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Tra moltitudini e populismi1

di Salvatore Muscolino

ivan03 100x72 714x476Un’altra tipologia di critiche nei confronti del liberalismo e del capitalismo è quella propria di quegli autori i quali, con strategie e punti di riferimento diversi, hanno provato a rovesciare la logica liberale dominante in favore di una critica sociale che parta dal basso e che valorizza l’attivismo, la creatività, l’autenticità dei “popoli” o delle “moltitudini” in ordine alla rottura o, meglio, alla resistenza nei confronti del paradigma liberale dominante. Nel corso del Novecento è possibile distinguere, per linee generali due varianti di questa sensibilità antiliberale, una di destra e una di sinistra. Inoltre, è giusto ricordare che vari regimi politici antiliberali hanno talvolta trovato un alleato in settori interni al mondo cristiano i quali, seppur con finalità e motivazioni diverse, nutrivano un’analoga ostilità nei confronti dei nuovi valori capitalistici e liberali.

Pertanto, nei prossimi sottoparagrafi proverò a fornire un quadro sintetico, ma spero esaustivo sul piano concettuale, di queste varie forme di critiche “dal basso” della tradizione liberale e capitalistica.

 

1. Fascismi, populismi di destra e cattolicesimo antiliberale

L’esperienza storica del nazismo e del fascismo rappresenta una lotta radicale, dagli esiti tragici, contro l’affermazione dei valori liberal-democratici.

Riferendosi all’ideologia fascista, Bobbio ne ha indicato il carattere fondamentale nel suo essere un’ideologia “contro” tutto il patrimonio di valori, di idee e di sensibilità figlie della tradizione dei lumi e ai quali Bobbio si riferisce con il termine democrazia: «Ciò che fa della democrazia la figlia primogenita dell’illuminismo è la concezione, che alle teorie democratiche viene attribuita, della società e dello stato: individualistica, non solidaristica, meccanicistica, non organica, quantitativa, ma non qualitativa, naturalistica, o addirittura materialistica, non spiritualistica, atomistica e atomizzante, non comunitaria».2

Il patrimonio concettuale che Bobbio attribuisce al fascismo è affine a quello del nazismo ma, più in generale, a quello dei tanti regimi populisti e autoritari di destra (dal franchismo al peronismo)3 che hanno attraversato la storia del Novecento e che sono caratterizzati dalla negazione dell’individuo in favore della nazione, dalla priorità del popolo rispetto al ceto medio e da una concezione forte dell’identità nazionale su base etnico-razziale e, in certi casi, addirittura religiosa.4

Le origini filosofiche di questa tradizione antiliberale e antidemocratica risalgono almeno all’Ottocento quando l’avanzamento degli ideali illuministi è ostacolato da resistenze culturali che confluiscono nel vasto alveo del Romanticismo, in particolare quello tedesco. Uno degli elementi centrali di questo movimento di reazione è la visione decadente della storia causata dalla diffusione dei nuovi valori democratici: «Questa polemica contro la democrazia, scrive ancora Bobbio, è continuamente accompagnata dalla lamentela sulla decadenza dei valori dello spirito, delle virtù eroiche, che erano proprie di altre età. In questa condanna s’incontrano nostalgie aristocratiche, risentimenti piccolo-borghesi e interessate idealizzazioni del mondo contadino: voci concordi contro il grande nemico, se pur discordi tra loro, che provengono dalle terre sommerse della storia».5

In ambito filosofico, se si prendono in considerazione autori come Nietzsche, Heidegger e Schmitt, solo per ricordare i nomi più famosi, è possibile notare come tutti siano accomunati da questo fermo rifiuto dei principi tipici dell’universalismo liberal-democratico. Le parole chiave delle loro filosofie (volontà di potenza, distinzione amico/nemico, antiumanismo) recepiscono e sviluppano in modo più radicale il patrimonio di valori antiborghesi e antidemocratici che caratterizzano il dibattito europeo, e tedesco in particolare, dopo la Rivoluzione francese.

Sulla base di una analoga sensibilità conservatrice, anche la cattolicità, legata nell’Ottocento al mantenimento dello status quo sociale e politico, si è mostrata refrattaria, soprattutto a livello gerarchico, ad accettare pienamente i nuovi valori e le nuove idee relative al mercato, ai diritti e alle libertà individuali.

Questo humus antiliberale da un punto di vista teologico e concettuale rimane dominante grosso modo fino al Concilio Vaticano II e spiega anche i legami che si sono venuti a istaurare nel Novecento tra settori della Chiesa, ivi comprese le alte gerarchie, e vari regimi autoritari di destra soprattutto, durante il periodo della Guerra Fredda in chiave anticomunista. Da un punto di vista concettuale, gli elementi sui quali regimi come quelli franchista o peronista incontrano se non l’approvazione, quantomeno una profonda vicinanza, con certo cattolicesimo, sono proprio l’ostilità verso i concetti di individuo, di libertà, di profitto, ossia tutto quell’insieme di valori percepiti come fonte di decadimento della natura spirituale dell’uomo e della sua dimensione sociale: famiglia, Stato e identità nazionale (cattolica!) diventano così le parole d’ordine in nome delle quali vari episcopati cattolici nazionali, ma anche la gerarchia romana, trovano un terreno di dialogo in chiave anticomunista con movimenti in senso lato fascisti, autoritari o populisti.

