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La ricchezza nelle mani di 85 persone
Indovina con chi sta la sinistra
di Alessandro Robecchi
Ottantacinque. Non 85.000 (ottantacinquemila), né 8.500 (ottomilacinquecento), e nemmeno 850 (ottocentocinquanta), che già sarebbe spaventoso. No, no, proprio 85. Ottantacinque persone su questo affascinante e confortevole (per loro di sicuro) pianetino posseggono una ricchezza pari a quella di 3 miliardi e mezzo di persone, cioè lo 0-virgola-moltissimi-zeri-virgola-uno della popolazione ha un reddito pari a quello del 50 per cento più povero. La cifra, diffusa dall’Oxfam, è al di là di ogni immaginazione, provoca una specie di vertigine. In ogni paese del mondo c’è un grafico con due linee ben distinte: uno schizza verso l’alto, ed è la quota di ricchezza dei pochissimi super-ricchi, l’altra precipita verso il basso, ed è l’aumento della povertà dei moltissimi più poveri. Negli ultimi trent’anni la parte di ricchezza detenuta da pochi è aumentata ovunque e la quota di povertà distribuita tra gli altri è aumentata anche quella. Ovunque.
La lotta di classe esiste, insomma, non si ferma un attimo, non dà tregua, e i miliardari hanno vinto quattro a zero, coppa, giro di campo e champagne negli spogliatoi. Come sia stato possibile non è un mistero.
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La triste fine della sinistra in Italia, la dialettica della storia e il “progresso”
di Stefano G. Azzarà
Nei momenti più convulsi della politica, come quello che stiamo vivendo, è possibile scrutare quasi come in laboratorio il movimento dialettico della storia e quelle sue brusche accelerazioni che rovesciano l’accumulazione quantitativa di fatti e di segni in una nuova qualità.
Il nuovo barbaro Renzi depone l’antico Signore baffuto disarcionandone lo scudiero glabro e dà una sferzata alla ridefinizione in fieri della sinistra italiana inoculandole il programma che fino a questo momento aveva la destra. E cioè – la legge elettorale, la giustizia, l’incompetenza simpatica al potere, il realytismo, l’estetica del silicone e della semplificazione comunicativa e quant’altro - un programma in più diretta sintonia con lo Zeitgeist postdemocratico.
Analogamente a quanto era accaduto con Bersani, il quale aveva già fatto un passettino in direzione di quel programma condividendo assieme a quella destra una pesante responsabilità di governo e lanciando personaggi televisivi improbabili e pronti a tradirlo.
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Ecco come Merkel e Draghi cuociono l’Italia e gli altri PIIGS
di Guido Iodice
La BCE «userà tutti gli strumenti a sua disposizione contro la deflazione». Così si è espresso Mario Draghi giovedì scorso nella conferenza stampa seguita alla riunione del board della Banca Centrale Europea. Una dichiarazione che ricalca da vicino il famoso «preserveremo l’euro con ogni mezzo necessario» pronunciato il 26 luglio 2012. Da quel giorno gli spread dei paesi periferici dell’area euro (cioè la differenza tra gli interessi pagati sui titoli di stato rispetto a quelli pagati dal governo tedesco sui propri) si stanno riducendo costantemente. Il nostro paese è da alcuni giorni sotto quota 200 punti base (2% di differenza con gli interessi dei Bund decennali).
Il tutto è avvenuto senza che Draghi attivasse gli strumenti annunciati in quell’occasione, chiamati OMT (Outright monetary transactions). E’ bastata la parola del presidente della BCE per convincere i mercati a ridurre le scommesse sull’uscita degli stati indebitati, una clamorosa conferma della dottrina keynesiana, secondo la quale la banca centrale decide i tassi di interesse. Sembra insomma che la “febbre” dell’euro sia sotto controllo. Ma le cose stanno davvero così?
LA PENTOLA DI MARIO E ANGELA – La situazione attuale dell’eurozona rassomiglia a quella di una cucina affollata e chiassosa. Sul fornello c’è una pentola a pressione che sta cuocendo un succulento brasato: i paesi periferici dell’UE, cioè Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (in sigla: PIIGS, maiali). Dentro c’è un po’ di tutto: i lavoratori a cui vengono tolti i diritti attraverso le “riforme strutturali”, le piccole imprese che chiudono, le imprese più grandi in odore di acquisizione da parte dei capitali del “centro” dell’Unione europea.
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Diaz, il senso di giustizia dello Stato
di E. Everhard
La violenza di Stato durante il g8 del 2001 è impressa nella coscienza di milioni di uomini e donne, al di là delle sentenze dei tribunali: "Il punto è che Genova non è finita perché per Jimmy, Marina, Fagiolino e Luca non è ancora finita".
Già sono stati scritti fiumi d'inchiostro in questi giorni sulle condanne ai domiciliari, tredici anni dopo, dei super poliziotti Spartaco Mortola, Giovanni Luperi e Francesco Gratteri per la mattanza alla scuola Diaz nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a Genova.
Vale la pena ribadire alcune cose sottolineate in ordine sparso in questi giorni. Prima di tutto la mitezza della pena (non che siano le condanne in tribunale a scrivere la "sentenza" della storia e la coscienza diffusa sulle vicende del g8 genovese): otto mesi di domiciliari per Spartaco Mortola, da dirigente della Digos di Genova a questore dal pugno di ferro a Torino, un anno per Giovanni Luperi, ex dirigente Ucigos nel 2001 ora pensionato, nonché per Francesco Gratteri, terza carica della polizia italiana. Non può poi che balzare l'ennesima volta agli occhi la folgorante carriera di tutti gli uomini coinvolti nella gestione dell'ordine pubblico genovese, nonostante le inchieste e i giudizi di ogni tipo di organismo internazionale in difesa dei diritti umani. In ultimo le motivazioni della sentenza: i giudici hanno rifiutato le misure alternative a questi fedeli servitori dello Stato perché questi non si sono mai pentiti, non hanno mai risarcito, neanche parzialmente, le vittime massacrate di botte e torturate.
