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Renzi fa il lobbista per il denaro digitale di Bill Gates
di Comidad
Al di fuori della comunicazione ufficiale, molti commentatori hanno opportunamente notato che le dichiarazioni di Matteo Renzi sul prossimo abbandono dello scontrino fiscale in nome della mitica "tracciabilità", hanno come vero obiettivo l'eliminazione del contante per adottare il denaro elettronico, altrimenti detto, all'anglosassone, "denaro digitale". Una parte consistente della stampa di corte è andata immediatamente in appoggio delle dichiarazioni depistanti di Renzi, prospettando un quadro catastrofico dell'evasione fiscale che sarebbe favorita dallo scontrino. Per rendere credibili dei dati di dubbia consistenza, si è collocata alla testa della classifica dell'evasione la solita Napoli. Ancora una volta il razzismo antimeridionale è stato usato dalla propaganda ufficiale come veicolante per altre mistificazioni.
Ma per veicolare la propaganda a favore del denaro elettronico, ci si è serviti anche di un tema come la lotta all'evasione fiscale, ritenuta un cavallo di battaglia della "sinistra". In realtà l'utopia della giustizia fiscale consiste solo nella proiezione di un fantasma vittimistico della destra, che descrive i ricchi sempre sotto la minaccia di un presunto "esproprio proletario".
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La questione Lega all’ordine del giorno
Militant
La Lega Nord è sempre stata un’organizzazione di destra. Inoltre ha sempre viaggiato, sebbene in maniera altalenante, su percentuali elettorali importanti, sfiorando a volte il 10%, e comunque stabilmente sopra il 5 a livello nazionale, senza contare le percentuali in doppia cifra praticamente inamovibili al nord. La sensazione che oggi rappresenti qualcosa di radicalmente differente è però palese. In effetti, oggi la Lega Nord è qualcosa di diverso, rappresenta uno sviluppo politico imprevisto e potenzialmente deflagrante. Fino alla svolta maroniana, cioè al processo di riorganizzazione dovuto al fallimento politico della precedente dirigenza avviato dal 2011, la Lega Nord era la propaggine locale di una forza politica nazionale, il centrodestra di Berlusconi. Una posizione collaborativa ma secondaria, visti sia il suo peso elettorale che la sua natura localistica. Una sorta di CSU bavarese, espressione regionale di un contenitore nazionale di centrodestra. Una posizione subalterna, dove la radicalità verbale era destinata a raccogliere elettoralmente la pancia sociale poco convinta del “moderatismo” berlusconiano. Inoltre, la Lega Nord era un partito unicamente territoriale.
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Podemos, il partito che fa tremare la Spagna
di Luigi Pandolfi
La lunga crisi che dal 2008 sta scuotendo dalle fondamenta l’Europa (gli Usa vi hanno fatto fronte con maggiore efficacia, ottenendo risultati eccellenti dal lato dell’occupazione) sta portando con sé non soltanto sconquassi economici, ma, un po’ ovunque, anche modificazioni sostanziali del quadro politico.
Le vecchie famiglie politiche europee sono visibilmente in affanno e cercano di reggere l’urto delle spinte al cambiamento affratellandosi, consolidando, dov’è possibile, lo schema delle cosiddette “larghe intese” ovvero trovando forme meno “impegnative” ma non per questo meno efficaci (ed imbarazzanti) di collaborazione politico-istituzionale.
In Spagna il governo conservatore era uscito quasi indenne dalle europee di maggio, nonostante gli scandali e i dati ancora poco rassicuranti sull’economia, ma ad ottobre una maxi – inchiesta, partita mesi addietro dalla procura anticorruzione dell’Audiencia National di Madrid, si è conclusa con l’arresto di decine di persone tra funzionari pubblici, imprenditori ed esponenti del Partito Popolare. Una storia di appalti pubblici e tangenti, che ha gettato un’ombra sinistra sul sistema politico del paese, contribuendo ad alimentarne il discredito presso la popolazione.
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Ode ai falsari di Napoli
di ilsimplicissimus
Evviva. Se c’è qualcuno che in questo Paese fa qualcosa di economicamente coerente sono proprio i falsari di Napoli che invadono il mercato di euro contraffatti. Infatti sono gli unici che fanno ciò che si dovrebbe fare, ma che purtroppo è impossibile fare all’interno dell’eurozona, vale a dire usare la leva monetaria per stimolare la crescita: e lo fanno concretamente a forza di piccoli e medi tagli che – se sottratti all’asfittico sistema criminale – avrebbero un effetto più benefico rispetto ai 300 miliardi di pura fantasia spacciati da Juncker e sniffati dai media di regime che ormai si accontentano di merce scadente e tagliata male. Di pessimi stupefacenti.