Solo con il Concilio Vaticano II, le correnti più aperte del cattolicesimo, fino ad allora minoritarie, riescono a imporre una sensibilità più aperta nei confronti della modernità e dei valori liberal-democratici. Un contributo importante è provenuto senza dubbio dagli Stati Uniti dove il cattolicesimo locale si è sviluppato misurandosi da subito con le sfide e le opportunità offerte da una società democratica profondamente diversa rispetto a quella europea ottocentesca. Per questa ragione, il cattolicesimo nordamericano ha costituito uno stimolo costante per la cattolicità del Vecchio Mondo preparando la strada per le innovazioni del Concilio Vaticano II.6 Tutta la storia post-conciliare della Chiesa cattolica si gioca pertanto nella dialettica tra tante e diverse anime teologico-filosofiche che presuppongono, come è naturale che sia, ermeneutiche spesso assai differenti su quale sia il posto e la missione della Chiesa nel mondo e su quali siano gli strumenti più idonei per rispondere alle sfide della contemporaneità.

Dopo il fallimento del comunismo reale e a seguito dei processi di globalizzazione, il mondo in cui viviamo oggi è sembrato per un attimo convergere verso l’assunzione del modello occidentale come modello tout court valido a livello globale. Questa diagnosi è stata, come noto, ampiamente smentita sia perché il mondo non si è affatto occidentalizzato sul piano dei valori, sia perché l’Occidente e, in particolare l’Europa, attraversano oggi una profonda crisi economica e culturale che, nell’attuale situazione multipolare successiva alla Guerra Fredda, rende l’Occidente meno sicuro di sé e più marginale rispetto al passato.

Dal suo punto di vista, la Chiesa Cattolica ha da sempre criticato gli eccessi del capitalismo pur considerandolo un male minore rispetto al comunismo. Oggi, contro il neoliberismo, le critiche da parte cattolica sono rivolte essenzialmente alla logica della mercificazione, al paradigma tecnocratico, all’uso distorto delle nuove tecnologie in campo medico, al problema della povertà e al tema ecologico. Si tratta, in altre parole, non soltanto di una critica di tipo economico ma piuttosto di tipo culturale, cioè, contro un paradigma nichilistico-tecnocratico che non sarebbe più al servizio della “persona” umana nel senso del sano umanesimo.

Tuttavia, è giusto precisare che il rapporto di amore e odio con il capitalismo oscilla anche in relazione al contesto storico-politico preso in considerazione. Dagli anni Novanta del Novecento ad oggi, i diversi pontefici che si sono susseguiti e cioè Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno affrontato queste tematiche con le sensibilità personali proprie di ognuno.

Se Giovanni Paolo II nella Centesimus annus ha potuto tranquillamente elogiare i meriti del capitalismo rispetto al fallimento del comunismo, negli anni successivi con Benedetto XVI e soprattutto con Francesco, gli eccessi del capitalismo e le storture del mercato finanziario hanno fatto riemergere un atteggiamento più polemico da parte del Magistero. Nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI è presente, per esempio, una critica forte nei confronti degli eccessi del capitalismo finanziario e della deriva morale del paradigma neoliberista,7 ma nella Laudato si’ di Papa Francesco, mi sembra, che queste critiche si arricchiscano di un elemento nuovo ossia una sorta di torsione antimoderna che ha il suo punto focale nella concezione “olistica” della Natura invocata dal Pontefice.

Se è comprensibile il bisogno da parte di Papa Francesco, come d’altra parte dei suoi predecessori, di porre al centro del dibattito globale la questione ecologico/ambientale e quella, ad essa collegata, della povertà è legittimo però avanzare delle perplessità su alcune idee contenute in questo documento come anche nella ricezione mediatica che ne viene fatta.8

È plausibile che questa sensibilità dell’attuale pontificato sempre molto critico verso il liberalismo, il capitalismo e la modernità derivi dal contesto storico, politico e sociale nel quale Bergoglio si è formato, ossia l’Argentina peronista.9 Le mie osservazioni non vogliono affatto sminuire l’importantissimo ruolo, a volte profetico, svolto oggi dal Papa che sul tema della Misericordia e dell’apertura verso l’Alterità ha fatto il centro del suo Pontificato. Mi limito soltanto a segnalare che se le domande che ispirano il suo impegno sono straordinariamente attuali, la griglia ermeneutica con la quale egli interpreta i fenomeni sociali ed economici ma anche, talvolta, le soluzioni prospettate, suscitano alcune perplessità e rivelano una sensibilità abbastanza diversa rispetto a quella della tradizione cattolico-liberale che ha rivestito un ruolo importante nella storia del cattolicesimo contemporaneo.

