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Intervista al prof. Andrea Zhok

di Bollettino Culturale

schieleAndrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato studiando e lavorando presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. È attualmente professore di Filosofia Morale, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Tra la sue pubblicazioni monografiche ricordiamo, Il concetto di valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2002), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006), Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018), e Critica della ragione liberale (Meltemi, 2019).

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1. Zhok, è famoso per essere un feroce critico del pensiero liberale e della sua concezione del mondo. La proposta d’organizzazione della società che difende mi verrebbe da definire "comunitarista", in contrapposizione al pensiero liberale che ha come sua logica conclusione un mondo in cui ognuno ha piena libertà di vendere e comprare qualsiasi cosa. Contro questa visione del mondo contrappone il raggiungimento di una nuova ragione comune. Ha legami con il pensiero comunitario questa sua critica? In quale soggetto storico vede incarnarsi la possibilità di ergersi a soggetto antagonista nella fase attuale capitalismo e di porsi come costruttore di questa altra società?

1. Accetto volentieri l’etichetta di ‘comunitarista’, ma vorrei qualificare la ‘ferocia’ della mia critica al pensiero liberale. Come cerco di spiegare nel lavoro che ho dedicato al tema, il problema della ‘ragione liberale’ è di essere una teoria politica contingente, adatta ad un periodo storico, che è assurta invece a visione del mondo, con ingiustificabili pretese antropologiche ed etiche (e persino ontologiche).

Le istanze che attribuiamo al pensiero liberale, con particolare riferimento al cosiddetto ‘liberalismo classico’, hanno giocato un ruolo progressivo nel superamento dei limiti dell’Ancien Regime. Molte delle conquiste avvenute sotto l’egida del liberalismo sono consolidate e a mio avviso definitive. In questo senso il primo passo per essere un ‘feroce’ critico del pensiero liberale è riconoscere che noi ci muoviamo in un mondo che è stato riconfigurato in punti essenziali dalla ragione liberale e che tale riconfigurazione per lo più è da considerare una conquista stabile (penso al cosiddetto ‘stato di diritto’, alla ‘divisione dei poteri’, all’introduzione di elementi di ‘libertà economica’).

Una volta chiarito questo punto si può riconoscere che la ragione liberale da un lato ha perduto (almeno in Occidente) ogni carattere propulsivo, e dall’altro che i suoi difetti intrinseci, presenti sin dall’inizio, nell’ultimo mezzo secolo hanno iniziato a deflagrare. Questa esplosione è dovuta ad un fatto fondamentale: la teoria liberale era nata come una teoria ‘contro’, una teoria capace di erodere ed abbattere il modello precedente con le sue rigidità, ma anche una teoria che stava in piedi grazie alle stesse rigidità che andava erodendo. Una volta ottenuta la vittoria, la teoria liberale si mostra come povera e vuota: essa è essenzialmente incapace di costruire alcunché e sul piano propositivo è strettamente legata ad un supporto più o meno miope dei meccanismi economici capitalistici. La ragione liberale ha rappresentato una straordinaria forza ‘destruens’, ma alla prova della costruzione sociale non ha davvero nulla da proporre. E quando crede di poter proporre qualcosa, ciò che propone ha di nuovo solo un carattere distruttivo, nichilistico, individualistico.

Quanto al tema del ‘comunitarismo’, si tratta di una questione complessa, che richiederebbe una discussione preliminare intorno alla natura umana, una discussione volta a mostrare il carattere di ‘ente intersoggettivo’ di ciò che chiamiamo ‘persona’. Come teoria politica il ‘comunitarismo’ è una teoria abbastanza vaga, con autori che raramente vi si riconoscono, e che spaziano da posizioni che chiameremmo ‘di estrema sinistra’ a posizioni ‘di estrema destra’. Perciò, se parliamo dell’ispirazione comunitarista di autori come Hegel, Marx e tra i contemporanei Alistair MacIntyre, posso aderirvi senz’altro (naturalmente con varianti e precisazioni, ovvie viste le difformità tra gli autori citati.)

