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controlacrisi

L’Europa al bivio, rottura o cambiamento?*

di Domenico Moro

Renzi Europa bivioRompere l’Europa o cambiarla? Si tratta di una domanda naturale a fronte di una crisi economica che si è manifestata nella Uem in forme più gravi che in altre aree avanzate del mondo, come il Giappone e gli Usa, e di fronte alle enormi difficoltà a individuare politiche comuni in ambiti diversi e strategici. Quanto la situazione sia ormai giunta a un bivio è dimostrato dalle forze centrifughe che sono in atto, a seguito dell’aumento delle divergenze economiche, all’interno della Ue e della Uem (Unione economica e monetaria). Nell’ultimo anno e mezzo si sono verificati due fenomeni significativi della crisi della Ue: la Brexit e il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Entrambi i fatti affondano le loro radici nella storia e nelle specificità della Gran Bretagna e della Spagna, ma certo la crisi della Ue e della Uem non è estranea al precipitare degli avvenimenti.

Provare a dare una risposta sull’atteggiamento da assumere nei confronti della Ue e della Uem non è facile e va fatto non solo in termini economici, ma anche politici, sociologici e soprattutto inquadrando il tutto all’interno del contesto storico. Per cominciare dovremmo chiederci: che cosa è l’Europa? E qual è la sua funzione? L’Europa e il suo nucleo più compatto, la Uem, sono essenzialmente organizzazioni inter-statali o, più precisamente, inter-governative e mercatistiche.

Che cosa vuol dire? Vuol dire che le decisioni su tutta una serie di temi sono delegate dai singoli Stati nazionali a organismi dove si riuniscono i capi di stato e di governo o i ministri dell’economia, come il Consiglio d’Europa e il Consiglio dell’Unione europea, e a un organismo monetario indipendente, la Banca centrale europea, il cui esecutivo è nominato dal Consiglio d’Europa.

La Ue non è né una nazione né uno stato, anzi si contrappone, o sembrerebbe contrapporsi, alla forma di governo, che per secoli si affermata in Europa, lo stato nazionale. Lo stato nazione si è costituito nel corso di diversi secoli, tra XIV e XIX secolo, nei principali Paesi europei. La sua caratteristica principale è l’esercizio della sovranità entro i confini di un dato territorio, superando i limiti del potere autonomo delle città e dei comuni. Infatti, sarebbe più appropriato parlare di stato territoriale, dato che a differenza del concetto di stato, il concetto di nazionalità è più ambiguo. Sul concetto di nazionalità sono state spese molte pagine specie nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, riferendolo di volta in volta alla razza (o etnia), alla lingua, oppure alla volontà e al sentimento soggettivo di appartenenza. Secondo la scuola francese la nazionalità è, in realtà, il prodotto di una fusione tra comunità avvenuta nel corso dell’appartenenza a una data unità statale territoriale. Ernest Renan in particolare sosteneva, contro l’ideologia nazional-patriottica tedesca, che “L’esistenza di una nazione è il plebiscito di tutti i giorni”i. In parole semplici la nazione è un fatto politico, prima ancora che di lingua, cultura, o etnia.

Il concetto cardine su cui si basa lo Stato è quello di sovranità, cioè il fatto di essere il potere superiore in un dato territorio, il che implica il monopolio dell’esercizio della forza, grazie al controllo delle forze armate e di polizia. Il termine sovranità deriva dal fatto che tale potere era all’origine incarnato nella figura del sovrano cioè interamente nelle mani del monarca. Ora, il punto è che all’interno degli stati nazionali o territoriali l’attribuzione della sovranità è cambiata nel corso degli ultimi due secoli, sostanzialmente tra la Rivoluzione francese e la fine della Seconda guerra mondiale. Con l’89 francese si afferma l’idea che la sovranità è in ultima istanza del popolo. Ma quello di popolo è un concetto ambiguo, perché all’interno del popolo ci sono interessi economici e politici differenziati, ossia classi sociali in conflitto. Dunque, uno dei motivi (se non quello dominante) della vita degli Stati nazionali è stato la lotta incessante che si è svolta al loro interno per la distribuzione o l’influenza sul potere sovrano tra le classi, o meglio la lotta delle classi subalterne contro le élite economiche per l’allargamento della democrazia, ossia per una sovranità democratica e popolare.

