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La notte dei morti viventi – Il giorno dell'orso dormiente
di Fulvio Grimaldi
Il farloccone ignorante e sbruffone eletto a presidente degli USA da un popolo dissanguato dai necrofili che lo hanno governato nell’ultimo quarto di secolo, lo sprovveduto agonizzante sotto i colpi revanscisti degli orchi spodestati, ha dato il suo colpo di coda. Colpo di un animale sfiancato che prova a sopravvivere superando in ferocia i suoi cacciatori e offrendogli in pasto la vita della Siria e, forse, dell’umanità. Coda subito sorretta, con indomito spirito di inservienti di forca, dal branco di botoli ringhianti europei, perdutamente devoti a chi li tiene alla catena da sempre e che, finalmente, possono tornare a riconoscersi in un padrone che li aveva disorientati sembrando disposto a privarli del piacere della frusta. In ogni caso, colpo di coda che parte da lontano, che il suo titolare lo sapesse o meno. Una roba come il sinistro-destro metro S.Pietroburgo-Tomahawk sulla Siria non la si improvvisa.
Torna in gola e ci strozza il sospiro di sollievo che il mondo aveva tirato all’idea che gli uni contro gli altri armati avrebbero messo insieme quella buona volontà che, dal 1945, gli Usa si erano impegnati a eliminare muovendo guerra dopo guerra, attuando colpo di Stato dopo colpo di Stato, promuovendo dittatore dopo dittatore, innescando destabilizzazione su destabilizzazione, lanciando contro tutto e tutti il maglio incontrastabile del terrorismo.
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Trump: questa non è soltanto l’America, questo è il mondo del Capitale
di Giorgio Paolucci
E si sta come quei viaggiatori ferroviari di Kafka
“…che hanno subito un sinistro in un tunnel, e precisamente in un punto da dove non si vede più la luce dell’ingresso, e quanto a quella dell’uscita, appare così minuscola che lo sguardo deve cercarla continuamente e continuamente la perde, e intanto non si è nemmeno sicuri se si tratti del principio o della fine del tunnel.”
Cento anni fa, per l’esattezza il 23 febbraio del 1917 secondo il calendario russo dell’epoca e il 10 marzo secondo quello in uso nel mondo occidentale, aveva inizio in Russia, nel pieno della prima guerra mondiale, quel processo rivoluzionario che si sarebbe concluso nell’ottobre successivo con l’insaturazione della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa, il primo governo dichiaratamente ispirato ai principi del marxismo rivoluzionario e avente nel suo programma il definitivo superamento del modo di produzione capitalistico e la costruzione di una società socialista.
Finita la guerra, martoriati dalla disoccupazione, dalla fame e dalla miseria, nel 1919 insorsero anche i proletari ungheresi e tedeschi, mentre in Italia ebbe inizio una lunga serie di scioperi e di forti scontri sociali - il cosiddetto biennio rosso - che culminarono, nel settembre del 1920, con l’occupazione di quasi tutte le maggiori fabbriche dell’Italia del Nord.
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Un copione consolidato
Tommaso Di Francesco
Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.
I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro.
Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.
Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.
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“Non c’è alcuna vera guerra al terrorismo islamico da parte di Usa e Ue”
di Redazione Radio Città Aperta
Stavolta gli Usa hanno attaccato la Siria. Ne parliamo con Fulvio Scaglione, giornalista, da anni vicedirettore di Famiglia Cristiana.
Buongiorno Fulvio, grazie per essere con noi.
Grazie a voi, buongiorno a tutti.
Ci siamo svegliati questa mattina con l'attacco, con i 59 missili statunitensi lanciati sulla Siria e quindi con una guerra che è un po' più vicina ancora?