Ora la cosa potrà sembrare assurdo, ma non lo è affatto perché i falsari non agiscono diversamente dalle banche: creano denaro dal nulla. La credenza popolare secondo cui la banca quando presta denaro si serve di quello depositato dai correntisti, è priva di senso e non lo dico io, ma la banca d’Inghilterra: “In pratica la creazione di denaro differisce da vari malintesi popolari: le banche non agiscono solo da intermediari, dando in prestito i depositi effettuati presso di loro… Ogni volta che una banca fa un prestito, crea allo stesso tempo un corrispondente deposito sul conto del mutuatario, creando in tal modo nuovo denaro.”
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“Armadi”
di Elisabetta Teghil
Oggi viviamo una situazione storica molto diversa da quelle che ci hanno preceduto, viviamo in una stagione di passaggio nella quale si svolge una guerra senza esclusione di colpi per determinare i nuovi assetti geopolitici e le relative gerarchie.
Le multinazionali sono all’offensiva con l’utilizzo degli Stati e, quando serve, by-passandoli.
Questo in Italia ha comportato la rottura del blocco sociale che ha guidato nel dopoguerra questo paese. E’ nata un’iper-borghesia o borghesia transnazionale che si è auto promossa a novella aristocrazia relegando tutti gli altri segmenti della borghesia ad un ruolo di servizio.
Pertanto, il lessico politico dentro questo processo di trasformazione delle filiere del comando è cambiato completamente.
Per prendere posizione all’interno del passaggio storico nel quale viviamo serve più che mai la passione per la libertà politica e l’amore per la giustizia sociale.
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L'Ialia uscirà dall'euro nella primavera del 2015?
di Jacques Sapir*
«La possibilità di un'uscita di uscita dell’Italia dall’Euro, uscita che potrebbe verificarsi nella tarda primavera del 2015, è apertamente contemplata dalla stampa internazionale, italiana ovviamente, ma anche tedesca, americana [1] e britannica [2].
Il silenzio della stampa francese è invece assordante ... Occorre capire perché il processo di distruzione dell’Euro potrebbe iniziare con l'Italia, e quali sarebbero le conseguenze per la Francia.
Una posizione insostenibile
E 'ormai chiaro che la situazione in Italia è diventata insostenibile nel contesto della moneta unica. L'Italia è sprofondata in una situazione di stagnazione del PIL sin dalla crisi del 2008, crisi che sembra ancora più grave di quella della Spagna [vedi tabella sopra]. La situazione è particolarmente critica se si guarda alla produttività italiana rispetto ai concorrenti della zona euro dopo il 1999. Si vede che l'Italia è in ritardo, non solo in relazione alla Germania e la Francia, ma anche nei confronti della Spagna. In questo paese, tuttavia, la chiusura di molte aziende ha portato alla scomparsa di quelle meno produttive, per cui la crescita della produttività può direttamente essere spiegata come l'effetto della contrazione della produzione. [Vedi tabella 2]
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Sinistra no euro: un passo avanti di una marcia complicata
Si è svolto il 22 novembre a Roma, il previsto incontro “La sinistra e la trappola dell’euro“. Sala gremita, come speravamo. Il dialogo tra i relatori, malgrado l’assenza di Stefano Fassina (dovuta ad un impedimento improvviso e di forza maggiore) è stato di ottimo livello, a tratti vibrante e intenso. Pur con diverse letture, condivisa da tutti i relatori la critica ai trattati su cui l’Unione europea è stata edificata, e dunque quella alla moneta unica, considerata un fattore decisivo della crisi senza precedenti in cui versano le economie italiane ed europee. Comune la considerazione che il regime della moneta unica, oltreché sull’orlo del collasso, è per sua natura oligarchico, antipopolare e antidemocratico.
Diverse tuttavia le ricette per venir fuori dal marasma. Sul piano delle misure economiche, non temiamo di sbagliare se affermiamo la soatanziale sintonia tra quelle avanzate da Brancaccio, Giacché e Mazzei: l’uscita dall’eruozona, anche unilaterale, è un atto decisivo e preliminare, ma dovrà essere accompagnata da non meno importanti misure quali il controllo pubblico sulla Banca d’Italia, la nazionalizzazione del sistema bancario, una ristrutturazione del debito pubblico, un piano per la piena occupazione, misure di protezione dei salari e di salvaguardia dell’economia italiana dall’assalto delle forze che guidano la globalizzazione. Quella che noi, definiamo un’uscita da sinistra dall’euro.
