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Gioco e teologia del denaro

di Mario Pezzella*

Nessuno dei personaggi del Giocatore[1] che non sia indebitato con qualcun altro: già dalle prime pagine, apprendiamo che il generale ha ricevuto, da poco, un prestito, che egli stesso deve soldi al protagonista (e gli dà un acconto di 120 rubli), che Polina ha urgente bisogno di danaro per pagare un creditore – “altrimenti sono perduta”. La catena del debito, nel corso del romanzo, diventerà universale, soffocante e minacciosa. Essa è ben lungi dall’essere una semplice sequela di transazioni economiche, anche perché nessuno si aspetta veramente di essere pagato, anzi tutto il contrario. Il credito viene concesso nell’aspettativa che il beneficiario non possa mai estinguerlo e così si trasformi da debitore in servo: il dominio su Polina è il vero scopo che ha spinto De Grieux a prestare danaro al generale (mentre lui stesso, probabilmente, deve restituirlo ad altri): “Voleva semplicemente dire che lui la dominava, che la teneva come incatenata”(58). Il possesso del danaro concede la libertà, la sua mancanza inchioda alla schiavitù. La relazione servo padrone di Hegel si è completamente finanziarizzata. Il motore profondo delle vicende del romanzo è la totale ipoteca concessa dal generale a De Grieux, che potrebbe essere sanata solo con la morte della ricca zia, di cui dunque tutti si augurano senza alcuno scrupolo la dipartita.

La catena del debito non si impone solo sul piano economico e morale, stimola anche un profondo e perverso impulso erotico ed anzi al di fuori del legame che esso istituisce non si può concepire nessuna relazione d’amore o d’amicizia.

Il linguaggio creditizio diventa dominante anche quando è usato per metafora e non si sta parlando veramente di soldi. In uno dei primi dialoghi tra Polina e Aleksej, la ragazza tollera le sue domande indiscrete, ma per questo –gli dice- “è giusto che paghiate”, e l’altro risponde che è “pronto a pagarle come volete”. Quanto alla folle promessa del protagonista di gettarsi in un precipizio al suo semplice comando, è questo il commento non precisamente romantico: “Un giorno pronuncerò questa parola, soltanto per vedere come pagherete…”(11). Gli slanci e la passione amorosa sono espressi col linguaggio di obbligazioni a scadenza, di cui andrà verificata la solvibilità.

L’ “inaccessibilità” di Polina, subita come un destino e –si potrebbe sospettare- non ultima causa della passione di Aleksej, “l’impossibilità di soddisfare” le sue fantasie, il pensiero di questo credito permanente che ella ha acquisito presso di lui, “le procura un diletto straordinario”, direttamente speculare all’impotenza dell’altro. Il quale, del resto, proprio dell’ostacolo e del rifiuto si compiace: “Ebbene, sì, sì, la schiavitù, se mi viene da voi, è un piacere per me! C’è, c’è un piacere anche nell’ultimo grado dell’avvilimento e dell’annullamento…Lo sa il diavolo!Forse c’è anche nella frusta, quando la frusta si posa sulla schiena e strappa la carne a brani…”(37). Reciprocamente, “l’uomo è despota per natura e gli piace tormentare. A voi [Poline] piace straordinariamente”(40).

In questa erotomania debitoria è probabile che Polina conceda ad Aleksej lo stesso trattamento che De Grieux ha riservato a lei. Del resto la scintilla d’amore del protagonista non scocca al chiaro di luna, dall’incanto degli occhi dell’amata o da romantiche stendahliane cristallizzazioni, tutt’altro; una sera egli s’immagina ch’ella abbia dato uno schiaffo al suo pretendente e padrone De Grieux e allora, dice, “da quella sera ho cominciato ad amarla”(43). Complessa identificazione mimetica, in cui Aleksej vorrebbe sì prendere il posto e l’identità di De Grieux, suo concorrente o odiato-invidiato rivale, ma attribuendogli la sua propria impotenza e umiliazione. Sembra così che il suo più profondo desiderio non sia l’amore di Poline: piuttosto, che il rivale sia colpito e umiliato! Solo che in questa fantasmatica sceneggiata l’altro è in fondo l’immagine ideale e detestata di sé, il despota e dominatore che egli stesso vorrebbe essere (senza esserne pienamente consapevole).  