Un esempio su tutti è il continuo utilizzo da parte del Pontefice attuale, nei discorsi o nel corso di interviste estemporanee, di concetti usati in modo quasi mistico, come quello di “popolo” o di “moltitudini”, che risultano distanti a chi si riconosce nella tradizione del liberalismo mentre possono, non a caso, intercettare le simpatie di tutti coloro che si muovono nella galassia anticapitalistica, no global e scettica nei confronti del libero mercato e della democrazia rappresentativa di matrice liberale.10

 

2. “Moltitudini” e “populismi” visti da sinistra

Negli scritti di Marx, la funzione rivoluzionaria necessaria per abbattere il sistema di produzione e di dominio capitalista è affidata, come noto, alla classe proletaria. Sulle modalità e i tempi di realizzazione di questa rivoluzione, è altrettanto noto come Marx, nell’ultima fase della propria produzione, mostri un atteggiamento più aperto in ordine alle strategie politiche concrete da adottare per l’instaurazione della società comunista. Senza addentrarmi in questa questione, ciò che mi interessa osservare è il modo in cui alcuni autori recenti, superando l’idea marxista della funzione storica del proletariato, provino ad attribuire a entità diverse, ossia le “moltitudini” o il “popolo”, i compiti e la possibilità di resistenza all’ordine neoliberista contemporaneo. Mi riferisco in particolare alle teorie avanzate da Antonio Negri e Michael Hardt e a quelle di Ernesto Laclau.11

Negri, insieme a Michael Hardt, è autore di un testo assai discusso: Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2001). In questo libro, i due autori presentano un’analisi dell’attuale sistema economico- politico capitalista definito come “Impero”, categoria utilizzata per descrivere il nuovo assetto globale caratterizzato da tre elementi: primo, un processo di globalizzazione in cui, a differenza di quanto pensano in molti, esistono “regole” che ne disciplinano il funzionamento; secondo, una crisi del concetto moderno di sovranità per cui quest’ultima transita dallo Stato-nazione verso un non-luogo dal momento che, secondo Negri e Hardt, non esiste oggi un centro di potere come nella passata stagione del colonialismo e dell’imperialismo; terzo, il mondo attuale è attraversato a livello spaziale e temporale da un continuo processo di ridefinizione dei “confini”.12

All’interno del quadro che ho molto sinteticamente delineato, Negri e Hardt provano a sviluppare il concetto di “moltitudine” come soggettività politica in grado di “resistere” foucaultianamente alla logica propria dell’Impero. Il riferimento a Foucault non è causale, perché Negri e Hardt considerano il filosofo francese, insieme agli altri esponenti del “68 pensiero” come autori fondamentali per la creazione di un lessico adeguato alla realtà attuale. Le critiche che gli autori francesi post-moderni hanno mosso alle categorie “forti” della modernità costituiscono certamente un punto di riferimento obbligato sebbene questi due autori sostengano la necessità di articolare una grande narrazione, rifiutata al contrario dai postmoderni come Lyotard. Questa grande narrazione che dalla modernità va verso l’età postmoderna è un percorso caratterizzato da profonde trasformazioni nel mondo della produzione, del lavoro e, oggi, delle tecnologie grazie alla rivoluzione informatica.

La domanda alla quale bisogna rispondere è quella relativa alle forme di resistenza al potere che è possibile articolare nella società dominata dall’Impero. La risposta che i due autori sviluppano nel corso di vari decenni è caratterizzata da un recupero teorico di Spinoza, arricchito con le idee di Foucault e di Deleuze. Questo mix teorico li porta a sostenere la necessità di superare l’idea originaria di Marx che fosse la classe proletaria a possedere una funzione storica rivoluzionaria. Nello scenario attuale, la proposta marxista è obsoleta come mostrato, tra l’altro, dal grande dibattito nell’ambito degli studi post-coloniali e terzomondisti che hanno preso le distanze, su questo punto, dal marxismo ortodosso.

Pertanto, partendo dalla concezione relazionale del potere elaborata da Foucault e innestandovi la concezione deleuziana del desiderio come forza creatrice, Negri ritrova in Spinoza un possibile percorso vero una democrazia reale che sia un’alternativa, interna al moderno, rispetto alla logica della sovranità divenuta maggioritaria in Occidente.13 Questo progetto, ovviamente, si pone in alternativa rispetto alla tradizione liberale che vede nei concetti di rappresentanza e di consenso i punti nevralgici della politica: per Negri, la “rappresentanza” è una finzione che limita la potenza creatrice che vuole emergere dal basso, mentre il “consenso” è una vera è propria forma di alienazione in quanto ci si annullerebbe nel rappresentante. Il concetto di “moltitudine” di spinoziana memoria diventa allora la via per pensare diversamente la lotta politica all’interno dell’Impero. La “moltitudine” non è la semplice massa amorfa e priva di una qualunque forma di unità od ordine. Spinozianamente, essa indica, piuttosto, un’insieme di singolarità che, dal basso, in modo assolutamente immanente (cioè senza causazione esterna) danno vita a un processo di costruzione di una soggettività creatrice di novità politiche.