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Verbatim
di Alessandra Daniele
Landini – Renzi deve rendersi conto che oggi il consenso di chi lavora, delle persone oneste in questo paese, lui non ce l’ha.
Titolo: “Landini insulta la maggioranza degli italiani accusandoli d’essere ladri e fancazzisti”.
Landini – Non è quello che intendevo, mi dispiace di non essere stato chiaro.
Titolo: “Landini si scusa ipocritamente d’aver sputato in faccia a milioni di italiani, ma ormai è troppo tardi per rimediare all’offesa”.
Landini – Per la verità siete stati voi a esagerare il senso delle mie parole…
Titolo: “Landini attacca la libertà di stampa. Fermatelo prima che sia troppo tardi”.
Renzi – Chi più spende, meno spende.
Titolo: “Renzi escogita una soluzione geniale e tempestiva alla crisi economica, che rilancerà i consumi e creerà milioni di posti di lavoro”.
Renzi – Non esiste più la mezza stagione.
Titolo: “Renzi elabora una soluzione geniale e innovativa al Global Warming. L’ONU gli tributa una standing ovation”.
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Il modello Tor Sapienza che rischia di prodursi nel futuro
Militant
I fatti di Tor Sapienza sono noti ai più solo attraverso il racconto giornalistico. Chiunque abbia avuto la possibilità (e il coraggio politico) di interfacciarsi direttamente con quella realtà, scavalcando narrazioni mediatiche e verità di comodo, interagendo direttamente con la gente del quartiere, sa bene quali dinamiche abbiano prodotto i fatti della scorsa settimana. I palazzi di viale Giorgio Morandi, seppur nella loro specificità, rappresentano una situazione tipica di tutte le altre periferie romane. Quelle periferie sorte ai margini del Raccordo o chilometri fuori da questo, in un’espansione infinita e disordinata che sta covando una bomba sociale di proporzioni storiche. Dato per assodato che ormai la questione Tor Sapienza è per noi chiusa e l’impossibilità di parlare con quella parte del quartiere acclarata, potremmo però tentare di tirare fuori da questa esperienza la capacità di intervenire nella prossima periferia in sommossa. E’ per questo, perché possa servire da esperienza, che bisognerebbe cogliere i punti nodali di questa situazione. Sgomberando il campo da alcuni dubbi che un giretto a Giorgio Morandi toglierebbe anche al più chiuso ideologicamente dei compagni.
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All it needs is love
Carlo Formenti
“Non ci amano più”: questo il lamento di un formidabile articolo dell’Economist. A dire il vero il titolo recita, parafrasando quello di un famoso successo dei Beatles, “All it needs is love”. Ma dietro quell’impersonale it (riferito al capitalismo) si nasconde il noi di una intera classe, ben rappresentata dalla prestigiosa testata. Ma chi non lo (li) ama più? Secondo un sondaggio del 2013, solo una maggioranza di misura (il 53%) dei cittadini americani si è espressa a favore del libero mercato, mentre la percentuale scende seccamente sotto il 50% in analoghi sondaggi condotti in Grecia, Spagna e Giappone. Ma soprattutto il 56% dei cittadini dei Paesi ricchi ha identificato nella crescente disuguaglianza il problema più grave.
Di chi la colpa? Della finanziarizzazione dell’economia, scrive l’Economist: alla gente non è piaciuto che, per salvare i grandi speculatori, gli stati abbiano riversato nelle loro tasche i soldi prelevati da quelle delle classi medie e inferiori (quel che si chiama privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite).
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La durevole passione di Diego Fusaro
Fabrizio Marchi
Condivido in toto, nel caso specifico, questo intervento di Fusaro: https://www.youtube.com/watch?v=IOKJw1p_JI0
Peccato per l’insopportabile narcisismo e lo smodato egocentrismo che lo contraddistinguono e che a mio parere mal celano anche una personalità fondamentalmente nichilistica, in aperta contraddizione con la filosofia hegelo marxiana di cui afferma di essere un fiero sostenitore.
Naturalmente queste sono solo mie personalissime sensazioni, per dirla con Hume, un filosofo che non mi è particolarmente simpatico e non dovrebbe esserlo neanche a lui.
Ma questi sono aspetti di ordine personale sui quali si potrebbe anche sorvolare. Del resto, Fusaro non sarebbe (qualora la mia sensazione fosse corretta…) certamente il primo narcisista a calcare le scene mediatiche…
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L'Abenomics, i sovranisti e l'Impero che decide
di Gengis Kant
Se la recessione avesse un suono, quella del Giappone di Shinzo Abe arriverebbe come un boato, altrettanto forte quanto i rumori della "Premiata Stamperia Yen" con cui sin qui la banca centrale nipponica aveva prodotto una massa abnorme di moneta. "Nel terzo trimestre, il Pil giapponese è scivolato dell'1,6% su base annua" [CNBC].