Non che questi ruoli di schiavo e padrona rimangano costanti, anzi i personaggi ruotano vertiginosamente passando dall’uno all’altro, per tutto il romanzo: esiste una scacchiera simbolica e impersonale del debito e della colpa, in cui gli individui sono mossi come pedine. Aleksej è forse in buona fede, quando afferma: “Sono tanto convinto di essere uno zero davanti a voi…che potete persino prendere del danaro da me”(34). Possiamo anche concedergli di essere –pronunciando queste parole- in buona fede o, più semplicemente, inconsapevole di se stesso. Quel che è certo è che quando la situazione qui solo immaginata si realizzerà davvero, nella seconda parte del romanzo, la passione di Aleksej scemerà rapidamente, con la stessa assurda repentinità con cui era nata. L’Aleksej creditore non nutre più le stesse passioni e non ha gli stessi gusti dell’Aleksej debitore: col danaro ha estinto la mancanza e l’inferiorità che sentiva di fronte a Poline; ma così non ha più alcuna ragione di amarla.

Va detto che alla stessa Poline il ribaltamento dei ruoli è insopportabile, tanto da farla precipitare in una crisi isterica, quando Aleksej le offre la sua vincita al gioco: forse qui emerge una verità poco dicibile? “Comprami! Vuoi? Vuoi? Per cinquantamila franchi, come De Grieux? –le usciva di bocca tra singhiozzi convulsi”(140). La sua esasperazione non è senza motivo. Dopo la vincita al gioco, Aleksej è solo debolmente interessato al suo amore, anche se ci mette un certo tempo a confessarlo: “Giuro che mi dispiaceva per Polina, ma era strano che, non appena mi ero avvicinato il giorno prima al tavolo da gioco e avevo cominciato a far su mucchi di denaro, il mio amore si era come allontanato in secondo piano”(146). Dopo un tale riconoscimento, fugge per Parigi con Blanche, la cortigiana di alto bordo, che lei sì, sa apprezzare la sua nuova maschera di detentore –per quanto effimero- di danaro. Alla coppia pseudoromantica del debitore e della sua creditrice, della padrona e dello schiavo, si sostituisce ora quella del compratore e della sua merce di lusso. Rapporto che ha la stessa fugacità del danaro, una sua paradossale serenità, ed è minacciato però da un sentimento che l’Aleksej privo di soldi non poteva provare, la noia o spleen o ennui: nelle sue serate parigine, “tediato e triste”, si ubriaca ogni sera, balla addirittura il cancan  e acquista fama “in quel genere di cose”(151).

Non si pensi che il debito-colpa riguardi solo gli amanti; la stessa catena lega al dare e all’avere tutti i rapporti intersoggettivi. Quelli familiari (come si vede bene nella comicità buffonesca che contraddistingue il generale e la zia), e anche purtroppo quelli d’amicizia. Forse la figura più nobile e disinteressata di tutto il romanzo è l’aristocratico Astley; eppure in primo luogo il suo sguardo superiore è consentito dall’immensa ricchezza prodotta dai suoi zuccherifici, in secondo luogo il suo denaro non gli consente di cancellare la dissimetria che persiste tra lui e Aleksej. Il danaro può far tutto, meno che cancellare la disuguaglianza tra chi lo possiede e chi ne è privo: “Realmente, l’uomo ama vedere il suo migliore amico nell’umiliazione davanti a sé, anzi, sull’umiliazione è fondata per lo più l’amicizia”(165). Nell’universo del debito-colpa è impossibile il riconoscimento tra gli uomini.