La critica della modernità compiuta da Foucault e Deleuze impone di trovare nuove forme di costruzione e manifestazione della soggettività politica in un quadro, tra l’altro, nel quale il potere non è più una qualcosa che proviene dall’alto e che coincide con l’arbitrio di un sovrano o con rapporti di forza declinati in senso economico. Nel quadro foucaultiano di Negri, il potere ha una forma relazionale e quindi le “moltitudini” si pongono come soggettività politiche dotate di una valenza etica perché nascono per un bisogno di “creatività” che sgorga dai singoli e che si canalizza in forme organizzate presentandosi così come una vera e propria “potenza democratica”.

È importante sottolineare come il farsi “moltitudine” di queste singolarità sia legato strutturalmente anche alle trasformazioni in atto nel sistema produttivo attuale perché la svolta verso il lavoro immateriale fa sì che la creatività individuale, per poter diventare attiva ed efficace, deve assumere necessariamente una forma “cooperativa” o comune. L’obbiettivo non è più quello di “rompere” l’ostacolo rappresentato dallo Stato o dalla classe rivale, come nel caso del comunismo classico, perché questo significherebbe muoversi ancora una volta all’interno della logica del moderno; piuttosto, foucaultianamente, è il potere stesso, cioè Impero, a generare sempre la “resistenza” nei suoi stessi confronti, cioè la “moltitudine”. Quest’ultima, a sua volta, agisce ovunque perché essa è una «sperimentazione concreta e reale, una fenomenologia amplissima sul terreno del lavoro, del politico, della proprietà, dell’appropriazione, del rapporto giuridico con il resto del mondo, cioè i temi fondamentali della definizione di politica».14

Non stupisce, a questo punto, l’identificazione suggerita tra “moltitudine” e “potere costituente” nel senso che la potenza creatrice delle singolarità, quando assume la forma di un insieme, diventa “costituente”.

Esistono esempi storici di “moltitudini” nel nostro passato recente?

Sì. I popoli di Seattle (1999) e di Genova (2001) e più in generale tutti i movimenti no global rappresentano senza dubbio un “evento” di rottura rispetto alla logica del dominio attuale in quando reclamano nuove forme di vita e di cooperazione rispetto a “Impero”. La resistenza al potere passa, come Foucault ha intuito, da una resistenza dei corpi: «Vi ricordate il film Brazil? Era l’esaltazione di una resistenza che si fa metamorfosi umana, che mescola mobilità e gioia in maniera forte, che costruisce reti comuni e inventa linguaggi perforanti i sistemi di dominio. Io credo che nella pratica di questi movimenti ci siano ormai questi comportamenti che si tratta di generalizzare».15

A questo punto appare evidente perché nel discorso di Negri sia naturale il venir meno della distinzione tra politico e sociale, tra produttività ed eticità della vita: «La moltitudine, così definita, si presenta come concetto aperto, dinamico, costitutivo. Siamo nel bio-politico. Qui il concetto di moltitudine comincia interamente a vivere nel bio-politico».16

Naturalmente, la lotta che la moltitudine deve condurre contro Impero è una lotta totale, che aspira al superamento dello status quo. Questo superamento passa attraverso la rottura con le istituzioni fondamentali della logica di dominio imposta dall’Occidente: famiglia, nazione, impresa sono realtà che vanno abolite insieme alle “identità” che hanno contribuito a imporre.17 Il concetto chiave di questa lotta diventa quello di “singolarità” che permette di distinguere chiaramente due concetti spesso confusi, cioè quello di emancipazione e quello di liberazione: «Mentre l’emancipazione è un termine che segnala uno sforzo per conquistare la libertà dell’identità, la libertà di essere davvero se stessi, la liberazione è volta a conquistare la libertà come autodeterminazione e auto trasformazione. La libertà è la libertà di determinare ciò che posso diventare».18

Il superamento della logica dell’identità, secondo Hardt e Negri, non può che avere un carattere “violento” anche se si tratta di una violenza diversa rispetto al concetto tradizionale: «La violenza più perturbante che devono affrontare i rivoluzionari è probabilmente la mostruosa autopoiesi che emerge dalle tensioni rivoluzionarie delle politiche dell’identità. La soppressione dell’identità con cui lasciamo alle spalle quello che siamo per costruire un mondo senza più genere, razze, classi e sessualità e altre forme di identità è un processo estremamente violento, non solo perché il potere costituito si opporrà colpo su colpo, ma soprattutto perché esso pretende da noi l’abbandono di alcune tra le figure più intime dell’identificazione sulla via del divenire mostri».19