No, io non credo che questo sia il prologo di una terza guerra mondiale, come molti dicono e anche con qualche legittima preoccupazione. Penso invece che sia l'ennesima recita, l'ennesima messa in scena di questa guerra che da sei anni; oltre ad essere un grottesco incredibile massacro, è anche una rappresentazione. Io credo che i russi fossero avvisati di questa operazione americana, che è un'operazione molto mirata, condotta per fare, in realtà, il minimo dei danni e per non dare l'idea che si tratti di una rappresaglia indiscriminata. Credo che questa operazione non sia stata varata da Trump per le ragioni dichiarate.
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Trump bombarda la Siria
Neanche 100 giorni per essere fagocitato dal sistema
di Federico Dezzani
Nella notte tra il 6 ed il 7 aprile è finita l’effimera parabola del presidente “populista” Donald Trump, fagocitato dallo stesso establishment che diceva di voler combattere: con 59 missili da crociera lanciati su una base aerea siriana, il neo-inquilino della Casa Bianca ha punito “il regime di Assad” per l’attacco chimico di Idlib dello scorso 4 aprile, un’evidente orchestrazione ad hoc. È superficiale affermare che Trump sia succube di Israele o degli alleati sunniti: il raid sulla Siria è una vera e propria resa all’establishment atlantico, ossessionato dal rinnovato attivismo di Mosca in Europa e Medio Oriente. Gli attacchi interni e le faide contro l’amministrazione Trump cesseranno, ma con essi muore anche la distensione con Mosca e le vaghe promesse di neo-isolazionismo. Le elezioni francesi si svolgeranno in un clima di fibrillazione internazionale ed il loro valore aumenta ancora.
L’establishment ha già riconquistato la Casa Bianca
La lotta tra il “populista” Donald Trump e l’establishment atlantico, liberal e finanziario, quello che poggia sull’asse City-Wall Street, non è durata neppure tre mesi: il 20 gennaio scorso il neo-presidente si è insediato alla Casa Bianca e dopo solo dieci settimane, appestate dalla diffusione di dossier, agguati al Congresso, insinuazioni sui suoi rapporti con la Russia, colpi bassi dei servizi segreti, Trump ha infine capitolato.
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Armi chimiche e mass media: come farci accettare una guerra in Siria
di Redazione
In guerra la prima a morire è sempre la verità. È questa l’impressione che, comunque la si voglia pensare, emerge dalla vicenda siriana. La propaganda di guerra, che nell’era digitale si combatte a suon di immagini, video e tweet, assume una tale viralità in un tempo così ristretto fino a rendere difficoltosa una verifica della veridicità di ogni notizia, con i media che evidenziano in parte una colpevole complicità, in parte l’urgenza di lanciare una notizia eclatante non curandosi di verificarla.
Dopo l’aggressione degli USA, che la scorsa notte hanno bombardato una base aerea dell’esercito siriano, probabile azione apripista di un intervento militare, è ormai chiaro l’intento che si celava dietro la “notizia”, lanciata a reti unificate da tutti i media, del presunto utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito fedele ad Assad, la cui aviazione avrebbe sganciato bombe al Sarin (un tipo di gas nervino) sulla città di Khan Sheikhun, nella provincia di Idlib, dove sono morte 74 persone, fra cui donne e bambini. Sul web sono subito impazzate foto e video di uomini, donne e bambini inermi, che avrebbero sconvolto chiunque e dinanzi alle quali difficilmente si resta indifferenti.
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La Siria come l’Iraq nel 2003
di Stefano Mauro
“L’attacco alla base aerea di Shayrat”- secondo il governatore di Homs, Talal Al Barazi – “ha causato 5 morti e 7 feriti”. Il governatore ha, inoltre, aggiunto che “questo bombardamento è utile solamente ai gruppi jihadisti come Daesh”. Dopo l’intervento missilistico americano, infatti, diversi miliziani dell’ISIS hanno tentato di attaccare postazioni dell’esercito lealista proprio nella regione di Homs, fondamentale per l’avanzata verso Deir Ez Zor e Raqqa.