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“Lobby” versus “A Fra’, che te serve?”
Francesco Santoianni
Questa storia di Luigi Tivelli è ormai sulla bocca di tutti; ma, state pur certi che, tra non più di una settimana, soppiantata da qualche altro scandalo, finirà nel dimenticatoio. Meglio quindi affrettarsi a riepilogarla e tirarci su un paio di considerazioni. La storia nasce da un emendamento alla Legge di stabilità del capogruppo PD Roberto Speranza che proponeva un tetto al cumulo tra “pensioni d’oro” e stipendi sopra i 150.000 euro annui; un provvedimento – visti i tempi – che, certamente, sarebbe stato fatto proprio da tutta la “base” del PD, se qualcuno si fosse preso la briga di consultarla. Ma quel provvedimento non passa. Il perché ci viene spiegato da una telefonata (registrata con uno smartphone dagli – questa volta, ottimi- parlamentari Cinque Stelle) di un “lobbista”, tale Luigi Tivelli , il quale si vantava di essere riuscito, dopo aver lavorato “giorno e notte”, a bloccare il provvedimento su incarico di coloro – “una marea di gente” – che, evidentemente, sono i suoi clienti. Il potentissimo Tivelli (che pure in pubblico discetta di moralità), comunque, non è l’unico lobbista additato dai Cinque Stelle; c’era già stata – ad esempio – tale Roberta Romiti (un centinaio di milioni di euro fatti risparmiare alla Sorgenia di De Benedetti) o altri che erano riusciti ad annullare la rescissione dei fitti per i palazzi del Parlamento.
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Fine corsa
Dante Barontini
Il 27 novembre Berlusconi ci ha lasciato. Momento atteso, mitizzato, invocato, liberatorio. Nel pomeriggio il Senato ha votato per la sua decadenza da parlamentare, una (piccola) manifestazione del suo “popolo” sotto palazzo Grazioli ha cercato di dargli conforto nel momento triste, alla procura di Milano – e in altre - forse si preparano nuovi mandati di cattura. Questa volta non si risolleverà dal baratro.
“Lo vuole l'Europa”, più che la politica italiana. Lo vuole fuori dai piedi così come l'aveva accettato benvolentieri quando si trattava di demolire la credibilità internazionale di questo paese e del suo establishment, in modo da aprir meglio la strada allo svuotamento della Costituzione repubblicana, alla distruzione della “sinistra radicale” (sempre disponibile a farsi asservire dal centrosinistra in nome del “pericolo Caimano”), al prepotere della finanza continentale, e infine al governo della Troika. Spremuto il limone di quanto poteva utilmente dare, restava solo l'impresentabile macchietta porno-mafiosa, l'impresario che evade il fisco e tocca il sedere alle ballerine, che si fa scrivere le leggi dai suoi avvocati portati appositamente in Parlamento.
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Prefazione a “Utopie letali”
di Carlo Formenti
"Utopie Letali" è un titolo spiazzante, che suscita curiosità e perplessità. Questo perché si tratta in qualche modo di un ossimoro, visto che siamo soliti associare un significato positivo alla parola utopia, usandola come sinonimo di sogni, desideri e speranze in un mondo migliore. Perché dunque affiancarle quell’aggettivo: letali? Eppure sappiamo che, a volte, le utopie producono effetti imprevedibili, se non catastrofici.
Le destre, per esempio, ce lo ricordano continuamente, soprattutto dopo la caduta dei regimi socialisti dell’Est Europa: avete visto quanti orrori ha generato l’utopia comunista? Un ritornello che, in campagna elettorale, viene usato per proiettare un’ombra inquietante su una sinistra socialdemocratica che ha scontato da tempo i suoi peccati e che, della parola comunista, non ricorda nemmeno il significato, mentre, negli attacchi alle sinistre radicali, acquisisce il sapore di un esorcismo contro il vecchio spettro che non si decide sparire.
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Октябрь
di Nico Macce
In questi tempi di trasformismo osceno, dove l’onestà intellettuale non è meno bassa di quella morale, della Rivoluzione d’Ottobre nessuno ne parla. Nessuna forza politica che non si richiami direttamente al Comunismo.
Eppure in quell’Ottobre del 1917 (secondo il nostro calendario) si compiva un evento storico che avrebbe cambiato il mondo, aperto a nuove lotte di emancipazione sociale, a nuove visioni. Le classi popolari dell’epoca erano avvolte nell’analfabetismo e nell’ignoranza, in una vita dura e abbruttita, in ogni angolo d’un’Europa in cui lo sviluppo del capitalismo andava formando un proletariato insieme ai processi di industrializzazione e al formarsi dei paesi moderni.
La Rivoluzione d’Ottobre rappresentò tante cose. Ne voglio citare alcune. Fu l’apice di una straordinaria lotta dei movimenti socialisti dell’epoca a livello internazionale, che elevavano con la coscienza di sé milioni di operai e contadini. La cultura non era più appannaggio della borghesia e il mondo si poteva cambiare, lo potevano trasformare semplici manovali, sarte, minatori, braccianti, se solo si univano. Fu quindi la prima rivoluzione socialista e proletaria, della classi popolari subalterne che si compì. E da allora il mondo fu diverso.