La prospettiva rivoluzionaria finale di Hardt e Negri consiste, insomma, nell’auspicio che, messi da parte tutti i concetti tradizionali del lessico politico (proprietà, identità, lotta di classe…) emerga un processo “costituente” nel quale la logica attualmente esistente venga ribaltata. A differenza dello stereotipo sociologico tradizionale, non sono le istituzioni a formare gli individui e le identità, ma piuttosto sono le “singolarità”, in comunicazione tra loro, a costituire le istituzioni in una sorta di flusso permanente secondo una logica autopoietica.20

Apparentemente simile al discorso di Negri e di Hardt sulle “moltitudini” è quello di Ernesto Laclau sul “populismo”. In La ragione populista (2005) Laclau articola una prospettiva teorica di ispirazione gramsciana per riflettere sulle nuove forme di costruzione delle soggettività politiche nell’attuale fase di sviluppo della democrazia e del capitalismo. Come Negri e Hardt, Laclau è convinto che sia necessario abbandonare il vecchio arsenale teorico marxista incentrato sul concetto di classe e sul primato dell’economico come logica immanente del reale: il primo elemento, la classe, è infatti un costrutto discorsivo e pertanto rischierebbe di risultare troppo riduttivo per cogliere, nella complessità tipica della scenario attuale, le reali potenzialità presenti; il primato dell’economia, invece, andrebbe rivisto alla luce del fatto che il capitalismo, come qualunque sistema di produzione, non è una realtà auto-inclusiva retta soltanto da una logica endogena ma piuttosto un qualcosa di “contaminato” da relazioni politiche. Il capitalismo, infatti, oggi non si deve più considerare soltanto una totalità chiusa in se stessa, ossia una mera realtà economica, ma piuttosto come un insieme di determinazioni politiche, militari, tecnologiche (e, certamente anche economiche!) ognuna dotata di una propria logica autonoma, che vanno a determinare la totalità sociale.21 Tuttavia, questa totalità sociale non deve essere intesa come un sistema chiuso in sé, ma al contrario come una realtà attraversata strutturalmente da una “dislocazione sistemica” che implica il sorgere continuo di domande di cambiamento o, se vogliamo, di giustizia.22

A questo punto Laclau introduce un elemento interessante relativo al rapporto tra dimensione sociale e dimensione politica. Mentre la logica sociale, all’interno di una società, consiste nel rispetto di alcune regole che comportano la rappresentanza di alcuni soggetti e la sistematica esclusione di altri, la logica politica è riconducibile all’istituzione stessa del sociale. La logica politica, pertanto, non è affatto un qualcosa di definito ma un fiat sempre in itinere.23 Per questa ragione, Laclau considera la sua teoria come una vera e propria “ontologia sociale”24 perché ogni società è attraversata da una tensione che nasce da tutte le “domande” provenienti dal basso indirizzate al potere.

È evidente, allora, perché Laclau concepisca la democrazia come strutturalmente legata all’antagonismo: «Se la democrazia venisse intesa come eliminazione dell’antagonismo essa si trasformerebbe nel suo opposto: un collettivo assoluto, unificato, che non aprirebbe a nessun tipo di dissenso. Paradossalmente, la piena realizzazione della democrazia e la sua estinzione sono sinonimi».25

Qualora il sistema istituzionale non sia di in grado di “rispondere” alle singole domande che emergono dal basso (logica differenziale) allora queste “domande” inevase cominciano ad aggregarsi tra loro dando vita a un relazione di equivalenza che da origine a una vera e propria domanda democratica.26 Qui Laclau recupera, radicalizzandola, la teoria gramsciana dell’egemonia: le “domande democratiche” non possiedono affatto una logica di sviluppo identificabile a priori in nome, per esempio, di una presunta teleologia ma piuttosto si articolano secondo una logica aperta a una molteplicità di direzioni. Quando differenti domande, secondo una logica equivalenziale, si uniscono danno vita a una “domanda popolare” che costituisce una vera e propria soggettività sociale.27

Benché le “domande” abbiano un carattere parziale o particolare ciò non toglie che esse possano assumere una funzione universale: «L’universale è uno spazio vuoto, una voragine che può essere riempita solo dal particolare, ma che –per la sua stessa vuotezza- produce una serie di effetti cruciali per la strutturazione/destrutturazione delle relazioni sociali».28 La dialettica parziale/universale rappresenta, pertanto, il motore del cambiamento sociale.

Ma come accade che domande specifiche, diverse tra loro, si uniscano secondo la logica equivalenziale?

