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Dollari, dazi e dominio

di Massimo De Angelis

gettyimages 481615361 612x612.jpgPrendendo spunto da Quo Liang nel suo Arco dell’impero, il mio punto di vista generale è che l’egemonia del dollaro possa essere descritta come un imperfetto meccanismo di respirazione della mostruosa macchina del capitale globale. Inspirazione: capitali e denaro rifluiscono negli Stati Uniti. Espirazione: capitali e denaro fuoriescono. Va da sé che a questo flusso è associato lo scatenarsi di dinamiche differenziate e pressioni per la ristrutturazione dei rapporti di classe in tutto il mondo. Da questa prospettiva, il paradosso di Triffin non è tanto un paradosso quanto lo sarebbe avere troppo o troppo poco ossigeno nei polmoni.

 

Il respiro tossico del dollaro

Il paradosso di Triffin descrive la trappola economica che si verifica quando la valuta di un paese – come il dollaro statunitense – diventa la valuta di riserva di riferimento a livello mondiale. Per far funzionare il commercio internazionale in modo minimamente fluido, il mondo ha bisogno di una valuta affidabile e universalmente accettata. Questo significa che il paese che emette tale valuta -attualmente gli Stati Uniti – deve immettere nel sistema globale una quantità sufficiente di dollari. L’unico modo per farlo è attraverso deficit commerciali persistenti: gli Stati Uniti acquistano più dal mondo di quanto vendano. Tuttavia, questo flusso costante di dollari comporta un problema: più gli Stati Uniti importano e accumulano deficit commerciali, più aumentano il loro debito. Col tempo, ciò può minare la fiducia globale nel dollaro stesso. Se i paesi iniziano a dubitare del suo valore, si scatena instabilità finanziaria. Ma c’è un vicolo cieco: se gli Stati Uniti tentano di rimediare riducendo i deficit commerciali – cioè diminuendo la quantità di dollari in circolazione – il mondo si ritrova improvvisamente a corto di liquidità in dollari. Il commercio internazionale rallenta, l’economia globale frena, e le valute emergenti trovano più spazio per sfidare il ruolo egemonico del dollaro.

Così, gli Stati Uniti si trovano intrappolati in un paradosso: o continuano a inondare il mondo di dollari aumentando il sovraindebitamento, oppure restringono l’offerta di dollari, causando una crisi di liquidità globale. È all’interno di questi due poli che si apre lo spazio per l’intervento del monarca Trump.

 

Guerra commerciale, guerra sociale

In questo contesto, i dazi si configurano come uno degli strumenti potenzialmente capaci di innescare una nuova fase di ‘inspirazione’ nella dinamica respiratoria del dollaro, anche se il loro funzionamento reale è spesso frainteso. Anche se Trump li ha presentati  come una tassa imposta alle imprese straniere che vogliono accedere al mercato statunitense, in realtà sono gli importatori interni – cioè le aziende americane – che li pagano direttamente. I dazi vengono riscossi in dollari dal servizio doganale degli Stati Uniti, quindi non riportano letteralmente valuta dall’estero; piuttosto, reindirizza i dollari interni verso il bilancio federale, agendo più come uno strumento fiscale interno che come un meccanismo di rimpatrio della valuta. Detto ciò, i dazi possono comunque scoraggiare le importazioni aumentando i loro costi, rendendo più costoso l’ingresso di beni esteri negli Stati Uniti. Questo può influenzare marginalmente la bilancia commerciale, rendendo le alternative interne più competitive o riducendo i volumi d’importazione. Ma lo scenario più ampio è meno roseo: i produttori stranieri vengono spinti ad abbattere i costi del lavoro per restare competitivi, aumentando lo sfruttamento nei paesi d’origine, mentre i prezzi interni tendono a salire, facendo sì che siano anche i lavoratori americani a pagare il conto. E così il ciclo si chiude: lavoratori spremuti su entrambi i lati dell’oceano, e in tutte le parti del mondo. Dal punto di vista del capitale globale un ottimo scenario, a meno che non sia un economista Keynesiano che ricorda il problema della domanda, problema che in questa fase sembra a non impensierire troppo vista la pressione a riarmarci e al clima di guerra. Inoltre, i partner commerciali non accettano passivamente i dazi – reagiscono con misure simili, innescando vere e proprie guerre commerciali. Ma questa reciprocità, lungi dal riequilibrare la situazione, non fa che moltiplicare gli effetti regressivi sulla riproduzione sociale in tutti i paesi coinvolti. Quando un paese risponde ai dazi statunitensi con dazi propri, anche lì aumenta il costo dei beni importati, alimentando inflazione, alti costi di vita e instabilità nei bilanci familiari. Di conseguenza, la pressione sulle famiglie aumenta, i servizi pubblici si trovano sotto stress fiscale e le reti di pubbliche di cura e sostegno vengono ulteriormente erose.