Nei decenni successivi il socialismo, nel bene come nel male, rappresentò un contrappeso alle peggiori tendenze del capitalismo, alla predazione e allo sfruttamento, alla guerra, all’oppressione in genere. Il popolo sovietico diede un tributo di milioni di morti tra civili, partigiani e soldati dell’Armata Rossa contro il nazismo e il fascismo. Questa grande idea di affrancamento dalla schiavitù salariata e dal totalitarismo echeggiava giù per Monte Sole nei “viva Stalin” dei partigiani della Stella Rossa. E così era per i garibaldini della Valdossola, delle Langhe come per i maquis francesi, per i partigiani iugoslavi di Tito.
Il resto è storia.
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Notizie su Euridice
di Erri De Luca
Euridice alla lettera significa trovare giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla in terra. Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla. Intorno bolliva il 1900, secolo che spostava i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione e scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro.
C’è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un’alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice.
Innamorati di lei, accettammo l’urto frontale con i poteri costituiti. Nel parlamento italiano che allora ospitava il più forte partito comunista di occidente, nessuno di loro era con noi. Fummo liberi da ipoteche, tutori, padri adottivi. Andammo da soli, però in massa, sulle piste di Euridice. Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali. Ognuno era colpevole di tutto. Il nostro Orfeo collettivo e stato il più imprigionato per motivi politici di tutta la storia d’Italia, molto di più della generazione passata nelle carceri fasciste.
Il nostro Orfeo ha scontato i sotterranei, per molti un viaggio di sola andata. La nostra variante al mito: la nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all’aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio.
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Renzi, il cioccolataio estremo
Senza Soste
Prima di tutto va sciolto un equivoco: Matteo Renzi non è un leader moderato, o un innovatore che guarda sia a destra che a “sinistra”, ma un cioccolataio. Ovvero qualcuno che, per esibirsi nella comunicazione politica, non esita, in pochi mesi, a cambiare proposte politiche sul lavoro in modo anche imbarazzante. L’ha notato anche il solitamente quieto sbilanciamoci.info che ricorda come il Renzi del 2011, quello del contratto di lavoro alla Ichino, aveva lasciato il passo al Renzi della flexicurity, un modello comunque molto diverso, appena una decina di mesi dopo. Troppo poco per un ripensamento reale, abbastanza per capire che in materia di lavoro e di contratti Renzi procede scaricando le app disponibili nello store delle proposte, e delle cordate di potere, non per analisi politica. Estremo perché, essendosi proposto il Renzi come killer application della politica italiana, il cioccolataio in questione non nega soluzioni draconiane ottime per le apparizioni televisive: tracciabilità del contante praticamente fino agli spiccioli, creazione di una mega Equitalia (con altro nome s’intende...) e, audite audite, produrre lavoro precario con i soldi sottratti alle pensioni. Proposta nuova quanto la prima riforma delle pensioni (1995) e destinata, se mai vedesse la luce, a creare pensionati impoveriti, nuovi futuri disoccupati e un’altra voragine nei conti dello stato.Non manca il sottofondo di proposta di liquidazione degli asset pubblici, dall’Eni ai trasporti locali fino agli immobili, giusto per trasferire le risorse ai privati e all’estero. Ma anche nel centrosinistra ad uno così, non molti anni fa, al massimo avrebbero chiesto in quale ambulanza avrebbe preferito accomodarsi. Le renzinomics sono infatti il programma della liquidazione coatta delle risorse di un paese sotto il pretesto del rilancio, la resa ad ogni potere della finanza globale, e l’impoverimento supremo dell’Italia, sotto la retorica dell’innovazione.
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Lo Stato seduttore ha fretta
Miguel Martinez
I media ci raccontano che un centenario è morto, e cosa pensa a fare lo Stato? Una legge, certo, con “pene da uno a cinque anni“. Più galera per tutti!, la panacea universale.
La legge tocca farla di corsa, finché la notizia è calda e il cadavere calciabile.
Talmente di corsa che ieri si è cercato di far passare quella che chiamano una “legge contro il negazionismo” direttamente in commissione Giustizia.
Poi all’ultimo momento i senatori del Movimento Cinque Stelle hanno chiesto che la legge, che loro comunque sostengono a spada tratta, passi prima in aula. Anche a partire da oggi stesso, secondo loro. Che però significa perdere ventiquattr’ore di tempo-TV.
Questa insensibilità per i ritmi degli anchormen fa innervosire a tal punto una certa Monica Cirinnà, senatrice, che esclama ”Il Movimento 5 Stelle è arrivato al negazionismo”, mentre Anna Finocchiaro dice, “Non mi stupisce che la furia devastatrice dei Cinque Stelle si abbatta anche su provvedimenti di civiltà come il negazionismo dell’Olocausto.”
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Ma chi è il nemico della Costituzione?
Dante Barontini
Landini, Rodotà e Vendola avevano puntato molto sulla manifestazione di ieri. L'avevano indetta prima della crisi di governo poi risoltasi con la “fiducia” votata anche da Berlusconi. Avevano in fondo scommesso sulla rottura delle “larghe intese” e mirato a candidarsi come legittimi e “popolari” sostituti del centrodestra (magari spaccato in mille pezzi, alcuni dei quali “recuperabili”) in un esecutivo guidato dal PD con priorità un po' diverse da quelle attuali.
La loro “difesa della Costituzione” era totalmente e debolmente antiberlusconiana, ed è rimasta fortemente spiazzata dalla prosecuzione delle “larghe intese”. Che la Costituzione sia sotto pesante attacco, non c'è dubbio. Il problema è che Landini, Rodotà e Vendola non vogliono neppure chiedersi “chi” stia smantellando a colpi di maglio la Carta nata dalla Resistenza. Dovrebbero fare i nomi di Napolitano e Letta, quindi dell'intero Pd, oltre che citare ovviamente l'Unione Europea.
Chi è che ha trasformato il ruolo del Presidente della Repubblica in quello di “facitore dei governi” invece che di “custode delle regole costituzionali”?