Quello che è certo, ed è il cuore intuitivo del ‘comunitarismo’, è che gli individui traggono il senso della propria esistenza dall’intorno di persone con cui interagiscono in relazioni faccia a faccia, culturalmente e territorialmente definite. Quando questa dimensione di interazione primaria presenta malfunzionamenti, la capacità stessa delle persone di conferire senso alle proprie vite inizia a collassare. Non esiste alcun sostituto per questa dimensione umana primaria, dimensione che il liberalismo misconosce integralmente.

 

2. Un altro tema essenziale è per me la critica ad ogni storicismo. Da althusseriano dico che la storia non ha direzione, non lavora per nessuno. Occorre respingere ogni metafisica del progresso. Come si inserisce in questo importante dibattito, a mio avviso essenziale nel decostruire le basi del pensiero liberale?

2. Se per storicismo si intende una teoria metafisica della storia come progresso fatale, non ho alcun tentennamento a liquidarla come una metafisica consolatoria e priva di fondamento. Però tra i molti sensi dello storicismo ce ne sono alcuni cui tengo, e specificamente l’idea che la forma di vita umana tende spontaneamente a leggersi in una cornice ‘storica’, dove azioni collettive si stratificano nel tempo. La storia non è una forma descrittiva accidentale per l’uomo, non è qualcosa che potrebbe essere facilmente sostituita da una descrizione strutturale astorica. Le alternative che abbiamo dipendono solo dalla nostra concezione del tempo (circolare o lineare, ascendente o discendente, unico o ciclico, ecc.), ma la vita umana se non si descrive come storica (anche la narrazione mitica lo è) non ha modo di dar conto del proprio senso.

 

3. Ritiene il momento populista il modo in cui è possibile riprendere il filo del conflitto sociale oggi?

3. Ho discusso più volte del problema di come interpretare il ‘momento populista’. C’è un senso in cui il cosiddetto ‘populismo’, cioè l’appello alle maggioranze escluse dalla distribuzione dei benefici del sistema economico globalizzato, può essere una sorta di ‘sostituto prossimo’ dell’appello socialista al popolo. Questa è la prospettiva ben argomentata dall’amico Carlo Formenti, ed ha ottime ragioni da spendere. C’è però a mio avviso un limite fondamentale nella prospettiva ‘populista’. Il marxismo, nelle sue versioni socialista e comunista, si era fatto carico di un potente tentativo di ‘educare il popolo’ e di ‘creare la coscienza di classe’. Negli anni più gloriosi della crescita di influenza del socialismo, e poi del comunismo, non ci si faceva affatto illusioni intorno all’idea che in qualche modo ‘automaticamente’ il popolo fosse in grado di giudicare oculatamente e di riconoscere i propri interessi. Possiamo oggi criticare l’ingenuità, spesso pervasa di positivistica semplificazione, con cui ha operato l’attività formativa del popolo nelle sezioni o nelle case del popolo, ma, per il periodo, fu un’impresa straordinaria, da cui si continuarono a estrarre frutti per decenni.

L’odierno ‘populismo’, come peraltro quello classico, assume invece (forse per disperazione e mancanza di alternative migliori) che il popolo sia in grado senz’altro di riconoscere i propri interessi e di diventare un agente collettivo, soprattutto se adeguatamente sollecitato da un leader carismatico. Questo talvolta è vero, per questioni su cui le persone hanno esperienze dirette e reiterate, ma talvolta è drammaticamente falso. È un elemento che si manifesta, ad esempio, ogni qual volta emergono tematiche di interesse pubblico in cui una valutazione adeguata richiede una qualche formazione scientifica o metodologica, come nelle discussioni avvenute intorno a tematiche ecologiche o nella stessa corrente pandemia di Covid-19. In questi casi il populismo naufraga molto rapidamente nella cialtroneria e nella retorica, limitandosi a lisciare il pelo agli interessi costituiti dei gruppi che si tenta di mobilitare. Il populismo di fatto finisce per fondere due linee divisorie tra ‘popolo’ ed ‘élite’, una linea di privilegio economico ed una linea di privilegio culturale. Se il ‘popolo’, e gli stilemi ed argomenti che vengono usati per rivolgervisi, cercano di contrapporsi simultaneamente alle élite economiche e a quelle culturali, finiscono per condannarsi all’impotenza.

