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ilcomunista

Il lavoro secondo Andrea Zhok

di Alessandra Ciattini

jmvaipssutgLe riflessioni sul concetto di lavoro di Andrea Zhok, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano, meritano di essere prese in considerazione. Se nei decenni passati la concezione di lavoro come impegno, contributo alla vita collettiva aveva ancora un qualche spazio, oggi è stata cancellata dall’idea che esso deve essere divertimento, puro mezzo per soddisfare le nostre esigenze personali, sia primarie che secondarie. Questo cambiamento è stato generato da una serie di trasformazioni strutturali e non solo dall’imporsi di un punto di vista differente.

* * * *

Mi sono imbattuta per caso in un video proposto dalla casa editrice Ibex, “che produce libri per chi scala il futuro” e che mira al “Rinascimento italiano”. Nel suo sito, che ha 27.100 iscritti, si può leggere anche: “Non trattiamo un unico argomento, perché l’arte di domare gli eventi futuri non è fatta di tecnicismi settoriali, ma di intraprendenza strategica, e quindi olistica”. Così, spaziano “dal marketing alla filosofia, dall’imprenditoria alla propaganda passando per la politica”; un interessante percorso che desta molta curiosità, soprattutto in chi vuole capire per quale parte gli autori di queste frasi si schierano nel confuso scenario politico contemporaneo.

Il catalogo è interessante: ci sono Freud, Machiavelli, Le Bon, ma anche scritti di grandi imprenditori come Henry Ford, omaggiato da Hitler della Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca, Andrew Carnegie, cui dobbiamo, per esempio, Il vangelo della ricchezza, che fa pensare alla teologia della prosperità nata contro la teologia della liberazione in America Latina nel contraddittorio mondo pentecostale.

Nel video si intervista Zhok, di cui ho condiviso molte battaglie ma non le scelte politiche, partendo da un suo libro (Il senso dei valori. Fenomenologia, Etica, Politica, 2024), da cui si prende spunto per comprendere quella che viene definita “la miseria degli intellettuali”, ovviamente quelli attuali messi in contrapposizione con intellettuali che, invece, sarebbero conseguenti, coraggiosi e capaci di proporre visioni “radicali”.

L’intervistatore pone a Zhok una domanda molto importante, data anche la coincidenza con la passata festa del lavoro che, come sappiamo, ormai è stata inghiottita dalla società dello spettacolo perdendo la sua efficacia combattiva a causa dei cambiamenti che ha subìto questo fondamentale aspetto della vita umana. Correttamente il professore mette in evidenza che il lavoro mantiene il suo ruolo centrale, se si vuole produrre e quindi riprodursi, e che non hanno alcun senso le chiacchiere relative alla fine del lavoro o al fatto che l’Intelligenza artificiale e la robotizzazione cancelleranno il lavoro umano di cui, in certi casi, certamente potranno produrre la riduzione. Ora, a me sembra, ma non solo a me, che il lavoro sia indispensabile non perché senza di esso non si produce (ovviamente, questo è vero), ma soprattutto perché, all’interno del sistema capitalistico, soltanto quest’ultimo è in grado di generare il profitto che, secondo la lezione di Marx, proviene dal lavoro non pagato del lavoratore e non dai meriti imprenditoriali dei “padroni”. Occorre, dunque, storicizzare e non parlare mai di lavoro in astratto.

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) il numero complessivo di lavoratori nel mondo è di circa 3,3 miliardi, con circa 2 miliardi che lavorano in modo informale, ovviamente con scarse forme di meccanizzazione, e sarebbero cresciuti di 100 milioni. I lavoratori salariati sono circa 2,8 miliardi, che rappresentano circa il 45% della popolazione mondiale. Senza voler entrare in tecnicismi, sembrerebbe che in molti casi non sia profittevole meccanizzare la produzione, dati i bassi costi della manodopera e il suo basso livello educativo; tra l’altro, queste carenze riguardano proprio gli Usa che hanno lavoratori non qualificati e che si servono di circa 12 milioni di immigrati, diciamo per “raccogliere i pomodori”, ora vergognosamente deportati. Tra tutti questi lavoratori, circa 630 milioni vivono in condizioni miserevoli. E, pertanto, sottolineerei i due aspetti per cui il lavoro è importante: da un punto di vista generale, perché produce il necessario alla sopravvivenza; dal punto di vista storico, perché nel capitalismo produce il profitto, pluslavoro mascherato.

