematica liquidazione degli elementi dell’economia di scambio. Da questo punto di vista, dato che l’inflazione doveva essere considerata una conseguenza inevitabile della politica economica sovietica, la stessa politica monetaria doveva salutare positivamente la caduta del valore della moneta.

Ma si torni ai principali fattori che caratterizzavano il socialismo reale. L'economia dell'URSS si basava sulla proprietà statale di tutti i principali mezzi di produzione e sulla pianificazione centralizzata come strumento attraverso il quale riaffermare la primazia di una regolazione cosciente e razionale. Almeno in questo, e non è poco, il sistema dell'URSS divergeva radicalmente dal laissez-faire analizzato da Marx a proposito del capitalismo concorrenziale della prima metà dell’Ottocento. Venendo a mancare la proprietà privata dei mezzi di produzione industriali e dei centri strategici del settore finanziario e bancario, e non essendoci concorrenza, i rapporti fra le singole imprese non erano regolamentati dalla “mano invisibile” del mercato. Ecco perché Stalin, sul quale il giudizio negativo è senza riserve, nel 1952 poteva sostenere che “la legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza e dell'anarchia della produzione nel capitalismo. È sorta sulla base della socializzazione dei mezzi di produzione, dopo che la legge della concorrenza e dell'anarchia della produzione aveva perduto la sua efficacia” (Problemi economici del socialismo nell’URSS). Da qui, peraltro, derivava anche il fatto che, in tal modo, si potevano scongiurare gli scompensi del ciclo economico capitalistico con le sue altalenanti oscillazioni tra sovrapproduzione e crisi.

Eppure, la proprietà statale dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza e la regolazione della produzione non mette affatto in discussione la relazione sociale fondata sul lavoro salariato (Aufheben, What was the USSR). Anzi, si può ben dire che in Unione Sovietica alla progettazione dei produttori liberamente associati si sostituiva il piano elaborato verticisticamente dallo Stato e calato arbitrariamente su individui isolati e atomizzati. Insomma, lo sfruttamento di classe non scompare sol perché il piano sostituisce il mercato come regolatore della produzione di merci. Al contrario, se i rapporti sociali di produzione rimangono imperniati sul lavoro salariato, i lavoratori, nella vendita della loro forza-lavoro per le varie imprese di Stato, non soddisfano immediatamente i loro bisogni, ma devono mediare tale soddisfacimento per mezzo di un salario. Da questa prospettiva, agli occhi del lavoratore salariato risultavano parimenti estranei sia gli imperativi del mercato competitivo che quelli della pianificazione statale. Non faceva differenza se lo sfruttamento di classe era dovuto agli istinti predatori del capitalista o a quelli altrettanto famelici di una casta di burocrati. Insomma, in Unione Sovietica l’economia pianificata non era fondata, come aveva teorizzato Marx, sulla gestione e il controllo dei liberi produttori associati. Né la regolazione della produzione aveva reso il lavoro immediatamente sociale.

Infatti, il problema relativo alla conciliazione dei bisogni sociali con il lavoro alienato non faceva che riflettere proprio il fatto che si voleva che, in Unione Sovietica, la legge del valore fosse rimpiazzata dalla pianificazione statale. Tutto ciò aveva importanti ricadute per la forma e le funzioni del denaro entro il circuito del capitale produttivo. Si trattava cioè del problema, noto alla ricerca economica fin dagli anni ’30, della natura, si potrebbe dire dicotomica, del concetto di prezzo. Se era lo Stato a allocare il capitale nei diversi settori produttivi, a determinare gli outputs e a definire i prezzi, ne conseguiva che il valore delle merci non era convalidato, attraverso l’atto della vendita e del successivo acquisto, dalla loro trasformazione in denaro. Entro la sfera delle relazioni mercantili regolate dallo scambio la merce ha un prezzo e il suo valore viene espresso in una certa somma di denaro. Così il denaro appare come forma indipendente ed esterna del valore della merce. In Unione Sovietica, tuttavia, il denaro non assumeva la forma di valore universale e indipendente ma restava vincolato alle funzioni necessarie per la fase della semplice circolazione delle merci. All’interno di rapporti di produzione, che impedivano che il denaro potesse trasformarsi in capitale monetario, vigeva esclusivamente la sua utilizzazione come unità di conto. Era sulla base di queste   valutazioni che sempre Stalin poteva affermare che “la legge del valore può regolare la produzione solo nel capitalismo, quando esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, quando esistono la concorrenza, l'anarchia della produzione e le crisi di sovrapproduzione. (…) Da noi il campo d'azione della legge del valore è limitato dall'esistenza della proprietà sociale dei mezzi di produzione, dal fatto che vige la legge dello sviluppo pianificato dell'economia nazionale e, per conseguenza, questo campo è anche limitato dai nostri piani annuali e quinquennali, che rispecchiano per approssimazione le esigenze di questa legge.” (Problemi economici del socialismo nell’URSS).