Per rispondere a questa domanda cruciale, Laclau si rifà a Lacan.29 Ogni intero sociale, infatti, è il frutto dell’articolazione tra significazione e affetto. Come Lacan ha introdotto il concetto di objet petit à (oggetto a) per spiegare che l’oggetto parziale non evoca semplicemente una totalità (ossia la diade madre/figlio fonte di pieno soddisfacimento), ma diventa soltanto il nome della totalità mancante, così, a livello politico, le relazioni egemoniche svolgono la stessa funzione: «una certa particolarità assume il ruolo di un’universalità impossibile. Poiché il carattere parziale di questi oggetti non dipende da una storia particolare, ma è inerente alla struttura stessa della significazione, l’objet petit à di Lacan è l’elemento chiave dell’ontologia sociale. L’intero sarà sempre incarnato da una parte: non c’è universalità che non sia egemonica».30

Se Lacan, avendo compreso che la pienezza del rapporto simbiotico con la madre è un oggetto mitico, in quanto irraggiungibile, ha introdotto l’objet petit à per mostrare come sia possibile guadagnare la jouissance tramite l’investimento nei suoi confronti così la teoria politica deve comprendere come non sia possibile raggiungere alcuna pienezza sociale se non, in forma sfuggente, tramite l’egemonia. Combinando tra loro le intuizioni di Lacan e quelle di Gramsci è possibile articolare così una prospettiva interessante per comprendere come sorgano e si uniscano domande differenti all’interno della società: «Se la società riuscisse a realizzare un ordine istituzionale tale da soddisfare tutte le domande all’interno dei propri meccanismi immanenti, non ci sarebbe populismo, ma, per ovvie ragioni, non ci sarebbe nemmeno la politica. La necessità di costruire un “popolo” (una plebs che reclama di essere populus) si manifesta solo quando quella pienezza non è realizzata, e gli oggetti parziali all’interno della società (mete, figure, simboli) subiscono un investimento tale da diventare il nome della sua assenza».31

Pur condividendo con Hardt e Negri il bisogno di superare il marxismo ortodosso e la sua predilezione per la classe proletaria come soggetto rivoluzionario, Laclau prende le distanze dal concetto di “moltitudini”. Come ho già spiegato, l’orizzonte radicalmente immanente sul quale si muovono gli autori di Impero, per rispettare la logica spinoziana e deleuziana alla quale si richiamano, impone di concepire le moltitudini come entità dotate quasi di una aurea mistico/spontanea che non sarebbero in grado di spiegare, secondo Laclau, l’articolazione politica concreta.32 Le “moltitudini” generate da “Impero” nascono appunto solo per un bisogno, quasi ontologico, di “esser contro”, ma secondo Laclau così non si riuscirebbe a spiegare concretamente come questo bisogno si traduca in azione reale da parte di attori eterogenei tra loro. Se “Impero”, come vogliono Negri e Hardt, è addirittura una realtà senza centro, allora come parlare di identità popolari che nascono e si aggregano sulla base di interessi e obbiettivi particolari?

Questa visione mistica della “moltitudine” che richiama il conatus spinoziano appare come la riedizione della tradizione operaistica italiana degli anni Settanta dalla quale proviene, non a caso uno studioso come Negri.33 Il limite, però, di una prospettiva di questo genere è che non appare chiaro in cosa consista effettivamente la “rottura” rivoluzionaria di cui parlano Negri e Hardt. Se il riferimento teorico è l’immanentismo spinoziano allora, come accade in questo genere di approcci, il problema che si pone è come far interagire “continuità” e “rottura”. A differenza della prospettiva radicalmente immanente di Impero, Laclau difende la sua visione del “sociale” come realtà attraversata sempre da una trascendenza fallita: «È intorno a questa mancanza costitutiva che il sociale è organizzato. È facile intuire come ci voglia poco per arrivare, da qui, alle categorie principali che hanno guidato la nostra [di Laclau] analisi: pienezza assente, investimento radicale, objets petit a, egemonia e così via. Questo è il punto preciso in cui moltitudine e popoli, come categorie politiche, si dicono addio».34

Nella teoria di Laclau, la “ragione populista” va considerata come sinonimo di “ragione politica” tout court nel senso che l’eterogeneità tipica del sociale, cioè l’impossibilità di una pienezza o di una riconciliazione definitiva, impone, alla luce della logica equivalenziale descritta prima, una continua costruzione di soggettività politiche che ridefiniscono senza sosta l’orizzonte del sociale stesso. Il “popolo” diventa, così, una categoria politica più che un datum della struttura sociale.35 La storia non può essere considerata come teleologicamente orientata ma come un orizzonte sempre aperto dove parzialità e universalità delle lotte egemoniche ridefiniscono continuamente questo orizzonte medesimo. È interessante che Laclau consideri il capitalismo (non come mero sistema economico ma secondo i termini descritti prima) come la fonte di questa eterogeneità dalla quale scaturiscono continuamente nuovi antagonismi che impongono, a loro volta, una ridefinizione del lessico politico tradizionale. Essendo il capitalismo una realtà globale, allora anche l’internazionalismo deve assume una fisionomia nuova che vada oltre la mediazione politica istituzionale (ossia il partito).36