Le reazioni all’attacco non si sono fatte attendere. Putin ha considerato il bombardamento come “ un tentativo americano destinato a distrarre l’opinione pubblica dal massacro di civili commesso dagli USA in Iraq”. Il Cremlino ha etichettato l’episodio come una chiara violazione del diritto internazionale e lo considera come un grave avvenimento che minaccia di peggiorare le relazioni tra Russia e Stati Uniti ed impedirà la formazione di “una reale coalizione internazionale unita contro il terrorismo”.
“Damasco (forte delle recenti vittorie e dell’avanzamento delle sue truppe, ndr) avrebbe avuto solo da rimetterci per un’azione simile ad Idlib, visto che stiamo velocemente recuperando posizioni sui gruppi ribelli”, ha dichiarato ieri il ministro degli esteri siriano Muallem.
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"Ora dobbiamo esercitare i nostri diritti costituzionali e pretendere che l'Italia esca dalla NATO"
Riceviamo e immediatamente ripubblichiamo
Comunicato del Comitato No guerra No NATO sull'attacco USA alla Siria
Due navi da guerra statunitensi, la USS Porter e la USS Ross della Sesta Flotta di stanza a Napoli, hanno attaccato la base siriana di Shayrat con 59 missili da crociera Tomahawk.
L’attacco, ordinato dal presidente Trump, è stato eseguito dal Comando delle forze navali Usa in Europa, agli ordini dell’ammiraglia Michelle Howard, che allo stesso tempo comanda la Forza congiunta della Nato con quartier generale a Lago Patria (Napoli).
L’operazione bellica è stata appoggiata dalla base aeronavale Usa di Sigonella e dalla stazione di Niscemi del sistema statunitense Muos di trasmissioni navali.
L’Italia – dove si trovano importanti comandi e basi per operazioni militari in una vasta area che dal Medioriente e Nordafrica arriva fino al Mar Nero – è un fondamentale trampolino di lancio della strategia aggressiva Usa/Nato.
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Siria tra bombe e fake news
di Fabrizio Casari
Senza lo straccio di una prova, senza nessuna verifica circa l’accertamento dei fatti e le responsabilità, senza nessuna certezza sul materiale chimico utilizzato e, con esso, sull’identità dell’eventuale possessore, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco a base di missili Tomahawk sulla base militare siriana di Al Shayrat. Il Presidente Trump ha così avuto il suo “battesimo del fuoco”, rito di passaggio di ogni presidente statunitense che segna il passaggio dalla sua elezione all’assunzione effettiva di ruolo.
Stavolta è toccato alla Siria, il cui governo sembra effettivamente poco entrarci con le armi chimiche che hanno avvelenato decine di vittime. Ma non c’è nessuna prova che accusi le forze armate siriane dell’accaduto, che riferiscono invece di aver centrato con i loro aerei un deposito di armi dei terroristi jahidisti, dove evidentemente erano stoccate anche quelle chimiche.
Che l’Isis e le fazioni terroristiche facenti riferimento ad Al-Nusra dispongano di armi chimiche non è un segreto: gliele hanno fornite i turchi un anno fa su indicazione statunitense.
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In Siria missili contro Putin
di Davide Malacaria
Quel che è avvenuto stanotte, nell’oscura notte siriana, è qualcosa di epocale. I missili lanciati sulla base aerea di Al-Shayrat non rappresentano solo il primo passo di un eventuale intervento militare americano contro Damasco.
Non sembra solo ripetersi il copione noto delle guerre neocon, quelle che si sono succedute dopo l’11 settembre 2001, da quando cioè tale ambito ha sequestrato e condizionato in maniera decisiva la politica estera degli Stati Uniti d’America (Afghanistan, Iraq, Egitto, Libia, Siria etc).
Quanto avvenuto stanotte è altro e ben più tragico. Perché la base bersaglio dei missili americani era usata anche dai russi, giunti in Siria a sostegno di Assad due anni fa.
Trump ha affermato che l’obiettivo è stato prescelto perché da lì sono partiti gli aerei che avrebbero sganciato gli ordigni chimici su Idlib.