Chi è che ha nominato un “comitato di saggi” che deve sfornare un progetto di “riforma” che poi questo Parlamento (di “nominati”, quasi per intero incompetente e disinteressati alle materie costituzionali) dovrà soltanto approvare?
Qual è il partito che con più zelo rappresenta la fedeltà assoluta ai diktat della Troika?
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Di cosa l'Italia deve proprio vergognarsi
di Manlio Dinucci
«Vergogna e orrore»: questi termini usa il presidente della repubblica Napolitano a proposito della tragedia di Lampedusa. Più propriamente dovrebbero essere usati per definire la politica dell’Italia nei confronti dell’Africa, in particolare della Libia da cui proveniva il barcone della morte. I governanti che oggi si battono il petto sono gli stessi che hanno contribuito a questa e ad altre tragedie dei migranti.
Prima il governo Prodi sottoscrive, il 29 dicembre 2007, l’Accordo con la Libia di Gheddafi per «il contrasto ai flussi migratori illegali». Poi, il 4 febbraio 2009, il governo Berlusconi lo perfeziona con un protocollo d'attuazione. L'accordo prevede pattugliamenti marittimi congiunti davanti alle coste libiche e la fornitura alla Libia, di concerto con l’Unione europea, di un sistema di controllo militare delle frontiere terrestri e marittime. Viene a tale scopo costituito un Comando operativo interforze italo-libico. La Libia di Gheddafi diviene così la frontiera avanzata dell’Italia e della Ue per bloccare i flussi migratori dall’Africa. Migliaia di migranti dell’Africa subsahariana, bloccati in Libia dall’accordo Roma-Tripoli, sono costretti a tornare indietro nel deserto, condannati molti a sicura morte. Senza che nessuno a Roma esprima vergogna e orrore.
Si passa quindi a una pagina ancora più vergognosa: quella della guerra contro la Libia.
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Cile
Piccolo vademecum su miti, errori, menzogne ed omissioni sull’11 settembre 1973
Gennaro Carotenuto
Mercoledì è il quarantesimo anniversario del colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973, un evento fondativo del mondo contemporaneo, come avrò modo di argomentare in un articolo che sarà pubblicato la mattina dell’11 su questo sito. Come studioso di storia del Cile, di Salvador Allende e nello specifico di quel golpe (in particolare intervistando la gran parte dei sopravvissuti della battaglia della Moneda per lavori pubblicati o in corso di pubblicazione), sento il bisogno di una serie di puntualizzazioni apparentemente banali eppure decisive nella narrazione e interpretazione di quei fatti. Ovviamente non mi illudo di essere creduto o dato credito e sono convinto che in questi giorni continueremo a sentir dire che Allende non si è suicidato o che il Cile era sull’orlo del caos, che non è provato il ruolo della CIA, eccetera. Pace.
1) Salvador Allende indiscutibilmente si suicidò. I testimoni diretti, persone al di sopra di ogni sospetto, tra i quali il dottor Jirón e il GAP Pablo Zepeda, non lo mettono mai in dubbio. La leggenda dell’assassinio fu inventata e diffusa innanzitutto da Radio Mosca per motivi di propaganda. Buona parte dei motivi del successo di tale versione furono dovuti: a) a motivi culturali rispetto alla valenza del suicidio interpretabile come atto di vigliaccheria; b) al fatto che l’assassinio appariva come perfetta allegoria dell’infamia del golpe e della morte della democrazia; c) al dato che i testimoni diretti di parte democratica (che hanno sempre parlato del suicidio) furono uccisi o messi a lungo a tacere dalla dittatura. L’intero campo democratico, a partire da un famoso articolo molto romanzato di Gabriel García Márquez, preferì a lungo non credere al suicidio, forse uno dei pochi dettagli sul quale i golpisti non mentirono. Si veda in particolare il mio saggio su «Passato e Presente» in nota.
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Siria, il Papa sfida Obama
Digiuno contro la guerra
«Mai più guerra». Con un gesto clamoroso, la cui forma così esplicita e diretta ha pochi precedenti della storia, il Papa si schiera apertamente contro l’intervento militare in Siria. E assume virtualmente la leadeship politico-spirituale dell’Occidente, pronunciando parole inequivocabili dal balcone di piazza San Pietro durante l’Angelus della domenica mattina: «La comunità internazionale agisca sulla base del dialogo: il grido della pace si levi alto, perché tutti rimpongano le armi e si lascino guidare da un anelito di pace». Di più: il pontefice indice per il 7 settembre una grande manifestazione contro la guerra e annuncia un digiuno di preghiera per invocare la rinuncia all’uso della forza contro Damasco. E’ un monito di inaudita efficacia, rivolto direttamente a Barack Obama, che considera il raid inevitabile ma lo posticipa all’indomani del 9 settembre. Messaggio drammaticamente chiaro, quello del Vaticano: è ufficiale, il mondo è in pericolo.
«Condanno l’uso delle armi chimiche», esordisce Bergoglio, con il volto teso: «Vi dico che ho ancora fisse le terribili immagini dei giorni scorsi», quelle dei bambini siriani uccisi dai gas tossici sprigionati dai proiettili chimici. Per quell’orrore, «c’è un giudizio di Dio e della storia a cui non si può sfuggire». Ma, aggiunge il Papa, «non è mai l’uso della violenza che porta alla pace: guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». Per cui: «Chiedo alle parti in conflitto di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro intraprendendo la via dell’incontro», perché oggi più che mai «l’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace». Parole che confermano appieno il timore di chi paventa l’innesco di una sorta di “terza guerra mondiale” dietro il possibile bombardamento missilistico della Siria.
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I giorni dello scolapasta
Augusto Illuminati
La campagna delle destre per restituire agibilità politica a Berlusconi è bizzarra, oltre che ossessiva. Se ne parla come se tale qualità fosse oggetto di concessione o contrattazione, dimenticando, che so, che Lenin l’aveva a pieno titolo nella sua capanna finlandese nel 1917 e che purtroppo D’Alema e Veltroni ne fanno cattivo uso standosene fuori del Parlamento.