Socialismo e comunismo, con tutti i loro limiti, giocavano efficacemente la carta della qualificazione culturale contro quella del privilegio economico. Il populismo invece tende ad accettare il degrado culturale prodotto da mezzo secolo di neoliberismo, pensando di poterlo aggirare con una scelta di linguaggio diretto e un leader carismatico. È comprensibile la tentazione di adottare questa scorciatoia, che dà l’impressione di ‘fare qualcosa’, di ‘fare politica’. Ma temo che il massimo che possa essere ottenuto per questa via è l’accesso a qualche rivendicazione d’interessi locali di tipo sindacale. Può essere importante, ma non rappresenta un progetto politico.

Perciò, sotto queste premesse, sono molto scettico verso prospettive propriamente populiste, anche le meglio intenzionate.

 

4. Oggi la sinistra conduce solo battaglie nel campo dei diritti civili, spesso per non discutere dell'erosione di quelli sociali e per dare qualche tema su cui impegnarsi a giovani con la pancia piena che saranno la classe dirigente del domani. Come analizza questa degenerazione di quella che fu la socialdemocrazia europea ma che possiamo estendere anche a parte della sinistra radicale?

4. È un tema che ho esaminato più volte, ed ha a che fare con l’inavvertita metamorfosi avvenuta nel pensiero di sinistra dopo il ’68. Un’analisi adeguata potrebbe riempire una vasta monografia, ma riducendolo ai minimi termini il problema è il seguente. Nel ’68 erano emerse due importanti linee in chi contestava l’establishment: una linea era focalizzata sull’emancipazione e realizzazione personale, l’altra era focalizzata sulla costruzione di una forma di vita sociale differente e migliore. Entrambe le linee si radicavano nella migliore tradizione socialista e comunista.

Sin dagli inizi nella riflessione hegelo-marxiana era stato un punto teorico caratterizzante e potente quello di intendere l’emancipazione e realizzazione individuale come incardinati in, e intrinsecamente correlati a, un mutamento dei rapporti sociali (di produzione). Le vicissitudini del ’68, la sconfitta politica che ne è seguita, e la perdita di attrattiva del modello sovietico (soprattutto dopo la ‘Primavera di Praga’) operarono insieme verso una scissione di quelle due istanze: la sfera dell’emancipazione e realizzazione personale rimase in piedi, ma abbandonando il legame con una richiesta di cambiamento dei rapporti sociali, che veniva di fatto messa da parte.

Una volta isolate, le istanze emancipative personali vennero tacitamente sussunte sotto classici paradigmi liberali, come quello dei diritti civili, delle rivendicazioni private, della libertà come non interferenza, della contestazione delle strutture sociali sovraindividuali (stato, partito, famiglia, ecc.). Così, praticamente senza accorgersi della metamorfosi, una gran parte della ‘sinistra’ tradizionale finì per confluire in una qualche variante del liberalismo o dell’anarcoindividualismo, istanze perfettamente compatibili con il regime capitalista in tutte le sue manifestazioni, anche le più deteriori.

 

5. I mesi passati hanno visto l'esplosione in Italia del Movimento delle Sardine che reclamavano a gran voce la Politica con la "P" maiuscola, ovvero, la dittatura dell'esperto e del meritevole sulla democrazia. Questo culto della tecnocrazia lo ritengo uno dei principali nemici della democrazia. Come giudica questa forma di governamentalità che vediamo in azione ormai ovunque nel mondo, dalla Cina all'UE?

5. Diciamo che l’idea di ‘esperto’ e di ‘meritevole’ esemplificato dai rappresentanti del Movimento delle Sardine è qualcosa di singolarmente patetico. In verità questo ‘movimento’, pompato ad arte dai media perché al momento tornava utile come argine alla crescita della Lega, è un movimento squisitamente populista, solo in un senso diverso rispetto al ‘populismo di destra’. Il fatto che ad essere promosse siano scialbe trivialità con un aroma ‘progressista’ invece di scialbe trivialità con un aroma ‘conservatore’ non li rende particolarmente prossimi ad alcuna tecnocrazia.

A prescindere dalle Sardine, su cui non vale davvero la pena di spendere tempo, il tema della ‘tecnocrazia’ è invece un tema davvero complesso. I lati oscuri delle pretese ‘tecnocratiche’ odierne sono essenzialmente due.