Al di là della veridicità o meno dell’affermazione del presidente americano, non suffragata da alcuna prova (vedi Piccolenote), quel che resta è che i missili lanciati dalla Us navy erano diretti contro una base usata dai militari di Mosca.
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Conflitto nucleare? La palude europea
di Antonello Boassa
Quanto dovranno aspettare ancora coloro che si definiscono “pacifisti”, di “sinistra moderata”, per scegliere tra guerra e pace, tra l’aggressione imperiale USA e UE supportata da Arabia Saudita e Turchia e la difesa del proprio territorio e della propria civiltà del Libano, della Siria, dell’Iraq?
Questi militanti non hanno tanto tempo a disposizione. Perché la guerra, intendo il conflitto nucleare, sta facendo molti passi in avanti…e sarebbe bene che si schierassero. Non sono Russia e Cina che provocano ma Stati Uniti, Unione europea. Israele, Arabia Saudita, Qatar.
Sono già molti gli esperti che ritengono l’attacco chimico una false flag. Impossibile una tale azione da parte di Assad. Il bombardamento Usa dell’aeroporto in Siria come risposta all’azione “criminale” di Assad. Entusiasmo tra i jihadisti e in Israele. “Appropriato” secondo Alfano. Giusto per Gentiloni dato che Assad “è un criminale di guerra”.Tutte le persone che hanno voluto informarsi sanno bene che le armi chimiche ai ribelli sono arrivate per opera della Clinton e della Turchia e che risulta credibile la versione siriana sulla distruzione di un deposito di armamenti, di munizioni, di armi chimiche da parte dell’aviazione siriana, in quanto risulta confermata da rilievi satellitari e da testimonianze locali.
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Il mercantilismo è finito ma l'Europa non lo sa
di Pasquale Cicalese
“Da quando il mercato mondiale è divenuto una realtà operante, una serie di paesi industriali si fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata con maggiore facilità. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli e ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici, di cui si circondano tutti i paesi industriali. Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale”. Friedrich Engels, nota al III capitolo de Il Capitale, citato da Gianfranco Pala, Economia nazionale e mercato mondiale, Laboratorio Politico, Manes editore 1995.
“La struttura degli equilibri del capitalismo internazionale di lunga durata sta sperimentando una altrettanto profonda riconfigurazione. Nel 1991, secondo l’Unctad, il 36% del valore aggiunto industriale globale era riferibile all’Europa e il 24% al Nord America.
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Le dame, i cavallier, l’euro e la Nato
di Lanfranco Binni
L’ironia della storia ha voluto che i ventisette congiurati “europei” delle Idi di marzo si trovassero installati in una sala particolare del Palazzo dei Conservatori, in Campidoglio: la sala degli Orazi e dei Curiazi, affrescata dal Cavalier d’Arpino all’inizio del Seicento sul tema maschio della forza militare di Roma che afferma con astuzia la sua supremazia sul nemico di turno, gli sprovveduti Curiazi di Alba Longa. La corsa degli Orazi e dei Curiazi fu giocata sulla velocità, e chi si fermò fu ammazzato (il tema si tradurrà nel «Chi si ferma è perduto» dell’italica retorica fascista e delle sue declinazioni successive, fino al «correre!» e «vincere!» del bullo di Rignano; in questo caso gli Orazi sono stati gli elettori del 4 dicembre). I congiurati delle Idi di marzo del 44 a. C. pugnalarono Cesare per difendere la tradizionale oligarchia e scongiurare l’autocrazia di un unico despota. Il gioco, presentato a patrizi e plebei come difesa della libertà della Repubblica, era truccato. In uno straordinario cortocircuito storico i congiurati di un’Unione europea divisa ma arroccata in difesa mentre i “barbari” premono ai confini, e il nemico è anche interno (popoli maledetti, tutti “populisti” quando non stanno al gioco), e i mercati sono contesi da pericolosi competitors della globalizzazione di un capitalismo i cui assetti produttivi tradizionali (occidentali) sono in coma, hanno fatto appello all’unità dell’oligarchia europea, alle diverse velocità delle economie finanziarie forti e dei gregari deboli in una corsa che trova il suo unico obiettivo strategico di medio termine nella «difesa comune» della fortezza assediata.