Il vero problema è l’incandidabilità, cioè la difficoltà a presentarsi con nome e cognome in una campagna elettorale personalizzata e a tenere insieme il pittoresco zoo dei suoi colonnelli. Il vittimismo infuriato genera un pressing indecente sulla sinistra che, a sua volta, si erige in pose monumentali sulla sponda della legalità, con la grottesca immagine di Enrico Letta in trincea a Kabul, scolapasta in testa e giubbotto di kevlar antiproiettile. Scolapasta, ma in un giorno inopportuno, quando le sue comiche promesse di restare per molti anni a fianco del disgraziato Afghanistan (come se non bastassero i talebani) acquistano un senso ben più minaccioso alla vigilia di un probabile attacco Nato alla Siria, dove il buon nipote di Gianni dovrebbe emulare gli spiriti guerreschi di D’Alema ai tempi dell’aggressione al Kosovo. L’Enrico catafratto sarebbe il braccio armato di Napolitano, in una riedizione (molto, molto più complicata) della campagna libica. Sia il ruolo di alleato volenteroso sia quello più prudente e probabile di benevolo spettatore (cui spingono i berlusconiani filo-putiniani) allontanano oggettivamente la crisi di governo e per essi Letta appare molto più attrezzato e internazionalmente accredito del provinciale Renzi.
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La sinistra non capisce nulla
di Marino Badiale
Francesco De Gregori, l'autore di tante bellissime canzoni che hanno segnato la nostra “educazione sentimentale”, ci ha fatto sapere alcune sue opinioni politiche in un'intervista al Corriere della Sera del 31 luglio. Si tratta di un documento interessante per capire la realtà del nostro paese, e in particolare di quella parte dell'opinione pubblica che qualifichiamo “sinistra”. De Gregori infatti è una persona colta e intelligente, sa parlare bene, non aggredisce e non insulta. Non è uno studioso, ma è sicuramente un rappresentante della parte migliore dell'opinione pubblica di sinistra. Ebbene, che cosa emerge da questa intervista? Emerge, per esempio, che De Gregori alle ultime elezioni ha votato Monti e Bersani e che nutre “un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e Alfano”. Opinioni rispettabilissime e condivise da molti. La cosa che turba leggermente la mia mente razionalistica è che De Gregori, dopo queste affermazioni, aggiunge
Ora, il problema che si pone è ovvio: come fa una persona intelligente e onesta a tenere assieme le due cose? La risposta è abbastanza facile: De Gregori non ha capito nulla. Non ha la minima idea di quale sia la realtà sociale, economica e politica dell'Italia e del mondo. Ovviamente, questa affermazione deve essere presa cum grano salis.
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Soriano Ceccanti
di Elisabetta Teghil
Soriano Ceccanti, allora sedicenne, fu ferito dalla polizia fuori dal locale La Bussola a Viareggio, nella notte di capodanno del '68-'69, nel corso di una manifestazione indetta da Lotta Continua. Da allora vive su una sedia a rotelle.
Alcune considerazioni.
Questo è il prezzo pagato da un militante di Lotta Continua e questa è la misura dell'oscena e strumentale campagna di calunnie contro LC, prendendo a pretesto che qualcuno/a nel suo percorso personale si è sistemato/a.
Attraverso questa facile demagogia si sminuiscono i valori non solo di LC, ma di tutto il movimento del '68 e degli anni '70 e la generosità di quei/quelle militanti. Tanti/e uccisi/e, incarcerati/e o su una sedia a rotelle come Soriano Ceccanti e Sirio Paccino.
Colpisce sempre, allora come adesso, il silenzio omertoso delle prefiche della non violenza, le stesse che non denunciano le violenze poliziesche nei confronti dei valsusini/e, ma starnazzano di presunte violenze dei/delle resistenti della valle e, magari, dei/delle ristretti/e nei Cie e dipingono le/i solidali come violenti ed estremisti scrivendo così le sentenze delle loro condanne e creando, allora come adesso, le premesse della repressione violenta.
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La musica è finita
Antonio Pagliarone
il commercio di effetti negoziabili di ogni specie,
l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di
Borsa e la bancocrazia moderna.
Karl Marx
L’articolo di Michael Roberts “The failure of QE” prende in esame le conseguenze provocate dalla Fed americana di Ben Bernake in seguito alla sua politica economica di quantitative easing ossia l’iniezione di “liquidità” per portare i tassi di interesse a livelli irrisori. Tale intervento della banca centrale americana è stato salutato positivamente dal mainstream del “keynesismo finanziario” tanto da divenire una bandiera per osservatori economici di sinistra (e per qualche destrorso del tipo Tyler Cowan) spesso sostenitori di un marxismo rozzamente adattato ai tempi.
Naturalmente l’iniziativa della Fed americana ha dato seguito ad interventi analoghi della Banca di Inghilterra e della Banca del Giappone senza dimenticare la politica economica sullo stesso stile della Bank of China e della BCE del troppo mitizzato Mario Draghi. In tali condizioni i relativi governi hanno immediatamente cercato di sfruttare l’occasione per cambiare rotta e decretare la bancarotta dell’” austerità” ed intraprendere iniziative di spesa verso investimenti produttivi per “favorire la crescita” economica e l’occupazione grazie ai quali verrebbe alimentata una domanda ormai stagnante. In realtà l’unico effetto positivo prodotto dal quantitative easing è stato un nuovo boom delle Borse. Il grafico sottostante mostra la progressiva euforia borsistica cresciuta dall’autunno scorso fino al crollo dell’ultimo mese.