Questa lotta si è giocata soprattutto sul restringimento del voto per il Parlamento alle classi possidenti e poi sul rapporto tra governo (esecutivo) e parlamento (legislativo). Il momento di massima capacità di influenza delle classi subalterne si raggiunge dopo la Seconda guerra mondiale, quando, con le Costituzioni antifasciste, si afferma la forma di governo parlamentare, attraverso la quale - mediante il suffragio universale, i sindacati e i partiti organizzati e di massa - le istanze delle classi subalterne, soprattutto quelle salariate, trovavano maggiore possibilità di espressione. Nel corso dei tre decenni dopo la fine della guerra, soprattutto tra la fine degli anni ’60 e la metà dei ’70, i rapporti di forza continuano a migliorare fino a arrivare al massimo sviluppo dell’intervento statale in economia e del welfare state, articolazione materiale dei rapporti di forza favorevoli al mondo del lavoro salariato.

Ma tra fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 la situazione comincia a cambiare, in un contesto di crisi economica e aumento dell’internazionalizzazione dei capitali, l’élite economica ritiene di non poter più consentire politiche espansive di bilancio pubblico e soprattutto di non poter più tollerare rapporti di forza più favorevoli ai subalterni e passa al contrattacco, dando inizio a quella che viene chiamata la contro-rivoluzione neoliberista. L’obiettivo da colpire è “l’eccesso di democrazia” come sostiene il futuro teorico dello scontro di civiltà, Samuel P. Huntington in un documento del 1975 della Trilaterale, una organizzazione dell’élite economica delle principali aree economiche mondiali (Europa occidentale, Usa e Giappone), e intitolato La crisi della democrazia:

«Al Smith una volta sostenne che “i problemi della democrazia si risolvono con più democrazia”. La nostra analisi suggerisce che applicare questa cura ai tempi presenti sarebbe aggiungere benzina al fuoco. Al contrario, alcuni dei problemi di governo degli Stati Uniti oggi scaturiscono da un eccesso di democrazia [an excess of democracy] – “un eccesso di democrazia” nello stesso senso che David Donald attribuì al termine riferendosi alle conseguenze della rivoluzione jacksoniana che condusse alla guerra civile. Viceversa, ciò che occorre alla democrazia è un maggiore grado di moderazione»ii.

L’eccesso di democrazia si doveva curare con la cosiddetta governabilità, un concetto che da allora è diventato un mantra del dibattito politico anche in Italia. In sostanza la governabilità consiste nel mettere il governo (l’esecutivo), espressione più diretta degli interessi dominanti, in condizione di operare senza i lacci e lacciuoli imposti dal controllo Parlamentare, subordinando quest’ultimo al governo. La governabilità era più facilmente raggiungibile in Paesi, come Il Regno Unito della Thatcher e gli Usa di Reagan, con un sistema elettorale maggioritario e un contesto politico bipartitico in cui era facile convergere al centro e introdurre politiche di austerity. Più difficile sarebbe stato farlo in Paesi in cui i sistemi elettorali e politici erano maggiormente proporzionali e i rapporti di forza maggiormente a favore delle classi subalterne. È a questo punto che entra in gioco l’integrazione europea, che è vista come lo strumento per costringere alla governabilità. Sempre nella Crisi della democrazia, così si esprime il coautore francese, Michel Crozier:

«L’interdipendenza europea forza le nazioni europee ad affrontare l’impossibile problema dell’unità. Quello di una Europa unita è stato per lungo tempo l’ideale che ha consentito di conservare la spinta a superare gli obsoleti modi di governo che prevalgono nei sistemi statali nazionali. Ma i fautori dell’unificazione europea hanno esitato troppo davanti all’ostacolo rappresentato dalla questione nodale del potere dello Stato centrale, che le crisi attuali hanno ulteriormente rafforzato, affinché si possa sperare nel futuro immediato. Ciononostante l’investimento in una comune capacità europea rimane indispensabile non solo per il bene dell’Europa, ma per la capacità di ogni singolo Paese di superare i suoi problemi.»iii

In realtà, l’individuazione del ruolo dell’Europa e in particolare di una valuta unica europea come fattore di governabilità risale già agli anni ’50. Nel 1958 alla conferenza annuale di Buxton del Gruppo Bilderberg, un importante circolo delle élite economiche e politiche dei Paesi Nato, si arrivò alla convinzione che:

«Uno dei maggiori problemi con i quali la Comunità economica europea si confronta è quello del coordinamento delle politiche monetarie. Come uno dei partecipanti ha puntualizzato, l’integrazione dei Sei richiede il coordinamento in tutti i campi delle politiche economiche. […] Qui sta, ad ogni modo, la più grande debolezza del Trattato. La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è notoriamente difficile da raggiungere. I ministri delle Finanze sono di solito più ragionevoli e potrebbero occasionalmente accettare pressioni esterne ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Chi parla dubita che a lungo termine il problema potrebbe essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda a una valuta comune come a una soluzione definitiva.»iv