In questo contesto, le imprese rispondono cercando competitività attraverso la compressione del costo del lavoro, cioè precarizzando ulteriormente i lavoratori, rallentando la crescita dei salari, intensificando ritmi e produttività, e cercando di indebolire il potere contrattuale dei sindacati. La guerra commerciale, quindi, non si gioca solo tra Stati, ma si combatte sulle spalle delle popolazioni: è una guerra per disciplinare e sottomettere ancora di più la riproduzione sociale ampiamente intesa alle esigenze della valorizzazione capitalistica.

Le crisi che ne derivano – disoccupazione, tagli allo stato sociale, aumento della povertà – agiscono come dispositivi di normalizzazione, a meno che non si inneschino forme di rottura e insorgenza collettiva. E guarda caso, negli ultimi tempi, in un mondo attraversato da crisi profonde, il dissenso viene sempre più trattato come crimine: tra leggi liberticide, sorveglianza di massa e repressione della solidarietà, chi difende la vita viene sistematicamente delegittimato e trattato come una minaccia all’ordine pubblico – dall’Europa e gli Stati Uniti fino a molte altre aree del mondo, dove le lotte sociali sono sotto attacco crescente. Così, in assenza di una massa critica di lotte capaci di incidere nei rapporti di forza, anche la possibile recessione diventa un’arma politica: indebolisce la resistenza sociale e ristruttura gli equilibri in favore del capitale, esigendo sempre più da chi ha sempre meno.

In questo scenario, i dazi non sono semplicemente strumenti di politica commerciale, ma leve sistemiche di governo della crisi al servizio del capitale globale, capaci di redistribuire i costi della competizione tra regimi di riproduzione sociale disuguali, trasformando ogni scambio in un campo di scontro asimmetrico tra economie sbilanciate e corpi già esauriti.  Quindi, sebbene i dazi possano temporaneamente aumentare le entrate pubbliche o aprire spazi di manovra nei negoziati, non risolvono strutturalmente il problema. Gli Stati Uniti continueranno comunque per un bel po’ a importare più di quanto esportino. In breve, i dazi sono uno strumento, ma spuntato. Ecco perché la logica principale dei dazi, nel caso di Trump, va cercata altrove: nel loro uso come moneta di scambio nei negoziati bilaterali, dove può esercitare pressione da una posizione di forza. È lì che si gioca la partita per ridefinire l’architettura del capitale globale, non solo in termini di rapporti economici, ma anche nella ristrutturazione delle regole della vita collettiva—di ciò che possiamo aspettarci l’uno dall’altro, di come vengono riconosciute o negate le differenze, di chi può vivere e come. In questo disegno, il dazio diventa un’arma per decidere chi conta e chi può essere sacrificato: che si tratti di cittadini o migranti irregolari, di uomini o donne, di soggettività trans o della stessa Gaia.