Niente somiglia più alla Grazia, in questo universo, della vincita al gioco: nessuno d’altra parte è così interamente e sconsolatamente colpevole come colui che perde. Se la catena del debito e dell’obbligazione è inesorabile come il destino, il gioco permette l’illusione di sfidarlo e di vincerlo. Dove il denaro è dio, la vincita al gioco discrimina d’un sol colpo l’abiezione dall’elezione, il peccato dalla salvazione. Solo che l’astratta divinità del gioco è  altrettanto imperscrutabile nelle sue decisioni del dio calvinista. C’è –per la verità- una tipologia di giocatori che pretende di seguire un calcolo razionale e di domare il caso con l’intelletto, giocatori, si potrebbe dire, cartesiani, come quella signora che si fa accompagnare, chi sa poi perché, da un nano al tavolo da gioco: “Era già conosciuta e subito le porgevano una poltrona. Toglieva di tasca alcune monete d’oro, alcuni biglietti da mille franchi, e cominciava a puntare calma, fredda, calcolatrice, segnando delle cifre a lapis su un foglietto e cercando d’individuare il sistema secondo cui si raggruppavano le probabilità in quel momento”(87). Difficile che un simile modo di giocare possa sedurre il giocatore che si attende la Grazia, che vuole cambiare –da un giorno all’altro- la sua posizione di schiavo in quella di signore. Del resto, la giustezza dei calcoli è decisamente ingannevole e la razionalità applicata in questo contesto può portare alle maggiori rovine: “…Mi parve che in fondo il calcolo significasse ben poco e non avesse tutta l’importanza che gli attribuiscono molti giocatori. Questi se ne stanno con dei foglietti rigati, notano i colpi, contano, estraggono le probabilità, fanno il calcolo, infine puntano, e perdono proprio come noi…”(27). Al giocatore calcolante e cartesiano si oppone quello romantico, frenetico, ebbro, coi nervi tesi e pronti a cogliere trascendenti ispirazioni (a tale genere appartiene anche il nostro Aleksej).

Il mondo astratto del denaro si muove per polarità, che oltre la maschera della loro dialettica, non producono nulla di nuovo e riconducono circolarmente al punto di partenza: l’avaro e il prodigo, il debitore e il creditore, ed anche i due tipi di giocatore…Naturalmente questo ritorno dell’uguale riguarda il denaro stesso, perché invece muta -e quanto!- la sua personificazione concreta, cioè il destino di coloro che ne incarnano le figure, funamboli fra la Grazia e la dannazione. Il “romantico” gioca senza calcolo e in una certa serata può anche andargli bene: nell’altra metà del tavolo dove gioca la signora col nano c’è un giovane pallido e ispirato, “gli occhi gli sfavillavano e gli tremavano le mani; puntava ormai senza riflettere, quel che la mano riusciva ad afferrare, eppure vinceva sempre, ammucchiava sempre”(86). E’ una prefigurazione della grande serata fortunata di Aleksej, che costituisce la cesura decisiva della vicenda. Se la pretesa onnipotenza razionale del “calcolatore” può condurlo alla rovina, d’altra parte l’ebbra ispirazione porta il “romantico” a un vero e proprio stato d’accecamento, in cui egli si attribuisce doti medianiche e la potenza di manipolare la sorte e il fato. La straordinaria eccezione dovrebbe diventare regola ed egli attribuisce il miracolo del caso al suo proprio merito morale; ed è così che immancabilmente precipita.