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I Tassi d'Interesse e la confusione che regna sovrana
Salvatore Perri
Il differenziale fra tassi d'interesse sui titoli di stato italiani e tedeschi e' balzato negli ultimi mesi agli onori della cronaca additato come indicatore del potenziale disastro economico imminente. La divaricazione dei tassi ha sicuramente implicazioni problematiche ma esse riguardano principalmente il razionamento del credito verso le imprese e non, come erroneamente si crede, una ipotetica impossibilita' di rifinanziare il debito.
Il ruolo del famigerato "spread" fra i tassi d'interesse sul debito e' diventato nell'opinione pubblica mutevole non meno delle personali sensazioni climatiche. Lo stesso e' passato dall'essere una variabile in grado di determinare la fine di un governo, all'essere un'invenzione della stampa. E' indiscutibile che un aumento dei tassi d'interessi sul debito pubblico (enorme come quello italiano) abbia implicazioni importanti sui conti dello stato, ignorarlo o far finta che non esista, come fosse l'incubo in cui si viene inseguiti dai fantasmi, non ne aiuta certamente la comprensione.
Tuttavia, alcuni degli effetti di un aumento dei tassi sono quotidianamente male interpretati, creando allarmismo immotivato verso il rifinanziamento del debito ed oscurando completamente i veri effetti negativi che riguardano fondamentalmente il settore privato e le proprie possibilita' di accedere finanziamento bancario.
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Domenica a Piedi
Ovvero, Perché questa sinistra è destinata a perdere sempre
Sandrone Dazieri
Faccio una premessa chiarificatrice: non ho la patente. Non me l’hanno tolta o cose del genere, semplicemente non ho mai sentito il desiderio di prenderla. In famiglia abbiamo un’auto che guida mia moglie, ma la utilizziamo solo per i viaggi fuori città o per fare la spesa al supermercato due volte al mese. Non ho quindi alcuna simpatia per il traffico e tantomeno quelli che non fanno un metro senza l’auto o parcheggiano in doppia fila.
Detto questo penso che le domeniche a piedi che sono state indette dal Comune di Milano, domeniche durante le quali il traffico privato è vietato dalle 10 alle 18, siano un mix di arroganza e idiozia. Cerco di spiegare perché.
1) Le domeniche a piedi vengono istituite, da dichiarazioni di vari assessori e associazioni, come una forma di “educazione all’uso alternativo della città”. Per far capire che andare a piedi è bello eccetera. Dichiaro la mia ostilità per le istituzioni che vogliano educarmi, insegnarmi alcunché o spiegarmi come stare al mondo. Da adulti, educarsi e imparare deve essere volontà del singolo, non un’imposizione calata dall’alto. Dal comune mi aspetto che gestisca la città, non che mi rieduchi.
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In morte di don Gallo
Scritto da Diego Fusaro
Se ne è andato il 22 maggio Don Andrea Gallo, il prete di strada di Genova. Ci piace ricordarlo come uno splendido esempio di quella che il filosofo Ernst Bloch chiamava la “corrente calda” del Cristianesimo: ossia di quel pathos non conservativo che, nel nome del regno dei cieli, aspira a rovesciare il trono dei potenti, instaurando in terra il “regno dei cieli”, la giustizia mondana.
In questo, Don Gallo è stato un fedele discepolo di Cristo e come tale occorre ricordarlo. Una vita intera spesa in difesa degli offesi del pianeta, nel tentativo di assisterli, ma poi anche di lottare insieme a loro in nome di qualcosa di più grande della miseria del presente. L’epoca della morte di Dio – Nietzsche docet – è quella del nichilismo pienamente sviluppato: nulla in cui credere o per cui lottare, in un’acefala resa alle logiche illogiche del presente saturato dalle prestazioni sempre più oscene del fanatismo dell’economia.
E però Dio – Don Gallo ce l’ha insegnato – torna a vivere ogni qual volta torniamo a sperare in un'ulteriorità nobilitante, in un futuro in grado di riscattare le miserie del presente: una speranza militante, che si traduce operativamente in lotta contro le ingiustizie e in sacrosanta ira in grado di ridisegnare le geometrie dell’esistente. La religione può oggi costituire una preziosa risorsa di resistenza al nichilismo, già solo in forza del suo eroico riconoscimento dell’alterità della forma di merce rispetto alla divinità trascendente.
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La cultura deve essere cosmopolita; l'economia politica deve essere nazionale
Stefano D'Andrea
Perché il sistema finanziario deve essere nazionale, ossia chiuso?
Perché uno stato sovrano, libero di disciplinare la quantità di moneta immessa nel sistema, da se stesso o dalle banche commerciali, nonché le modalità di immissione, tanto più se molte banche commerciali (o almeno le grandi) sono pubbliche, non ha alcun bisogno di consentire che l’attività economica pubblica o privata sia finanziata da denaro creato all’estero.
Questa evidenza, lapalissiana, è negata, o meglio rimossa, da quasi tutti i mezzi keynesiani, compresi i neokeynesiani, che da tempo spadroneggiano sulla rete, ricevendo grande successo.
Molti di essi sono statunitensi e quindi abituati a ragionare su un sistema che non ha le caratteristiche e i problemi degli altri. Se negli Stati Uniti c'è una crisi finanziaria, i capitali accorrono negli Stati Uniti o comunque non scappano; mentre se la crisi finanziaria si verifica in Italia, i capitali scappano. Questa e altri simili constatazioni dovrebbero indurre le persone di buon senso ad applicare la massima: "coloro che, discorrendo di temi economici, recano l'esempio degli Stati Uniti o sono sciocchi, se sono in buona fede, o sono impostori, se sono in mala fede".
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“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”
di Elisabetta Teghil
La settimana scorsa, all’alba di un giorno qualunque, a Milano, un giovane ghanese ha ucciso tre persone, a caso, le prime incontrate per strada.