 

Il dollaro che ti entra in tasca: stablecoin ovunque

Ma se i dazi operano come strumenti “analogici” di pressione geopolitica e disciplinamento sociale, nel nuovo ciclo digitale del capitale globale entrano in gioco dispositivi più sottili e pervasivi, capaci di agire non solo sugli scambi commerciali, ma sulle stesse infrastrutture del denaro e della fiducia economica. Entrano allora in scena le stablecoin e le valute digitali, che stanno aprendo nuove frontiere per mantenere i dollari in circolazione, rafforzare il dominio finanziario degli Stati Uniti nell’era digitale, e far sì che siano i paesi stranieri a finanziare il deficit commerciale statunitense.

Le stablecoin sono un tipo di criptovaluta progettata specificamente per mantenere un valore stabile, ancorato a valute come il dollaro USA, a differenza di altre criptovalute come Bitcoin o Ethereum, soggette ad alta volatilità. Le criptovalute offrono modi alternativi per muovere e detenere dollari, garantendo che, anche al di fuori dei sistemi bancari tradizionali, il dollaro resti la spina dorsale delle transazioni globali.

Se la Federal Reserve dovesse introdurre un dollaro digitale ufficiale (CBDC), il controllo sui flussi in dollari verrebbe ulteriormente centralizzato, rendendo ancora più difficile per le valute concorrenti guadagnare terreno. Tuttavia, il Project 2025 – il manuale strategico che orienta la visione economica e politica dell’amministrazione Trump – si oppone fermamente all’introduzione di una valuta digitale emessa dalla banca centrale (CBDC). Nel documento si raccomanda esplicitamente di “impedire l’istituzione di una valuta digitale emessa dalla banca centrale (CBDC). Una CBDC fornirebbe un livello senza precedenti di sorveglianza e potenziale controllo delle transazioni finanziarie, senza offrire benefici aggiuntivi rispetto alle tecnologie già esistenti” (p. 741). La paura di una digitalizzazione monetaria in mano pubblica si intreccia dunque con l’interesse strategico a mantenere il controllo del dollaro saldamente nelle mani del settore privato, in particolare della finanza legata a Wall Street.

L’opposizione di Trump a una CBDC affiancata alla promozione di stablecoin emesse privatamente rappresenta una mossa strategica per rafforzare il dominio globale del dollaro senza concedere allo Stato un controllo eccessivo sulle transazioni finanziarie. Una valuta digitale statale, secondo i critici, potrebbe introdurre una sorveglianza finanziaria capillare, destabilizzare il sistema bancario tradizionale e, paradossalmente, indebolire il ruolo del dollaro generando instabilità interna. Al contrario, l’amministrazione preferisce sostenere le stablecoin ancorate al dollaro, che permettono al settore privato di espandere la portata globale della valuta americana senza centralizzazione, mantenendo così il commercio internazionale e la finanza digitale ancorati agli interessi economici statunitensi. In altre parole, un ulteriore passo verso la finanziarizzazione. Questo è particolarmente cruciale per contrastare concorrenti come Cina e Russia, che stanno attivamente sviluppando alternative digitali al dollaro nel commercio internazionale. Rafforzando l’adozione delle stablecoin, il dollaro mantiene la sua posizione centrale senza i rischi connessi a una valuta digitale controllata dal governo, garantendo al tempo stesso che le economie estere restino dipendenti dai sistemi finanziari basati sul dollaro.

Da questa prospettiva, le stablecoin emesse da soggetti privati rappresentano un’alternativa funzionale: permettono di estendere l’uso del dollaro nel mondo digitale, mantenendo però l’infrastruttura sotto il controllo di attori finanziari non statali. Il vantaggio strategico per Washington è evidente: man mano che le valute digitali diventano il mezzo preferito per le transazioni globali, sempre più paesi finiscono per finanziare il deficit commerciale americano detenendo e utilizzando asset digitali denominati in dollari. Così si preserva l’“esorbitante privilegio” del dollaro – la capacità di emettere moneta che il resto del mondo è costretto a usare – senza affrontare i rischi politici ed economici che una CBDC federale potrebbe generare sul fronte interno.