D’altra parte, l’aspetto più inquietante del gioco è che innegabilmente -in certi momenti almeno- le giocate e le carte sembrano governate da una ritmica inconfondibile, da una speciosa regolarità: il fatto è che questa razionalità –se pure esiste- non segue le stesse leggi della nostra e il giocatore ha più o meno le stesse possibilità di decifrarla, di quante ne abbia l’intelletto kantiano di comprendere la cosa in sé. Una astratta, irridente spiritualità demoniaca sembra fare ostentazione di sé in certe serie di numeri, quasi che il dio minore che amministra il gioco volesse farci uno sberleffo o sedurci a seguirlo, per poi lasciarci a secco di colpo: “…Realmente, nel susseguirsi delle probabilità favorevoli, c’è, se non un sistema, per lo meno un certo ordine, che è una cosa senza dubbio assai strana. Per esempio capita che dopo le dodici cifre intermedie, escono le dodici ultime…”, e poi di seguito la pallina cade regolarmente, secondo un ritmo, da una parte e dall’altra. “Uno, tre e due; uno, tre e due”(27-28). Dostoevskij si diverte a descrivere questa sgangherata trinità demonica.

Qualcosa di simile accade nella serata decisiva ad Aleksej: “…Per lo più uscivano le dodici cifre centrali, alle quali appunto mi ero affezionato. Esse comparivano con una certa regolarità, infallibilmente tre, quattro volte di seguito, poi scomparivano per due volte e poi ritornavano di nuovo per tre o quattro volte di fila. Questa mirabile regolarità talora s’incontra a ondate, ed è questo appunto che sconcerta i giocatori di professione…”(134). Si stenta a credere che non vi sia una logica, un’intelligenza a ordinare queste “ondate” e il loro rifluire. Per questo il giocatore si immedesima con un dio nascosto, di cui cerca di carpire i favori e di intuire i voleri. Egli diventa immancabilmente superstizioso: “Possibile che non ci sia modo di avvicinarsi al tavolo da gioco senza essere subito contagiati dalla superstizione?”(18).

La sfida al destino è il gesto eroico del giocatore, che lo spinge oltre ogni limite, fino al suo stesso nulla. Nei confronti di fortuna e denaro egli prova insieme identificazione, odio, amore e disprezzo, tanto è vero che gli capita di non riuscire a trattenersi, di eccedere, di “mostrare la lingua”(28) al fato: “…Mi ricordo nettamente che d’un tratto fui davvero invaso, senza che il mio amor proprio fosse minimamente provocato, da una tremenda sete di rischiare”(136). E’ questa virtù in certo sensa gratuita che –dopo la vincita- dà ad Aleksej la sensazione di possedere una qualità morale superiore. Come il signore hegeliano egli ha saputo sfidare la morte e la rovina e –perciò- il successo non gli appare più come un prodigio del caso, ma come una giusta ricompensa per aver osato più degli altri, di coloro che restano servi. E’ questo che lo porta poi a credere di poter vincere di nuovo, purchè mostri la stessa audacia: “Sì, in momenti simili si dimenticano tutti gli insuccessi passati! Perché io l’avevo ottenuto rischiando più che la vita, avevo osato rischiare, ed ecco, ero di nuovo uomo tra gli uomini!”(163).

Solo che alla fine –demonicamente- la stessa “decisione” che lo aveva portato al trionfo lo destina invece all’abiezione. “Decisione”, nell’ambito del gioco, non è che apparenza; la ricompensa  dell’eroe è una fantasmagoria non meno azzardata della fede in una Grazia concessa da altezze imperscrutabili.

Alla sfrenata ed estrema speculazione finanziaria del giocatore, Aleksej contrappone con disprezzo la paziente accumulazione dell’imprenditore borghese tedesco: “Un lavoro di generazioni che dura cento o duecent’anni, pazienza, ingegno, onestà, carattere, fermezza, calcolo, e la cicogna sul tetto! Che vorreste di più? Nulla è più elevato di questo, ed essi cominciano a giudicare tutto il mondo da quel punto di vista e a mandare a morte i colpevoli, cioè tutti quelli che appena appena si discostano dal loro modo di essere”(32). L’asceta-imprenditore-protestante pronuncia il suo giudizio di debito-colpa sui dissipatori finanziari folli e incontinenti, i “russi” alla Aleksej, che afferma con anarchica decisione: “Io non stimo me stesso come qualche cosa di necessario e accessorio al capitale”(32). Questo nichilismo ribelle non si esplica però altrimenti che legandosi ancor più strettamente al possesso di danaro, solo destituito da qualsiasi investimento produttivo e destinato al consumo puro.