Vedete dunque la fine che sta facendo l'Abenomics, con tutto che il debito pubblico nipponico è in mano ai giapponesi stessi?
Ma il Quantitative Easing non era salvifico? Ma la moneta "indipendente" (sic!) non era salvifica?
Quante idiozie sono state dette dai "sovranisti"! Idiozie uguali e speculari a quelle dei monetaristi. Dopo tutto il modo di ragionare è il medesimo.
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Quella cosa informe che ci ostiniamo a chiamare Milano
Giuseppe Genna
Qualcuno, molto tempo fa, vide e descrisse Parigi a volo d’uccello, in un libro assai amato dalle folle. Poiché Milano è un’imitazione fallita di Parigi, mentre è un’imitazione riuscitissima di Garbagnate, si può fare una descrizione a volo di uccello di una città che fu capitale morale del paese e non lo è più da tempo, che si raccolse sotto il Duomo e oggi non si raccoglie sotto la torre Unicredit, che proprio come Parigi tenta l’Exposition Universelle e non le riesce l’Expo.
Si cala a Milano trapassando le polveri sottili che la assediano, rendendola discernibile all’orizzonte da chilometri e chilometri: da Pavia si scorge una cupola marrone e violacea, comunque livida, che ha in sé qualcosa di cosmico e tumorale. Queste polveri sono certamente sottili per via dell’inquinamento, ma sono anche grossolane perché sono terra: terra grezza. La metropoli lombarda non ha ritenuto adeguato procedere a un salutare mantenimento fisico, bensì ha ambìto a sottoporsi a una botulinizzazione pesante, istantanea, lombrosiana.
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Perchè leggere oggi IL CAPITALE?
di Noi Restiamo - Bologna
Una formazione generale deve tentare di guardare al mondo nella sua completezza, senza il timore di non essere all’altezza (o ancor più, onniscienti) ma delineando le linee guida per un’interpretazione di classe degli avvenimenti più disparati. Al lato opposto, la formazione particolare, specifica su un dato argomento, si realizza a partire dalle esigenze della pratica.
Partendo da questo assunto, la campagna Noi Restiamo si pone l’obiettivo di valorizzare costantemente i momenti di informazione e formazione affinché, in prospettiva, gli attivisti politici e sociali che vi aderiscono possano avere gli strumenti per non trovarsi impreparati di fronte a situazioni nuove. La chiave di lettura sarà sempre e necessariamente la differenziazione di classe che sostiene il sistema capitalista, la dialettica intrinseca negli avvenimenti che lo caratterizzano, e un metodo scientifico che sappia tenere conto di tutto questo e raccordarlo con le possibili ipotesi di intervento che ogni compagno deve saper agire sul reale. Allo stesso tempo, occorre sostenere un piano di pratica adeguato alle naturali caratteristiche dinamiche del soggetto giovanile, che è tanto riferimento esterno quanto attore interno della campagna.
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Trasformismo e trasformazione
di Leonardo Mazzei
In un breve articolo sul blog Mainstream, Claudio Martini fotografa in maniera assai efficace l'attuale evoluzione del dibattito sulla questione dell'euro.
Dopo aver passato in rassegna le posizioni di diversi esponenti politici, ed il loro progressivo spostamento verso posizioni no-euro o quantomeno "euroscettiche", questa è la sua fulminante conclusione:
«E' ormai finita l'era del Ce lo chiede l'Europa. E' iniziata la stagione del trasformismo neo-patriottico».
La fotografia è precisa, e ci rimanda a tre questioni: a) l'irriformabilità dell'Unione Europea, di cui è evidentemente sempre più difficile non prendere atto; b) la crescita, nella società, di una consapevolezza diffusa sui mali prodotti dall'euro e dal suo sistema; c) le modalità di uscita dalla moneta unica, cioè l'alternativa tra uno sganciamento guidato da una politica democratica e popolare o, al contrario, l'affermazione di quelli che Emiliano Brancaccio chiama i "gattopardi".
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La caporetto del PD
Perdono tutti i nostri avversari... eppure si va a destra
Maurizio Scarpa
Precipita il consenso del Partito Democratico in Emilia Romagna e le urne restano semivuote , il neo presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, afferma: "Non minimizzo il crollo dell'affluenza, ma la vittoria del Pd è netta". Gli fa eco il presidente del Consiglio che aggiunge “La non grande affluenza è un elemento secondario”.