Ora, a parere del professore, Marx ha proposto una concezione significativa del lavoro, da lui definita metafisica, secondo cui esso genera, da un lato, l’umanizzazione della natura, aggiungiamo strettamente legata al processo di ominizzazione e all’uso degli strumenti, dall’altro, lo intende come mezzo con il quale l’uomo trasforma se stesso e fornisce un contributo rilevante alla collettività. Di fatto, secondo Marx, quest’ultima funzione, direi generica (nel senso che appartiene all’uomo come genere), può essere svolta soltanto nel momento in cui viene superata la lotta di classe che caratterizzerebbe tutta la storia umana (tranne nel caso delle società senza classi come la comune primitiva). Tuttavia, l’accento sulla lotta di classe, sul conflitto inerente alla vita sociale costituisce un aspetto discutibile, non auspicabile per Zhok il quale, in una prospettiva durkheimiana direi, contrappone alla lotta di classe, (che per Marx ed Engels può condurre anche alla rovina delle classi in lotta, v. il Manifesto), la teoria della coesione sociale della Chiesa cattolica, ripresa, poi, dal corporativismo fascista.

Il vantaggio starebbe nel fatto che si contrappone un’entità conflittuale, instabile, mutevole a un’entità coesa e pacificata, tante volte evocata da Mattarella nei suoi discorsi retorici e che però, a mio parere, evoca un tranquillizzante quanto illusorio immobilismo che gli eventi attuali smentiscono con forza.

Queste sono le parole sulla coesione collettiva della Rerum Novarum di Leone XIII (1891): “Il capitale non può fare a meno del lavoro, né il lavoro senza il capitale. L’accordo reciproco produce la bellezza del buon ordine, mentre il conflitto perpetuo produce necessariamente confusione e barbarie selvaggia”.

Per comprendere il pensiero di Marx, di cui si è molto spesso sottolineato il carattere prometeico legato certamente all’Umanesimo, bisogna distinguere due momenti dell’attività lavorativa: quella estraniata quando l’uomo lavora solo per soddisfare le sue necessità animali (mangiare, bere, procreare etc.), e produrre ciò che non gli appartiene, nella quale egli riduce l’attività vitale, la vita produttiva a semplice mezzo per il soddisfacimento dei suoi bisogni fisici. In questo modo è costretto a scindere la vita individuale da quella generica, che è “la vita che genera vita”, “la libera attività cosciente”, che lo rende padrone di ciò che produce e lo colloca in condizioni di parità con i suoi simili. Solo in questo caso contribuisce consapevolmente e volontariamente alla vita collettiva.

Da queste considerazioni ne discende un’altra non molto gradita a coloro che hanno accettato il consumismo trasgressivo del passato “miracolo economico”, in cui ancora si crogiola parte della piccola borghesia completamente depoliticizzata: per Marx il lavoro è impegno, è disciplina, è attività creativa, non può mai esser gioco, e la sua gratificazione sta nel fatto che l’individuo in esso supera ogni volta se stesso e la sua insignificante vita individuale. Nei Grundrisse egli riporta come esempio incarnato della sua concezione di lavoro il direttore di orchestra, un mestiere certo assai impegnativo.

Dopo aver analizzato quella che definisce la concezione di Marx, senza però distinguere i due aspetti su indicati, Zhok si sofferma ampiamente sull’economicismo proprio di certe tendenze sindacali, assai simile – nota – alle concezioni liberali e neoliberali alla Reagan e alla Thatcher. Nella sostanza, entrambi sono centrati su una visione individualistica e anche edonistica del lavoro, che si basa su di un falso rapporto tra uguali, in cui il lavoratore dà e ottiene dal suo “padrone” quanto gli è indispensabile a riprodursi. Privato della giustificazione collettiva, il lavoro può, infine, esser sostituito da qualsiasi espediente (anche criminale) che mi garantisce che io possa vivere, magari anche arricchendomi, infischiandomi delle conseguenze negative che questo mio comportamento può avere sugli altri. La stessa logica è riscontrabile anche nella speculazione finanziaria, ormai dominante, che separandosi da qualsiasi attività produttiva mira a veder “figliare magicamente il denaro”, investito, magari, in base a informazioni privilegiate del tutto inerenti al funzionamento del sistema. Naturalmente, in questo cambiamento, in questo passaggio da una concezione a un’altra del lavoro non può che vedersi un grave sintomo del degrado morale e dello sgretolamento individualistico di ogni forma di comunità, come giustamente sottolinea Zhok.