Più che porsi in una posizione antagonistica al capitale, Aleksej segnala il passaggio dal “tipo” dell’imprenditore asceta e dotato di vocazione al banchiere che vive di azzardo, di debito, e di finanza pura. E’ la stessa novità che contemporaneamente Baudelaire rileva nella Francia del Secondo Impero: del resto, la Parigi borghese in cui fuggono Aleksej e Blanche è descritta in pochi cenni balzachiani come la metropoli in cui si sta affermando una nuova economia del debito e dell’inflazione, popolata da “mercantesse arricchite e ottusissime, di un’ignoranza e impudenza impossibili”, da “tenentini e miseri scrittorucci e calabroni da rivista, che comparivano in frac alla moda e guanti gialli”, con “un orgoglio e una presunzione”(155) impensabili perfino in Russia.

E’ poco dire che il cuore del giocatore sia affascinato dal denaro: egli addirittura si immedesima con esso, ne diventa la voce corporea e la personificazione. I soldi ottenuti dalla vincita non valgono più per Aleksej come mezzo per un fine, come egli si era illuso che fossero: per salvare Polina, per cambiare vita, o anche semplicemente per dissiparli nel lusso. Essi diventano un fine in se stesso, e come tali, nella loro stessa natura di segno astratto eccitano voluttà e abbandono: “Non mi ricordo se durante tutto quel tempo pensassi sia pure una volta sola a Polina. Allora provavo una voluttà irresistibile nell’afferrare e far su i biglietti di banca, che crescevano a mucchi davanti a me”(136); “Sentivo solo un’immensa voluttà –di successo, di vittoria, di potenza-…”(137). L’identificazione col danaro in sé per sé, nella sua astrazione pura, è anche fascinazione mortale per uno specchio in cui si vede la propria realtà finita deformata e ingrandita in un Io ideale, sovrumano e immateriale. Questa relazione spiritualmente demonica, che non si pasce di cibo mortale, è intimamente e profondamente narcisista: il denaro, continuando a svolgere, in questo estremo, la sua natura di equivalente, eguaglia l’Io miserabile all’Io ideale, permettendomi di acquistare come una merce utraterrena una identità autoreferenziale e superiore.

Questo sentimento interiore mi induce ell’esibizione; lo sguardo dell’altro, vinto e asservito, deve ridursi a confermare che attraverso me avviene la parusia della potenza e dello splendore del danaro. Il danaro nella sua materialità di segno cartaceo o metallico può ora addirittura passare in secondo piano, perché è nei gesti, nella voce, nel corpo di Aleksej, che è trasmigrata tutta la sua virtualità e virtù. Come prima lui stesso ha guardato e ammirato le monete sul tavolo della roulette, proprio allo stesso modo ora pretende che gli altri guardino lui, mero poncif del danaro, suo sacerdote e latore su questa terra: “No, non era il danaro che mi importava! Allora non avevo che un desiderio: che l’indomani tutti quei Hinze, quei capi-camerieri, quelle magnifiche signore di Baden, che tutti parlassero di me, raccontassero la mia storia, mi ammirassero, mi lodassero e si inchinassero di fronte davanti alla mia nuova vincita”(162).