I media hanno parlato di follia omicida, hanno intervistato la gente del quartiere sotto shock, un quartiere alla periferia della città, hanno parlato della storia delle vittime, dei parenti, degli amici, di vite sconvolte e di città impaurite.
Il rispetto del dolore per chi ha perso il figlio, il padre, l’amico è dovuto e imprescindibile.
Ma non è stata spesa una parola sul giovane nero che, dicono sempre i media, parla solo un dialetto del Ghana e un inglese stentato.
Nessuno/a si è chiesto come mai passasse la notte nei ruderi di Villa Trotti, un edificio abbandonato a poca distanza dal luogo dei fatti. Nessuno/a si è domandato il perché di due richieste d’asilo respinte e di due decreti di espulsione pendenti o come e dove trovasse da mangiare o perché fosse qui in Italia.
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Una strana storia
di Tersite Rossi
Del drammatico attentato di domenica 28 aprile a Roma, di cui sono rimaste vittime due carabinieri, si è detto e si sta dicendo molto. E a due scrittori, da anni abituati a rimestare nel torbido della storia e della politica italiana, non possono non risaltare alcuni aspetti davvero sorprendenti. Procediamo con ordine, come nello studio di un detective, lasciando per ultimo l'elemento a nostro avviso più sinistro. Premettiamo che la nostra riflessione presuppone la sanità mentale dell'attentatore, così come sembra emergere dalle indagini dei magistrati.
La pistola. Una Beretta 7.65 con matricola abrasa. L'attentatore dice di averla comprata clandestinamente quattro anni fa a Genova. Perché un piastrellista calabrese da vent'anni in Piemonte, sposato con un figlio, deve comprare una pistola al mercato nero?
Armi come quelle si comprano per delinquere e per nessun altro motivo. Un delitto da svolgersi quattro anni dopo, a causa di una crisi economica e personale che non si era ancora manifestata?
I proiettili. L'attentatore dichiara che era sua intenzione uccidersi, dopo aver compiuto il suo atto. Perché non l'ha fatto, pur avendo 3 colpi ancora inesplosi nel caricatore?
La mira. Una persona che non ha mai sparato, anche se si trova vicina al suo obiettivo, difficilmente riuscirà a colpirlo con la precisione con cui sono stati colpiti i due carabinieri (precisamente in punti non coperti dal giubbetto antiproiettile). L'immagine che lo ritrae prendere la mira sembra lasciare pochi dubbi sull'abilità balistica dell'attentatore. Dove ha imparato a sparare?
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L’economia primitiva di Margaret Thatcher
di Nicholas Kaldor
La convinzione che la spesa pubblica debba essere tagliata in modo da pareggiare il bilancio pubblico, la quale è chiaramente sostenuta con passione dalla signora Thatcher e dai suoi diretti collaboratori, deriva da una concezione antropomorfica dell’economia.
Le religioni primitive sono antropomorfe. Esse credono in dèi che ricordano gli esseri umani per condizioni fisiche e di carattere. L’economia della signora Thatcher è antropomorfa, in quanto crede di poter applicare all’economia nazionale gli stessi principi e regole di comportamento che sarebbero considerate opportune per un singolo individuo o una famiglia: pagare di tasca propria, tagliando le proprie spese in modo che si adattino ai propri guadagni, evitando di vivere oltre le proprie possibilità e di contrarre debiti. Si tratta di ben misurati principi di prudenza nei comportamenti per una persona, ma se applicati come ricette politiche per un’economia nazionale conducono ad assurdità.
Se un individuo taglia la propria spesa non dovrà ridurre il suo reddito. Tuttavia, se un governo taglia i proprio programma di spesa pubblica in relazione alle aliquote fiscali e alle tasse, ridurrà la spesa totale nell’economia e, quindi, la produzione totale e il reddito. Esso contribuirà a ridurre il gettito prodotto dalle imposte esistenti e causerà l’espansione della spesa pubblica per i sussidi di disoccupazione e per il sostegno delle imprese in difficoltà e per altri cose simili.
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Bahrain, rischia la vita l'attivista Zainab al-Khawaja
Sciopero della sete in carcere con il padre
MANAMA - Figlia e padre in carcere in Bahrain per aver manifestato a favore della democrazia, e in sciopero della fame dal 17 marzo per protestare contro la detenzione, hanno iniziato a rifiutare anche l'acqua. Lo ha fatto sapere in una nota il gruppo per i diritti umani Freedom House, aggiungendo di essere "profondamente preoccupato" per Zainab al-Khawaja e per suo padre Abdulhadi al-Khawaja.
I due rifiutano l'acqua da domenica, quando gli è stata negata una visita dei famigliari. I medici, fa sapere il Bahrain Center for Human Rights, hanno avvertito Zainab al-Khawaja, dicendole che rischia una "insufficienza multiorgano, un arresto cardiaco o il coma" se continuerà lo sciopero. Al-Khawaja è stata condannata a tre mesi di carcere per aver insultato un funzionario pubblico, chiedendo il rilascio del padre e di altri otto attivisti dell'opposizione condannati all'ergastolo. L'anno scorso Abdulhadi al-Khawaja aveva proseguito uno sciopero della fame per tre mesi.
24 maggio 2012
"Io, innocente, in prigione nel Bahrain"
Su Twitter l'atto di accusa
MANAMA - Una lettera appassionata, dolorosa, di dura denuncia, divisa in frasi da 140 caratteri su Twitter. Sull'account della famosa attivista Zainab al-Khawaja, @AngryArabiya, agli arresti da alcune settimane, ieri sono cominciati a uscire i misteriosi tweet con l'avvertimento: "Non sono Zainab, lei è in carcere e mi ha pregato di far uscire questa lettera".