Per concludere, mi sembra interessante prendere in considerazione il rapporto di Laclau con il liberalismo. Condividendo le analisi di Chantal Mouffe sul carattere agonistico della politica, Laclau sostiene che gli approcci normativi e in senso lato deliberativi come quelli di Rawls e Habermas, insistendo sul momento razionale, rischiano di perdere la dimensione “affettiva” che è una componente necessaria per una società democratica. Questo rischio deriva dal presupporre l’esistenza di individui razionali e portatori di diritti naturali che interagiscono tra loro solo in virtù dell’interesse personale. Ma così, per Mouffe e Laclau si perderebbe la possibilità di indagare quale siano le condizioni di esistenza di un soggetto democratico.37

Siccome è la stessa ontologia sociale descritta da Laclau a implicare il sorgere continuo di “domande”, allora l’esistenza di un soggetto democratico dipende, come ho già spiegato, dall’investimento emotivo nei confronti di esse. All’interno di questa cornice, tuttavia, Laclau non considera democrazia e liberalismo necessariamente come realtà incompatibili. Qualora le domande liberali diventino parte della logica equivalenziale, allora non deve essere escluso che la tradizione democratica possa far propria i proclami liberali. Se ciò si escludesse aprioristicamente, allora il “popolo” sarebbe un soggetto definito una volta per tutte e ciò sarebbe inaccettabile all’interno della teoria di Laclau.

Nonostante questo atteggiamento dialogante nei confronti del liberalismo rimangono alcuni punti poco chiari. Innanzitutto, le premesse epistemologiche del discorso di Laclau risultano difficilmente accettabili da un punto di vista liberale. Il rifiuto dell’individualismo metodologico e la sua scelta a favore delle identità collettive come unità di analisi non è esente da rischi nel campo delle scienze sociali, come mostrato già diversi anni fa, sulla scia degli studi di K. Arrow, da William H. Riker.38

Poi, non sono chiari, come già nel caso di Negri e Hardt, quali siano i criteri di valutazione delle domande che sorgono dal basso e quale sia lo strumento affinché esse diventino egemoniche. Le perplessità nei confronti delle tradizionali forme di mediazione politica, sia a livello nazionale che internazionale, non spiega come concretamente si possa agire in direzione di una maggiore “giustizia sociale” intesa, Laclau è molto esplicito su questo punto, non solo come ridistribuzione più equa delle risorse ma come insieme di “domande” che chiedono risposta a livello istituzionale.39 Se non è privo di ragioni considerare il “conflitto” come un aspetto strutturale del “politico” è vero anche che focalizzare l’attenzione sulle identità collettive, o sulle moltitudini, facendo anche del discorso liberale dei diritti un semplice elemento della catena equivalenziale, rischia anche di fare perdere di vista il ruolo di argine che quest’ultimo storicamente ha ricoperto contro tutte le derive assolutistiche, centralistiche e totalitarie che, spesso, sono nate proprio sulla base di logiche populiste.