L’unica che può condividere fino in fondo una tale fascinazione (che Polina rifiuta) è proprio la prostituta Blanche, personificazione corporea e innervazione della merce, quanto Aleksej lo è dal danaro. Sono due poli che si attraggono magneticamente, in affinità elettiva. La scintilla fantasmagorica scocca poco dopo la vincita di Aleksej e in due minuti egli dimentica Poline, che il giorno prima considerava la passione della sua vita: Blanche “era coricata sotto una coperta di raso rosa, di sotto alla quale sporgevano due meravigliose spalle brune e sane, -spalle come se ne possono vedere forse solo in sogno…”(147). L’immagine di sogno, così intimamente legata allo scambio della merce e del denaro, inghiotte Aleksej, finché non verrà sostituita, ben presto, dalla noia e dallo spleen. In effetti, il giocatore è traumaticamente affascinato dallo choc e dall’attimo del rischio assoluto, il solo che riesca ancora a dargli –in sé e per sé- un residuo di emozione e di fronte a cui ogni appagamento temporaneo, ogni acquisto di merce si rivela un succedaneo deludente. Come gli dice il benevolo e frigido imprenditore Astley, “non solo avete rinunciato a ogni altro scopo, tranne quello di vincere al gioco: avete rinunciato perfino ai vostri ricordi”(165).

Nota. Il gioco compare con una funzione decisiva nel saggio di Benjamin dedicato a Baudelaire. Qui esso è un’allegoria dell’astrazione del danaro e un cristallo puro del capitale, di cui descrive tutta la fenomenologia, sia pur dissociandola da ogni base materiale.

Il primo riferimento di Benjamin è allo stesso processo produttivo e al rapporto dell’operaio con la macchina (nella fase fordista della produzione capitalista), in cui ogni gesto diviene un atto irrelato e automatico, separato e insieme ripetitivo rispetto al precedente. Questo interno paradosso è riflesso, con pura specularità, dal gioco: “Ogni intervento sulla macchina è altrettanto ermeticamente separato da quello che lo ha preceduto quanto un coup della partita d’azzardo dal coup immediatamente precedente; e la schiavitù del salariato fa, in qualche modo, pendant a quella del giocatore. Il lavoro dell’uno e dell’altro è egualmente libero da ogni contenuto”[2].

Segue un riferimento alla passione per l’astratto, cioè per il denaro in quanto segno, che domina il giocatore e lo separa da ogni fine e ogni appagamento determinato, che non sia la decisione di puntare in sé e per sé: “Ma il suo gusto di vincere e far quattrini non si può definire un desiderio nel senso proprio della parola. Ciò che lo occupa intimamente è, forse, avidità, forse una cupa decisione. Comunque si trova in uno stato d’animo in cui non può fare tesoro dell’esperienza”[3]. Come suggerisce A. France, esiste un preciso rapporto speculare tra il sentimento infinito del possibile, a cui sembra dare accesso il danaro, e la fervida eccitazione soggettiva del giocatore: “Si gioca denaro, -denaro, cioè possibilità immediata, infinita” e nel gioco della fortuna si intuisce la sua immanente divinità: “Egli dà, egli prende; le sue ragioni non sono le nostre. E’ muto, cieco e sordo. Può tutto. E’ un Dio…Egli ha i suoi devoti e i suoi santi che l’amano per se stesso, non per ciò che promette, e lo adorano quando li colpisce”[4].

Se in genere, nel contesto del Passagenwerk e del Baudelaire, Benjamin considera soprattutto i rapporti di immedesimazione tra il cliente e la merce, nella sua riflessione sul gioco sopravvive uno dei caratteri decisivi del frammento Capitalismo come religione del 1921: e cioè l’identificazione diretta nel denaro e nel suo culto, senza passare per la mediazione della merce e della circolazione. “Il giocatore –scrive Benjamin- si immedesima immediatamente nelle somme con cui fronteggia il banco o l’avversario”, si innerva totalmente e senza riserve nel valore di scambio stesso, depurato di ogni riferimento materiale (valore d’uso), ma anche di ogni rivestimento fantasmagorico (la merce e le sue immagini di sogno). “Assumendo i caratteri della speculazione in borsa”[5], il gioco diviene allegoria del capitalismo finanziario e della sua compiuta immaterialità.