In primo luogo, si fa passare per un sapere eminentemente tecnico l’ortodossia economica neoclassica, che è mille miglia lontana dall’essere una ‘scienza apolitica’. Come ho cercato di mostrare nell’ultimo libro, l’ortodossia economica neoclassica di fatto è una ‘scienza del capitalismo’, nel doppio senso del genitivo: è una scienza che ha validità nella specifica cornice storica dei rapporti di produzione capitalistici, ed è una scienza che implicitamente supporta ed alimenta un ordinamento dei rapporti di produzione di tipo capitalistico. Non c’è quasi niente di neutrale nell’economia contemporanea, anche se questo non significa, naturalmente, che studiarla comporti automaticamente un posizionamento politico: per la minoranza di studiosi che prendono consapevolezza della parzialità delle premesse antropologiche ed assiologiche inerenti all’edificio neoclassico si apre la possibilità di usare la teoria economica per finalità critiche del sistema. Se ‘affidarsi ai tecnici’ significa ‘affidarsi all’ortodossia economica prevalente’, questo di fatto è un posizionamento politico sensibile agli interessi del capitale, lontano mille miglia da ogni ‘neutralità tecnocratica’.

Più in generale, in un contesto in cui una progettualità politica strutturata è pressoché scomparsa e in cui lo stesso ceto politico appare screditato, l’appello ai ‘tecnici’, anche in altri campi, diversi da quello economico, è un modo per camuffare scelte politiche da scelte neutrali. Si tratta di fatto di un puro e semplice imbroglio: si utilizza il credito attribuito al ‘sapere’ per conferire credito a scelte politiche che non si riuscirebbe a motivare in senso propriamente politico.

 

6. Il '68 ha visto decomporsi il capitalismo borghese a favore di un capitalismo postborghese che da quegli straordinari eventi recepì la critica artistica. Dal pudore borghese, al permissivismo che domina la nostra società. Come analizza questo passaggio?

6. Su questo tema le analisi di Boltanski e Chiapello sono chiarificatrici e per molti versi conclusive. Mi piace solo segnalare che il processo di fratturazione delle ‘norme sociali’ era già ben visibile nella cosiddetta “Belle Epoque”, nei grandi centri urbani prima della prima guerra mondiale (l’epoca del ‘decadentismo’). Il processo di disgregazione dei sistemi normativi precedenti è un tratto caratteristico fondamentale della ragionale liberale. Finché i sistemi normativi precedenti sono ancora robusti ed oppongono resistenza, l’intervento disgregativo della ragione liberale può avere effetti benefici, alimentando innovazione e creatività. Credo, ad esempio, che l’esplosione di creatività musicale nell’ambito pop-rock tra anni ’60 e anni ’70 sia un esito positivo di questo tipo di processo: soggetti che prima erano passati attraverso una formazione disciplinante (nella fattispecie musicale), entrarono in un’atmosfera culturale emancipatrice, e la composizione tra la solidità della formazione precedente e la spinta innovativa può sfociare in grande creatività. Peraltro, anche il ‘decadentismo’ letterario di fine ‘800 fu un periodo insolitamente creativo.

I veri problemi insorgono quando la ragione liberale ha vinto su tutta la linea. A questo punto la dimensione normativa e strutturante tende a scomparire del tutto, tanto a livello etico, che a livello formativo. Bisogna sempre tenere fermo che “acquisire una regola e poi superarla” è un processo del tutto differente rispetto a “non acquisire alcuna regola”. Il secondo processo produce solo un impoverimento drammatico delle facoltà umane e delle stesse identità personali.

 

7. In "Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo", parla della teoria del dono. Mi viene subito in mente Mauss e l'omonimo istituto francese. Ritiene l'antiutilitarismo che Caillé e Michea difendono, può essere una solida alternativa da contrapporre alla razionalità strumentale del pensiero liberale?