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L’eredità dimenticata di Carl Schorlemmer
di Ian Angus*
Avere una base per la vita e un’altra per la
scienza è une falsità a priori (Karl Marx)
Negli ultimi decenni del XX secolo una singolare idea ha preso piede in alcuni settori del mondo accademico. Con essa si è voluto sostenere che, lungi dall’essere i più stretti compagni e collaboratori, intenti a lavorare in armonia per quarant’anni, Karl Marx e Friedrich Engels di fatto erano in disaccordo riguardo a questioni fondamentali, sia teoriche che pratiche.
I presunti disaccordi tra i due avrebbero riguardato la natura e le scienze naturali. Ad esempio, Paul Thomas contrappone “il ben noto interesse di Engels per le scienze naturali” alla “mancanza di interesse da parte di Marx”, suggerendo che “Marx ed Engels erano divisi da un abisso concettuale che avrebbe resistito ad ogni tentativo d’insabbiamento”(1). Terrence Ball, analogamente, sostiene che “l’idea (successivamente abbracciata da Engels) secondo la quale la natura esiste indipendentemente, e prima, di ogni sforzo da parte dell’uomo di trasformarla, è del tutto estranea all’umanesimo di Marx”(2). Dal punto di vista di Ball, alla distorsione della filosofia di Marx compiuta da Engels vanno addebitate “alcune delle più repressive caratteristiche dell’esperienza sovietica”(3).
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Esiste in Marx una teoria generale e unitaria della crisi?
di Ascanio Bernardeschi
1. Premessa
La coincidenza fra gli importanti studi filologici attorno all’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels1 e l’avanzare di una importante crisi del capitalismo mondiale, ha determinato una ripresa dell’interesse verso la teoria della crisi economica all’interno del sistema di analisi di Marx.
Se ormai resta diffìcile per chiunque disconoscere l’importanza del lascito marxiano su questo argomento, gli stessi estimatori di Marx si dividono fra di loro su questioni interpretative rilevanti. Ne è esempio il pregevole numero monografico sulla crisi in Marx della rivista «Pagine inattuali»2.
Per esempio Giovanni Sgro’, curatore del numero della rivista, nella sua analisi dei Quaderni di Londra3, sostiene che in Marx non «vi sia un’unica teoria della crisi» ma «diversi approcci teorici per l’analisi e la spiegazione delle crisi»4.
Stefano Breda da parte sua sostiene - se abbiamo ben capito - che non esista, e non possa esistere all’interno del livello di astrazione cui giunse Marx, una teoria della crisi in quanto la spiegazione di tali fenomeni deve avere le caratteristiche di teoria cuscinetto5 frapposta fra il cielo della teoria della struttura del modo di produzione capitalistico e la terra dell’analisi dei fenomeni contingenti che caratterizzano le diverse crisi6.
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Chi sono e cosa vogliono gli "amici del popolo"?
di Sebastiano Isaia
Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato.
M. Horkheimer, T. W. Adorno.
Il povero biascica le parole per saziarsi di esse.
Egli attende dal loro spirito oggettivo il valido
nutrimento che la società gli rifiuta; e fa la voce
grossa, arrotondando la bocca che non ha nulla
da mordere.
T. W. Adorno.
«Gli italiani hanno bisogno come il pane
dell’uomo che “si affaccia dal balcone”»
(I. Montanelli). O dal Blog.
Dietro all’uno vale uno di solito si nasconde il Super Uno.
1. Populismo: è la categoria politica oggi più citata – e il più delle volte abusivamente – nel dibattito politico degli ultimi dieci anni.