Benjamin ricorda infine la particolare esperienza del tempo, che si contrae nella psicologia del giocatore (e in tutti coloro che sono investiti dalla relazione debitoria-colpevolizzante del capitale finanziario). Si tratta di una pura ripetizione di secondi, in cui l’eterno ritorno dell’uguale si incarna nella pena infernale di chi è entrato nel suo nesso di colpa: ad essi “non è dato compiere nulla di ciò che hanno iniziato”[6], come accade a Sisifo o Tantalo. L’impazienza “è il substrato della furia del gioco”[7]. Il giocatore si volge alla puntata successiva con tutto il suo essere, come per un riflesso galvanico, così come il broker al rialzo o ribasso dei titoli: l’emozione stessa della vincita e della perdita sostituisce l’assenza di ogni contenuto materiale dell’emozione, che dunque non è più possibile elaborare nella durata dell’esperienza, ma si riduce al sussulto dello choc, che vive in e per se stesso.

Esiste un vero e proprio eros del giocatore che lo spinge verso il danaro come un oggetto di desiderio: il perdente vede svanire la somma puntata, presa “dalla mano dell’altro, senza però far nulla per afferrarla”[8]. Come il debitore insolvente, di cui è il riflesso allegorico, così il giocatore sconfitto è dominato dal sentimento di colpa: “Allora dicono: ‘Ho giocato male’”, e la percezione della propria indegnità lo può spingere fino al suicidio. Del resto il gioco produce necessariamente debito ed è posto nella sua stessa costellazione.

Benjamin sottolinea anche la specularità della prostituta (che si immedesima nella merce) e del giocatore (che si immedesima nel danaro): entrambi sono innervazioni dell’astratto e del valore di scmbio e possono quasi naturalmente fronteggiarsi nella coppia del cliente e della venditrice: “Non trasforma forse il passage in un casinò, in una sala da gioco dove punta i gettoni  rossi, azzurri e giali del sentimento sulle donne…Egli esce con le tasche piene di soldi dal Palais Royal, chiama una prostituta e tra le sue braccia celebra ancora una volta il rito con il numero, in cui denaro e bene, sciolti da ogni gravità terrena, gli giungono dal destino…”[9].

Solo per poco, però: perché il giocatore ritornerà al suo amore astratto e superiore e si sentirà ben presto minacciato dalla noia, non appena la fantasmagoria che trafigurava la donna in merce-immagine di sogno tenderà ad appannarsi. Come il mistico caduto in tentazione si inginocchia pentito all’altare, così il giocatore si riavvicina al tavolo da gioco.

In quanto allegoria dell’astrazione del capitale, il gioco lo è anche della distruzione e della contrazione dell’esperienza. Simbolo auratico del desiderio è nella tradizione popolare la stella cadente, che trasfigura in lontananza spaziale la pazienza temporale, richiesta dalla sua elaborazione e realizzazione; “la pallina d’avorio che rotola nella prossima casella” esprime invece l’istantaneità concentrata dello choc e l’attesa del trauma.

 *Mario Pezzella è ricercatore alla Scuola Normale Superiore di Pisa.  Tra i suoi ultimi lavoro: Estetica del cinema (Il Mulino, Bologna 2010) e La memoria del possibile (Jaca book, Milano 2009).

 


Note
[1] F. Dostoevskij, Il giocatore, Einaudi, Torino 1999. Il numero di pagina delle citazioni è indicato tra parentesi nel corpo del testo.
[2] W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 2006, p. 113.
[3] Ivi, p. 114.
[4] Ct. in W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Milano 2012, p. 428.
[5] Ivi, p. 754.
[6] W, Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 115.
[7] Ivi, p. 116.
[8] W. Benjamin, Opere complete, vol. V, Einaudi, Torino 2003, p. 434.
[9] W. Benjamin, Charles Baudelaire…, cit. p. 547.

 

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