Note 
1 Questo articolo è tratto dal volume S. Muscolino, Libertà e mercato. Riflessioni su capitalismo, società e cristianesimo, Mimesis 2017. Ringrazio l’Editore per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione.
2 Cfr. N. Bobbio, L’ideologia del fascismo, in N. Bobbio, Dal fascismo alla democrazia, Baldini&Castoldi, Milano 2014, p. 66.
3 Tralascio per comodità le distinzioni concettuali tra termini utilizzati spesso come sinonimi (fascismo, nazismo, autoritarismo, totalitarismo di destra). Come ho spiegato nel testo, il patrimonio di valori ai quali fanno riferimento queste tipologie di regime trova il suo qualificatore principale nell’opposizione alla tradizione illuministico borghese o liberal- democratica. Anche i vari regimi comunisti, sebbene su presupposti diversi, sono animati dalla stessa preoccupazione. Questa è la ragione per la quale concordo con l’approccio di autori come Raimond Aron, François Furet e Juan L. Linz che la chiave di lettura del Novecento non è il conflitto tra due ideologie rivoluzionarie come fascismo e comunismo ma piuttosto tra totalitarismo (di destra e di sinistra) e ideologia democratica (sia nella variante liberale che in quella socialdemocratica) (cfr. J. L. Linz, Ulteriori riflessioni sui regimi totalitari e autoritari, in J. L. Linz, Sistemi totalitari e regimi autoritari. Un’analisi storico-comparativa, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 31).
4 Sono consapevole che i regimi menzionati presentano differenze significative in ordine al ruolo giocato dal “terrore”, dal grado di pluralismo interno tollerato, dal peso delle questioni razziali e dalla complessità dell’ideologia che li caratterizza. Tuttavia, nell’economia del mio discorso, i tratti indicati nel testo sono sufficienti per rintracciare un minimo comune denominatore tra di essi e per comprendere le affinità concettuali con certi settori del cattolicesimo di quel tempo.
5 N. Bobbio, L’ideologia del fascismo, cit., p. 72.
6 Anche la dottrina sociale della Chiesa, fin dalla Rerum Novarum di Leone XIII, è stata influenzata dalle idee provenienti dal cattolicesimo statunitense (cfr. M. Graziano, In Rome We trust. L’ascesa dei cattolici nella vita politica degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2016, pp. 62-63).
7 Da un punto di vista teologico, Ratzinger/Benedetto XVI ha una formazione agostiniana piuttosto ostile alla svolta nominalistica che ha inaugurato la modernità. È giusto ricordare, tuttavia, che le critiche intorno alle patologie della ragione illuministica si inseriscono in una cornice teorica che vuole salvare l’universalismo dell’Occidente cristiano.
8 Ho già espresso le mie riserve su questa concezione “olistica” della Natura contenuta nella Laudato si’ sia per ragioni filosofiche che storico-economiche (cfr. S. Muscolino, Some Philosophical Remarks on the Encyclical Letter Laudato Si’, in «Metabasis» (1/2016) pp. 73-93).
9 Cfr. L. Zanatta, Un Papa peronista?, in «il Mulino» (2/2016), pp. 240-249. Nella formazione di Bergoglio un ruolo cruciale è stato svolto dalla cosiddetta “teologia del popolo” cioè quella sorta di corrente interna e non marxista della “Teologia della liberazione” che fa della “spiritualità popolare” l’elemento centrale del cristianesimo latino-americano: cfr. J. M. Bergoglio - Francesco, Prefazione a E. C. Bianchi, Introduzione alla teologia del popolo. Profilo spirituale e teologico di Rafael Tello, trad. it., EMI, Bologna 2015, pp. 13-22.
10 Sulla figura di Papa Francesco si vedano i saggi contenuti nel Dossier che la rivista «inTrasformazione» ha curato nel numero di ottobre 2016 (cfr. www.intrasformazione.com).
11 Ovviamente, anche in questo caso, si potrebbero prendere in considerazione anche altri autori non-marxisti critici verso il liberalismo come Chantal Mouffe, Zizek, Butler, ma, come è facilmente intuibile, è necessario operare alcune scelte, ovviamente sempre discutibili.
12 Cfr. M. Hardt – A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, trad. it., Rizzoli, Milano 2002.
13 È significativo, mi sembra, che nella sua critica della tradizione liberale moderna, Negri, unendo Spinoza e Machiavelli, si richiami idealmente alle teorie repubblicane descritte da John Pocock nel suo famoso The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton 1975.
14 A. Negri, Cinque lezioni di metodo su Moltitudine e Impero, Rubbettino, Soverian Mannelli 2003, p. 59.
15 Ivi, p. 75.
16 Ivi, p. 53.
17 Cfr. M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, trad. it., Rizzoli, Milano 2010, p. 337.
18 Ivi, p. 329.
19 Ivi, pp. 368-369.
20 Cfr. ivi, p. 356.
21 Cfr. E. Laclau, La ragione populista, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2008, p. 218.
22 Ivi, p. 112.
23 Ivi, p. 111.
24 Cfr. ivi, pp. 63 e ss.
25 Logica e strategia del popolo. Intervista a Ernesto Laclau a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, ombre corte, Verona 2012, in p. 16.
26 Cfr. E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 69.
27 Ivi, p 70.
28 E. Laclau, Identità ed egemonia: il ruolo dell’universale nella costituzione delle logiche politiche, in J. Butler – E. Laclau – S. lilek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 60-61.
29 Per un diverso utilizzo di Lacan nella teoria politica e sociale si veda i saggi di lilek contenuti in J. Butler – E. Laclau – S. lilek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, cit.
30 E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 108-109.
31 Ivi, p. 110.
32 Ivi, p. 228.
33 Ivi, p. 229.
34 Ivi, p. 231.
35 Cfr. ivi, p. 212.
36 Ivi, p. 219.
37 Ivi, pp. 159-160.
38 Cfr. W. H. Riker, Liberalismo contro populismo, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1996.
39 Per questa ragione, Axel Honneth giudica con un certo scetticismo le pretese teoriche e pratiche dei “movimenti” in ordine al perseguimento dell’ideale socialista: «Quali rappresentanti sociali delle istanze normative che il socialismo cerca di far valere nell’ambito delle società moderne, dunque, non dovrebbero esser individuate delle soggettività in rivolta, ma piuttosto dei miglioramenti divenuti ormai oggettivi, né dei movimenti sociali, ma piuttosto delle conquiste istituzionali; è negli avanzamenti che si sono realizzati nella realtà sociale che devono essere poter esser riconosciuti i lineamenti di un processo progressivo che dimostri che le visioni del socialismo sono realizzabili anche in futuro» (A. Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, trad. it Feltrinelli, Milano 2016, p. 95).

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