La svolta autoritaria in atto nel nostro paese si misura anche da queste dichiarazioni portatrici, con cristallina trasparenza, di un’idea oligarchica del potere, che non ha nessuna remora nel mostrare il proprio disinteresse nei confronti del consenso popolare.
L’Emilia Romagna, una volta regione “rossa”, nel passato ha fatto della partecipazione politica un impegno e un vanto. Alle prime regionali votò il 96,6% degli aventi diritto.
Essere comunisti non era solo una tessera di partito ma passione politica, partecipazione militanza; così dopo cinque anni si riconfermò il 96,6% e fino allo scioglimento del PCI nel 1990 in Emilia-Romagna votava il 92,9%.
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L’inizio della caduta e il dubbio delle elezioni
di ilsimplicissimus
Renzi deve andare alle elezioni in primavera, prima che il suo bluff sia totalmente scoperto e questo lo si era intuito a fine estate con i dati disastrosi dell’economia. Poi lo si è capito quando Napolitano ha cominciato a parlare di dimissioni, quando la nuova legge elettorale è tornata ad essere una priorità e la commissione Ue ha di fatto ambiguamente congelato i “provvedimenti per l’Italia” proprio per dar modo al suo uomo di spuntarla nelle urne. Ma l’astensione epocale dal voto amministrativo che si è avuta in una delle storiche roccaforti del Pd, l’ Emilia – Romagna, apre una domanda che fino all’altro giorno pareva azzardata: Renzi può permettersi elezioni a primavera?
Dal voto affiorano alcune realtà finora nascoste sottopelle, ma che ormai sono perfettamente visibili: la prima è che esiste ormai un divorzio conclamato tra elettori e partiti, ovvero tra cittadini e classe dirigente nel suo senso allargato. Poi che esiste un vuoto di offerta politica specie a sinistra, che aspetta solo di essere riempito anche se la persistenza di elite marginali, formali e informali, ma comunque contigue al potere, ha finora mortificato. E infine che la situazione è degradata a tal punto da bruciare in pochi mesi i salvatori della patria che si succedono incessanti alla luce di identici programmi imposti dall’esterno. E che appunto sta logorando Renzi con una velocità inaspettata nonostante l’imponente macchina narrativa costruita e finanziata attorno a lui.
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Fantascienza e politica: Matrix finanziaria
ilsimplicissimus
Non credo ci sia un genere narrativo più ermeneutico della fantascienza nel delineare l’inconscio collettivo di un’epoca, il suo zeit geist o la sua immaginazione produttiva, se vogliamo impropriamente tirare in ballo Kant. Marginalizzando la psicologia personale per immetterla nella trama dell’assolutamente altro o delle immaginazioni di futuro, essa è in parte libera dal bon ton della narrazione del potere proprio grazie al suo apparente evitare il presente concreto e finisce per restituire, depurate dalle sovrastrutture del discorso “serio”, gli incubi e le pulsioni del presente insieme alle loro futili razionalizzazioni a la carte..
Naturalmente mi riferisco alla fantascienza di livello non agli insopportabili cliché della fantasy o alle modestissime saghe da cassetta per adolescenti brufolosi. Fatto sta che da alcuni anni il cinema così come i romanzi e i racconti ci presentano dapprima un mondo virtuale- reale creato da macchine pensanti che diviene una metafora del potere, come in Matrix e compagnia, poi un mondo degradato e disumanizzato, afflitto da enormi disuguaglianze, sottoposto a ineluttabile destino di morte, cui non si può sfuggire o al quale ci si può sottrarre solo andando verso un altro pianeta vergine o una stazione spaziale separata dalla terra.
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Lo scaricabarile sulle alluvioni nell’Italia che non sa fermare il cemento
di Tomaso Montanari*
Dalla Liguria al Veneto, mezzo secolo di delirio edilizio che ha mangiato oltre 5 milioni di ettari di campagna. E mentre il Paese frana sotto la pioggia, passa la legge voluta dal governo che sblocca i nuovi cantieri.
Lascia interdetti lo scaricabarile tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Liguria sulle responsabilità del dissesto del territorio italiano. E non solo perché è indecoroso mettersi a discutere mentre i cittadini e la Protezione civile lottano contro il fango: ma anche perché la questione è troppo maledettamente seria per liquidarla a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni tagliate con l’accetta.
Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo: come ci ricorda un prezioso libretto di Domenico Finiguerra.