Quello che obietterei a questi accettabili ragionamenti è che si svolgono tutti nel “mondo delle idee”, senza fare nessun cenno a quello che è veramente accaduto nella struttura economica, di cui molti profetizzano il declino probabilmente violento. Naturalmente, mi limiterò a riportare solo alcuni fatti che ritengo siano centrali all’argomento trattato.

Sicuramente il cambiamento del modo di concepire il lavoro è avvenuto ed è importantissimo perché ha conseguenze psicologiche devastanti, soprattutto per le giovani generazioni, come la distruzione della disciplina, del desiderio di esser riconosciuti dagli altri, dell’annichilimento di ogni principio di autorevolezza e con questi dello stesso Super Io, ormai diluito in atteggiamenti indulgenti, concilianti verso i cedimenti a effimeri piaceri e l’abbandono della scena collettiva, in un misero ripiegarsi individualistico. Ma c’è da sottolineare – a mio parere – che Marx prevedeva questa concezione animale del lavoro e la collocava in una certa fase storica definita come “regno della necessità”, contrapposta al “regno della libertà”. Certo, l’insorgere della cosiddetta società dei consumi, che è stata sempre consumo per alcuni e non per tutti, aggiunge ulteriori elementi all’idea di lavoro che ha solo come fine la riproduzione. Come è stato scritto, l’accesso ai piaceri costituisce uno strumento di controllo, forse addirittura più coercitivo di mezzi intimidatori e violenti, perché trasforma l’individuo in un perenne adolescente che non ha mai coscienza di sé e del ruolo politico-sociale che potrebbe avere e, quindi, lo rende un personaggio rassegnato, moderatamente felice e sottomesso.

E arriviamo al punto: perché ciò è avvenuto? Benché il mio punto di partenza implicito sia il concetto di totalità, non posso ricostruire in questa sede tutti gli elementi del processo che ha generato questo cambiamento. Mi soffermo solo su alcuni dati fornitici dalla ormai celebre Rand Corporation a proposito della società statunitense. Lo studio a cui mi riferisco esamina l’entità della crescente disuguaglianza tra le classi sociali e la sua persistenza negli ultimi cinquanta anni. Nelle conclusioni si può leggere: “… se avessimo avuto a disposizione la distribuzione del reddito del 1975, la maggior parte dei lavoratori (il 90% con il reddito più basso) avrebbe guadagnato 3,9 trilioni di dollari in più nel 2023. Cumulativamente, il divario tra quanto guadagnato dai lavoratori dal 1975 al 2023 e quanto avrebbero guadagnato con la distribuzione del reddito controfattuale ammonta a 79 trilioni di dollari (in dollari del 2023)”.

Pertanto, credo che si possa affermare brevemente che i lavoratori hanno perso reddito e potere in tutti i Paesi a capitalismo avanzato, e ciò grazie all’attacco alle loro organizzazioni partitiche e sindacali, allo smantellamento dei servizi pubblici, alla commercializzazione dei servizi sociali decisa dall’Omc nel 1995, alla cancellazione della progressività della tassazione, allo svuotamento delle, se pur formali, procedure democratiche, alla riduzione all’impotenza di noi che lavoriamo per vivere. Tutte cose che il professore conosce benissimo e contro cui ha scritto. Sono anche fenomeni che, già nel 1968, l’astuto Brzezinski non solo prevedeva, ma anche, insieme ai suoi compagni della classe transatlantica, promuoveva per risollevare i profitti di quest’ultima.

In questo clima, in cui ormai il sistema capitalistico diventa invincibile, in cui le questioni identitarie sostituiscono le dinamiche delle classi, in cui il “progresso” è finito o già raggiunto, in cui il relativismo sfrenato sgretola i legami comuni tra gli individui, in cui, come aveva deciso la Omc, il lavoro o lo studio diventano solo un investimento monetario per un miglioramento esclusivamente individuale, che si raggiunge come un premio solo per merito personale, ritorna in auge la concezione animale di queste attività (Einstein la chiamava la morale dei porci). Anche sul piano meramente ideale, l’altra concezione, prima considerata, è accantonata perché utopistica, perché richiede troppo impegno e sforzo che individui-consumatori, esseri passivi, docili, inconsapevoli, non possono e non devono affrontare, altrimenti si porrebbero domande scomode che metterebbero in discussione sia la narrazione ufficiale che il sistema che genera.