Inoltre, le stablecoin risultano particolarmente utili per legare economie instabili come Argentina o Turchia, offrendo una riserva di valore in dollari meno soggetta a inflazione, riducendo così la dipendenza da yuan, euro o altre valute alternative.

Le stablecoin, ancorate al dollaro, non si limitano a rafforzare il dominio finanziario degli Stati Uniti sui mercati, ma cominciano a penetrare nella vita quotidiana di milioni di persone, soprattutto nei paesi economicamente fragili, dove l’instabilità monetaria costringe intere popolazioni a sottomettere la propria riproduzione sociale alla logica del dollaro digitale. Anche il semplice micro-risparmio o l’accesso a beni essenziali diventa così parte di un’infrastruttura che estende il potere imperiale statunitense fino alle pieghe più intime della sopravvivenza.

In questo senso, le stablecoin non agiscono solo come strumenti tecnici di scambio, ma come veicoli di una strategia più ampia, che mira a proiettare la potenza monetaria statunitense radicandola ancor più nelle economie e nelle pratiche quotidiane di intere popolazioni. Le stablecoin e altri asset digitali ancorati al dollaro creano un nuovo canale per esportare la politica monetaria americana e accrescere la domanda globale di dollari. Con l’espansione delle transazioni digitali, sempre più imprese, istituzioni finanziarie e governi avranno bisogno di stablecoin in dollari per operare nel commercio internazionale, nella finanza e nei pagamenti transfrontalieri. Questo tiene le economie straniere agganciate al sistema del dollaro, rendendo più facile per gli Stati Uniti mantenere deficit commerciali persistenti senza affrontare conseguenze immediate. Le stablecoin accelerano e potenziano un processo già in atto da decenni, rendendo più agevole e fluido per le economie straniere detenere e usare dollari, senza necessariamente farli rientrare negli USA sotto forma di acquisto di titoli di stato o merci. Invece di forzare un riequilibrio commerciale come prevederebbe la teoria economica, le stablecoin permettono ai dollari in eccesso di circolare indefinitamente fuori dagli Stati Uniti, rafforzandone comunque la domanda. Normalmente, un deficit commerciale persistente dovrebbe indebolire una valuta, esercitando pressione per riequilibrare importazioni ed esportazioni. Ma i dollari digitali funzionerebbero da ammortizzatore: le economie straniere continuano ad assorbire i dollari statunitensi in eccesso senza richiedere in cambio beni o servizi americani. A differenza di una CBDC controllata dalla Fed, che potrebbe suscitare resistenze interne legate alla sorveglianza finanziaria, le stablecoin consentono agli emittenti privati di gestire la distribuzione dei dollari, mentre gli Stati Uniti mantengono comunque l’ultima parola sul loro flusso globale. Questo significa che, con l’espansione della finanza digitale, gli Stati Uniti possono non solo sostenere ma addirittura accelerare i propri deficit, rafforzando ulteriormente un ordine finanziario globale in cui mondo assorbe dollari e gli Stati Uniti continuano a consumare oltre le loro capacità produttive ed ecosistemiche – finanziati da una rete in espansione di dollari digitali.

Resta comunque una questione aperta il futuro equilibrio di questo sistema, dal momento che la proliferazione di stablecoin ancorate ad altre valute – come quelle in fase di sviluppo in Cina e nell’Unione Europea – potrebbe rimettere in discussione il predominio del dollaro anche nel nuovo ecosistema digitale.