In realtà, già con l’avvento del berlusconismo, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, si iniziò a scomodare quella definizione; allora però più che di “popolo” si straparlava di “società civile”, una mitica entità antropologicamente orientata al bene da contrapporre alla corrotta e incivile casta politica.
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Il mito della crescita attraverso il libero scambio
di Patrick Kaczmarczyk
Il sito di analisi politica ed economica Makroskop, curato da Heiner Flassbeck e Paul Steinhardt, passa al vaglio in questo documentato articolo il mito neoliberista secondo cui il libero mercato sarebbe sinonimo di crescita e benessere per tutti, mentre il protezionismo foriero di povertà e disastri. Giungendo alla conclusione che un’analisi senza pregiudizi della storia economica degli ultimi due secoli permette di affermare l’opposto: il libero mercato non porta affatto vantaggi a tutti e un certo protezionismo può giovare allo sviluppo economico di un paese, come risulta in particolare se si esamina il periodo precedente alla Prima guerra mondiale, proprio quello solitamente usato come prova a sostegno delle tesi neoliberiste
Il protezionismo conduce alla guerra e alla stagnazione, il libero scambio inevitabilmente alla crescita. Questa storiella è un paradosso neoliberista da prima del 1913. Vale la pena dare un’occhiata più attenta alla storia.
Da quando Donald Trump è diventato presidente, ha cominciato a circolare la paura del protezionismo. Eminenti economisti attraverso i mass media ci mettono in guardia all’unisono contro le sventure che il protezionismo avrebbe già apportato all’umanità.
A questo proposito sempre più spesso si traccia un confronto con il periodo precedente alla prima guerra mondiale, che in letteratura notoriamente segna la fine della prima era della globalizzazione. Gabriel Felbermayr, dirigente dell’IFO – Institut für Wirtschaftsforschung (Istituto per la ricerca economica) di Monaco – sezione commercio estero, vede la fine della globalizzazione in arrivo già prima delle elezioni americane in novembre e fa risalire al crescente protezionismo la catastrofe della prima guerra mondiale (1914 – 1918) (vedi qui). Il messaggio è chiaro: appena limitiamo in qualche modo il libero scambio, questo ci porta al disastro economico.
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Potenzialità e limiti del reddito di base
Risposte al questionario di Etica & Politica
Giovanna Vertova
Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi
Università di Bergamo
giovanna.vertova@unibg.i
Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignita pugliese o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge (quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva condizionalità.. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano - ammesso e non concesso che di “ritardo” effettivamente si tratti? Come e possibile tradurre politicamente un dibattito teorico che dura ormai da decenni?
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella discussione teorica e nella pratica politica italiana.
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Può questa Europa essere pro-Labour?
di Pasquale Tridico
Partiamo dalla Costituzione Italiana
La costituzione Italiana è una costituzione molto progressista, pro-labour, una delle più progressiste in Europa, orientata al lavoro, alla protezione dell’impiego, all’iniziativa pubblica, alla costruzione di un welfare state, alla rimozione degli ostacoli economici e sociali per la realizzazione di una una democrazia sociale oltre che verso un notevole progresso civile.
I trattati di Roma del 1957 non intaccarono questa costruzione sociale e democratica, ed anche se perfino questo punto è controverso, c’è un grande consenso tra gli studiosi verso questa posizione.
Ciò che invece sembra in contrasto con quanto la nostra Costituzione asserisce sono le regole dettate dal Trattato di Maastricht e dai successivi trattati, sottoscritti durante la crisi, che restringono ancor di più i margini dello Stato per realizzare quanto la nostra costituzione afferma. Non è mia intenzione in questa sede dimostrare da un punto di vista giuridico incostituzionalità formale del trattato di Maastricht rispetto alla nostra costituzione. Ciò che invece metto in discussione è la sostanza delle due costruzioni istituzionali, e la contraddizione tra gli obiettivi dell’una e dell’altra: le aspirazioni sociali, democratiche e progressiste della nostra costituzione sono fortemente limitate dal trattato di Maastricht.