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Ma andatevene tutti in India
di ilsimplicissimus
Non so quanti piani abbia Bersani o quanti ne esprima l’occhietto di faina di Grasso, né se Napolitano imporrà platealmente il governissimo col Pdl che è già scritto nel destino di un milieu politico che vuole salvare prima di tutto se stesso. Ma so ciò che gli italiani non vogliono: mai più un governo come quello Monti. Un esecutivo che per incompetenza, tracotanza ideologica, vaniloquio, capacità di miserabili intrallazzi, non ha uguali. E la clamorosa vicenda dei marò, condotta dal geniale Terzi di Santa cAgata, non è affatto un incidente, ma la sintesi, la metafora della sua azione in tutti i campi dove errori, ostinazioni, cecità, ostentata arroganza e debolezza segreta, demagogia spicciola e clientele sono stati all’ordine del giorno.
Il Paese è sprofondato in recessione. E i marò tornano in India dopo che il ministro degli Esteri non ha tralasciato nessuna mossa per isolarci dal contesto internazionale e renderci inaffidabili e ridicoli. Prima si è intestardito nel voler far giudicare i marò in Italia – una tesi fragile – ma al limite percorribile se i due fucilieri non fossero già stati in mani indiane. Subito dopo si è tentato di confondere le carte e di screditare la versione indiana dei fatti che invece tutte le prove hanno confermato. E solo troppo tardi si è tentata l’operazione di gentleman’s agreement, quando ormai il successo di questa tattica, in assoluto la prima da tentare, era stato compromesso dalle frizioni precedenti e dall’arroganza dimostrata dalla nostra diplomazia
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Pertinenza e limiti degli obiettori della crescita
Anselm Jappe
Il discorso della "decrescita" è una delle rare proposte teoriche un po' nuove apparse negli ultimi decenni.
La parte del pubblico che è attualmente sensibile al discorso della "decrescita" è ancora abbastanza ristretta. Tuttavia, questa parte è incontestabilmente in aumento. Ciò traduce una presa di coscienza effettiva di fronte agli sviluppi più importanti degli ultimi decenni: soprattutto l'evidenza che lo sviluppo del capitalismo ci trascina verso una catastrofe ecologica, e che non è qualche filtro in più, o delle automobili un po' meno inquinanti, che risolveranno il problema.
Si sta diffondendo una sfiducia nei confronti dell'idea stessa che una crescita economica perpetua sia sempre desiderabile, e, allo stesso tempo, un'insoddisfazione verso le critiche del capitalismo che gli rimproverano essenzialmente la distribuzione ingiusta dei suoi frutti, o soltanto i suoi "eccessi", come le guerre e le violazioni dei "diritti umani".
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Scor-data: 14 marzo 1883
13 marzo 2013 di DB
Morte di Karl Marx, un comunista
di Francesco Cecchini (*)
«Il y aura ce jour… Rien ne peut entamer la terrifiante lumiére glacée de cette certitude» – Jacques Derrida
La morte
All’età di 65 anni muore Karl Marx. È un giovedì e siamo nel 1883.Tre giorni dopo viene sepolto a Londra nel cimitero di Highgate, in quella parte destinata agli indigenti e a fianco della tomba della moglie Jenny von Westphalen, morta 14 mesi prima.
Friedrich Engels con queste parole apre e chiude il discorso di commiato: «Il 14 marzo, alle due e quarantacinque, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre… Il suo nome vivrà nei secoli e così la sua opera».
Premessa
Tredici mesi prima della morte, Karl Marx abbandona, per la prima e l’ultima volta, l’Europa e va in Africa, ad Algeri. La città che incontra nell’inverno del 1882, non è quella che Albert Camus descrive nel suo romanzo «Lo straniero». Né tanto meno quella dove vivo. Il tempo trasforma. Ora è una metropoli soffocata dal traffico, le colline sono di cemento e le periferie pericolose come quelle di Marsiglia. Il terrorismo islamico a volte la macchia di sangue. La luce, quando il vento spazza via nuvole e smog, è però la stessa di sempre, come il mare che sta di fronte. Allora vista dalle alture della Casbah, gli edifici antichi della parte bassa, le onde che si infrangono contro le rocce lungo il mare, Algeri sembra ai miei occhi come L’Avana del mediterraneo, simile, forse, al luogo che ospitò Marx, più di cento anni fa.
Tutte le guide turistiche (Le Petit Fouté, Le Routard, Lonley Planet e altre) descrivono il luogo e ne consigliano la visita. Sottolineano che il primo film di Tarzan – «Tarzan, the ape man», con Johnny Weissmuller – è stato girato al suo interno nel 1932. Una pellicola in bianco e nero che fotografa un ambiente che non è la jungla africana, ma un famoso orto botanico sperimentale «Le jardind’essai»di Algeri. I francesi lo fondarono nel 1832, poco dopo la conquista; gli algerini se ne sono appropriati come uno dei tanti bottini di guerra quando sconfissero i colonialisti e lo conservano intatto nella sua bellezza e ricchezza di verde, piante e acqua.
La descrizione, qui sotto, è di un autore speciale e non appare nelle guide o in articoli di riviste turistiche, ma in una lettera a un amico: «Ieri verso l’una del pomeriggio, siamo discesi a Mustapha e da li con il tram abbiamo raggiunto il Jardin Hamma o Jardin d’ Essai utilizzato come Promenade Publique, ove si tengono concerti di musica militare, utilizzato come vivaio, per la crescita e la diffusione della vegetazione indigena, oltre che per la sperimentazione botanica e scientifica e come giardino di acclimatazione… Il tutto occupa un vasto terreno con una parte accidentata ed una in piano. Per visitarlo con attenzione, serve almeno un giorno intero, per di più con esperto conoscitore come M. Durando, esperto in botanica».
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