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Il coraggio di un partito
di Marco Damilano
Il sindaco di Roma Ignazio Marino è indifendibile, per tanti motivi. Il puntare tutto sui Fori Imperiali pedonalizzati che in giornate di pioggia come oggi sono ridotti a una risaia asiatica. La Panda rossa e le multe fantasma, più da ridere che da indignarsi. La vanità personale che gli fa dire cose tipo «la linea C della metro è su tutti i giornali del mondo» (sì, ma per la lentezza dei lavori). Il senso di spaesamento che lo accompagna ovunque va, in bicicletta nel centro storico o di fronte alla folla inferocita di Tor Sapienza.
Oggi difendere Marino significa fare come il Marco Antonio nel Julius Caesar di Shakespeare, il capo pugnalato dai suoi dalle parti del Campidoglio: «Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo… Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e Bruto è uomo d’onore». Ecco, Marino sarà indifendibile, ma chi accusa oggi Marino può vantare più o meno lo stesso onore di Bruto. E minore coerenza, trasparenza. Coraggio politico.
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Se non c’è alternativa, non c’è politica
di Alberto Bagnai
Al seminario “A quali condizioni può sopravvivere l’euro” assisteva una convitata di pietra, la signora T.i.n.a. (There is no alternative). All’euro non c’è alternativa, è parso di capire da molti interventi, il che in fondo rendeva superfluo il seminario, e quindi tanto più apprezzabile il tempo impiegato (cioè, nella loro ottica, perso) dai relatori: se non c’è alternativa, non ci sono condizioni non dico da porre, ma nemmeno da analizzare.
Era al tempo stesso paradossale e ovvio che la signora Tina sedesse con noi.
Paradossale, perché il mantra che “non ci sia alternativa” è stato fatto proprio, negli ultimi tre decenni, dall’ideologia neoliberista, un’ideologia in linea di principio deprecata da tutti i partecipanti. Ovvio, perché l’euro è stato il cavallo di Troia usato da questa ideologia per radicarsi nel nostro continente. Questo, ormai, non è più lecito nasconderselo. Fatte salve le sue intenzioni, senz’altro ottime (tant’è che ci stiamo lastricando l’inferno della crisi più grave della nostra storia), per quanto attiene alla politica economica il Trattato di Maastricht è uno scampolo di paccottiglia neoliberista anni ’70: il primato delle regole sulle politiche discrezionali, la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi, il feticcio della stabilità dei prezzi, articolato sulla concezione scientificamente dubbia dell’inflazione come fenomeno puramente monetario, dalla quale consegue il principio fallimentare e antidemocratico dell’indipendenza della Banca Centrale dal potere esecutivo.
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La stravagante economia dell’universo parallelo della Germania
di Wolfgang Münchau
Sul Financial Times, il giornalista economico tedesco Wolfgang Münchau lancia un attacco durissimo alla dottrina economica mainstream del suo paese, l’Ordoliberismo. Non solo è “stravagante” e completamente priva degli strumenti per fronteggiare depressioni e trappole della liquidità, ma, per il suo carattere asimmetrico, risulta assolutamente inadatta ad una unione monetaria dove occorrerebbe visione comune e cooperazione.
Gli economisti tedeschi si dividono grosso modo in due categorie: quelli che non hanno letto Keynes, e quelli che non hanno capito Keynes. Descrivere l’economia manistream in Germania come conservatrice non coglie il punto. Ci sono alcune sovrapposizioni con le varie scuole neoclassiche o neoconservatrici negli Stati Uniti e altrove. Ma, per quanto il confronto tra il mainstream tedesco e il Tea Party possa apparire convincente, non regge ad un esame scrupoloso. L’ortodossia tedesca cavalca sia il centro-sinistra che il centro-destra. L’unico partito con alcune tendenze keynesiane è quello degli ex comunisti.
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La Notte del Cazzaro
di Alessandra Daniele
Con l’eccezionale No Sanctuary s’è aperta quella che è stata finora la migliore stagione di The Walking Dead, la più dura, la più matura e convincente della serie che, come l’episodio Self Help ha dimostrato ancora una volta, fornisce sempre le migliori chiavi di interpretazione della politica italiana.
Segue spoiler.
Non era in fondo difficile capire subito che la promessa di Eugene di trovare una cura alla pandemia zombie fosse una millanteria senza fondamento, una strategia di sopravvivenza da lui ideata per trovare qualcuno che lo proteggesse.
Eppure in molti gli hanno creduto fino al punto di lasciare compagni fidati e luoghi (quasi) sicuri per accompagnarlo nella sua “missione” fasulla, finendo spesso per rimetterci la pelle. In troppi non l’hanno riconosciuto subito cone un pericoloso cazzaro che oltre a sfruttarli come scorta spesso li sabotava e li rallentava, sapendo che sarebbe stato smascherato all’arrivo.