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Titanic Italia
di Renato Caputo
La difesa di un modo di produzione sempre più irrazionale porta necessariamente alla riduzione dei diritti umani, alla guerra tra poveri, fomentata da un pensiero unico dominante sempre più distopico
Dopo anni di retorica sulla necessità di difendere ed esportare, sino a riabilitare la guerra di aggressione, i diritti umani in tutto il mondo, finiamo con il dover constatare di esserne rimasti carenti. Non solo per la palese violazione dei diritti umani a causa della loro imposizione con la violenza della guerra, spesso condotta con i metodi terroristici dei bombardamenti sulla popolazione civile; non solo per le devastanti conseguenze delle guerre, che hanno favorito l’affermazione di forze che li violano in modo ancora più aperto, ma per aver trascurato l’esigenza prioritaria di farli rispettare al nostro interno.
A denunciarlo non è qualche incorreggibile disfattista comunista, ma la recentissima relazione della Commissione dei diritti umani dell’Onu emessa sull’Italia, a verifica del rispetto del “Patto dei diritti civili e politici” ratificato dal nostro paese. Non si tratta, purtroppo, di una pur grave trascuratezza, considerato che il rapporto è giunto con ben sei anni di ritardo a causa della reticenza del nostro Stato a consegnare all’organismo internazionale le informazioni indispensabile per redigerlo.
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Il rovescio della libertà
Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà
Massimo De Carolis
Nella storiografia economica si è diffuso da tempo il vezzo di designare i tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale con l’espressione les trente glorieuses: una formula coniata in origine per il miracolo francese del secondo Dopoguerra, che col tempo è stata progressivamente estesa all’intero mondo occidentale. Per chi sia abituato a privilegiare, nella storia, la dimensione strettamente politica, l’attribuzione disinvolta di un titolo così onorifico può forse destare qualche perplessità, pensando alle tensioni generate in quegli anni dalla guerra fredda, dalla minaccia nucleare o dall’asprezza dei conflitti ideologici e sociali. Se ci si concentra però sui soli parametri economici, è difficile negare che l’economia di mercato abbia messo a segno, in quei decenni, un risultato a dir poco straordinario. La crescita è stata consistente e ininterrotta, il tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione occidentale è considerevolmente migliorato e le disuguaglianze sociali si sono ridotte in modo significativo.
Al confronto, la fase storica successiva offre, a uno sguardo retrospettivo, uno spettacolo decisamente meno incoraggiante. Quelli che si succedono, a partire dagli anni Ottanta, sono anni senza gloria, afflitti da crisi continue, da effimeri entusiasmi e grandi delusioni, destinati a sfociare in una crisi di lunga durata e nella drastica esplosione delle disuguaglianze.
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Soft Machine 2.0
L’operaio sociale e l’uso capitalistico delle macchine
di Franco Carlucci
1.
Viviamo in un mondo di macchine, interfacciati ad esse da quando apriamo gli occhi la mattina a quando li richiudiamo la sera. Tanto da non capire più bene se sia la macchina un prolungamento dell’agire umano o, viceversa, siano gli esseri umani appendici funzionali al libero dispiegamento della potenza macchinica. Il mondo delle macchine sembra diventato l’habitat naturale per l’homo tecnicus come la savana per il leone. La nostra nuova natura è quella di interagire con la macchina normalmente, al di fuori dell’eccezionalità e dello stupore che assaliva gli uomini alle prese con i primi marchingegni, poche generazioni fa.
È l’innovazione tecnologica che ci ha portato a questo, il tumultuoso progresso scientifico e la sua puntuale applicazione tecnica. Da quando James Watt perfezionò la macchina a vapore, agli albori della rivoluzione industriale, i capitalisti hanno sempre dato centralità all’investimento nell’innovazione tecnologica che permettesse di produrre di più, meglio, in maniera più veloce e diversificata. Quindi lo sviluppo capitalista è accompagnato dalla produzione di macchine sempre più sofisticate. Questo sviluppo tecnico si è sempre presentato come oggettivo e sinonimo di “bene comune” e la macchina è stata qualificata come neutrale, come frutto di un’evoluzione naturale della storia dell’umanità, come se la proprietà privata capitalistica di quella stessa macchina fosse elemento secondario e incidentale.