7. L’antiutilitarismo è un approccio importante in quanto approccio critico di quella teoria etica che rimane sullo sfondo della teoria economica neoclassica. Soprattutto attraverso una maggiore consapevolezza antropologica, l’antiutilitarismo permette di rompere l’incantesimo creato dalla razionalizzazione economica propria della ragione liberale, con i suoi effetti distorsivi e riduzionistici. Detto questo, l’antiutilitarismo è solo un piccolo inizio, che mette in guardia rispetto a modelli di ragionamento egemonici, presentati come ovvietà, ma non ha una capacità costruttiva autonoma, ed in effetti la componente propositiva degli autori che si rifanno al gruppo M.A.U.S.S. è rimasta sempre abbastanza limitata.

 

8. Cosa si aspetta che avvenga dopo la fine di questa pandemia? Potrebbe essere l'evento che determinerà l'uscita dalle logiche della ragione liberista?

8. Nessun evento storico senza un’adeguata cornice interpretativa porta in direzioni automaticamente soddisfacenti per gli esseri umani. L’attuale crisi del modello globalista, sulla scorta della pandemia, non è certo la prima grande crisi attraversata dal capitalismo. Una decina d’anni fa eravamo a fare gli stessi discorsi rispetto alla crisi finanziaria globale dei mutui subprime. Si diceva che nulla sarebbe stato come prima, e in effetti è stato un po’ peggio di prima. La pandemia mostra punti di rottura del sistema, ma non vedo nessuna forza politica né in Italia, né all’estero, capace di mostrare una via d’uscita che non sia una coazione a ripetere gli stessi errori del passato. Sinceramente sono profondamente pessimista. Le poche, pochissime speranze che ripongo sono legate alla capacità di ripresa dell’anticapitalismo in una chiave ambientalista, in quanto vedo l’orizzonte di crisi ambientali massive e crescenti come quello più difficile da dissimulare all’opinione pubblica. Ma anche qui a livello politico l’ambientalismo è quasi insignificante nella maggior parte dei paesi e senza una guida politica (o meglio politico-culturale) l’attuale percorso storico autodistruttivo non può essere interrotto.

 

9. In che rapporti è il suo pensiero con la tradizione marxista? Ritiene si debba ancora lavorare in direzione dell'Ipotesi Comunista?

9. Credo che il modello di analisi storica di Marx sia sostanzialmente insuperato nella capacità di connettere vita vissuta e coscienza politica. In questo senso mi posso dire marxista, per quanto alcune componenti nell’analisi di Marx mi stiano strette.

Se passiamo alla proposta comunista, la questione diviene più difficile da discutere in breve. Il Comunismo storico è stato cose molto diverse, in diversi paesi. Farne una disamina in cui sceverare gli aspetti stimabili da quelli condannabili richiederebbe un libro. Quello che posso dire in breve è che del Comunismo ci sono tre idee che mi sono care e che ritengo preziose.

In primo luogo, l’individuazione del proprio avversario primario nel capitalismo. Il comunismo è certo anche lontano dalle istanze dell’Ancien Regime, dal nazismo e dal fascismo, ma ha un solo bersaglio davvero fondamentale, ed è il meccanismo di autoriproduzione del capitale. E già questo da solo rende il comunismo un interlocutore indispensabile per una presa di posizione sul mondo corrente.

In secondo luogo, l’intuizione portante di un comunitarismo di fondo: alla radice dell’idea di ‘comunismo’ sta l’idea di ‘comunione’ e di ‘comunità’. Si tratta di idee inscritte nelle caratteristiche fondamentali della specie umana, e insieme di idee rimosse e disgregate sistematicamente dalla forma di vita organizzata nella società capitalistica. Va però detto che nella realtà storica del comunismo sovietico questa componente originaria è stata fortemente misconosciuta.

In terzo luogo, alla radice del comunismo c’è l’idea per cui l’eguaglianza economica sia la base da cui possono fiorire forme di comunità in cui gli individui siano in grado di darsi riconoscimento reciproco per ciò che sono, e non per ciò che hanno. E anche questa è un’idea guida potente e fertile, che credo vada perseguita come ideale normativo.

Nell’insieme credo che il comunismo sia uno dei mattoni culturali ed etici che dobbiamo usare per costruire la società futura, anche se non credo che abbia in sé le risorse teoriche per svolgere questa costruzione sulla base dei soli elementi appartenenti alla propria tradizione.

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