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Una coalizione possibile
Marco Bascetta
La giornata del 14 novembre ci ha fatto registrare un evento che i governanti faranno bene a valutare seriamente: la rottura di quella pace sociale sempre più fondata sulla rassegnazione e sull’impotenza, sempre meno sulla soddisfazione dei bisogni e la solidità dei diritti, di cui il partito della Restaurazione “nuovista” si alimenta. Questo cambio di marcia, questa accelerazione non ha copyright. Non quello dei metalmeccanici che hanno messo in campo la loro pur cospicua forza, non quello di una Cgil che si dispone allo sciopero generale, né quello dei sindacati di base, dei movimenti, dei precari, degli studenti o degli innumerevoli esclusi dal lavoro certificato e retribuito come tale. Il successo di questa giornata di lotta, che ha attraversato rumorosamente decine di città italiane, appartiene a una “coalizione” possibile, non intesa come sommatoria di diversi interessi categoriali e sociali, ma come intelligenza, pienamente politica, della necessità di scontrarsi con il modello neoliberista e con i dispositivi sempre più accaniti di estrazione di valore e di risorse da una cooperazione sociale che si estende dal lavoro dipendente a un multiverso di attività senza nome e senza reddito.
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Un moloch in lento divenire
Sergio Cesaratto
Un sistema planetario dove lo stato nazionale è ridotto a guardiano degli interessi delle multinazionali. Un libro di Ernesto Screpanti
L’ultimo libro di Ernesto Screpanti per la Monthly Review Press (Global Imperialism and the Great Crisis – The uncertain future of capitalism, traduzione italiana ordinabile on line su www.ilmiolibro.it)) è assai ambizioso. Che negli ultimi trent’anni, crisi o non crisi, il capitalismo abbia sovvertito i rapporti di forza fra capitale e lavoro marginalizzando in gran parte del globo le forze del cambiamento sociale è un fatto evidente a tutti. L’abbandono delle politiche di pieno impiego sul finire degli anni 1970 complici le ideologie ultraliberiste alla Thatcher e Reagan, la globalizzazione con la concorrenza massiccia nel mercato del lavoro capitalista di centinaia di milioni di nuovi lavoratori e la caduta di ogni speranza nella sfida del socialismo reale sono alla base di questo mutamento epocale. Il mutamento dei rapporti di forza che si era progressivamente prodotto nei precedenti cento anni nei paesi di più antica industrializzazione e culminato nell’epoca d’oro del capitalismo appare ora il risultato di circostanze non più ripetibili, almeno per molte decadi a venire. In questo contesto Screpanti si propone di prefigurare quali sono le caratteristiche del capitalismo nella nuova fase definita dell’imperialismo globale.
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Il laboratorio Tor Sapienza
Ovvero la nostra incapacità di incidere nelle contraddizioni popolari
Militant
Non siamo di Tor Sapienza né in questi giorni siamo passati a vedere quello che succedeva. Non abbiamo dunque alcuna voglia di consigliare o solo commentare quello che sta avvenendo. Allo stesso modo, però, abitiamo le altre decine di periferie cittadine, quanto o più degradate del quartiere di Roma est, quanto o più attraversate da razzismi striscianti, da risentimenti populistici, da contraddizioni vere e presunte che potrebbero esplodere da un momento all’altro lasciandoci pericolosamente afoni di fronte a una destra che non aspetta altro che cavalcare il risentimento popolare in chiave razzista. E’ dunque di questo che dovremmo discutere, di come impedire sul nascere la possibilità di questa deriva pericolosa. Sabato ci sarà un primo tentativo di raccogliere politicamente i mille rivoli del degrado delle periferie, un tentativo che se dovesse riuscire sarebbe un passo in avanti verso il baratro di un front national all’italiana.
Le decine di periferie che circondano la capitale soffrono degli stessi, identici, problemi. Nessuna di queste contraddizioni, a cui la crisi ha aggiunto il carico di povertà, disillusione e rabbia, riesce ad essere organizzata o solo intercettata dalle sinistre. Soprattutto perchè tali contraddizioni stanno eruttando per colpa della “sinistra” comunale che ha contribuito a crearle, ammassando nei quartieri già degradati di loro ulteriori concentrazioni di esclusione sociale, in un mix perverso dal risultato garantito: la guerra fra poveri.