 

Finanzcapitalismo in guerra: tra dollari digitali, Matusalem bond e ricatto globale

In questa strategia più ampia, le stablecoin giocano un ruolo complementare accanto ad altri strumenti come i titoli del Tesoro ultra-lungo termine – i cosiddetti “Matusalem bonds” – che offrono ai creditori globali una partecipazione di lungo periodo nella stabilità finanziaria denominata in dollari. Anche se non esiste un legame diretto tra stablecoin e questi bond, entrambi operano all’interno della stessa architettura: le stablecoin veicolano potere monetario, i titoli assorbono eccedenze di capitale globale. I dazi, infine, agiscono come leve tattiche non solo per esercitare pressioni su partner commerciali come l’Unione Europea affinché aprano mercati, offrano concessioni o acquistino debito statunitense, ma anche per forzare la revisione di regole interne agli Stati – le cosiddette barriere non tariffarie – come nel caso degli ormoni nella carne o delle normative ambientali e sanitarie, trasformando la politica commerciale in un’arma di penetrazione normativa. Insieme, questi strumenti rafforzano un regime in cui la centralità globale del dollaro viene mantenuta non solo grazie alla forza economica, ma attraverso un arsenale flessibile di strumenti digitali, fiscali e geopolitici. Un esempio futuro potrebbe riguardare proprio le stablecoin: se ostacoli regolatori in Europa o altrove (come EU’s Markets in Crypto-Assets (MiCA)) dovessero limitare la loro diffusione, i dazi potrebbero essere usati come leva negoziale per rimuovere tali barriere, spingendo gli alleati a integrare pienamente l’infrastruttura digitale dominata dal dollaro. Questo conferma come anche l’innovazione monetaria diventi terreno di scontro strategico, dove commercio, finanza e sovranità digitale si intrecciano.

Insieme, questi strumenti non garantiscono la centralità globale del dollaro, ma mirano a prolungarla e difenderla in un contesto in cui altri blocchi spingono per affrancarsene: la Cina in modo diretto e sistemico insieme ai paesi BRICS, e l’Unione Europea da una posizione ambigua, lacerata tra pressioni atlantiche e tentativi intermittenti di autonomia strategica. Ma, comunque vada a finire sul piano geopolitico e geoeconomico, dentro questa interazione sistemica tra dollari, dazi e debito, si gioca qualcosa di più profondo: nel pieno di una crisi egemonica – che è anche ambientale, sociale, e di senso – si consuma uno scontro interno al capitalismo su chi riesce a piegare i rapporti di forza nel punto esatto in cui si scrivono, giorno dopo giorno, le nuove regole del gioco: quelle che decidono cosa vale e cosa può essere sacrificato. Quel gioco sistemico consiste, appunto, nel decidere come e quanto la riproduzione sociale – cioè le condizioni della vita quotidiana, i bisogni, le relazioni, i corpi e la stessa Gaia – possa essere subordinata agli imperativi della valorizzazione del capitale. Alla fine è una questione di misura delle cose.

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2025 03 05 A.V. Sul compagno Stalin

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Qui la premessa e l'indice del volume

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Qui una recensione di Terry Silvestrini

Qui una recensione di Diego Giachetti

 

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Qui una presentazione del libro

 

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

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Qui una recensione di Ciro Schember

 

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Qui una recensione di Luigi Pandolfi

 
Enrico Grazzini è giornalista economico, autore di saggi di economia, già consulente strategico di impresa. Collabora e ha collaborato per molti anni a diverse testate, tra cui il Corriere della Sera, MicroMega, il Fatto Quotidiano, Social Europe, le newsletter del Financial Times sulle comunicazioni, il Mondo, Prima Comunicazione. Come consulente aziendale ha operato con primarie società internazionali e nazionali.
Ha pubblicato con Fazi Editore "Il fallimento della Moneta. Banche, Debito e Crisi. Perché bisogna emettere una Moneta Pubblica libera dal debito" (2023). Ha curato ed è co-autore dell'eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro" ” , 2015. Ha scritto "Manifesto per la Democrazia Economica", Castelvecchi Editore, 2014; “Il bene di tutti. L'economia della condivisione per uscire dalla crisi”, Editori Riuniti, 2011; e “L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Codice Edizione, 2008

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Ancora leggero

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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto

La Democrazia sospesa Copertina

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