Dentro la sfera della proprietà statale dei mezzi di produzione e della pianificazione, il denaro, in quanto legato al circuito specifico del capitale produttivo, non poteva essere ritirato e poi immesso in un altro circuito ma si limitava a facilitare lo scambio di uno specifico insieme di merci con un'altra serie di merci. Era il piano che stabiliva a priori il valore delle merci. Come conseguenza, in URSS l'accumulazione di capitale divenne subito qualcosa che poteva essere espressa in termini di quantità di valori d'uso prodotti (unità di trattori, tonnellate di acciaio, ecc). Tuttavia, senza il pieno sviluppo del denaro come capitale monetario il contenuto di tali valori d'uso poteva non essere necessariamente conforme alle esigenze della riproduzione sociale. Ed era quello che di fatto accadeva. Se la qualità dei valori d'uso delle merci era garantita non dal denaro, e quindi dall'acquirente, ma dal piano statale, poteva accadere che non incontrasse le preferenze dei lavoratori produttori e più in generale che non fosse conforme ai bisogni sociali.

Dalle tesi sopra esposte derivava, secondo Aufheben, la persistenza di forme sociali che potevano essere condensate nella cronica difettosità della produzione, in un persistente assenteismo, in una diffusa insubordinazione nei luoghi di lavoro e in forme di corruzione, clientelismo, economia sommersa e mercato nero (il sistema noto come blat). Nella misura in cui le esigenze tecniche e sociali si sviluppavano al di fuori del quadro prescritto dal piano statale, esse dovevano essere articolate e mediate da qualcosa di diverso del denaro. Se è vero che lo stesso potere d'acquisto della moneta era limitato ne consegue che si ampliava lo spazio per le relazioni sociali non monetarie, per il peso dell’influenza personale, per i favori e le relazioni clientelari, tutti tratti caratterizzanti la burocrazia sovietica.

Restando fermi questi rilievi, certamente veridici, vengono tuttavia rimossi, da questa analisi, i fattori decisivi del contesto storico dal quale emerge la rivoluzione bolscevica e, soprattutto, lo spettro delle molteplici finalità su cui incideva la pianificazione intesa come principio di una nuova economia politica. Il fatto è che la questione del piano va intesa, ad un livello più astratto, come strategia che aveva quale obiettivo primario quello di definire un particolare assetto delle relazioni sociali e, dunque, delle stesse condotte individuali. In sostanza, i rapporti sociali dovevano assumere una fisionomia tale da poter riflettere, innanzitutto, il primato di un’idea politica di società fondata sulla ripartizione egualitaria delle risorse, rendendo, per questa via, subalterna, per fare riferimento a quanto teorizzato da Bettelheim, la rilevanza monetaria del processo economico. Era, cioè, il convincimento che l’efficacia della politica economica sostenuta dal Gosplan e dai poteri pubblici nel loro complesso si sarebbe misurata non in relazione alla profittabilità economica e monetaria ma nella misura in cui si fosse sviluppata, nella sua più ampia estensione possibile, la dimensione dell’utilità sociale. Si trattava di fondare un nuovo rapporto tra politica e società e, dunque, della decisione strategica del potere pubblico relativa a cosa, come, quanto e per chi produrre, e questo a partire dalla individuazione delle risorse da ripartire nei diversi settori produttivi per finire alla distribuzione del prodotto sociale.

Come scriveva Hobsbawm ne Il secolo breve una riproposizione del modello di socialismo sperimentato in Unione Sovietica non è né possibile né desiderabile. Tuttavia, le distorsioni nell'economia politica dell'URSS e le contraddizioni di una società, da un certo momento in poi, bloccata e degenerata, non devono farci dimenticare che questi temi rimangono di un’urgenza dirimente anche per la formazione sociale nella quale viviamo, fondata sul modo di produzione capitalistico che, almeno apparentemente, sembra avere soggiogato sotto il proprio maglio l’intero pianeta. È tutto da dimostrare fino a che punto i guasti del modello sovietico possano mettere in discussione il disegno di una società fondata sulla primazia imposta al movente economico, sulla proprietà sociale e sulla direzione pianificata dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio. Anche per noi, infatti, si tratta di porre all’ordine del giorno il tentativo di istituzionalizzare, se così si può dire, un modello di funzionamento della formazione sociale orientato su criteri radicalmente differenti da quelli della redditività monetaria. Il problema è capire se e in che modo si riuscirà a mettere al centro della discussione pubblica questa priorità strategica. 

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