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Pasolini, quel sapere impotente
Alberto Burgio
Quarant’anni e paiono quattrocento. Mentre, per converso, poche pagine precipitano tra le nostre carte con altrettanta rovente attualità. Stiamo parlando di quel violento editoriale (poi ribattezzato «Il romanzo delle stragi») che Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della sera, il 14 novembre del 1974, un anno prima di finire massacrato sul litorale di Ostia. «Io so. Io so i nomi dei responsabili…»
Fu un brutale attacco all’«establishment» che comandava l’Italia. Accusato di avere ordito «tra una messa e l’altra» la tragica spirale di violenza che da un lustro – da piazza Fontana a piazza della Loggia, all’Italicus – insanguinava il paese. E accusato, a maggior ragione, di omertà per la determinazione a coprire mandanti ed esecutori materiali di una «serie di ’golpes’ istituitasi a sistema di protezione del potere» democristiano e atlantico.
Il ragionamento di Pasolini è limpido. Chi abita le stanze del Palazzo (non soltanto i politici, attenzione: anche chi controlla l’informazione, cioè la disinformazione pubblica) conosce l’identità dei responsabili delle «spaventose stragi» di Stato. Ha prove che inchioderebbero sicari – militari, neofascisti, mafiosi e criminali comuni – e mandanti.
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TTIP, libero scambio? No, protezionismo per le multinazionali
Comidad
A distanza di sette anni dall'avvio del negoziato, ed in prossimità della scadenza del 2015, finalmente la questione del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, la "NATO economica") sta arrivando a conoscenza della gran parte della pubblica opinione. Quando i giochi sono già fatti, e tutto è stato deciso, allora è il caso di dare avvio al "dibattito democratico", anche se con gli opportuni accorgimenti. I post sulle testate online sono infatti equamente distribuiti tra favorevoli e contrari, in modo da fornire l'impressione di un equilibrio. Se un'opinione vale l'altra, questo TTIP non sarà poi così spaventoso da giustificare certe preoccupazioni. In tal modo, anche i sette anni di segretezza diventano un dettaglio trascurabile.
Queste tecniche di manipolazione puerili, ma sempre efficaci, vengono messe in atto in questo periodo anche per la "riforma" della Scuola. Il governo Renzi ha spinto la finzione al punto da allestire uno sportello di "ascolto" per le proposte dei cittadini. La "Buona Scuola" di Renzi si concede un bagno di democrazia, e molti cittadini, pur consapevoli di non contare nulla, si offrono volentieri all'abluzione rituale.
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“Stravolgimento”
di Elisabetta Teghil
Abbiamo parlato molte volte di come il neoliberismo abbia stravolto termini e significati. Una volta per sicurezza si intendeva una serena vecchiaia, la parola riforma era legata alla possibilità di un lento ma graduale miglioramento della società e della condizione di vita di tutte/i, sinistra significava attenzione agli strati sociali poveri e o comunque svantaggiati, la costituzione scritta e non sempre, anzi quasi mai quella materiale, era impregnata dei valori della Resistenza, la scuola pubblica, l’unica che la costituzione prevedeva che si finanziasse, era un ‘occasione per far accedere larghi strati della popolazione all’istruzione e, magari alla laurea, intesa come un’occasione di promozione sociale. Da qui il fenomeno dei laureati in prima generazione che non erano più bravi e più amanti dello studio dei genitori e dei nonni , ma che avevano avuto l’occasione, grazie alle lotte degli anni ’70, di accedere per la prima volta alla laurea.
La sicurezza, ora, è quella di un presunto cittadino/a intimorito/a chissà da chi e da che cosa, visto oltre tutto il crollo vertiginoso dei reati, le riforme sono un attacco a tutto campo ai diritti e alle conquiste del mondo del lavoro, la sinistra, chiariamo subito che parliamo di quella socialdemocratica, cioè il PD, oggi è quella che naturalizza in Italia gli interessi delle multinazionali in particolare quelle anglo-americane.
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Se la rivoluzione digitale cancella il lavoro
di Carlo Formenti
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli ha pubblicato sul suo blog un commento alla recente intervista che uno dei due fondatori di Google, Larry Page, ha rilasciato al Financial Times. Il nodo evidenziato da Gilioli riguarda l’opinione, sempre più diffusa e ancorata a dati di fatto, secondo cui i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale sarebbero destinati a generare una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, non solo fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, ma anche, se non soprattutto, fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza.
Siamo abituati a sentir contestare tale tesi da quanti ricordando che tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche, dopo aver generato temporanei cali occupazionali, hanno puntualmente creato le condizioni per il loro riassorbimento; ma l’argomento che recita “è sempre andata così quindi andrà così anche questa volta” non convince: sia perché smentito (almeno per ora) dai fatti, sia perché ignora le radicali differenze fra la rivoluzione digitale e le precedenti rivoluzioni tecnologiche.
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