Da tutto questo si ricava che gli attuali problemi non sono la conseguenza di una interpretazione errata o di una applicazione sbagliata dell’integrazione europea, ma il necessario effetto della integrazione stessa. Né la Ue né la Uem sono la conseguenza di una spinta a superare gli Stati territoriali o nazionali, che anzi vedono aumentare la loro aggressività interna e estera, bensì lo strumento per raggiungere tre obiettivi, politici e economici, dei quali il primo è propedeutico ai seguenti:

  1. modificare, attraverso di esse, i sistemi politici degli Stati e i rapporti di forza tra classi, realizzando la governabilità cioè la prevalenza degli esecutivi, bypassando i parlamenti nazionali e imbrigliando così le capacità di lotta e di resistenza delle classi subalterne e in particolare di quella salariata;

  2. risolvere i problemi di redditività del capitale, ovvero innalzare i profitti, mediante la compressione del salario diretto, indiretto (welfare) e differito (pensioni);

  3. facilitare la riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica in Europa favorendo la circolazione delle merci e dei capitali, mediante l’unione bancaria e il mercato finanziario unico, e in questo modo incentivare la centralizzazione delle imprese, che porta a un aumento della concentrazione del poter economico e politico nella mani delle élite.

In sintesi, l’integrazione europea ha come obiettivo la limitazione, fino all’annullamento, della sovranità democratica e popolare, così come si è strutturata a seguito della sconfitta del nazifascismo e sull’onda delle lotte successive. A questo proposito è significativo quanto scrisse nel 2013 la banca d’affari J.P. Morgan in un suo documento, e cioè che le Costituzioni democratiche e antifasciste sono in contrasto con l’integrazione europea:

In the early days of the crisis, it was thought that these national legacy problems were largely economic: over-levered sovereigns, banks and households, internal real exchange rate misalignments, and structural rigidities. But, over time it has become clear that there are also national legacy problems of a political nature.

The constitutions and political settlements in the southern periphery, put in place in the aftermath of the fall of fascism, have a number of features which appear to be unsuited to further integration in the region.”v

Il problema, quindi, non è solo economico, è politico, cioè di sovranità democratica e popolare. La forza che impone il rispetto politico dei trattati sta nella architettura dell’euro, che, sottraendo il controllo della moneta agli stati, impedisce qualsiasi interpretazione soggettiva e elastica dei trattati (impedendo quindi anche la realizzazione di politiche industriali) e forza a politiche di riduzione del welfare e dei salari pena la perdita di competitività. I trattati e l’euro sono indissolubilmente legati.

Dunque, per concludere e per rispondere alla domanda iniziale, due questioni appaiono, a mio parere, abbastanza assodate. La prima è che la Ue e la Uem sono costruzione fragili e contraddittorie che da una parte approfondiscono divari e creano polarizzazioni sociali e contrasti tra Paesi, aumentando le tensioni nazionalistiche e xenofobe, e dall’altra contribuiscono ad aggravare la crisi economica strutturale, destabilizzando il quadro europeo e mondiale. È difficile pensare che in queste condizioni l’Europa possa andare avanti così come è indefinitamente, specie nel caso di una nuova recessione. La seconda è che una riforma dell’Europa, in particolare della Uem, sarebbe impossibile da portare avanti perché essa è strutturalmente pensata e organizzata per gli obiettivi non solo economici ma anche e soprattutto politici, di cui abbiamo detto. La soluzione adeguata a evitare una lunga stagnazione economica, nel caso migliore, e a ricostruire la sovranità democratica e popolare sta nella rottura della Uem, che è il perno dell’integrazione europea. Solo sulla base di un tale presupposto si può passare alla fase successiva: la ricostruzione di rapporti economici e politici a livello europeo su una base e con obiettivi diversi.


*Relazione al Convegno organizzato da Link presso il rettorato dell’Università di Siena il 18 ottobre
Note
i Ernest Renan, Che cos’è una nazione? Conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882. 
ii Cit. in Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg. L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia, 2014, p. 141. 
iii Ibidem, p. 139. 
iv Ibidem, p. 108. 
v JP Morgan (28 maggio 2013)
https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf

Comments

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Riccardo
Tuesday, 31 October 2017 16:22
Finalmente qualche punto fermo!
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