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Nadia Urbinati su populismo e totalitarismo
di Alessandro Visalli
Un articolo su L’Espresso in cui Nadia Urbinati risponde a due precedenti articoli di McCormick e di Del Savio e Mameli, che riprendono le posizioni di Laclau riflettendo sul Machiavelli dei “Discorsi sulla prima decade di Tito Livio”
Per la politologa italiana “populismo” è un concetto impreciso, che nella pratica politica è usato per descrivere cose diverse, come dice sia forme di mobilitazione e partecipazione spontanee (ad esempio il movimento dei forconi di qualche anno fa, o in modo più significativo Occupy Wall Street o gli Indignados) sia partiti organizzati nel gioco politico parlamentare (es. il Fronte Nazionale di Le Pen).
Fin qui direi che si sottolinea l’ovvio.
Ma subito dopo propone gli steccati ideali nei quali far passare il discrimine:
- se essere “solidaristico e inclusivo”, come dicono alcuni, o “discriminatorio e insofferente verso i diritti individuali e le minoranze”, come altri. Il primo criterio è dunque inquadrabile in termini di teoria politica nel dibattito tra posizioni liberali e comunitarie o repubblicane.
- Il secondo è su un’altra rubrica, se “mette a rischio le democrazie costituite”o se il populismo, al contrario, “inaugura nuove possibilità per la democrazia”. Dunque qui sarebbe in gioco la meccanica della formazione della volontà tra istituti “costituiti” e “nuove possibilità”.
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Polanyi, Hayek e le aporie del reddito di cittadinanza
di Riccardo Evangelista
1. Introduzione
Mentre in Italia la discussione è ancora in divenire, dal gennaio 2017 la Finlandia ha iniziato la sperimentazione del reddito di cittadinanza, fissato per l’occasione a 560 euro mensili. Da un primo sguardo emergono modalità di attuazione piuttosto singolari, se non stravaganti: sono stati infatti sorteggiati 2000 cittadini tra i 25 e i 63 anni, che riceveranno l’assegno indipendentemente dal salario ma in alternativa al sussidio di disoccupazione. Lo scopo, a detta del governo presieduto dal centrista Juha Sipilä, è di valutare le conseguenze dell’erogazione monetaria, percepita dai riceventi come sicura, sulla propensione ad accettare un lavoro. I risultati saranno resi noti solo nel 2019, momento in cui verrà deciso se continuare, modificare o interrompere l’esperimento.
Nel frattempo che il caso finlandese dispieghi i suoi effetti, emerge l’opportunità di alcune considerazioni il più possibile generali, troppo spesso trascurate in favore di analisi empiriche talvolta col fiato corto. Nonostante le modalità specifiche di attuazione siano ovviamente rilevanti per un giudizio non parziale, così come le questioni finanziarie sulla sostenibilità delle erogazioni, lo scopo del presente contributo è diverso: verrà proposta una breve riflessione teorica che provi ad indagare i presupposti fondamentali del reddito di cittadinanza nell’ambito delle scelte complessive di politica economica. Per farlo si proverà a interrogare due autori che la questione del reddito di cittadinanza se la sono già posta, arrivando a giudizi molto diversi ma comunque estremamente interessanti.
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Stakanovismo e controriforme nel capitalismo neoliberista
di Paolo Massucci*
Il potere di condizionamento dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo
In una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una “nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute. Ci si potrebbe chiedere -se fosse cosa seria- se la ricerca medica stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute -se fosse vero-, saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie, se mai ne avesse.
E’ notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti, intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione, richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del governo Berlusconi.
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