A questo punto, se quanto scritto ha un senso, mi pare dobbiamo porci questa domanda: possiamo tornare alla concezione del lavoro come espressione dell’uomo onnilaterale, prefigurata da Marx, rinunciando al superamento del conflitto o salvaguardando quella coesione e unità, di fatto apparenti, che le stesse classi dirigenti violano costantemente, rendendo sempre più ampio il solco di separazione tra il vertice politico e la base popolare in virtù di una vera e propria controrivoluzione realizzatasi a partire dagli anni ’70 del ’900?

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Monica Ferrando
Sunday, 01 June 2025 22:09
"A questo punto, se quanto scritto ha un senso, mi pare dobbiamo porci questa domanda: possiamo tornare alla concezione del lavoro come espressione dell’uomo onnilaterale, prefigurata da Marx, rinunciando al superamento del conflitto o salvaguardando quella coesione e unità, di fatto apparenti, che le stesse classi dirigenti violano costantemente, rendendo sempre più ampio il solco di separazione tra il vertice politico e la base popolare in virtù di una vera e propria controrivoluzione realizzatasi a partire dagli anni ’70 del ’900?" Si, è proprio questa la domanda che dobbiamo porci.
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Michele castaldo
Sunday, 01 June 2025 20:44
Due brevissimo note, una riferita al professor Zhok, l'altra a (suppongo compagno) Renato.
A Zhok va posta la domanda secca, senza tergiversare: la sua critica valoriale al modo di produzione capitalistico (dunque non genericamente capitalismo) si riferisce agli eccessi del liberalismo o alle leggi del moto-modo di produzione capitalistico? Perché nel suo libro lui è chiaro: critica gli eccessi del modo, pena la sua fine.
Dunque non critica gli assiomi generali che reggono il moto-modo. Sarebbe perciò ora che scendesse dall'alto della cosiddetta critica valoriale per definire il suo pensiero sulle leggi generali che dominano il cosiddetto capitalismo occidentale e non solo.
Quanto alla domanda di Renato dobbiamo dire chiaro e tondo che col permanere dei rapporti capitalistici incentrati sullo SCAMBIO, non è possibile in alcun modo ipotizzare nuovi e perciò diversi rapporti degli uomini con i mezzi di produzione.
Si tratta - anche in questo caso - di una legge fisica, e a giusta ragione l'Aquila reale Rosa Luxemburg ripeteva che "noi possiamo ragionare solo su ciò che non vogliamo senza illuderci di fare gli osti della storia a venire".
Ora capisco che una simile risposta può apparire disarmante per un compagno, ma il medico pietoso fa fare la piaga verminosa. Ed è esattamente un comportamento come quello di Zhok e dei tanti zhokkiani di questa fare che col loro modo di pensare non fanno altro che cercare di correre al capezzale del moribondo modo di produzione capitalistico per fargli la respirazione bocca a bocca per rianimarlo "eliminando gli eccessi".
Spero di essere riuscito a esprimere chiaramente il mio punto di vista.
Michele Castaldo
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Renato
Monday, 02 June 2025 09:02
Qui non si tratta piu' di perfezionare il nostro modo di vedere , capire, analizzare , studiare, anatomizzare il punto di vista e l'ideologia del padrone, il significante e significati , le sue parole , il linguaggio , l'accumulazione che ha da parte e come fa...lo sappiamo ampiamente da almeno 175 anni, (io solo da una quarantina).
Riprendo , quindi si tratta di sapere se abbiamo ancora voglia di studiare e progettare , poi sperimentare una rivoluzione che ci porti ad un altro modo di "vivere" , quindi anche di lavorare , senza piu' i valori e i significanti del "padrone" e di tutta la sequela dei suoi vocabolari , paure e carceri fisiche e mentali.
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Renato
Saturday, 31 May 2025 19:29
Commentare questo tema porterebbe via parecchio spazio e tempo.
Un 'aspetto non viene piu' preso in seria ed unica considerazione: la fuoriuscita dal lavoro salariato condurrebbe inevitabilmente alla fine del capitalismo, del profitto , del plus valore , del concetto di valore , dalla merce.
Teoricamente e molto probabilmente condurrebbe a qualcosa di completamente diverso.
Se cosi fosse , perchè le sinistre ufficiali e anche estreme o antagoniste non se lo pongono almeno come problema o condizione sine qua non , per iniziare a costruire una civiltà alternativa al capitalismo?
Perchè rimanere alle indignazioni e alle lamentele e non riprendere a studiare soluzioni altre, anche sperimentando attraverso la storica e dimenticata con ricerca dei migliori operaisti italiani e non solo? Cosa abbiamo ancora paura di perdere ?
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